martedì 1 marzo 2005

LUTERO

su radioscrigno:
Almanacco 18 febbraio 2005
Lutero: la cultura e la lingua tedesca
di Cecilia Iannaco, germanista

http://www.radio.rai.it/radioscrigno/news.cfm?Q_EV_ID=123252&Q_TIP_ID=439

Generalmente, se si pensa a Lutero si pensa alla Riforma protestante e alla rivolta contro la Chiesa di Roma; si pensa alla traduzione della Bibbia e alla nascita della lingua tedesca moderna; e si pensa forse anche al De servo arbitrio nato come polemica risposta al De libero arbitio di Erasmo. Ciò a cui invece generalmente non si pensa è il significato profondo che Lutero ebbe per la successiva storia culturale della Germania e per tutto il futuro pensiero tedesco.
Se da una lettura più superficiale della storia Lutero emerge come fautore di una unificazione culturale e linguistica della Germania, un'analisi più attenta ci porta a dire che quella frammentazione geografica e politica tipica del tempo diventerà dopo Lutero una frattura interiore dell'uomo stesso. Ancora secoli dopo infatti, il Pietismo, lo Sturm und Drang, il Romanticismo e tanta altra parte della vita storica e culturale della Germania mostreranno la dolorosa frattura interiore dell'uomo protestante scisso nell'impossibile conciliazione fra libertà interiore ed indiscussa obbedienza all'autorità.
Ciò che Lutero teorizzò nel De servo arbitrio per cui l'uomo si dibatte inutilmente nella ricerca di una armonia fra mondo della coscienza e mondo sociale, diventò esplicita condanna in occasione della Rivolta dei contadini nel 1525. Infervorati dalle parole di Lutero che condannava i soprusi di Roma, i contadini dettero vita alla loro ennesima rivolta convinti che questa volta gli esiti sarebbero stati a loro favorevoli. La realtà, lo sappiamo, fu assai diversa: essi furono barbaramente trucidati e Lutero non solo non li appoggiò ma ne prese le distanze scrivendo Contro le bande predatrici e assassine dei contadini e Sulla libertà del cristiano. Teorizzava così la scissione fra l'uomo interiore soggetto ai disegni divini e l'uomo esteriore soggetto ai padroni del mondo. I contadini erano cioè liberi solo in qualità di uomini interiori ma non potevano pretendere la libertà per l'uomo esteriore che deve invece sempre e comunque obbedienza all'autorità. L'uomo esteriore è poi sì soggetto all'obbedienza ma non è tenuto a rispondere del proprio agire all'uomo interiore: un pensiero che avrà le sue conseguenze nella futura storia della Germania. Marx scrisse nella Critica della filosofia del diritto di Hegel: "Lutero ha distrutto la fede nell'autorità per ripristinare l'autorità della fede; ha trasformato i preti in laici per fare dei laici preti; ha liberato l'uomo dalla religione esteriore per fare della religione l'uomo interiore."
Possiamo dire che anche la formazione della lingua tedesca offre due diversi piani di lettura. Se è innegabile che la traduzione della Bibbia rappresentava la libertà da Roma e dal latino e promuoveva un rapporto intimo e personale con Dio e le Sacre Scritture, è pur vero che il processo di unificazione linguistica non fu un processo spontaneo come altrove. Lutero, avvalendosi dell'edizione latina curata da Erasmo e della Vulgata di San Girolamo, traduceva scegliendo una ad una le parole, creando un amalgama fra le varie isoglosse presenti nelle diverse regioni della Germania e combinando fra loro espressioni burocratiche della lingua della Cancelleria di Corte con la lingua del popolo per dare al tedesco - come amava dire - la dignità della lingua scritta e la spontaneità della lingua parlata. È risaputo che poi la lingua della Bibbia sarà riconosciuta come Neuhochdeusches e diventerà il tedesco che ancora oggi viene parlato in Germania. Certo da germanisti c'è da chiedersi se un siffatto sviluppo abbia potuto rispettare la spontanea trasformazione storica che caratterizza il percorso delle altre lingue e se, nella storia della cultura tedesca, abbia avuto conseguenze il fatto che la lingua nazionale si sia originata dalla traduzione di un testo sacro anziché dalla lingua usata da scrittori e poeti.
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su AVVENIMENTI
un articolo di Bonito Oliva su Munch
e un altro di Simona Maggiorelli

