mercoledì 1 settembre 2004

tre articoli

Farmacia.it
29 Agosto 2004 - 14:06
SALUTE:DEPRESSIONE,SINDROME ANONIMATO COLPISCE UNO SU TRE


(ANSA) - ROMA, 29 AGO - Italiani, popolo di depressi. In barba al luogo comune che ci vede allegri e spensierati, sono ben 10 milioni (18% della popolazione) le persone colpite negli ultimi dieci anni dal male oscuro. Tra le cause principali, non l'amore o i cattivi rapporti in famiglia, come ci si aspetterebbe, ma la cosiddetta 'sindrome da anonimato', che colpisce un italiano su tre (32%). E' quanto emerge da uno studio condotto su 850 persone di eta' compresa tra i 18 e i 66 anni, pubblicato sul mensile 'Riza Psicosomatica', in edicola nei prossimi giorni. Al primo posto tra le cause della depressione c'e' infatti il dramma di non sentirsi realizzati nella vita privata e nelle ambizioni professionali (29%), un disagio che provoca piu' sofferenza della solitudine (27%). Cresce tra i motivi principali del malessere l'anonimato (18%), ritenuto piu' grave di una vita troppo routinaria (14%) e delle delusioni in campo amoroso, fonte di depressione appena nell'8% dei casi. "Se non sei famoso, sei un fallito", e' questo il pensiero che colpisce gli italiani vittime di una societa' dove la comunicazione e il successo sono tutto. Una persona su tre si sente irrealizzata perche' ritiene che il benessere dipenda dalla fama e dalla notorieta', e avverte malessere profondo quando si trova sola e sconosciuta in mezzo alla gente. "Una volta la sindrome da anonimato colpiva soltanto quei vip la cui fama durava lo spazio di una stagione - si legge nella rivista -. Oggi invece contagia proprio le persone comuni in quanto tali, soprattutto quella generazione per la quale la realta' finisce spesso con lo sconfinare in un reality show". I momenti in cui la 'sindrome da anonimato' sembra colpire di piu' sono quando si e' in mezzo alla gente (62%), guardando la tv (55%), dove ci si identifica con quei personaggi che sono riusciti a sfondare proprio perche' persone qualsiasi, da soli a casa (43%) o quando si esce con gli amici (30%). La ricetta per essere felici e' dunque quella di diventare qualcuno o realizzare i propri sogni. Secondo lo studio, sette italiani su dieci (68%) ritengono infatti che serenita' faccia rima con notorieta', per il 25% felicita' e' realizzare i propri sogni, per il 18% stare con gli amici, per il 14% fare carriera e per appena il 6% lo stare bene in famiglia. (ANSA).

Yahoo!Notizie
Martedì 31 Agosto 2004, 9:59
Aripiprazolo, un nuovo antipsicotico per il trattamento della schizofrenia
Di PsichiatriaOnline.net


( Xagena - Psichiatria ) - L'Aripiprazolo ( Abilify ) è un farmaco antipsicotico che trova indicazione nel trattamento della schizofrenia.
Il meccanismo dell'Aripiprazolo non è noto.
Si ritiene che l'efficacia del farmaco sia mediata da una combinazione di parziale attività agonista a livello dei recettori D2 e 5-HT1A e di attività antagonista a livello dei recettori 5-HT2A.
In Europa l'Abilify è commercializzato nella confezione da 5 mg, 10 mg, 15 mg e 30 mg.
Con tutti i farmaci antipsicotici, tra cui l'Aripiprazolo, si possono verificare gravi effetti indesiderati.
Una rara sindrome minacciante la vita, sindrome neurolettica maligna, può verificarsi con tutti gli antipsicotici.
Un'altra condizione associata ai farmaci antipsicotici è la discinesia tardiva, che può causare movimenti involontari potenzialmente irreversibili.
L'iperglicemia è stata riportata nei pazienti trattati con antipsicotici.
Non è noto se l'Aripiprazolo sia associato al rischio di iperglicemia.
Essendo un farmaco commercializzato negli USA solo a partire dal 2002 non esistono al riguardo dati epidemiologici significativi.
Tuttavia sono stati segnalati alcuni casi di iperglicemia anche tra i pazienti che hanno assunto l'Aripiprazolo.
Per questo motivo i pazienti a cui è prescritto Abilify dovrebbero essere tenuti periodicamente sotto osservazione.
Tra coloro che assumono farmaci antipsicotici può manifestarsi un'ipotensione ortostatica.
Come per tutti gli antipsicotici l'Aripiprazolo dovrebbe essere impiegato con cautela nei pazienti con una storia di convulsioni.
I più comuni effetti indesiderati dopo assunzione di Aripiprazolo ( rispetto al placebo ) riportati negli studi clinici di breve periodo comprendono : cefalea ( 32% versus 25% ), stato d'ansia ( 25% versus 24% ), insonnia ( 24% versus 19% ), nausea ( 14% versus 10% ), vomito ( 12% versus 7% ), sonnolenza ( 11% versus 8% ), sensazione di testa vuota ( 11% versus 7% ), irrequietezza ( 10% versus 7% ), costipazione ( 10% versus 8% ).
Gli eventi avversi riportati in uno studio in doppio cieco, che ha confrontato l'Aripiprazolo con il placebo, sono risultati simili agli effetti osservati nel breve periodo con l'eccezione di un'alta incidenza di tremore: 9% nei pazienti trattati con Aripiprazolo versus 1% con il placebo.
In uno studio di lunga durata, 52 settimane, l'incidenza di tremore dopo somministrazione di Aripiprazolo è stata del 4%. ( Xagena )

Fonte: FDA

Corriere della Sera
31 agosto 2004
Abbiamo un corpo, un sistema nervoso e un cervello; e poi ...
La capacità di interrogarci permette di combinare infiniti messaggi


Abbiamo un corpo, un sistema nervoso e un cervello; e poi abbiamo una mente. Soprattutto per alcuni suoi aspetti, questa ci distingue da tutti gli altri esseri e probabilmente da tutto quello che esiste. Non ci stancheremo mai di analizzare che cosa è la mente e come funziona; e niente ci potrà dire di più su quello che siamo veramente. Sembra, quindi, particolarmente appropriato che si sia deciso di organizzare un «Festival della mente», che si svolgerà a Sarzana da venerdì 3 a domenica 5 settembre. Lo studio della mente è progredito enormemente e ci permette di trarre un gran numero di conclusioni. Quello che mi colpisce di più e che personalmente mi affascina è l'assoluta peculiarità delle modalità con le quali percepiamo il mondo, lo categorizziamo e interagiamo con esso. Si tratta di un tema con precedenti filosofici illustri. Dalla massima greca secondo la quale «l'uomo è misura di tutte le cose», alla grandiosa indagine kantiana sulle caratteristiche delle forme a priori mediante le quali gli uomini - tutti gli uomini - conoscono il mondo o, meglio, conoscono quello che è conoscibile del mondo. Siamo vicini a potere stilare una lista di qualcosa di molto simile alle categorie kantiane e al loro modo di operare, su una base puramente sperimentale. In campo filosofico, si è cominciato a parlare da tempo di un'epistemologia naturalizzata e alcuni scienziati hanno già usato un termine che a me piace moltissimo: epistemologia sperimentale. Si tratta di mettere in luce, attraverso esperimenti condotti su persone perfettamente normali e su pazienti che portano piccole lesioni nel loro sistema nervoso, quali sono le caratteristiche del nostro modo di vedere il mondo attraverso i sensi, di rappresentarcelo mentalmente e di interagire cognitivamente ed emotivamente con quello.
Prendiamo ad esempio i nostri sensi, la finestra attraverso la quale il nostro io si affaccia sul mondo. Abbiamo sempre saputo che si tratta di una finestra angusta, che ci permette di percepire alcune cose e altre no. È stato un po' un luogo comune del pensiero filosofico quello di affermare che i nostri sensi ci ingannano, anche se in un frammento attribuito a Democrito, all'Intelletto che aveva affermato l'illusorietà di ciò che i sensi ci mostrano, quelli molto opportunamente ribattono: «Mio povero Intelletto, tu pretendi di ricavare da quello che ti mostriamo noi la conclusione che noi sbagliamo? In questo modo la tua vittoria è la tua sconfitta».
I nostri sensi non ci ingannano: fanno solo quello che possono. Ci offrono la loro versione della realtà, l'unica possibile per ciascuno di noi, se non ci si confronta con gli altri e con gli strumenti che la collettività umana ha approntato. Oggi sappiamo quanto parziale e singolare sia il modo con cui i nostri sensi ci presentano il mondo, che essi non osservano passivamente, ma interrogano, ponendo domande specifiche, predeterminate e codificate. E non sono preparati a ricevere una risposta qualsiasi, ma solo una delle possibili, contemplate dal nostro sistema percettivo che opera sulla base di un glossario finito e discontinuo dove non c'è posto per posizioni intermedie.
Nella retina del ranocchio, per esempio, esistono cellule nervose che si attivano soltanto se questo vede passare un moscone e ci sono cellule nella nostra corteccia cerebrale visiva che si attivano soltanto se nella scena che si sta osservando sono presenti linee verticali. Queste e solo queste sono le domande che tali cellule si pongono e le corrispondenti risposte sono tutto ciò che ad esse interessa. Ogni specie biologica possiede la sua dotazione di domande sensoriali e di risposte possibili. Noi non percepiamo la radiazione ultravioletta né siamo sensibili agli ultrasuoni, mentre la vita dei pipistrelli dipende da questa loro sensibilità. Così non siamo assolutamente sensibili ai campi elettrici, mentre le torpedini lo sono. Esiste inoltre un'incredibile abbondanza di segnali chimici diversi che interessano questa o quella specie e che per le altre non hanno alcun significato. Un cane «vede» un mondo molto diverso da noi e la zecca «vede» un mondo ancora più originale, visto che in certi momenti è sensibile soltanto alla concentrazione di acido butirrico nell'aria.
Potremmo andare avanti all'infinito con questi esempi, ma la lezione è semplice. Quello che percepiamo nasce dalla combinazione di innumerevoli messaggi sensoriali parziali e settoriali, ciascuno dei quali non significa di per sé assolutamente nulla ma che acquista un senso solo alla luce della nostra rete di domande. Altrettanto settoriale e parziale è il nostro modo di rappresentarci concettualmente il mondo, di vedere ad esempio una destra e una sinistra, di considerare che cosa è significativo e cosa no, che cosa è pericoloso e che cosa è promettente, che cosa ricordare e cosa no, che cosa è vitale e che cosa ci soddisfa.
Noi non ci accorgiamo di tutta questa particolarità e di questa frammentarietà, come non ci accorgiamo del fatto che un film è un insieme di fotogrammi fissi che scorrono davanti ai nostri occhi. Non ce ne accorgiamo perché la nostra corteccia cerebrale esegue il «montaggio» finale di tutto ciò che le perviene, in una fantastica messa in scena parallela al succedersi degli eventi esterni. Forse non sapremo mai quanto parallela sia veramente questa scena, ma siamo gli unici esseri viventi che si pongono la domanda. Che si pongono delle domande.

