giovedì 1 luglio 2004

neurobiologi e psichiatri su Nature:
le funzioni del sonno

Repubblica 1.7.04
Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica "Nature"
prospetta una nuova ipotesi: le nozioni si organizzano di notte
Più si dorme, più si impara
Le notti magiche del cervello
di ELENA DUSI


i topi
Quelli addestrati in laboratorio a uscire da un labirinto, anche nel sonno mantengono in attività l'area cerebrale coinvolta: gli scienziati ne hanno dedotto
che sognano di uscire

gli uccelli
Nel sonno, ripassano e memorizzano le melodie imparate di giorno. L'attività elettrica del cervello, in alcune fasi del sonno, è uguale a quella prodotta durante il canto diurno

I delfini
Fanno riposare un emisfero del cervello alla volta. Così l'altro è sempre in funzione per nuotare, cercare il cibo ed evitare i pericoli. È uno dei sonni migliori presenti in natura

i moscerini
Anche i moscerini della frutta a una certa ora si sentono stanchi, ma bastano poche gocce di caffè a tenerli svegli più a lungo. Salvo ritrovarli il giorno dopo assonnati, irritabili e aggressivi


ROMA - A cosa serve dormire? A riposare, si direbbe. Ma è una risposta troppo generica. Secondo le teorie più recenti, il sonno contribuirebbe a rafforzare i circuiti della memoria. Ma come questi circuiti funzionino, e cosa accada loro esattamente durante la notte, rimane ancora un mistero. Sulla rivista scientifica Nature viene proposta una nuova ipotesi. Gli autori sono tre italiani (Lice Ghilardi, Marcello Massimini e Giulio Tononi) e uno svizzero (Reto Huber) che lavorano per l'università del Wisconsin. Il sonno, secondo loro, servirebbe a "fare pulizia" di tutte le conoscenze inutili acquisite durante il giorno, a riordinare gli stimoli che abbiamo ricevuto e a selezionare le esperienze vissute. Da svegli impariamo nozioni, movimenti e procedure. E tutto questo si traduce in un cambiamento reale, fisico, nel nostro cervello, che grazie alla sua plasticità è in grado di creare continuamente nuove connessioni fra neuroni.
"Il peso dell'esperienza" esiste veramente, e gli autori della ricerca scientifica lo hanno misurato grazie a un elettroencefalogramma tanto preciso da poter rilevare l'attività elettrica del cervello con la risoluzione di un centimetro. Lo strumento che usiamo per liberarci da questo "peso dell'esperienza" sarebbe il sonno. La dimostrazione? Secondo Lice Ghilardi: "Più aumenta l'attività di apprendimento, più c'è bisogno di dormire".
A Madison, dove i neurobiologi lavorano, un gruppo di volontari è stato sottoposto a un test studiato ad hoc per misurare il lavoro svolto da una determinata area del cervello durante il giorno, e la conseguente azione di "pulizia" messa in atto durante la notte. Si partiva da un semplice videogioco. Una pallina si muoveva sullo schermo di un computer, e i volontari dovevano inseguirla con un cursore manovrato da un mouse. In alcuni casi però c'era un trucco: il mouse si muoveva in una direzione, ma il cursore seguiva una direzione leggermente diversa, deviata di quindici gradi. Troppo poco perché i volontari ne avessero coscienza. Abbastanza però per mettere in funzione un'area del cervello dell'emisfero destro deputata alla coordinazione fra occhio e mano.
Dopo tre quarti d'ora di gioco, arrivava il momento di andare a dormire. E qui entravano in gioco i 256 elettrodi applicati sulla testa dei volontari. L'area della coordinazione occhio-mano, quella sollecitata durante il gioco con il mouse truccato - e solo quella - continuava a mostrare un'attività elettrica superiore al normale anche con la testa sul cuscino. "In quel momento - spiega Massimini - il sonno stava ricalibrando i miliardi e miliardi di connessioni fra neuroni che erano state sollecitate durante la veglia, e che in generale sono responsabili della nostra capacità di apprendere e ricordare". Altro che riposare. "Proprio nelle aree sollecitate dal gioco - prosegue Massimini - le onde lente prodotte dal sonno diventavano molto più ampie".
L'attività notturna di riorganizzazione delle connessioni fra neuroni non serve solo a liberare il cervello dalle esperienze inutili, a renderlo quindi più agile e leggero. Ma anche a far risaltare le esperienze utili. Dopo una buona dormita, il punteggio realizzato al videogioco era infatti dell'11 per cento circa più alto rispetto alla sera precedente. Mentre un altro gruppo di volontari che aveva iniziato a giocare la mattina e si era ripetuto la sera - senza dormire nel frattempo - non aveva effettuato nessun miglioramento. "Questi risultati - conclude Massimini - rivelano alcuni dati fondamentali sul sonno. Se una parte del cervello impara, deve dormire di più. E tanto maggiore sarà l'intensità del sonno, tanto migliori saranno le nostre prestazioni il giorno successivo.
Le onde elettriche prodotte dormendo servono a ricalibrare (a "far dimagrire") le connessioni fra neuroni rafforzate (ingrassate) durante la veglia. Spazzano via dai circuiti cerebrali le scorie e le imprecisioni che l'apprendimento porta con sé. Grazie a questo processo di ricalibrazione, la mattina ci svegliamo con un cervello più leggero e più preciso".
Massimini, Maria Felice Ghilardi e Giulio Tononi (al loro articolo Nature dedica la copertina) lavorano negli Usa rispettivamente da due, diciotto e tredici anni. "No, nessuna cattiva esperienza in Italia. Qui potevamo trovare opportunità migliori" spiega Tononi. "Il mio primo amore - aggiunge - sono gli studi sulla coscienza. E gli Stati Uniti sono all'avanguardia in questo campo".