Da Avvenimenti numero 7
Si apre il 10 marzo al Vittoriano di Roma l’antologica dedicata al pittore norvegese
MUNCH
Le forme del dolore

di Achille Bonito Oliva

All’impersonalità entusiasta dell’impressionismo avevano già dato risposta Van Gogh e Gauguin. Al loro lavoro si aggancia il lavoro di Edvard Munch (1836-1944) e poi degli Espressionisti che riporta sulle motivazioni del soggetto la sostanza morale del bisogno creativo. Un bisogno accentuato dall’urgenza di ripristinare una lacerata centralità dell’individuo mortificata dallo sviluppo dell’industrializzazione e dell’abnorme crescita della città, agglomerato artificiale rispondente soltanto a motivazioni riproduttive ed economiche. La città e il teatro della messa in posa sociale dell’uomo che indossa le maschere della convenienza e dell’ipocrisia, dell’affettazione e della repressione. Verso l’abnormità di questa realtà l’artista si sente minore sul piano della quantità sociale che invece accetta supinamente il grado negativo dell’esistenza, maggiore sul piano della quantità morale in quanto capace di ripristinare le ragioni del soggetto seppure ferito e dissociato per un paradossale eccesso di consapevolezza e di sensibilità. Per far questo l’artista adotta una strategia particolare, quella dell’enfasi espressiva capace di dilatare al massimo la presenza del soggetto: l’urlo munchiano contro il silenzio supino della società e anche il mistero di un universo che accoglie nello stesso tempo l’innocenza della natura e le contraddizioni della storia, la melanconia dell’adolescenza già minacciata dall’ombra sospetta del futuro incombente.
Una perplessità alla Degas.
Una sorta di procedimento di irradiazione narcisistica esasperata del soggetto sull’oggetto, sull’opera realizzata. L’alterazione enfatica del segno rispetta la conformazione di uno spazio che non cerca l’illusione della duplicazione delle cose. Lo spazio è introspettivo e come tale non ha bisogno di altra profondità che non sia quella bidimensionale sul foglio. Siamo davanti a una messinscena, ma non necessariamente a una mistificazione. Ai mezzi riproduttivi di una società frutto di cultura positivistica, Munch contrappone quelli tradizionali dell’arte che riafferma la propria centralità che il momento storico in cui tende a negare. Paradossalmente sotto l’uso regressivo dell’enfasi espressiva, cova una grande consapevolezza culturale che porta a un intreccio con le scienze umane, la psicoanalisi e l’antropologia culturale, seppure realizzato spesso per sintonia e istinto verso il teatro: Ibsen e Strindberg per i quali realizza manifesti per le loro piéces teatrali. L’arte diventa la fondazione di un modello liberatorio che ripara le ferite ed esalta i motivi proliferanti della profondità della psiche, strutturata sugli stessi principi organici della natura.
Munch sta nella coscienza della propria minorità, rispetto alla brutale e banale maggiorità del mondo visibile, adotta lo stile, come modo di essere. Dell’enfasi capace di auscultare la profondità; un procedimento di dilatazione psicologica, attraverso l’adozione di tecniche artigianali che non a caso possono ricordare il medioevo, epoche primitive, istanze religiose, per segnalare l’emergenza sentimentale di un soggetto negato come totalità. Le tecniche artigianali di riproduzione dell’immagine, come la xilografia, rifondano l’unità del processo produttivo messo in crisi dall’avvento della macchina che tende a parcellizzare il lavoro e a standardizzare il prodotto.
All’artificio di tali tecniche riproduttive l’arte di Munch risponde con la naturalezza dei procedimenti artigianali e con la naturalezza di un linguaggio che asseconda la natura sentimentale del soggetto creativo, il quale cerca forme espressive non paralizzanti ma semmai flessibili ed armoniche con i propri bisogni. All’anemia di una realtà incolore l’artista risponde con la rappresentazione di un’altra malattia, quella dell’esuberanza, attraverso cui compensare la sproporzione quantitativa che lo sovrasta. La temperatura incandescente dell’opera gli dimostra che l’arte è un procedimento che, pur adottando proprie regole interne,crea dei varchi nell’opacità del quotidiano e introduce una diversa visibilità del mondo. Uno stato di ipersensibilità arma la mano dell’arista che s’inabissa prima dentro si sé, dentro le proprie pulsioni, e poi riemerge nella zona solare della forma dove tutto diventa rappresentazione e nulla resta taciuto. Munch diventa l’eroe che si autorizza tutto da solo a usare armi impari. A produrre colate di immagini che entrano nelle fessure del mondo. Da qui la violenza non soltanto del segno, necessaria per spostare l’inerzia del