Repubblica: arretrati

La Repubblica DOMENICA 29 AGOSTO 2004 ›
Un saggio dello psicoanalista Mauro Mancia
INDOVINI, PROFETI E LA STORIA DEI SOGNI
I significati attribuiti al fenomeno dall'antichità ai giorni nostri
di LUIGI MALERBA


Nessuno potrà mai scrivere una storia del sogno per mancanza dei «testi» vale a dire dei sogni, così come una storia della letteratura si realizza sui testi originali in prosa e in poesia. Chissà se un giorno riusciremo a registrare i sogni e a proiettarli come dei film. Solo allora passeremo dalla preistoria alla storia del sogno. Per il momento possiamo fare soltanto la storia di chi si è occupato dei sogni: critici, indovini, filosofi, profeti, la legione della oniromanzia. È ciò che ha fatto con un libro eccellente, che copre una lacuna culturale e editoriale, il direttore del Centro di Ricerca Sperimentale sul Sonno, membro della Società Psicoanalitica Italiana (Mauro Mancia, Il sogno e la sua storia, dalla antichità alla attualità, Marsilio, Euro 9,90).
Psico e neurofisiologi hanno tracciato un attendibile identikit del sogno dal punto di vista scientifico ma sono gli psicoanalisti che, sulla pista aperta da Freud con la Interpretazione dei sogni, analizzano e danno un senso ai sogni dei pazienti nell'ambito della terapia analitica. È su questa premessa che Mauro Mancia svolge la sua indagine storica con qualche attenzione alle possibili coincidenze con l'attualità psicoanalitica.
Un papiro del 2000 a. C. attribuisce agli Egizi non soltanto la ricerca di un significato simbolico del sogno ma anche un interesse per i suoi aspetti formali. È evidente, ci suggerisce l'autore, che la psicoanalisi, sempre attenta alla sintassi del sogno, si riconosca in questo documento archeologico. A Babilonia i sogni erano considerati espressione della natura diabolica dell'uomo e si suggeriva di inciderne il resoconto su una tavoletta di argilla fresca e di metterla a sciogliere nell'acqua così che anche il sogno si dissolvesse. Nella antica Israele al contrario si riteneva che i sogni provenissero direttamente da Dio che, attraverso di essi, manifesta le sue volontà e le sue leggi. Per questa ragione i sogni assumono un valore profetico e, a causa della loro origine sacra, viene condannata ogni oniromanzia laica e attribuito in esclusiva al Talmud il potere di interpretare le volontà divine espresse nei sogni. Per dimostrare quanto sia plastico il sogno e, nonostante la sua origine divina, disponibile a diverse interpretazioni, il Talmud riporta l'esperienza del rabbino Banna'ah che su un proprio sogno volle consultare tutti i ventiquattro oniromanti ufficiali che operavano a Gerusalemme. Ne ebbe ventiquattro interpretazioni diverse e altrettante diverse predizioni. Il fatto singolare è che tutte le ventiquattro predizioni si avverarono.
L'oniromanzia fu la sola arte divinatoria ammessa dall'Islam. Il Profeta Dinawari, massimo teorico del sogno nell'antico Islam, affermò che «il sogno è una conversazione fra l'uomo e il suo Dio». Come si vede la tendenza delle antiche religioni è quella di appropriarsi in qualche modo del sogno e di farne uno strumento nelle mani della casta sacerdotale. Secondo i testi sacri indiani il sogno permette alla coscienza di espandersi e di selezionare dalla realtà esterna ciò che è più pertinente al sognatore. Ancora una volta il sogno si prospetta come prodotto della coscienza profonda che possiamo assimilare a una primaria intuizione dell'inconscio.
Nella letteratura dell'antica Grecia, da Omero a Sofocle, i sogni vengono confezionati dagli autori secondo le necessità narrative e perciò rivestono soltanto valore letterario. Finalmente nel II secolo d. C. abbiamo il primo trattato di onirocritica per opera di Artemidoro di Daldi, nominato da Freud come «L'elaborazione più ricca e attenta della interpretazione dei sogni secondo le credenze vulgate nel mondo greco-romano». Il Libro dei sogni di Artemidoro è ancora una attraente lettura, riproposta qualche anno fa in una elegante traduzione cinquecentesca per le Edizioni dell'Elefante oppure, a cura di Dario del Corno, in una traduzione moderna per le edizioni Adelphi. Per la vastità della casistica e per l'ingegnosità delle interpretazioni il Libro dei sogni è rimasto un punto di riferimento per tutti gli autori che nei secoli successivi hanno trattato l'argomento. Ad eccezione dei Padri della Chiesa da Agostino a Tertulliano che hanno schematicamente diviso i sogni fra quelli provenienti da Dio e quelli provenienti dal Demonio. Su questo principio Tertulliano è il primo teologo cristiano autore di una vera e propria teologia del sogno.
Medioevo e Rinascimento hanno coltivato l'interesse per il sogno nei testi di filosofi e studiosi. Fra tutti Girolamo Cardano, medico e filosofo, partendo da Artemidoro approfondisce lo studio del sogno come strumento per conoscere il futuro personale, con tendenza alle previsioni pessimistiche forse indotte dalle disgraziatissime vicende famigliari dell'autore.
L'ultima parte del libro di Mauro Mancia si addentra nello studio dell'Interpretazione dei sogni di Freud. Da psicoanalista rigoroso ma illuminato, l'autore contesta che i sogni siano emanazione di desideri depositati nell'inconscio. Ma la differenza di base con gli onirocritici del passato è il fatto che quelli attribuiscono al sogno qualità di premonizione del futuro mentre al seguito di Freud gli psicoanalisti si servono del sogno come espressione privilegiata dell'inconscio per scandagliare le profondità del passato personale dei pazienti.

La Repubblica DOMENICA 29 AGOSTO 2004
LA STORIA
Cina, parla l'etologa che lo studia. Usato da 2500 anni per sfuggire ai maschi-padroni
Il linguaggio segreto delle donne
La lingua segreta delle donne per sfuggire ai maschi-padroni
Si parla in un villaggio cinese, ha 2500 anni ma ora rischia di morire
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
FEDERICO RAMPINI


PECHINO Vicino al villaggio cinese di Shanjianxu, nella regione meridionale dello Hunan, il tempio della Montagna Fiorita è dedicato a due sorelle morte più di mille anni fa. Da secoli le contadine venerano i loro spiriti portando al tempio rotoli di carta di riso in cui confidano i loro segreti e formulano dei desideri; non di rado quello di suicidarsi.
Secondo la leggenda è stata inventata da una giovane data in sposa all'imperatore
Soprattutto poesie e lamenti per la vita da schiave dopo il matrimonio combinato
La Rivoluzione culturale la proibì, adesso la si vuole insegnare a scuola
Uno strumento per tenere saldi i legami fra madri, figlie, sorelle e amiche
Quelle preghiere nessun uomo è mai riuscito a leggerle, perché nessun maschio può capire la lingua in cui sono scritte. Non sono in cinese ma in Nushu, forse l'unica lingua al mondo creata da donne per comunicare solo fra loro. Una leggenda vuole che il Nushu abbia duemilacinquecento anni e che discenda dalle scritte che gli oracoli incidevano sugli ossi; un'altra mitologia racconta di una ragazza che fu data in sposa all'imperatore, e una volta prigioniera della corte imperiale inventò una scrittura segreta per comunicare con le sue amiche.
Messa fuori legge dal partito comunista negli anni 50, la Lingua delle Donne è stata riscoperta e studiata dalle linguiste cinesi Zhao Liming e Gong Zhebing, dalle giapponesi Toshiyuki Obata e Orie Endo. La rarità linguistica è anche una finestra sulla condizione femminile in Asia. Come spiega la professoressa Zhao, «la prima ragione per la nascita di questa lingua fu il fatto che le donne vivevano nell'analfabetismo forzato, non potevano andare a scuola e nessuno insegnava loro lo Hanzi, la scrittura cinese». L'altra ragione è la pratica dei matrimoni combinati, per cui le nozze erano un passaggio tragico nella vita delle donne: strappate alle proprie mamme e sorelle e alle amicizie d'infanzia, finivano sotto l'autorità della famiglia del marito, spesso in stato di semi-schiavitù e sottoposte alle vessazioni delle suocere. Ma le donne della provincia di Jiang Jong nello Hunan trovarono una consolazione.
Non conoscendo l'alfabeto degli uomini inventarono una scrittura originale per tramandarsi le canzoni della nostalgia, per confidare alle amiche i loro pensieri più intimi e le sofferenze. Furono aiutate dall'esistenza di una solidarietà femminile speciale: in questa regione esisteva l'antico costume dello Jiebai Zimei, il «giuramento di sorellanza», che fin dall'adolescenza creava legami perfino più forti del sangue (è stata affacciata da studiosi occidentali l'ipotesi che lo Jiebai Zimei potesse nascondere affetti lesbici; Zhao Liming lo esclude categoricamente ma questo è scontato perché nella Cina di oggi l'omosessualità è ancora un tabù).
«Quando una giovane donna veniva data in sposa - racconta Orie Endo - sua madre, le sorelle e le amiche giurate componevano dei canti apposta per esprimere il dolore della separazione imminente. Ma una volta che la ragazza partiva per il villaggio del marito le loro voci non potevano più viaggiare. È così che nacque una scrittura per mantenere vivo il legame tra le donne, una scrittura che non poteva essere il cinese, visto che lo Hanzi veniva insegnato solo agli uomini. Alla giovane sposa le parenti e le amiche regalavano dopo le nozze un San Chao Shu, il libro del cuore in cui scrivevano i loro auguri di felicità; molte pagine venivano lasciate bianche perché la sposa potesse confidarvi negli anni seguenti i suoi pensieri e le sue sofferenze».
Così nella notte dei tempi fu creato questo alfabeto Nushu, con 1.500 caratteri che traducono suoni del dialetto locale in sillabe. Sono caratteri scorrevoli e aggraziati, diversi e più semplici degli ideogrammi mandarini che invece all'origine rappresentano dei concetti. Ma sono rimasti per secoli incomprensibili e impenetrabili per i maschi. Composizioni in questo alfabeto sono state ritrovate anche ricamate sui ventagli e sui vestiti della zona. Un altro aspetto raro della scrittura Nushu è che si esprime quasi esclusivamente in versi, perché la sua origine orale sono i canti delle donne che lavoravano in casa insieme a filare, cucire vestiti, confezionare scarpe.
In quei versi scritti per le amiche lontane sono consegnate le testimonianze di una condizione femminile senza speranza.

«Le mie cognate mi disprezzano
Da mangiare ho solo un po' di crusca
Con dell'acqua per farne una minestra
Mi costringono a fare tutto il lavoro domestico
Ma il mio stomaco è vuoto».

«Mio marito scommette al gioco
Mi dimentica per andare alle bische
Ne ho abbastanza di soffrire
Quando mi picchia e non posso fuggire
Ho cercato di impiccarmi
Ma gli zii mi hanno riportato in vita».