Repubblica 1.7.04
L'INTERVISTA
Giulio Tononi, docente di psichiatria all'università del Wisconsin e coordinatore della ricerca
"Il sonno fissa i ricordi utili e fa pulizia nella memoria"
Dormire serve proprio a questo: far dimagrire il cervello eliminando le cose inutili e farlo ripartire più snello
(e. d.)


ROMA - «Tutti gli animali dormono, dal moscerino della frutta ai delfini. Il sonno ha una funzione universale per la vita degli animali». Quale sia questa funzione, però, ancora non è chiaro. Giulio Tononi, che insegna psichiatria all´università del Wisconsin, è il coordinatore della ricerca di Nature. «Tante ipotesi sono state suggerite. Forse il sonno serve a consolidare i ricordi, o forse a tenerci lontano dai guai durante la notte».
La vostra idea?
«I neuroni dialogano continuamente l´uno con l´altro. E quando dialogano, formano delle connessioni tra loro. Queste connessioni sono tanto più forti e numerose quanto più siamo concentrati o ci stiamo sforzando di imparare qualcosa di nuovo. Il risultato: alla fine della giornata, quando abbiamo visto, sentito e fatto molte cose nuove, il nostro cervello si è modificato. Approssimativamente, possiamo dire che tra la mattina e la sera le connessioni fra neuroni si irrobustiscono di un buon 20-30 per cento».
Non è una crescita straordinaria?
«In realtà si tratta di un problema, per il cervello. Da solo quest´organo consuma circa il 20 per cento dell´energia del corpo. Ci sono anche problemi di spazio, perché la scatola cranica è un ambiente molto affollato di cellule. Come si può pensare di sostenere una crescita del 20-30 per cento tutti i giorni? Occorre fare pulizia e razionalizzare lo spazio eliminando le connessioni inutili. E noi crediamo che il sonno serva proprio a questo: a far dimagrire il cervello e a farlo ripartire più agile e snello il mattino dopo».
Che cosa vuol dire dimagrire, per un cervello?
«Eliminare le connessioni inutili. Quel rumore di fondo che ci accompagna durante la giornata va eliminato, insieme a tutte le esperienze che non vale la pena di portare con sé nel futuro. Il meccanismo esatto con cui la razionalizzazione delle connessioni avvenga non è chiaro. Ma siamo riusciti a dimostrare che l´attività del cervello durante la notte è più intensa nelle aree che durante il giorno sono state impegnate in un compito di apprendimento. In quell´area dove si sono formate molte nuove connessioni, è più importante riportare un po´ di ordine».
Il bisogno di sonno quindi è legato all´apprendimento. Questo potrebbe spiegare come mai i bambini (i cuccioli in generale) hanno più bisogno di dormire ore rispetto ad adulti e anziani?
«Se la nostra ipotesi è giusta, la spiegazione è proprio questa. Ancor prima che i cuccioli aprano gli occhi, iniziano ad apprendere moltissime cose, e il loro cervello si modifica in maniera tumultuosa. Per regolare questo gran numero di nuove connessioni occorrono più ore di sonno».
Diventare bravi al vostro videogioco vuol dire creare molte nuove connessioni, quindi potenziare il cervello. Ma questo potenziamento sarà utile anche per altre attività, magari più importanti?
«Difficile rispondere. Probabilmente alcune connessioni si adattano a molti usi, altre no. Non credo che il nostro gioco si riveli molto utile per la vita di tutti i giorni».