corpo sociale dal piano orizzontale e statico della convenzione razionale a quello inclinato e dinamico della visionarietà e di una visibilità spirituale. La frammentarietà è il sintomo di una mentalità che non vuole opporre a un ordine un altro ordine, che non vuole creare una simmetria tra la necrofila convenzione sociale e la mente di una nuova forma seppure artistica. Al contrario essa è il segno di un universo linguistico aperto e continuamente arricchito dalla conflittualità permanente, quella di una sensibilità neoumanistica che vuole ridare centralità all’immaginario. Qui l’immaginario attraversa tutte le culture e non si arresta rispetto ai buchi neri di quella occidentale, anzi nella coscienza della propria mentalità trova solidarietà in altre culture ritenute minori o minorizzate dalla superbia logocentrica di quella europea. In definitiva la lingua dell’arte è l’unica in grado di formulare parole visive capaci di attraversare ogni differenza etnica, sociale e religiosa, in quanto essa stessa si pone nella condizione di poter totalizzare dentro di sé ogni possibilità e ogni impossibilità. I modi sono quelli di un linguaggio che accetta ogni condizione e non crede più ai piani alti e bassi della cultura, che vuole colmare ogni scissione. Per farlo Munch adotta lo stile della scissione, la frantumazione del segno, l’alterazione dell’elegante e del garbo, accetta l’accento forte di un’espressione che vuole farsi sentire in tutte le sue lacerazioni. Enfatizzare significa compiere una sana operazione di regressione infantile che consiste nel porre il proprio io al centro del mondo, in un contesto che ipocriticamente sembra invece celebrare il mito collettivo del noi. La forza sta nel non aver posto un io monumentale e monolitico. Destituita dal suo consueto funzionamento quello di vicolo di senso, l’opera di Munch acquista l’arbitrio e la necessità di essere capriccio. Descrizione di stati interni della sensibilità, che non significa però condizione psicologica. Un distaccato erotismo, che confina con l’estetismo, regge la composizione. Il suo dato esplicito è reso dalla miniaturizzazione dell’evento ornamentale che avvolge la figura e fa dilagare verso i bordi dell’opera, creando una connessione, e un processo di crescita che agisce in tutte le direzioni della composizione. Fisso e centrale resta il volto, disegnato e dipinto in maniera decisa e precisa mentre il corpo è attraversato da una perturbazione stilistica che ne dissolve i contorni e ne stabilisce l’integrazione con lo sfondo.
L’opera finalmente perde ila sua compostezza tradizionale, la rigidità di un’arte come unità ideale garantita dello stile. L’immagine è il risultato di una tensione tutta giocata su di una peripezia di piacere che arriva ad un punto di estenuazione tale da assottigliare la consistenza figurativa ribaltandola in una trama astratta. L’uso della metonimia promette all’immagine di assumere un senso mobile che sorge progressivamente dall’economia interna del linguaggio, mediante assonanze visive e passaggi di segni che connotano lo spazio come campo. Luogo potenziale di relazioni mobili. La veracità della vita ormai è un sogno perduto e dunque è possibile viverla soltanto attraverso le mentite spoglie della forma. L’opera di Munch e la rappresentazione di spoglie stilistiche, in cui non esistono passato e presente ed ogni tempo è pareggiato nella visione superficialistica di un linguaggio raggomitolato e espanso divenuto esso stesso ombra di eco di un centro perduto.