Nei diari femminili in Nushu decifrati dalle linguiste c'è autocommiserazione e disprezzo di sé stesse. Chi scrive spesso si indica alla terza persona come «questa donna dal destino spregevole, essere inutile, nata dalla parte sbagliata». Nascere donna è la dannazione di un karma negativo in una vita precedente.
Al tempio delle due sorelle sulla Montagna Fiorita vicino a Shanjiangxu, tra gli odori dell'incenso che brucia, il canto che una contadina ha lasciato su un rotolo di carta di riso si traduce così:
«Sorelle defunte, ascoltate questa mia preghiera Questa povera ragazza vi scrive nella Lingua delle Donne Anime sorelle abbiate pietà di me. Vorrei seguirvi dove siete Se solo mi accettate Voglio seguirvi fino alle sorgenti gialle dell'aldilà Di questo mondo non mi attira più niente Vi scongiuro trasformatemi in uomo Non voglio più avere il nome di donna».
Il Nushu cominciò ad essere scoperto e studiato negli anni 50 ma quasi subito venne vietato dal partito comunista, forse perché la sua sopravvivenza smentiva le versioni ufficiali sull'avvenuta emancipazione della donna cinese. Una delle ultime autrici a usare la Lingua delle Donne, He Yanxin, è nata nel 1940: la sua autobiografia - dieci pagine fitte di 2.828 caratteri Nushu scritti sul quaderno di scuola del figlio - descrive le sofferenze di un matrimonio imposto d'autorità dalla famiglia, una consuetudine teoricamente soppressa nella Cina socialista di Mao Zedong. Tuttora i demografi misurano il peso dei pregiudizi sessisti e l'arretratezza della condizione femminile in Cina dal triste fenomeno statistico delle «bambine scomparse»: in base alle normali tendenze procreative del genere umano - per cui in media alla nascita ci sono 106 maschi per 100 femmine - tra il 1980 e il 2000 in Cina sarebbero dovute nascere 13 milioni di bambine in più di quelle che sono nate. Le «bambine scomparse» nei censimenti demografici, sono state vittime di veri e propri infanticidi di massa oppure - in epoca più recente e grazie ai progressi della medicina - sono il risultato di una selezione pre-natale del sesso: quando l'ecografia rivela che il feto è femminile, si opta per l'aborto. Su scala nazionale questi aborti mirati a seconda del sesso del nascituro producono l'enorme squilibrio delle nascite rivelato dai censimenti. Il pregiudizio contro le bambine si attenua nelle grandi città come Pechino e Shanghai. Resta forte nei villaggi come Shanjianxu nonostante la politica di controllo della natalità - la regola del figlio unico - sia stata ammorbidita proprio a favore dei contadini.
Oggi la Lingua delle Donne non è più fuorilegge. Anzi, a Shanjianxu e nei villaggi vicini come Pumei vogliono cercare di trasformare il Nushu in un'attrazione turistica e hanno cominciato a insegnarlo nelle scuole. Ma Orie Endo teme che la sua estinzione sia comunque vicina. A parte le studiose venute da lontano, nello Hunan le donne veramente capaci di leggerlo e scriverlo, oltre che di parlarlo, sono rimaste solo in tre: Yang Huanyi di 94 anni, He Yanxin e He Jinhua di 64. Dopo di loro forse l'unica lingua femminile del mondo sarà relegata in un museo.

La Repubblica MERCOLEDÌ 25 AGOSTO 2004
L'INTERVISTA
Domenico De Masi, sociologo
"Il progresso ha bisogno della fantasia"
Oggi la ricetta vincente è lavorare in équipe per canalizzare meglio le energie


ROMA - Domenico De Masi, professore di sociologia del lavoro all'Università La Sapienza («La fantasia e la concretezza, Creatività individuale e di gruppo», Rizzoli), ha sempre centrato le sue ricerche sulla creatività nei gruppi di lavoro. Sta scrivendo un libro che andrà in libreria nel 2005 per Mondatori.
Come si calcola l'indice di creatività nelle città?
«Noi abbiamo puntato sulle attività postindustriali, analizzato i dati messi insieme dall'Istat sui settori produttivi dei capoluoghi. Le attività sono state poi "pesate" in relazione ai diversi settori di lavoro. Ad esempio ricerca e sviluppo è stato pesato "1" mentre altri settori hanno raggiunto a malapena lo "0". I numeri assoluti sono stati relativizzati rispetto agli abitanti, alle loro professioni, alle loro aspirazioni».
Che cos'è la creatività?
«Un mix tra fantasia e concretezza. Se un singolo possiede in grado elevato sia la fantasia che la concretezza è un genio. Fino a ieri era un concetto legato all'individuo. Oggi in tutto il mondo sono le imprese che attraggono i talenti, perché senza creatività non sono in grado di mantenere il passo con le punte avanzate del progresso».
Da dove viene l'idea di dividere le città di terra da quelle di mare?
«L'idea di partenza era che le città di mare fossero più creative di quelle di terra. Perché hanno più dimestichezza con i traffici e lo scambio di esperienze. Ma i risultati dell'indagine hanno smentito questa ipotesi. Le città creative sono tutte interne mentre quelle meno creative, Ancona, Bari, Napoli sono quelle affacciate sui porti».
Come diventano creativi i giovani?
«La creatività è un istinto naturale presente in tutti gli esseri umani ma non nella stessa misura. Bisogna osservare i giovani, scovare l'istinto attraverso una buona attività di orientamento. Ma occorre entrare in un team creativo. Perché il futuro è sempre più legato alle équipe».
(am. so.)

La Repubblica MERCOLEDÌ 25 AGOSTO 2004
Il pensiero di Sartre e la catastrofe europea
L 'ESISTENZIALISMO È FRUTTO DI QUEI GIORNI
di FRANCO VOLPI


Il 27 maggio 1944, poco prima dello sbarco in Normandia, andò in scena al Vieux Colombier di Parigi A porte chiuse di Sartre. Tra gli spettatori, in compagnia della sua ultima amante, uno sdegnoso Drieu La Rochelle, che appunta: «È l'universo di un disperato». Curiosamente fu più lungimirante la stampa tedesca, piena di elogi per l'esistenzialismo. Ma a che cosa dovette la sua fortuna la nuova «filosofia della crisi»?
Evidentemente lo spirito del tempo è segnato dalle catastrofi materiali e dalla distruzione dei valori della vecchia Europa, dalla barbarie dei totalitarismi e dall'incertezza dell'avvenire - ben si rispecchiava nel principio dell'esistenzialismo che affermava: «L'uomo è quell'ente in cui l'esistenza precede e determina l'essenza». Era il sentimento che nutriva dentro di sé ogni buon europeo ridotto dalla guerra alla sua nuda esistenza.
Ne nacque una filosofia. L'uomo, gettato nella sua insormontabile storicità e fatticità, non può essere compreso entro una «essenza» - desunta da una religione o una visione del mondo - che definisca a priori ciò che egli è, e a cui egli dovrebbe poi adeguare la sua «esistenza».
L'uomo non è una realtà data, ma una possibilità che deve farsi. Sta nudo di fronte al suo nudo destino. È quello che di volta in volta decide di essere nelle sue effettive scelte di vita: angelo o bestia, libero di inventare se stesso.
Questa tesi - pronunciata da Sartre all'indomani della guerra, il 28 ottobre 1945, nella leggendaria conferenza L'esistenzialismo è un umanismo? - da Parigi fece in breve il giro d'Europa. La nuova filosofia captava lo spirito del tempo con il suo sottofondo relativista e nichilista, riflettendo sul senso dell'esistenza individuale in quel teatro dell'assurdo che è il mondo.
Finitudine, angoscia, decisione, situazioni-limite, aut-aut divennero motivi portanti. Per questo l'esistenzialismo fu accusato, specie da parte marxista e cattolica, di disimpegno e disfattismo. In verità esso riteneva che, dopo la «morte di Dio», i valori dell'umanesimo potevano essere riscattati solo se l'uomo, anziché ancorarli all'ormai tramontato firmamento delle stelle fisse, li avesse reinventarli unicamente in base a sé stesso, con il proprio impegno.
Per essere davvero intesa, la formula andava collegata al capolavoro che Sartre pubblicò in piena guerra, L'essere e il nulla (1943), ma anche a La nausea (1938), il romanzo esistenzialista che fece scuola. E soprattutto alla grande opera cui Sartre si era ispirato, Essere e tempo (1927) di Heidegger, di cui allora si potevano leggere in Francia le pagine tradotte da Henry Corbin. Furono questi - assieme a Filosofia (1932) di Jaspers - i fondamenti teorici dell'esistenzialismo, che nel dopoguerra dilagò in tutta Europa fino a diventare una moda.

La Repubblica MARTEDÌ 24 AGOSTO 2004
Esperti da tutto il mondo riuniti a Berlino per fare il punto sui disturbi psichiatrici dell'infanzia, che oggi già coinvolgono il 20% dei minori
Troppi bambini malati di stress
"E nel 2020 un ragazzo su due soffrirà di disagi mentali"
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
ANDREA TARQUINI


BERLINO - Tra sedici anni più di un bambino su due soffrirà di disturbi psichiatrici. Le malattie mentali, che oggi affliggono già venti bimbi e adolescenti su cento, nel 2020 ne colpiranno poco più della metà. E diverranno una delle cinque cause principali di malattia o morte, alla pari della fame nel Terzo mondo, dell'Aids o degli incidenti stradali. È un mondo orribile, malsano, aggressivo quello che stiamo regalando a figli e nipoti. Per via delle nuove emergenze globali, come guerre e terrorismo, ma anche per lo stress e la perdita del momento umano nella vita quotidiana. Il grido d'allarme viene da Berlino, dove si tiene il 16mo congresso internazionale dell'associazione degli psichiatri per l'infanzia, la Iacapac, cioè International association for child and adolescent psychiatry and allied professions.
Un quadro desolante emerge da relazioni, dati e studi divulgati al convegno, cui partecipano duemila esperti di sessanta paesi. Andiamo nello spazio, costruiamo computer superveloci e motori di ricerca internet perfetti, ma abbiamo perso per strada la capacità di rendere felice o almeno serena la vita del bambino. La globalizzazione dell'ansia ha i bimbi per testimoni e vittime.
Non ci sono solo i dolori dei piccoli senza famiglia sopravvissuti alle "pulizie etniche" di Milosevic o ai pogrom razzisti in Sudan. Né le tragedie dei bimbi israeliani cui un attentatore-suicida ha spazzato via la famiglia, o dei loro coetanei arabi che i terroristi palestinesi usano come scudo o carne da cannone. Guerra e terrore globale entrano nelle case borghesi a Londra, Berlino o Roma. Secondo un'indagine condotta nel nostro paese, 68 bambini su cento sono stati impressionati da eventi traumatici in tv, 40 hanno provato shock per le notizie cruente del tg. «Dobbiamo elaborare nuovi strumenti e terapie per l'infanzia», avverte Ernesto Caffo, presidente della società europea di psichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza. Auspica che sulla scia della «Carta di Roma», il documento siglato l'anno scorso dal precedente incontro della Iacapap, nasca una rete internazionale di esperti della nuova emergenza. Per aiutare bambini resi adulti dal dolore. Sono "i figli della violenza", o "los olvidados", i dimenticati, come oltre mezzo secolo fa Luis Bunuel intitolò il suo film-shock sui bimbi poveri. Da allora abbiamo fatto passi avanti ma anche indietro: i figli della violenza crescono anche nel mondo ricco.