interpretazioni dei miti
ORFEO
divorzio da Euridice

La Stampa 1.7.04
ORFEO
divorzio da Euridice

La parabola del poeta che scende agli inferi per salvare la sposa è diventata allegoria cristiana e poi spinta erotica alla creatività
Nelle riletture moderne lui si volta indietro per calcolo: decide di disfarsi della donna per riscoprire l’arte o per ritrovare se stesso
di Silvia Ronchey


AMORE, morte, poesia. Cos'hanno a che fare queste tre cose? Fanno la sindrome di Orfeo, il primo dei poeti, colui che scende per amore nel regno dei morti.
Il canto di Orfeo fa muovere animali, piante, pietre. Ma per questo è maledetto, è un atto di hybris, una trasgressione dell'ordine cosmico, come quella di Prometeo. Orfeo poetando smaglia l'armonia universale, la rete di rapporti musicali che sostiene tutte le cose e di cui è signore Apollo.
Per contrappasso gli muore la sposa, Euridice. Orfeo compie allora un secondo atto di hybris: scavalca la soglia che divide la morte dalla vita, scende negli inferi e incanta con la sua cetra anche i sovrani di laggiù, che gli concedono, cosa inaudita, di far rivivere «lei così amata». A un patto però: per tutta la via che lo riporta dal buio alla luce e al tempo non dovrà mai voltarsi indietro. Ma Orfeo non resiste, si gira a guardare Euridice, che viene inghiottita per sempre dall'Ade.
Bisognerà aspettare un altro millennio e un altro mito perché si riaffacci la possibilità di una via indietro dalla morte alla vita, di una resurrezione dei morti. Non a caso la parabola di Orfeo sarà ripresa come allegoria cristiana, a partire da Boezio, che vedrà nel voltarsi di Orfeo l'attrazione esercitata dal mondo terreno e nella perdita di Euridice la perdita della contemplazione celeste. O Orfeo sarà identificato direttamente col figlio di Dio in lotta col diavolo, come in Calderón de la Barca.
Anche dopo la fine del paganesimo, quindi, il mito greco rimane vivo. Le sue figure, inabissate nel profondo dell'inconscio collettivo, riaffiorano continuamente: come sintomi, intuì Jung, perché il mito e il sintomo sono la stessa cosa, perché «se vogliamo studiare la sofferenza umana», come ha detto Hillman, «dobbiamo studiare il mito».
Se parliamo del mito di Orfeo, come fa oggi il bel libro curato da Maria Grazia Ciani e Andrea Rodighiero per Marsilio, dobbiamo perciò avere ben chiaro che non stiamo solo raccontando una storia, ma analizzando un'universale lacerazione dell'anima: appunto, la sindrome di Orfeo. Amore, morte, poesia formano un triangolo, di cui la terza linea, la poesia, è quella che congiunge le prime due. Amore e morte sono i poli della contraddizione perenne della vita umana, fin dalla nascita, fin da quando, neonati, oscilliamo tra due forze: da un lato, quella che ci spingerebbe a tornare nel buio (in greco «orphé», la stessa radice del nome di Orfeo) e nell'indistinzione del ventre materno; dall'altro lato, quella del desiderio, che ci attrae verso qualcosa di altrettanto indefinibilmente caro, ma luminoso e sconosciuto.