La Repubblica MARTEDÌ 24 AGOSTO 2004
L'INTERVISTA
James Leckman, dell'università di Yale, è uno dei massimi esperti di traumi infantili
"Cuccioli spaventati e aggressivi per colpa di immagini-shock"
l'intolleranza Il rischio vero è che l'autodifesa porti ad atteggiamenti estremi di coesione di gruppo
Anche i nostri salotti borghesi dominati dalla televisione, sono invasi dalla paura del futuro
Le conseguenze della violenza non investono solo i paesi devastati dai conflitti
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE


BERLINO - Il professor James Leckman, dell'università americana di Yale, è uno dei massimi esperti mondiali di traumi dei bambini.
Professor Leckman, quanto è diffuso per l'infanzia oggi il pericolo dei traumi della violenza quotidiana?
«Moltissimo. Pensi solo all'esempio dell'11 settembre. Ci sono stati i bimbi direttamente coinvolti per la perdita di familiari, ma anche quelli scossi dalle immagini, o dall'ondata emotiva che ha colpito la società. Il primo livello, il più estremo, è quello dei bimbi che perdono per guerra o terrorismo un genitore o entrambi. Un bimbo è incapace di affrontare da solo uno shock simile. L'esperienza estrema stravolge la loro vita. Altre situazioni sono quelle che osserviamo in Palestina o Israele: guerra come realtà quotidiana. Bimbi che hanno visto genitori o familiari feriti. Ma l'impatto più pesante è quello che si abbatte sui bimbi che, direttamente o in tv, vedono guerre e terrore tramite gli occhi dei genitori».
Con che conseguenze?
«Ho un'amica a Gerusalemme i cui bimbi, come la mamma, hanno paura di camminare in strada per via degli attentatori suicidi. Ma oltre i casi estremi da "prima linea" come questo l'impatto sociale è enorme. Negli Usa dopo l'11 settembre la paura collettiva ha un'altra dimensione, anche per bambini e adolescenti».
E l'autodifesa psicologica cambia i bambini, li rende adulti?
«Pensi agli animali. I cuccioli separati dalle madri cambiano a fondo. La loro risposta di aggressività da autodifesa allo stress è netta. Nel nostro mondo difficile stiamo creando circostanze simili, e i bambini si adattano. Sono vulnerabili, alla guerra diretta come alla tv. Bisogna aiutarli a sentirsi più sicuri. È vitale aiutare gli psichiatri a saper intervenire nel concreto, a creare una de-escalation dei conflitti agli occhi dei bambini. Nelle situazioni di guerra diretta come nella "normalità" delle informazioni-shock».
Un mondo che cambia in peggio... nei teatri di guerra e nelle nostre democrazie. Come reagire?
«Il problema è anche la percezione distorta del nemico. Questo mondo crea stereotipi che poi si stratificano nella mente. Quando guardo i poster di propaganda della seconda guerra mondiale ripenso con amarezza ai pregiudizi che viviamo ancora oggi noi americani verso i giapponesi, senza citare esempi passati e presenti europei».
Odio e voglia di vendetta diventano momenti importanti di autodifesa dei figli della violenza?
«Terrorismo e guerra provocano coesione di gruppo, e un'idealizzazione del nemico quali autodifese. Penso che la violenza esasperi anche i lati negativi. L'intolleranza torna ad apparire normale agli occhi dei bambini testimoni di terrore e guerra. Acquista il ruolo di una risposta necessaria al presunto nemico».
(a. t.)

La Repubblica LUNEDI 23 AGOSTO 2004
Il matematico Alessandro Figà Talamanca e la tribù che non sa far di conto
La matematica è dentro di noi impossibile vivere senza numeri
l'intervista creazione Si dice che Dio creò i numeri, tutto il resto l'ha fatto l'uomo
di GIANLUCA MONASTRA


ROMA - Impossibile vivere senza i numeri. Improbabile non poterli imparare, conoscere, coprire. “Un famoso studioso diceva: "Dio creò i numeri, tutto il resto è opera dell ' uomo”, racconta Alessandro Figà Talamanca, matematico, riflettendo sulla storia della tribù orfana dei numeri. E sulla cognizione innata dei numeri in ogni essere umano. A qualsiasi latitudine si trovi e si sviluppi. Che ne pensa professore della tribù che conta soltanto fino a due? “Beh, geneticamente gli uomini sono tutti uguali, e la capacità intellettuale è sempre la stessa, dunque chiunque può imparare a contare, scoprire i numeri anche se per molto tempo ha vissuto senza conoscerli”. Ma il caso della tribù amazzonica sembra spingere verso un ' altra direzione, diversa, anzi opposta. I Piraha non sanno contare perché non hanno le parole per farlo e per loro adesso risulterebbe persino ostico imparare i numeri. Queste le conclusioni degli studiosi che hanno analizzato i loro comportamenti. “Non so, dovrei leggere in modo approfondito e con attenzione lo studio su questa tribù per dare un giudizio certo, e poi non sono un antropologo né uno psicologo. Però, in effetti, appare un caso abbastanza incredibile”. Secondo lei i numeri sono dentro di noi, insomma? “Esattamente. Sono una conoscenza primaria, diretta. Può cambiare la modalità di apprenderli, ma la possibilità esiste sempre, in qualsiasi caso”. Se non esistono le parole in un linguaggio per identificare i concetti numerici, è possibile un corto circuito mentale? “Cosa vuol dire? Pensate agli antichi greci: nella loro lingua utilizzavano non solo il plurale e il singolare, ma anche il duale. Eppure il concetto di due persone è noto anche a chi non ha mai conosciuto la forma duale”. Ma in quale caso il linguaggio può rappresentare una barriera all ' apprendimento della matematica? “In nessuno, impossibile. Il linguaggio può mutare dall ' esperienza, questo sì, ma non può diventare uno steccato invalicabile”. In che senso però il linguaggio può mutare dall ' esperienza? “Facciamo un esempio: gli esquimesi. Ecco, loro hanno molti nomi diversi per indicare l ' acqua, ghiacciata, semi ghiacciata e così via. In altre parti del pianeta, ovviamente, non è assolutamente così”. L ' esperienza degli indios Piraha ci dice però che dei numeri si può fare a meno. Si può prosperare, vendere e comprare, magari con qualche difficoltà in più. Dal punto di vista del matematico le sembra una cosa possibile, ci potrebbero essere altre zone, altre riserve nel mondo in cui si vive senza contare? “Io so soltanto che nella nostra società è impossibile vivere senza numeri. E senza matematica”.

La Repubblica GIOVEDÌ 12 AGOSTO 2004
Il conflitto società-scienza
di UMBERTO VERONESI


LA DECISIONE che si può definire storica assunta dalle autorità sanitarie inglesi sulla clonazione di embrioni umani per curare il diabete, il morbo di Parkinson e l'Alzheimer riaccende il dibattito scientifico sulle possibilità e i limiti della scienza e della ricerca medica. E dovrebbe anche farci riflettere sul conflitto fra scienza e società e farci ripensare a quanto il cammino della scienza è orientato dalla realtà storica in cui si svolge, quindi può essere accelerato oppure frenato a seconda delle scelte delle differenti comunità sociali e politiche.
La posizione del nostro paese in questo ambito è emblematica. L'Italia è scientificamente all'avanguardia. Già alla fine del 2000, infatti, aveva indicato una sua via alla clonazione terapeutica attraverso il lavoro della Commissione Dulbecco di cui facevano parte, insieme con il grande genetista premio Nobel, scienziati come Rita Levi Montalcini, altro premio Nobel, Claudio Bordignon del San Raffaele e Piergiuseppe Pelicci dello Ieo di Milano.
La commissione ha individuato la possibilità tecnica per ottenere cellule staminali senza dover produrre embrioni e, eventualmente, utilizzando gli embrioni sovrannumerari, destinati cioè a essere letteralmente "buttati", per curare malattie gravi. Si tratta del "trasferimento nucleare di cellule staminali autologhe" e consiste nel privare del nucleo un ovocita umano non fecondato e nel trasferire al suo interno il nucleo prelevato da cellule di un malato.
Grazie a questo impianto, nell'ovocita si sviluppano cellule staminali con un patrimonio genetico identico a quello del donatore, quindi cellule perfettamente sane. In questo modo si evita la necessità di produrre un embrione con i problemi etici e scientifici che questo comporta. Si tratta d'una proposta tecnicamente molto avanzata, eticamente equilibrata e con altissime probabilità di efficacia terapeutica per malattie altrimenti incurabili.
I risultati della commissione furono accolti con favore sia dal mondo politico sia dagli ambienti scientifici, ma quel documento è rimasta una carta teorica, nulla è stato fatto sul piano concreto e attuativo. Quattro anni dopo il mondo discute e si divide, come è giusto e inevitabile che sia in questi casi, su una scelta presa da un altro paese. È come se avessimo subìto un sorpasso sulla linea del traguardo, uno smacco che rappresenta per chi, come me, fa della ricerca una ragione di vita, una grande amarezza, una frustrazione. C'è da augurarsi che l'importante decisione di Londra riapra anche da noi un confronto serio sui limiti dell'intervento della scienza nella vita dell'uomo, per curare le sue malattie e la sua sofferenza, Con serenità e senza scientismi, ma al di là delle ideologie e di chiusure che rischiano di farci precipitare in un nuovo oscurantismo.

La Repubblica MERCOLEDÌ 11 AGOSTO 2004
la laurea di Marx un classico del '900
uno scritto impregnato di hegelismo e romanticismo
Il suo saggio universitario su Epicuro e Democrito
di MAURO VISENTIN


Questo breve scritto del giovane Marx, emerso per iniziativa di Franz Mehring dagli archivi della Socialdemocrazia tedesca all'inizio del secolo scorso e che ci viene ora riproposto in italiano (con testo originale a fronte) dalla casa editrice Bompiani (pagg. 264, euro 10,50), non è altro che la sua tesi di laurea. L'argomento - rappresentato, come recita il titolo, dalla Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro - spiega l'interesse che esso riveste: se il futuro padre del "materialismo storico" si è sentito attratto dal tema del materialismo antico già da studente, fino al punto di scegliere il confronto fra i suoi due esponenti più significativi come argomento per la propria dissertazione di laurea, la cosa non suscita semplice curiosità, ma è inevitabile che sia letta come una sorta di premonizione. Benché la scelta, venendo dal fondatore prossimo venturo di un movimento politico destinato ad assumere dimensioni mondiali, possa forse sorprendere per il suo accademismo. Ma chi conosce Marx sa che la passione per l'età e la cultura antica è sempre stata molto viva in lui, che amava rileggere i classici, soprattutto gli storici, da Tucidide ad Appiano, nel testo greco originale. Degno figlio, in questo, di un ambiente filosofico che aveva fatto, della classicità, soprattutto di quella greca, un paradigma con il quale era necessario e imprescindibile confrontarsi.
D'altra parte, il mondo universitario berlinese di questo scorcio di XIX secolo è ancora saturo di umori hegeliani (siamo nel 1841: Hegel è morto da una decina d'anni) e lacerato dalle dispute degli allievi del filosofo di Stoccarda, divisi sull'interpretazione del rapporto fra religione e filosofia e sul modo di intendere la relazione del pensiero filosofico con la storia politica della Germania pre-guglielmina. Marx sta con quelli (la cosiddetta sinistra hegeliana) che considerano irrilevante il ruolo della religione e non già realizzata ma da realizzare la coincidenza, proclamata da Hegel, di realtà (politica) e razionalità. In questa prospettiva è a Epicuro che egli guarda, più che a Democrito, contro il canone allora imperante che vedeva nel primo un semplice ripetitore del secondo, ad esso inferiore per coerenza e profondità filosofica. Ma Epicuro consentiva a Marx di coniugare il materialismo con la libertà dell'individuo autocosciente, abbinando, alla necessità democritea, l'imprevedibilità del caso (il ben noto clinamen lucreziano). In più, gli dei di Epicuro, disinteressati ai destini degli uomini e indifferenti alle vicende che li riguardano, permettono al giovane interprete radicaleggiante di vedere nella loro irresponsabilità rispetto al mondo un modo quasi illuministico di ridimensionare il ruolo pubblico della religione, declassandola a mito. Con tutto questo, lo scritto è ancora impregnato di hegelismo, di romanticismo prometeico, di individualismo cosmopolitico. Scorie destinate, attraverso la decantazione degli anni, a sparire dall'orizzonte del Marx maturo? Fino ad un certo punto. E non solo perché di tutti questi aspetti rimarranno, comunque, tracce significative anche nella sua produzione più tarda, ma per una ragione di maggior peso, che ha a che fare meno con la sua formazione che con la sua disposizione spirituale. In fondo, se si guarda al modo in cui, nella filosofia di Epicuro, entrano in gioco l'accidentale e il rapporto che lo lega alla libertà, e se insieme si tiene presente la totale esclusione, dal suo orizzonte, di qualsiasi destino o disegno recondito e provvidenziale operante nel mondo e nella storia, si può scorgere, in essa, uno dei pochi casi in cui, da parte di un greco, non si è tentato di imporre, all'apparenza sensibile e alla vita vissuta, la pesante armatura di un principio astratto, in grado di assicurare che i conti, alla fine, tornino sempre e comunque.
Ma questo aspetto della filosofia epicurea sfugge interamente al giovane Marx, che vi intravede o crede di intravvedervi, tutto al contrario, la possibilità di conciliare la libertà dell'individuo con la necessità meccanica di un principio materiale, il mutamento con la verità oggettiva di ciò che appare e, negli uomini, il pensiero con il modo di condursi nella vita. Insomma, anche attraverso l'esame di un sistema filosofico così poco adatto ad illuminare quei tratti del mondo che dovrebbero consentire di scorgervi le tracce di un destino razionale, Marx lascia già percepire che il suo impegno futuro sarà pur sempre quello di mettere d'accordo scienza e utopia, passato e avvenire, volontà e necessità.

La Repubblica LUNEDÌ 9 AGOSTO 2004 › CULTURA
Mostre
In mostra a Rodi ceramiche dal VII al V secolo a.C.


RODI - Sbarca a Rodi la mostra “Ta Attika - Veder greco a Gela. Da Rodi a Gela tra VII e V sec. a. C.”. Quasi 200 oggetti archeologici tra ceramiche e manufatti metallici provenienti da Gela e dalla madre patria Rodi sono esposti fino al 30 settembre nel museo di Palazzo dei Magisteri. La mostra è organizzata, nell'ambito dell'anno siciliano dell'archeologia, dalla soprintendenza dei Beni culturali e ambientali di Caltanissetta ed è stata curata scientificamente da Rosalba Panvini in collaborazione con Aggeliki Gianna Kouri, direttore dell'Istituto Archeologico di Studi Egei di Rodi. L'iniziativa è stata finanziata dalla Comunità Europea. Il materiale archeologico, esposto secondo un accurato criterio scientifico, illustra i rapporti tra Gela e Rodi, l'isola da cui provenivano i fondatori della colonia siciliota, condotti da Antifemo e accompagnati anche da un gruppo di cretesi sotto la guida di Entimo. Nei due secoli che seguirono la fondazione della grande colonia greca di Gela, i rapporti tra questa e la madre patria furono segnati non solo da importazione di oggetti tipici delle officine dell'isola del Dodecanneso, ma anche da imitazioni realizzate da abili artigiani della colonia di Gela.

La Repubblica LUNEDÌ 9 AGOSTO 2004
SE L'IDENTITÀ È UN'OPINIONE
La fragilità della coscienza
Che cosa significa restare se stessi quando tutto quello che succede cambia?
Spesso il rapporto con l'altro è percepito come una minaccia che indebolisce l'immagine che abbiamo di noi, sia a livello individuale che collettivo
Il nostro rapporto difficile co il tempo giustifica il ricorso alla memoria
di PAUL RICOEUR


Che cosa rende fragile l'identità? Come prima causa di tale fragilità occorre menzionare il suo rapporto difficile col tempo; difficoltà primaria che giustifica il ricorso alla memoria come componente temporale dell'identità, insieme con la valutazione del presente e con la proiezione del futuro. Questo rapporto col tempo è fonte di difficoltà in ragione del carattere equivoco della nozione di “medesimezza”, implicita in quella di “identità”. Che significa, infatti, restare lo stesso attraverso il tempo?
A livello individuale abbiamo imparato dalla psicoanalisi quanto è difficile ricordare e affrontare il proprio passato. Il soggetto è in preda a traumi, a ferite affettive; e la sua tendenza, osserva Freud in un saggio famoso intitolato Ricordare, ripetere e rielaborare (Erinnern, Wiederholen, Durcharbeiten), è di cedere alla coazione a ripetere che Freud attribuisce alle resistenze della rimozione. Ne risulta che il soggetto ripete i suoi fantasmi anziché elaborarli: cosa ancora più grave, li lascia passare all'atto in gesti che minacciano lui stesso e gli altri. L'analogia a livello della memoria collettiva è evidente: le memorie dei popoli sono memorie ferite, ossessionate dal ricordo delle glorie e delle umiliazioni di un lontano passato. Ci si può anche stupire e inquietare del fatto che la memoria collettiva presenti una versione caricaturale di tali accessi di coazione a ripetere e di passaggio all'atto nella forma ossessiva di un passato che ritorna senza fine. È necessario persino riconoscere che è più difficile realizzare il lavoro della memoria a livello collettivo che a quello individuale e che in questo caso non hanno equivalenti le possibilità offerte dalla terapia analitica.
Quale sarebbe, infatti, a livello collettivo, il corrispondente del transfert? Cosa equivarrebbe al colloquio analitico? Chi farebbe da analista? Chi potrebbe dirigere il lavoro di rielaborazione, di working through? La questione diventa ancora più inquietante se si aggiunge all'idea di lavoro di memoria quella di lavoro di lutto. Quest'ultimo, dice un altro saggio di Freud, consiste nel trattamento emotivo della perdita dell'oggetto di amore e dunque anche di un oggetto d'odio. Il soggetto è invitato a rompere uno a uno i legami che risultano dai suoi investimenti libidici sotto la dura costrizione del principio di realtà, opposto al principio del piacere.
È questo il prezzo da pagare per un disinvestimento liberatore; altrimenti il soggetto è spinto sulla china che dal lutto lo conduce alla melanconia, alla depressione, dove alla perdita dell'oggetto si aggiunge quella della stima di sé, di quella Ichgefühle di cui parla Freud. A tal proposito un'osservazione di questo saggio deve metterci in guardia: parlando dei soggetti melanconici, Freud dice che “i loro lamenti sono accuse” (ihre Klagen sind Anklagen). È come se l'odio di sé si mutasse in odio per altri nella chimica funesta della melanconia. Da tale analisi risulta che il lavoro che la memoria compie su se stessa non è disgiunta da un lavoro di lutto, che non si limita al rimpianto passivo, ma consiste in una elaborazione della perdita, spinta fino alla riconciliazione con l'oggetto perduto al termine della sua compiuta interiorizzazione.
I paralleli a livello della memoria collettiva non mancano; la nozione di oggetto perduto trova un'applicazione immediata nelle perdite che investono tanto il potere che il territorio e le popolazioni, che costituiscono la sostanza di uno Stato. Le difficoltà di elaborare il lutto sono a questo livello più gravi che a livello individuale. Donde il carattere equivoco delle grandi celebrazioni funebri nelle quali un popolo straziato si raduna. E la frase “ihre Klagen sind Anklagen” suona qui sinistra. Il fatto inquietante è che la memoria delle ferite è più lunga e tenace a livello collettivo che individuale; gli odi sono millenari e inconsolabili. Donde l'impressione di eccesso che essi offrono: qui troppa memoria, là troppa dimenticanza.
La stessa memoria ripetitiva, la stessa memoria melanconica conduce gli uni al passaggio all'atto che si manifesta in violenze che non restano solo simboliche, gli altri a rimuginare in modo doloroso sulle antiche ferite. È a livello della memoria collettiva più ancora che a quello della memoria individuale che l'intersezione fra il lavoro di lutto e quello del ricordo assume tutto il suo senso. Trattandosi di ferite all'amor proprio nazionale, si può parlare a giusto titolo d'oggetto d'amore perduto. È sempre con delle perdite che la memoria ferita è costretta a confrontarsi. Ciò che essa non sa fare è il lavoro che la prova della realtà le impone: l'abbandono degli investimenti mediante i quali la libido non cessa di essere connessa con l'oggetto perduto, finché la perdita non sia stata definitivamente interiorizzata. Ma è anche il luogo di sottolineare che tale sottomissione alla prova della realtà, costituiva del vero lavoro di lutto, fa anche parte del lavoro del ricordo.
Menzionerò ora una seconda fonte di fragilità dell'identità: il confronto con l'altro avvertito come una minaccia. È un dato di fatto che l'altro, in quanto altro, viene percepito come un pericolo per la propria identità, per l'identità nostra, collettiva, come per l'identità mia, individuale. Possiamo stupircene, certo: dobbiamo ammettere, allora, che la nostra identità è fragile al punto da non poter sopportare, da non poter tollerare che altri abbiano dei modi diversi dai nostri di organizzare la propria vita, di comprendersi, d'iscrivere la loro propria identità nella trama del vivere insieme? È così. Sono appunto le umiliazioni, le ferite reali o immaginarie alla stima di sé, sotto i colpi dell'alterità mal tollerata, che conducono dall'accoglienza al rigetto, all'esclusione, il rapporto che il sé intrattiene con l'altro.
È possibile spingere più a fondo l'analisi di tale reazione ostile nei confronti dell'altro? Possiamo forse trovare una radice biologica nelle difese immunitarie dell'organismo, come si vede nel rigetto dell'intruso nel caso dei trapianti; l'organismo difende violentemente la propria identità, con due eccezioni che sono qualcosa di più che delle eccezioni, il cancro e la gestazione dell'embrione. Riguardo a ciò, l'Aids rappresenta un esempio sconvolgente dell'astuzia dell'intruso che negozia il superamento delle barriere immunitarie. Succede qui qualcosa alle frontiere della cellula e dell'organismo: vi si svolgono delle operazioni di riconoscimento e d'identificazione, regolate da codici precisi. Tali difese identitarie assumono delle forme propriamente umane allorché interviene il fenomeno del linguaggio. Nonostante i successi relativi della traduzione e degli scambi linguistici, le lingue non sono ospitali le une nei confronti delle altre. Accade a questo livello qualcosa di paragonabile alle difese immunitarie a livello biologico; il linguaggio costituisce appunto la mediazione essenziale tra la memoria e il racconto; le memorie si articolano in racconti: Hannah Arendt sostiene da qualche parte che racconto dice il “chi” dell'azione. Ora il racconto contribuisce facilmente all'avvitarsi di una memoria su se stessa; i miei ricordi non sono i vostri; casomai, escludono i vostri.
Per complicare le cose, al sentimento di minaccia che proviene da un'alterità mal tollerata, s'aggiunge la relazione d'invidia che ostacola in misura non minore il riconoscimento dell'altro; l'invidia, dice un dizionario, consiste in un sentimento di tristezza, d'irritazione e di odio contro chi possiede un bene che a noi manca. L'invidia rende intollerabile la felicità degli altri. Alla difficoltà di condividere l'infelicità, s'aggiunge il rifiuto di condividere la felicità. Occorrerebbe qui mostrare come al lato passivo dell'invidia come forma di tristezza s'aggiunga il lato attivo della rivalità nel possesso; su tale desiderio di godere d'un vantaggio, d'un piacere eguale a quello d'un altro, René Girard costruisce la sua teoria della mimesis e la sua interpretazione del fenomeno del capro espiatorio come esito della rivalità mimetica e risultato della riconciliazione di tutti contro uno.
Questi fenomeni di difesa, di rigetto, d'invidia c'invitano a varcare la distanza che c'è fra identità individuale e identità collettiva; il fenomeno di base è quello del carattere minaccioso per l'integrità del sé rappresentato dalla semplice esistenza d'un altro, diverso da me. Tale minaccia arriva ad assumere una dimensione smisurata a livello collettivo. Anche le collettività hanno un problema di difesa immunitaria, quasi biologica. È appunto a questo livello di grande dimensione che si lasciano leggere fenomeni che non hanno affatto equivalenti, sul piano personale, se non per l'inversione del transfert dal piano collettivo a quello dell'identità personale. Si tratta di fenomeni di manipolazione che si possono attribuire a un fattore inquietante e multiforme che si frappone fra la rivendicazione identitaria e le espressioni pubbliche della memoria.
Questo fenomeno ha un legame stretto con l'ideologia, il cui meccanismo resta volentieri dissimulato; a differenza dell'utopia, con la quale l'ideologia suole essere accoppiata, esso rimane inconfessabile; si maschera trasformandosi in denuncia contro gli avversari nella competizione fra ideologie; è sempre l'altro che s'infogna nell'ideologia. Inoltre, questo fenomeno opera a molteplici livelli. Al livello più vicino all'azione, esso costituisce una strategia di cui non si può fare a meno, in quanto mediazione simbolica derivante da una “semiotica della cultura”; è a questo titolo di fattore d'integrazione che l'ideologia può giocare il ruolo di guardiana dell'identità. Ma tale funzione di salvaguardia non vale senza delle manovre di giustificazione in un sistema dato d'ordine o di potere, sia che si tratti delle forme di proprietà, che di quelle della famiglia, dell'autorità, dello Stato, della religione. Tutte le ideologie, in definitiva, ruotano attorno al potere. Di là si passa facilmente ai fenomeni più appariscenti di distorsione della realtà di cui gli avversari amano accusarsi reciprocamente.