Né l'una né l'altra forza sono la vita: lo è solo la tensione fra le due. E' a questo punto che, a tentare di sanare il dissidio tra ombra e luce e tra discesa e ascesa, insorge in noi ciò che gli antichi chiamavano «poiesis», dal verbo «poiéo», «creare». La traduzione «poesia» è limitativa, perché non si tratta di una creatività solo letteraria, ma di qualsiasi forma di creazione, di interpretazione del doloroso mistero in cui viviamo.
Molti «poeti» in senso stretto hanno ripreso il mito di Orfeo: da Dante a Petrarca, da Poliziano a Shakespeare, fino al Novecento «orfico» di Valéry e Rilke, Campana e Trakl, per approdare al teatro di Cocteau, Anouilh, Tennessee Williams, e al cinema, a cominciare dall'Orfeu negro di Marcel Camus fino a tanti film odierni: ultimo, l'apparentemente frivolo musical di Baz Luhrman Moulin Rouge. Per tutti costoro la sindrome di Orfeo colpisce principalmente quella categoria di esseri umani che hanno affidato alla dimensione artistica la spinta erotica alla creatività.
Il libro di Ciani e Rodighiero illustra solo in parte la grande fortuna del mito, affiancando alle due principali versioni della letteratura classica, quelle di Virgilio nelle Georgiche e di Ovidio nelle Metamorfosi, quattro variazioni letterarie della modernità: la fabula commissionata dal cardinale Francesco Gonzaga a Poliziano; il sublime, visionario poemetto di Rilke, Orfeo. Euridice. Hermes, che Josif Brodskij definì «la più grande opera di questo secolo»; la pièce di Cocteau, piena di un'ironia spesso solo in parte compresa; e due testi italiani che ne derivano, il dialogo L'inconsolabile di Cesare Pavese e il racconto Il ritorno di Euridice di Gesualdo Bufalino.
«E' più difficile trovare la via attraverso il mondo che la via al di là del mondo», ha scritto il poeta-filosofo americano Wallace Stevens. La sindrome di Orfeo è anche questo. «Ho voltato la testa apposta», dice l'Orfeo di Cocteau. Nelle riletture moderne, Orfeo si è voltato indietro non per errore, non per improvvisa follia, ma per calcolo, si è disfatto di Euridice per rinnovare la propria ispirazione poetica, per ritrovare la creatività. L'Orfeo di Pavese comprende che ogni esperienza, anche la perdita del fantasma materno proiettato sulla persona amata, è solo una tappa nel percorso necessariamente solitario della ricerca di sé: «Ho cercato me stesso», dice. «Non si cerca che questo». E quando Orfeo lo realizza, rinuncia a Euridice e salva la poesia: «Non m'importò nulla di lei che mi seguiva. Il mio passato fu il chiarore, fu il canto e il mattino. E mi voltai», scrive Pavese.
Ma sublimare l'eros nella poesia significa anche rinnegarlo. La parabola di Orfeo, a partire dalla versione di Ovidio, sfocia in un'ulteriore trasgressione: non contro Apollo, stavolta, ma contro Dioniso. L'eros si trasforma in negazione della sessualità codificata, in disprezzo e rifiuto di tutte le donne. Il canto del poeta incita non solo all'omosessualità, ma alla pederastia o alla pedofilia, di cui Orfeo viene ricordato come il fondatore. E' un terzo atto di hybris, che pagherà con la stessa morte atroce di Penteo: sarà fatto a pezzi dalle ménadi, che vendicheranno così l'indifferenza del poeta alle leggi della vita e della procreazione.
Si dice che la testa e la lira di Orfeo, legate insieme e gettate nel mare di Tracia, siano approdate e sepolte nell'isola di Lesbo, e qui continuino a cantare.

Cina

Yahoo! Notizie Giovedì 1 Luglio 2004, 8:05
Hong Kong, in migliaia in piazza per la democrazia


HONG KONG (Reuters) - Centinaia di migliaia di persone a Hong Kong scenderanno per le strade, oggi, allo scopo di chiedere più democrazia e sfogare la propria frustrazione contro il governo cinese.
Gli organizzatori prevedono la partecipazione di almeno 300.000 persone che sfideranno il caldo soffocante per unirsi alla manifestazione nel settimo anniversario del ritorno alla Cina dell'ex colonia inglese.
Il leader scelto da Pechino per Hong Kong, Tung Chee-hwa, ha fatto una sola comparsa al dibattito organizzato per discutere delle elezioni dirette, nell'ambito di una cerimonia, stranamente di basso profilo, per festeggiare il passaggio dei poteri avvenuto nel 1997, dicendo ai dignitari che la piena democrazia potrà raggiungersi solo gradualmente.
"Secondo la Legge Fondamentale (la mini-costituzione di Hong Kong), raggiungere il suffragio universale in modo graduale è il nostro comune obiettivo", ha detto dinanzi all'assemblea di dignitari, parlando in cantonese.
Fuori, una folla di manifestanti agitava striscioni e urlava slogan come "che il potere torni alla gente".

anche altri due articoli sono disponibili...

...per chi volesse chiederli scrivendo a questo indirizzo


La Stampa Tuttolibri 26/6/2004
È ora di tornare ai classici: non ci salveranno le tre «I»
Luciano Canfora, storico del passato e dunque del presente,
spiega perché studiare i Greci e i Romani giova all’intelligenza

di SILVIA RONCHEY

Corriere della Sera 1.7.04
ELZEVIRO A cento anni dalla morte
Cechov, il genio

di VITTORIO STRADA

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storia:
«L’Ottocento crollò come un grattacielo minato»

La Stampa 1 Luglio 2004
L’ANNIVERSARIO DELL’ATTENTATO DI SARAJEVO CHE NEL 1914 INNESCÒ IL PRIMO CONFLITTO MONDIALE
L’Ottocento crollò come un grattacielo minato
di Giovanni De Luna