La Repubblica DOMENICA 8 AGOSTO 2004
I DATI DI UNA RICERCA PUBBLICATI SU UNA PRESTIGIOSA RIVISTA
Se picchiare i bambini diventa normale
Il 76% delle famiglie ricorre a punizioni fisiche, si legge su "Child Abuse and Neglect"
di MASSIMO AMMANITI


La stampa e gli altri mezzi di comunicazione hanno dato ampio spazio negli ultimi tempi agli abusi e alle violenze nei confronti dei bambini. Ma quanto sono diffusi i comportamenti violenti degli adulti, si tratta di manifestazioni isolate oppure ci troviamo di fronte ad una epidemia sociale? Si obietterà che gli organi di informazione tendono di per sé ad amplificare la gravità del fenomeno. Dati alla mano, forse si può cercare di definire meglio quanto siano diffuse le violenze, anche se il confine fra abuso vero e proprio e il ricorso a punizioni fisiche da parte dei genitori non è sempre così chiaro. A questo proposito una ricerca effettuata in Toscana, e recentemente pubblicata su una prestigiosa Rivista Scientifica Child Abuse and Neglect, ha messo in luce che le punizioni fisiche continuano ad essere usate nel 76% delle famiglie intervistate quando ci si trovi di fronte a conflitti con i figli oppure fra gli stessi coniugi. Sembra proprio che in Italia il famoso pediatra americano Benjamin Spock non sia mai entrato e valga ancora oggi il detto napoletano “mazze e panelle fanno i figli belli”.
Indubbiamente quando si fanno delle indagini sociali non è detto che i dati riflettano esattamente il fenomeno, potrebbe risultare sottodimensionato oppure addirittura dilatato. La storia dell 'abuso è emblematica a questo proposito. Fino a qualche decennio fa l'abuso e il maltrattamento dei bambini non erano presenti nella coscienza sociale. C'erano stati, si, processi a genitori o ad istitutrici per maltrattamento e sevizie, ma erano episodi isolati che non scalfivano la convinzione che i genitori fossero ampiamente legittimati a far ricorso a punizioni fisiche, anche molto severe.
Gli stessi medici non erano in grado di riconoscere che le emorragie cerebrali e le fratture ossee ripetute nei bambini fossero le conseguenze di maltrattamenti. Si pensava che questi bambini potessero essere affetti da una fragilità costituzionale, come si può leggere in una Rivista radiologica internazionale del 1946. I medici, pur individuando i danni fisici dei bambini, non potevano concepire che esistessero dei genitori che si comportavano in modo così violento verso i propri bambini indifesi. Eppure Freud, già nel 1925, aveva spiegato l'esistenza del meccanismo psicologico del diniego, che consente di cancellare la percezione di ciò che appare disturbante. Il fenomeno del maltrattamento dei bambini è avviluppato da una rete sociale che lo nasconde agli occhi di tutti. È la tesi costruzionistica del filosofo Ian Hacking che nel suo libro La riscoperta dell'anima afferma che l'abuso “è un vero male, ed era così prima che il concetto fosse costruito. Ciò non di meno è stato costruito”.
La realtà dell'abuso ritorna in primo piano dopo la lunga amnesia storica nel 1962 per merito del pediatra americano Kempe, che lo riporta alla luce definendolo “sindrome del bambino battuto”. Le fratture, le lesioni, le emorragie non sono una malattia del bambino ma sono la conseguenza delle percosse degli adulti. E viene azzardata una stima: circa 1000 bambini sarebbero vittime ogni anno di maltrattamenti negli Stati Uniti. L'abuso dei bambini comincia a richiamare l'attenzione sociale, anche se si tratta di un fenomeno molto circoscritto, si ritiene provocato da genitori sicuramente malati. E la ricerca non può che riflettere questi orientamenti indagando la psiche malata dei genitori. Disturbi psichiatrici, disturbi della personalità, mancanza di controllo degli impulsi, bassa tolleranza alle frustrazioni? In realtà è difficile comprendere quello che succede in queste famiglie e i dati di ricerca sono piuttosto contraddittori.
Ma una volta riconosciuto l'abuso a livello medico diventa un tema di interesse per la stampa e la televisione e vi è un'attenzione crescente da parte dell'opinione pubblica. I dati di Kempe sembrano totalmente inadeguati, l'abuso negli USA assume il carattere di una vera epidemia sociale. Nel 1993 le stime americane parlano di circa 3 milioni di bambini vittime di maltrattamenti fisici, abusi sessuali, gravi trascuratezze. La ricerca in questo campo è costretta ad adottare modelli concettuali diversi: non si tratta di genitori pazzi ma occorre scavare nella vita delle famiglie che si trovano in condizioni sociali e psicologiche difficili che reagiscono facilmente alle contrarietà e alle privazioni comportandosi in modo impulsivo e violento. Questo è il terreno in cui può verificarsi l'abuso, anche se non è una regola obbligatoria. Devono verificarsi altre condizioni che fanno precipitare la situazione e a volte il bambino provoca involontariamente la violenza dei genitori con la propria irrequietezza oppure col proprio rifiuto del cibo.
Siamo giunti ai nostri giorni e il pericolo è quello di una nuova costruzione sociale: è entrato nella vita di ogni giorno e non è infrequente che nelle cause di separazione il padre possa essere accusato di aver abusato dei figli. Il discorso diventa complesso: esiste la realtà dell'abuso, che nei primi anni di vita, quando il cervello viene fisicamente plasmato dall'esperienza, può lasciare dei segni indelebili sulla sua struttura e sulle sue funzioni. Ad esempio si è visto che una struttura cerebrale come l'ippocampo, che funziona da “organizzatore cognitivo” essenziale nello sviluppo del senso di sé nel tempo e nello spazio, può essere ridotto di dimensioni, di circa il 16% nelle donne che hanno una storia di maltrattamenti infantili. Ma non ci sono solo alterazioni cerebrali esiste anche una rete sociale che lo avvolge e inevitabilmente ne condiziona la percezione e la stessa espressione. È l'interrogativo che ogni professionista si dovrebbe porre ogni volta in cui ci sia il sospetto di un abuso, non dimenticando che, come scrisse Freud nel suo saggio “Un bambino viene picchiato”, possono prendere forma nella mente individuale fantasie di essere picchiati da un adulto.
E mentre in alcune situazioni corrispondono ad una tragica esperienza personale, in altre situazioni si tratta di fantasie che nascono nella mente di un bambino e che possono riflettere pensieri o parole degli adulti o anche soltanto immagini viste in televisione. La mente umana è sicuramente più complessa delle nostre teorie.


La Repubblica 31-07-04
una segnalazione di Dina Battioni
innamorati come topi di prateria
Uno studio pubblicato sul 'Journal of Comparative Neurology' trova curiose affinità tra l' uomo e i roditori La ricerca si sta sempre più indirizzando a studiare i processi biochimici e ormonali che si celano dietro al sentimento Secondo alcuni studiosi la passione amorosa può essere considerata una vera e propria forma di dipendenza I versi latini di Catullo svelano meglio del linguaggio della chimica i meccanismi eterni del gioco delle relazioni
MASSIMO AMMANITI