«IL 12 giugno le forze dell'Europa occidentale varcarono la frontiera, e cominciò la guerra, si verificò cioè un avvenimento contrario alla ragione umana e a tutta quanta la natura dell'uomo. Milioni di uomini commisero, gli uni contro gli altri, una quantità talmente innumerevole di misfatti, di inganni, di tradimenti, di furti e di saccheggi, di incendi e di omicidi, che la cronaca di tutti i tribunali del mondo non ne avrebbe potuto assommare altrettanti nel corso di secoli interi, e che non vennero considerati crimini, durante quel periodo, da coloro che li commisero». Questa pagina di Guerra e Pace si riferisce, al 1812, all'invasione della Russia da parte delle truppe di Napoleone Bonaparte. Ma la grandezza sterminata di quel libro è racchiusa proprio nella sua capacità di scandagliare le profondità più remote del rapporto tra gli uomini e la guerra, proponendosi come una guida per leggere tutte le guerre, anche quelle del Novecento e del post-Novecento.
La Prima guerra mondiale fu esattamente «un avvenimento contrario alla ragione umana», come tutte le altre. In tre anni, dalla parte italiana caddero 16800 ufficiali e 571000 soldati (saliranno a 652000 nel 1925, contando quelli morti successivamente, in seguito alle ferite riportate); in compenso l'Italia, con la conquista di Trieste e Trento, aveva ampliato il suo territorio (passando da 287.000 a 310.000 km2), aumentando così anche la sua popolazione (da 36,1 a 38,8 milioni di abitanti). Sembrano cifre costruite apposta per legittimare lo scetticismo di Tolstoj, il suo orrore per l'insensatezza della guerra, la sua sfiducia nella capacità della storia di spiegare razionalmente quelle catastrofi. Ma lo storico è costretto dal suo mestiere a fare proprio il contrario, a cercare cause, a fornire interpretazioni, ad attribuire razionalità a quello che sembra solo un groviglio di casualità, atti arbitrari, scelte occasionali ed emotive.
Tutto questo per dire che c'è la forte tentazione di lasciare l'attentato da cui novant'anni fa scaturì la Prima guerra mondiale, negli album in cui gli storici si divertono a classificare «le cause» di un evento, senza caricarlo di significati eccessivi. Ricordiamolo: il 28 giugno 1914, a Sarajevo, lo studente serbo Gavrilo Princip, un irriducibile indipendentista, uccise l'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austriaco. Rileggiamo ancora Tolstoj, a proposito dell'invasione napoleonica: «Quali ne erano state le cause? Gli storici, con ingenua sicurezza, dicono che le cause di questo avvenimento furono l'offesa subita dal duca di Oldenburg, le violazioni del sistema continentale, la brama di potere di Napoleone, gli errori ddiplomatici, ecc...»; dopo aver ironizzato sulla futilità di queste «cause», Tolstoj conclude: «a noi posteri che non siamo storici di professione e possiamo contemplare l'avvenimento senza che il nostro buon senso sia ottenebrato, risulta evidente che le cause di esso siano incalcolabili. Quanto più ci addentriamo nella ricerca delle cause, tante più ne scopriamo, e ogni singola causa ci appare ugualmente giusta se presa di per sé, e ugualmente falsa se si considera l'enormità dell'avvenimento, rispetto alla quale essa risulta insignificante...».
Quello che oggi si può concedere agli spari di Gavrilo Princip è un significato fortemente simbolico. Per il resto, il suo gesto si inserisce in uno scenario talmente fitto di attori e di trame diverse che, inevitabilmente, lo studente serbo è stato chiamato a retrocedere in un anonimato solo recentemente allentato dalle aspre polemiche divampate nella ex Jugoslavia sulle rispettive storie nazionali (in maniera quasi grottesca i manuali scolastici serbi lo esaltano come patriota, quelli croati lo bollano come terrorista).
Per quanto semplicistico possa sembrare, veramente nel 1914 i cannoni «cominciarono a sparare da soli» e gli spari di Sarajevo si persero in un fragore assordante. Certamente oggi si possono indicare molti motivi razionali che spinsero il mondo in una zuffa gigantesca. I manuali insistono sulla strenua competizione economica e politica scaturita dalle rivalità imperialistiche che avevano dilaniato il sistema politico internazionale. Per ognuna delle grandi potenze esistevano particolari motivi di malcontento che potevano spingerle alla guerra. La Francia voleva recuperare l'Alsazia e la Lorena, la Gran Bretagna era preoccupata per la nascita di una grande flotta tedesca, la Russia voleva il controllo di Costantinopoli e degli stretti, la Germania pretendeva un «posto al sole», l'Austria voleva bloccare il sorgere del nazionalismo nei Balcani e nel territorio stesso dell'Impero, l'Italia voleva competere con la Francia nel Mediterraneo e togliere all'impero austro-ungarico il Trentino e Trieste. Queste rivendicazioni si erano definite anche in termini di alleanze e schieramenti: Francia e Gran Bretagna (e Russia) da un lato, gli imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria) dall'altro, ognuno con il suo seguito di alleati e satelliti.
E però, anche la fondatezza storica di queste cause lascia irrisolto una sorta di «mistero» storiografico. Ricordiamolo: tra il 1870 e il 1914, tra i paesi industrializzati non ci furono guerre e nessuno pensava di mettere seriamente in discussione i confini tra gli stati europei. Un concerto di grandi potenze regolava pacificamente le questioni internazionali. Fu quella (soprattutto tra il 1900 e il 1914) la belle époque, un'era pacifica e operosa, caratterizzata da una grande fiducia in un progresso che si prevedeva senza limiti. Allo sviluppo del capitalismo industriale si accompagnava l'espansione della democrazia politica, con milioni di cittadini che finalmente potevano votare, esprimere la propria opinione, pesare sulle scelte politiche dei propri paesi. Alla stabilità internazionale corrispondeva quella interna: i governi - quasi tutti costituzionali, e nella maggioranza parlamentari e democratici, o almeno tendenti alla democrazia - non erano seriamente minacciati da sovvertimenti (con la sola eccezione parziale di quello russo); il contrasto dei partiti si svolgeva per lo più nell'ambito di una libertà ordinata.
Ebbene, rivedendola oggi, questa immagine di serenità e di compostezza somiglia molto a quella di un grattacielo da demolire con l'esplosivo: un attimo prima é intatto con le sue facciate e le sue finestre, un attimo dopo crolla in un rovinìo di polvere e macerie; in quello stesso periodo si affermarono, infatti, anche le forze centrifughe che avrebbero minato dall'interno quel sistema: «l'elemento più caratteristico della nostra età, quello che la distinguerà nella maniera più incresciosa -, scrisse allora Gide nel suo Diario - è di far abitare l'idea di perfezione non più nell'equilibrio e nella misura, ma nell'estremo e nell'eccessivo».
Si trattò di una congiuntura mai prima sperimentata nella storia dell'uomo; l'impatto con la modernità scatenò una pulsione irrazionale, una sorta di cupio dissolvi in cui dare l'addio al vecchio mondo, battezzando il nuovo con gli orrori di una inedita morte di massa. Fu - come sottolineò Guglielmo Ferrero in I due mondi (1913) - il momento del passaggio «delle aspirazioni umane dal limitato all'illimitato» e fu allora che il Novecento assunse le vesti del secolo «in cui si farà abitare l'idea di perfezione non più nell'equilibrio e nella misura ma nell'estremo e nell'eccessivo...». Quello che allora finì, e finì per sempre, fu la fiducia nel mondo. Stephan Zweig, (morto suicida nel 1942) scrisse nel suo testamento spirituale, Il mondo di ieri: «una meravigliosa spensieratezza si era diffusa per il mondo, chi poteva interrompere questa ascesa, chi calcolare l'impulso che nel suo slancio rivelava sempre nuove energie? mai l'Europa fu più forte, più ricca, più bella, mai credette più profondamente in un futuro ancora migliore». Quel futuro fu azzerato di colpo da una immane carneficina.
Per la prima volta nella storia dell'umanità le operazioni belliche furono estese a tutti i continenti della terra (il Giappone, ad esempio, si impadronì subito dei possedimenti tedeschi in Cina), quasi a tradurre in termini tragicamente distruttivi quell'unificazione spaziale del mondo già avviata grazie al telegrafo e al vapore. Agli stati belligeranti e alle loro colonie direttamente coinvolte nel conflitto si aggiunsero i rispettivi fiancheggiatori, i paesi produttori di materie prime come lo zucchero (Cuba) o la carne (Argentina), che avrebbero pesato in modo significativo sulle sorti dello scontro. I fronti di guerra ripetevano la complessa geografia di questa nuova spazialità planetaria, estendendosi dalle masse continentali agli oceani.
Quando cessarono gli spari, il mondo era cambiato, definitivamente; crollarono tutti i riferimenti politici, sociali, culturali del vecchio ordine ottocentesco. Fu come se si fosse spalancato un immenso cratere in cui scomparvero imperi plurisecolari (la Russia zarista, l'Impero ottomano, la Cina, l'Austria-Ungheria), forme di organizzazione politica e statale,modi di vivere: alla fine, morirono quasi 9 milioni di soldati, con più di 21 milioni di feriti e di mutilati, mentre il totale delle spese belliche ammontò a 600.000 milioni di dollari (12 volte il reddito annuo degli Stati Uniti nel 1916). Era nato il Novecento e il nuovo secolo avrebbe introiettato nel suo patrimonio genetico il nesso con la violenza e con la guerra.