«Dobbiamo riconoscere che c'è ancora qualcosa di inspiegato, di mistico» con queste parole Freud, nel 1921, commenta i limiti della teoria psicoanalitica a comprendere pienamente il significato dell'amore. E a conferma del carattere inafferrabile dell'amore potremmo ricordare le poesie, le canzoni, i racconti e i romanzi che nel corso dei secoli hanno riproposto parole ed immagini sostanzialmente uguali per descrivere i turbamenti amorosi, tuttavia ogni volta con accenti e sfumature nuove. Anche nel linguaggio quotidiano sono state coniate frasi illuminanti come, ad esempio, l'attrazione chimica fra due innamorati che spiega bene il carattere travolgente e addirittura magnetico dell'innamoramento. E a proposito di chimica dell'amore anche la ricerca si sta sempre più indirizzando a studiarne i processi biochimici ed ormonali, i cui risultati vengono diffusi fra i lettori dei giornali dimenticando troppo spesso che le osservazioni fatte fra gli animali sono difficilmente trasferibili all'uomo. Nonostante il riconoscimento di questi limiti è senz'altro interessante leggere un articolo scientifico comparso sul Journal of Comparative Neurology in cui vengono riportate le osservazioni sui legami amorosi dei topi della prateria, che a differenza dei cugini di montagna sono fondamentalmente monogami, qualità abbastanza rara intorno al 3% dei mammiferi. Quando due topi della prateria sentono un'attrazione reciproca si accoppiano addirittura per un giorno intero e poi inizia una relazione che durerà tutta la loro vita. La coppia di topolini passa tutto il tempo insieme, pulendosi vicendevolmente e preparando la tana sotterranea per i piccoli, di cui si occuperanno entrambi. Diverso è il comportamento dei topi di montagna: dopo l'accoppiamento ognuno riprende la sua strada, forse alla ricerca di un altro partner. Ma perché tante differenze nel comportamento se queste due famiglie di topi condividono il 99% del patrimonio genetico e solo una manciata di geni li differenzia? I ricercatori hanno cominciato a studiare i topi della prateria e si è visto che durante l'accoppiamento vengono liberati due ormoni ben noti, l'ossitocina e la vasopressina. Il passo successivo è stato quello di bloccare la secrezione dei due ormoni negli stessi topi, che sono diventati anche loro infedeli come i cugini di montagna. In un ulteriore esperimento si sono iniettati nei topi della prateria i due ormoni, evitando che si accoppiassero. Anche in questo caso la relazione proseguiva per tutta la vita. E allora iniettando i due ormoni nei topi di montagna che succede? Nonostante le attese i topi rimangono infedeli impenitenti. A questo punto si è scoperta la chiave delle differenze, i topi della prateria hanno dei recettori cerebrali specifici per gli ormoni che si trovano in una regione dove sono attivi i centri per la gratificazione, in cui si produce un neurotrasmettitore, la dopamina. I cugini al contrario non hanno questi recettori e pertanto non possono utilizzare i due ormoni. Passando ora all'uomo, si è visto con tecniche di visualizzazione cerebrale che le persone innamorate presentano l'attivazione di una particolare area del cervello, in cui si genera l' euforia provocata dalla cocaina. Una domanda è quasi inevitabile: l'innamoramento non può essere una forma di addiction, ossia di dipendenza ? Risposte interessanti si trovano in un libro americano (Why we love, Holt and Company, pagg. 301, $ 25) di un'antropologa Helen Fisher. Nel libro viene distinto il desiderio sessuale dall'amore romantico e dall' attaccamento. Il desiderio costituirebbe una spinta primordiale che ti travolge mentre guidi la macchina, guardi la televisione oppure leggi un libro. E questo mood sessuale è scatenato da un neurotrasmettitore, la dopamina, che interagisce con la serotonina e le sostanze oppioidi naturali, equivalenti all'eroina. E a volte da questa eccitazione può nascere l'amore romantico, che comporta uno stato di grazia ossia di esaltazione, con pensieri insistenti, non così lontano da quello che succede nelle nevrosi ossessivo-compulsive. Ma anche questa particolare ed esaltante condizione cambia e si trasforma in un amore più tranquillo e profondo che si lega ad un sentimento di protezione e di stabilità, quello che viene definito il reciproco attaccamento. Solo più recentemente si è scoperto che è sostenuto dai due ormoni che abbiamo visto nei topi della prateria, ossia la vasopressina e l'ossitocina. Naturalmente l'interazione fra queste sostanze è ben più complessa e possono crearsi reciproci potenziamenti ed inibizioni, con particolari risposte e configurazioni individuali. Se la Fisher ritiene che siano in gioco diversi sistemi motivazionali e circuiti cerebrali nel desiderio, nell' amore e nell' attaccamento di parere diverso è la psicologa Grazia Attili, autrice del libro Attaccamento e amore (Il Mulino, pagg. 137, euro 8). Facendo riferimento all'evoluzionismo e alla teoria dell'attaccamento, quest'ultima formulata dallo psicoanalista inglese John Bowlby alla fine degli anni '60, Attili sostiene, in modo rassicurante, che non vi è un contrasto fra desiderio, amore ed attaccamento. Addirittura sarebbe l'attaccamento il filo di continuità che unisce la coppia prima da amanti e poi come coniugi. Le differenze emotive sarebbero pertanto funzionali al buon andamento della relazione e al benessere della coppia. L'amore sarebbe il sinonimo dell'attaccamento, legame che si è selezionato nella storia della specie ed avrebbe le sue radici nel cervello, non così distante dall'amore fra figlio e madre. Le obiezioni sono molte, in primo luogo quelle dello psicoanalista inglese Peter Fonagy secondo cui la reciproca protezione, ossia l'attaccamento, non è sempre la molla che tiene unita una coppia. E un'altra obiezione sorge dall'osservazione che il desiderio, l'amore e l'attaccamento non vanno sempre nella stessa direzione e addirittura possono indirizzarsi verso tre persone diverse. Molte domande rimangono inevitabilmente senza risposta. Sicuramente il linguaggio poetico più del linguaggio della chimica ci consente di cogliere il gioco amoroso, come ad esempio nei versi di Catullo, il poeta latino dell'amore: «tale è lo sterminato numero di baci che devi dare a Catullo, pazzo d'amore, perché si senta sazio e nauseato».


ARTICOLI DI UMBERTO GALIMBERTI
apparsi su Repubblica dal 28 Luglio a oggi

(chi ne volesse qualcuno li può richiedere)

1. Cercando un rapporto senza ieri né domani
La prostituzione viene in genere considerata inevitabile mentre è un fossile della nostra cultura della nostra cultura Ci ricorda Lévi-Strauss che le società antiche vendevano e comprava le donne e che la nostra non è da meno specchio della condizione maschile sintonia perfetta tra sesso e moneta
UMBERTO GALIMBERTI
27-08-04, pag. 35, sezione CULTURA

2. L' ANGOSCIA DEL ' 900
UMBERTO GALIMBERTI
23-08-04, pag. 1, sezione PRIMA PAGINA

3. Fu l' età dei Lumi a condannare la pratica del biblico Onan
La sessualità non è carne , è desiderio e il desiderio quando è voluto per se stesso reca in sé la sua sconfitta La mitologia greca aveva addirittura divinizzato la masturbazione protetta addirittura da Pan David Tissot scrisse due trattati su presunti dann si alimenta soprattutto attraverso la pornografi
UMBERTO GALIMBERTI
21-08-04, pag. 37, sezione CULTURA

4. Quelle pulsioni distruttive che sono dentro di noi
Le differenze tra i sessi e tra le generazioni vengono abolite e nell' universo caotico trionfa l' onnipotenza Dall' esibizionismo al voyeurismo al sadomasochismo le forme della sessualità che negano l' altro L' aspirazione di rompere ogni principio d' ordine un legame stretto tra l' erotismo e la morte
UMBERTO GALIMBERTI
14-08-04, pag. 41, sezione CULTURA

5. come trovare un' etica moderna
UMBERTO GALIMBERTI
12-08-04, pag. 1, sezione PRIMA PAGINA

6. Ai tempi del desiderio quel che resta della vergogna
L' invasione dei media rende pubblici i sentimenti attraverso sondaggi, statistiche, confessioni in diretta Nella società di massa sottrarre agli individui la loro intimità vuol dire gestirli più comodamente il fascino di una discrezione che è identità l' angoscia di essere funzionari della specie
UMBERTO GALIMBERTI
04-08-04, pag. 43, sezione CULTURA

7. Nel cognome della madre
UMBERTO GALIMBERTI
28-07-04, pag. 1, sezione PRIMA PAGINA

creatività

La Stampa TTL 1/9/2004
FESTIVAL A SARZANA
Obiettivo: creare creatività


A Sarzana dal 3 al 5 settembre si svolgerà il «Festival della Mente», che poi, a leggere la presentazione e una buona parte del programma, più precisamente si propone come il festival della creatività. Lo annunciano i titoli degli interventi del biologo Edoardo Boncinelli, del matematico Piergiorgio Odifreddi e dello scrittore Vincenzo Cerami. Che li ospiti Sanremo, Castrocaro, Mantova o Sarzana, dei festival conviene diffidare, ma in effetti di creatività l’Italia ha un gran bisogno. Non quella modaiola della signora Versace né quella finanziaria di Tremonti o gastronomica di Vissani. Serve creatività scientifica, tecnologica, imprenditoriale. Serve soprattutto una creatività capace di generare creatività. A questo obiettivo dovrebbero puntare soprattutto la scuola e l’ambiente sociale che circonda i giovani. Purtroppo non è così. La nostra scuola, anzi, sembra fatta apposta per ingabbiare le menti, non per liberarle. E’ strano, ma la creatività è tra i temi di ricerca meno indagati. Mentre sono decine gli studiosi che hanno applicato la loro genialità alla fisica, alla biologia, alla matematica, anche alle neuroscienze, non si conosce un genio che si sia dedicato a capire la genialità. Persino la fenomenologia è incerta. Il creativo è molto intelligente o è un esaltato, un depresso, un folle? L’immagine popolare del genio pende più verso la stravaganza che verso l’intelligenza: ci sarà del vero? Si può leggere «Anatomia del genio» di Michael Howe (il Saggiatore, 254 pagine, 16 euro) ed entrare nell’intimità di scienziati come Darwin, Faraday ed Einstein o scrittori come Dickens senza trovare una risposta convincente. Neppure «Essere creativi» (ed. Il Sole-24 Ore)di Edward De Bono, guru del pensiero creativo, va oltre una serie di consigli tecnici, e «La Créativité» di Michel-Louis Rouquette (Presse Universitaires de France) si limita a un tentativo di definizione e ad una classificazione delle varie forme di creatività. Di De Bono è tuttavia illuminante il concetto di «pensiero laterale»: la creatività consiste nel saper guardare le cose da un punto di vista diverso. Spingendoci oltre, si può notare che spesso non basta la lateralità: occorre la divergenza, o addirittura il rovesciamento del punto di vista. La divergenza, però, non deve essere quella del folle, ma piuttosto quella di chi è vergine rispetto al problema da risolvere creativamente: è la divergenza del candore, l’ingenuità del bambino che vede l’imperatore nudo (anche se lo ha vestito la signora Versace), la verginità di chi non ha subito i condizionamenti accademici. Murray Gell-Mann, «inventore» dei quark e premio Nobel per la fisica, porta l’esempio illuminante di quei tecnici che, dovendo fare una legge a tutela dell’ambiente, stilavano un lungo elenco su come le acque dei fiumi utilizzate dalle industrie dovessero essere restituite dopo l’uso: temperatura non variata di oltre un grado, limiti di acidità, metalli pesanti sotto una parte per milione etc.; quando l’elenco delle norme era ormai di molte pagine, al punto da rendere inapplicabile la legge, interviene uno che era sempre stato zitto: «E se la legge avesse un solo articolo: “chi usa l’acqua di un fiume deve prelevarla a valle del proprio stabilimento e restituirla a monte”?». Ecco il rovesciamento del punto di vista. Ora le domande sono due. La prima: come si può creare creatività? La seconda: è possibile con le nuove tecniche di imaging cerebrale (risonanza magnetica funzionale e tomografia a emissione di positroni) verificare che cosa succede in un cervello quando crea? Sul primo punto possono dirci qualcosa le tecniche di ristrutturazione cognitiva, lo studio degli ambienti creativi e l’analisi storica. Scopriremo, probabilmentee, che solo l’1 per cento della genialità è ispirazione, il resto è traspirazione (cioè cultura, esposizione al giusto ambiente, metodo, fatica) ma proprio quell’1% ci interessa. Quanto al secondo punto, mi accontenterei di vedere le reazioni di un cervello mentre capisce una barzelletta. L’umorismo è puro rovesciamento del punto di vista.

la bellezza

una segnalazione di Roberta Russo, del 29 Luglio 04

«A Chieti è stata eletta Miss Università e studia Psicologia!!»

dalla Gazzetta Ufficiale
la "Giornata della salute mentale", il volontariato, l'associazione IDEA

una segnalazione di Livia Profeti del 29 Luglio 04

DIRETTIVA DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 25 giugno 2004

Indizione della «Giornata nazionale della salute mentale». (GU n. 174 del 27-7-2004)


IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

Vista la legge 23 dicembre 1978, n. 833, recante «Istituzione del Servizio sanitario nazionale», ed in particolare l‘art. 2, comma 2, lettera a), secondo il quale il Servizio sanitario nazionale persegue «la tutela della salute mentale privilegiando il momento preventivo e inserendo i servizi psichiatrici nei servizi sanitari generali in modo da eliminare ogni forma di discriminazione e di segregazione pur nella specificita’ delle misure terapeutiche, e da favorire il recupero e il reinserimento sociale dei disturbati psichici»; Vista la legge 23 agosto 1988, n. 400, recante «Disciplina dell‘attivita’ di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri» ed in particolare l‘art. 5, comma 2, lettera a); Visto il decreto del Presidente della Repubblica in data 10 novembre 1999, recante «Approvazione del progetto obiettivo Tutela salute mentale 1998-2000», nel quale si prevede, tra l‘altro, «l‘effettuazione di iniziative di informazione, rivolte alla popolazione generale, sui disturbi mentali gravi, con lo scopo di diminuire i pregiudizi e diffondere atteggiamenti di maggiore solidarieta»; Visto il decreto del Presidente della Repubblica in data 23 maggio 2003 recante «Approvazione del Piano sanitario nazionale 2003-2005», che al punto 6.3 pone, tra gli obiettivi prioritari in materia di salute mentale, «la promozione dell‘informazione e della conoscenza sulle malattie mentali nella popolazione»; Visto l‘art. 45 della citata legge 23 dicembre 1978, n. 833; Vista la legge-quadro sul volontariato 11 agosto 1991, n. 266, che riconosce il ruolo fondamentale ed insostituibile delle associazioni di volontariato per la salute mentale; Considerato il ruolo fondamentale ed insostituibile riconosciuto alle associazioni di volontariato per la salute mentale dalle sopra richiamate disposizioni dell‘art. 45 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 e della legge 11 agosto 1991, n. 266; Considerato che le associazioni di volontariato piu’ rappresentative a livello nazionale, quali UNASAM, DIAPSIGRA, ARAP e Fondazione IDEA, hanno fatto pervenire formale richiesta per l‘indizione della «Giornata nazionale per la salute mentale» per il giorno 5 dicembre 2004; Su proposta del Ministro della salute;

E m a n a

la seguente direttiva:


E’ indetta per il giorno 5 dicembre 2004 la «Giornata nazionale della salute mentale». Nell‘ambito di tale giornata, le amministrazioni pubbliche e gli organismi di volontariato si impegnano a promuovere, attraverso idonee informazioni e tramite iniziative di sensibilizzazione e solidarieta’, la creazione e la diffusione di una cultura dell‘accettazione nei confronti dei soggetti con patologie psichiatriche, diffondendo altresi’ il concetto di curabilita’ dei disturbi mentali. La presente direttiva, previa registrazione da parte della Corte dei conti, sara’ pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.
Roma, 25 giugno 2004

p. Il Presidente
del Consiglio dei Ministri
Letta

Il Ministro della salute
Sirchia

Registrata alla Corte dei conti il 19 luglio 2004

Ministeri istituzionali, Presidenza del Consiglio dei Ministri, registro n. 8, foglio n. 242


Lamberto Vaghetti:
a proposito del veltro dantesco

Lamberto Vaghetti
Il veltro non è più un mistero

Per gentile concessione dell'autore e del direttore della Nuova Antologia
Edizione di Riferimento:
Lamberto Vaghetti, Il veltro non è più un mistero, in «Nuova Antologia», diretta dal prof. Cosimo Ceccuti, Fascicolo 2229, anno 139° Gennaio-Marzo 2004, pp. 356-9, Felice Le Monnier Firenze -

La poesia della Divina Commedia sconfiggerà la lupa

La profezia del veltro è uno dei passi più controversi della Divina Commedia:

e [la lupa] ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ‘l pasto ha più fame che pria.
Molti son gli animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ‘l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro

Inferno, canto I, 97-105)

ma le numerose esegesi dei celebri versi non hanno mai svelato chi si celi dietro l’allegoria del veltro.
Giovanni Getto sfiorò la corretta interpretazione quando ipotizzò che il veltro fosse Dante stesso.

«Il veltro annunziato da Virgilio è Dante stesso. L’identificazione a me pare indubitabile. […]. Dante, che si confessa vinto davanti alla lupa, sarà quindi il vincitore di essa, dopo la sua rinascita operata attraverso la contemplazione del mondo del peccato e del mondo della virtù. Riferita a Dante, la profezia del veltro scioglie abbastanza facilmente i suoi enigmi:

Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro


Sta soprattutto in quest’ultimo verso (è noto) la difficoltà della interpretazione»[1].

Nei fatti l’intuizione di Getto risponde a molti quesiti ma non svela, come lui stesso ammette, l’enigma dell’ultimo verso della profezia «e sua nazion sarà tra feltro e feltro». Inoltre, l’uso del futuro, ciberà e sarà, esclude la possibilità che il veltro sia Dante.
La difficoltà è legata ad una sottigliezza: il veltro non è Dante, ma la sua opera, la Divina Commedia stessa. È la Comedia che non si ciberà di beni materiali «non ciberà terra né peltro», ma di «sapienza, amore e virtute». Se agiamo questo piccolo ma cruciale spostamento, da Dante alla sua opera, diventa possibile anche lo scioglimento dell’arcano finale. Basti infatti ricordare che gli antichi codici, pure per il loro valore economico, venivano riposti in casse foderate di feltro: è qui che l’enigmatico verso «e sua nazion sarà tra feltro e feltro» trova la sua semplice e lineare interpretazione. Il veltro è l’opera che Dante si accinge a stendere.
Diventano più chiari anche altri elementi, quali la perplessità ed i timori di Dante successivi alla rivelazione di Virgilio:

«Ma io perché venirvi? o chi 'l concede?
io non Enea, io non Paulo sono:
me degno a ciò né io né altri 'l crede»

(Canto II, 31-33).

Il sommo poeta è consapevole ora che ha una missione da compiere, missione che non è soltanto quella di varcare le soglie dell’aldilà ma è qualcosa di più, per questo il suo compito è paragonato a quelli svolti da

Enea (fondare Roma)
e
san Paolo (fondare la Chiesa).

Al timore di non sentirsi degno affianca la necessità di essere umile. Egli è “solo” uno strumento del disegno divino, è stato scelto per narrare agli uomini ciò che vedrà nel suo viaggio oltremondano. La sua umiltà lo porta a dire che la Comedia è l’espressione più di una volontà celeste che un suo merito personale.
Soprattutto, trova più ampio e coerente significato tutta l’impostazione del suo capolavoro nel senso che, come più volte è stato detto ed egli stesso afferma nell’Epistola a Cangrande, Dante si pone un compito dottrinale, per cui il suo viaggio ha come scopo quello di condurre, non solo se stesso, ma tutti gli uomini dalla miseria della loro condizione, dalla «selva oscura», alla salvezza.
Il percorso che egli compie attraverso uno scenario che raffigura magistralmente gli orrori dei peccati umani, altro non è se non un processo di liberazione da essi peccati. Dante-uomo dovrà, con l’aiuto di Virgilio e di Beatrice, compiere quel viaggio interiore che lo porta dallo smarrimento iniziale alla beatitudine finale.
Ma al Dante-uomo si affianca il Dante-poeta e vate che ha il compito di descrivere tale percorso spirituale per permettere anche agli altri uomini di liberarsi dalla colpa. È questa la sua vera missione: scrivere l’opera che aiuterà gli uomini a liberarsi della lupa. Il veltro che verrà è, quindi, la sua poesia che non si “limita” a raccontare la sua vicenda personale ma ha il coraggio, la “pretesa”, di parlare a tutti gli uomini.


Il primo giornalista della storia

Individuare nel veltro la poesia della Divina Commedia ci permette di svolgere ulteriori preziose considerazioni. Nell’interminabile elenco delle interpretazioni date a questa profezia, si è più volte ipotizzato che dietro al veltro si celassero personaggi di grande rilievo storico: da papa Benedetto XI, a Uguccione della Faggiola, da Cangrande della Scala all’imperatore Arrigo VII. Natalino Sapegno le considera giustamente “stravaganti ed assurde”, ma i critici che le hanno proposte hanno tuttavia intuito come la venuta del veltro assuma un preciso carattere politico e non solo umano e spirituale. La cupidigia non è soltanto una dimensione interiore dell’uomo, ma essa si manifesta anche come realtà esterna e storica ben precisa: sono gli abusi e le violenze dei potenti sui più deboli, è la brama di ricchezze che provoca le lotte fratricide all’interno della sua città, è la cupidigia della Chiesa che, messo da parte Celestino V, dà luogo con Bonifacio VIII alle sue mire espansionistiche nell’Italia centrale.
Dante affianca al percorso spirituale di liberazione dai propri peccati quello della lotta politica contro le ingiustizie e dà al veltro, cioè alla propria opera, il compito di denunciare i misfatti dei potenti e la corruzione della Chiesa. La sua funzione dottrinale non si limita a svolgere un percorso spirituale ma il poeta si fa giornalista per denunciare le violenze e le ingiustizie del suo tempo.
Cacciaguida, infatti, gli dirà nel canto XVII del Paradiso:

Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa poco argomento.

(130-135)

La sua profezia completa quella iniziale fatta da Virgilio ed avalla l’ipotesi che stiamo svolgendo: il veltro che ucciderà la lupa è la forza della sua poesia che ricopre una duplice funzione, spirituale e politica. Darà vital nodrimento a chi vorrà combattere la propria interiore cupidigia, ma avrà anche il coraggio di colpire come un vento impetuoso le più alte cime, «i potenti della terra» commenta Sapegno, che preferiamo interpretare come i prepotenti della terra.
La Divina Commedia racconta fatti di cronaca, fa parlare personaggi storici famosi, denuncia crimini impuniti, condanna papi e preti simoniaci. Inoltre, discute di filosofia, teologia, astronomia, descrive paesaggi, fa rivivere uomini del mondo antico, dipinge animali e mostri mitologici.
L’universale divulgazione della sua opera e la trasmissione orale di molti suoi versi, che anche i ceti più umili hanno mantenuto fino ai nostri giorni, è la prova più evidente della volontà dell’Alighieri di incidere nella realtà storica del suo tempo, e oltre.
È proprio questo, forse, il motivo centrale della sua missione: scrivere un’opera che porti l’uomo a lottare ed a prendere posizione contro chi è lupo dell’altro. Non a caso, infatti, la sua prima e più dura condanna è rivolta agli ignavi, a coloro che “mai non fur vivi”, e non a caso operò delle scelte linguistiche e stilistiche rivoluzionarie.


Lo stile comico

Dante avrebbe dovuto, per l’importanza dell’argomento trattato, utilizzare lo stile tragico, formalmente il più alto ed elegante fra i canoni stilistici, ma meno adatto allo scopo che si era prefisso: parlare al cuore degli uomini. L’invenzione del “plurilinguismo”, un linguaggio che rompe con le regole formali della tradizione e si colora della linfa vitale della lingua volgare, va inserito in questa prospettiva, ovvero nel preciso intento di fare della letteratura uno strumento che mira a trasformare la realtà interiore umana e… quella storica.
È quindi l’uso della cultura, il compito del suo poetare che vogliamo evidenziare. Il veltro è un cane da caccia che attacca i suoi nemici!
Dante stilnovista, prima dell’esilio, si era “adattato” alle regole del linguaggio letterario aristocratico, aveva giostrato con i poeti del tempo a colpi di fioretto, utilizzando le stesse sobrie armi, perché l’eleganza e la raffinata compostezza formale erano i presupposti necessari per essere ammessi nei salotti aristocratici. Anzi, in quel tempo erano proprio l’aspetto retorico-formale e la perfezione stilistica il fine che spingeva molti uomini di cultura a cimentarsi nelle litterae. Ma con l’inizio del Trecento la situazione precipita, il Papato mette le mani su Firenze, Dante è esiliato, Carlo d’Angiò e Pietro III d’Aragona si dividono il Sud d’Italia. È finito il tempo degli eleganti colpi di fioretto e con la Comedia, che prende il titolo proprio dalla scelta dello stile comico utilizzato, Dante inaugura una letteratura che non si accontenta della bellezza dei suoi versi, ma ha il coraggio di toccare il cuore degli uomini e di affrontare le belve che si cibano del sangue umano.
(Lamberto Vaghetti)

Nota
[1] Giovanni Getto, Aspetti della poesia di Dante, Sansoni, Firenze, 1966, pp. 13-4.