Da Avvenimenti numero 7
Il Napalm in Iraq
La denuncia della parlamentare laburista Alice Mahon: armi non convenzionali per mettere in ginocchio Falluja. Un’interrogazione parlamentare di ventisei deputati italiani.
di Simona Maggiorelli

Che cosa è accaduto realmente a Falluja durante l’attacco da parte delle truppe della coalizione? La questione è ancora tutta da indagare secondo Alice Mahon, la parlamentare del Labour party che l’ha sollevata, mettendo sotto pressione il governo Blair, chiedendo in maniera sempre più incalzante se le truppe angloamericane abbiano utilizzato il napalm. Una domanda a cui non è ancora stata data una risposta convincente, che sgombri il campo dai dubbi. Anche perché ormai sono davvero tante e autorevoli le denunce e le inchieste, apparse su testate arabe, ma anche pubblicate autonomamente da giornali e agenzie di stampa inglesi, tedesche e americane. E la domanda, il bisogno di sapere contagia, si allarga, specie fra chi, non avrebbe mai voluto questa guerra. Coinvolgendo anche l’Italia e le forze di opposizione al governo Berlusconi. Cosa sa il governo italiano del possibile uso di un’arma non convenzionale come il napalm?
Un’interrogazione parlamentare, anche a partire dalle notizie riportate la settimana scorsa da Avvenimenti, è stata fatta dalla deputata del Prc Elettra Deiana e dal deputato della sinistra ds Alfiero Grandi e firmata da ventisei deputati dell’Unione. "Molte persone che erano a Falluja hanno detto di aver visto una quantità di corpi bruciati con i segni caratteristici che lascia il napalm", dice Alice Mahon, laburista di quell’ampia area del partito di Blair che fin dall’inizio si è schierata contro la guerra in Iraq. Per il Labour party ha svolto missioni internazionali; di recente è stata osservatrice delle elezioni in Ucraina. "La Gran Bretagna - dice la parlamentare inglese - ha firmato il protocollo dell’Onu che mette al bando il napalm, ma gli Usa non lo hanno fatto". E aggiunge: "Come membri di una coalizione siamo ugualmente responsabili". Responsabili di morti atroci, con la famigerata miscela di gas, sali di alluminio e benzina o altri derivati del petrolio, di cui gli Usa fecero ampio uso durante la guerra del Vietnam. E che ora l’esercito americano in Iraq, per stessa ammissione di graduati dell’esercito Usa, utilizzerebbe in formula aggiornata, "a basso impatto ambientale". Per distruggere l’umano, ma senza inquinare, insomma. Nel contesto di una guerra cominciata per togliere a Saddam quelle armi chimiche di cui poi non si è mai trovato traccia.
Ma il governo britannico, ancora nega, fra non poche incongruenze. Alla lunga fila di interrogazioni sollevate da Alice Mahon e da altri parlamentari inglesi, solo stringate o evasive risposte da parte del governo Blair. Una storia che si può ricostruire dai verbali delle sedute del parlamento inglese pubblicate nel sito internet. La prima interrogazione della parlamentare laburista è del 29 novembre dell’anno scorso. Una domandina secca, in calce a un discorso sulle elezioni in Ucraina: "Durante la conferenza di Sharm el-Sheikh, qualcuno ha parlato di uso di napalm o derivati da parte delle forze della coalizione?" chiede Mahon. "Non mi è stato riferito nulla in proposito", liquida la faccenda il ministro degli Esteri Straw. La parlamentare del Labour torna alla carica agli inizi di dicembre, riformulando la domanda. Questa volta è Ingram a risponderle: "No -
dice - il napalm non è mai stato usato in Iraq dalle forze di coalizione, né durante la guerra, né in altri fasi delle operazioni più recenti".
Bugia palese, stando a quanto è uscito sui giornali inglesi e americani fin dall’agosto 2003. Sull’Independent, il 10 agosto di due anni fa
usciva un articolo di Andrew Buncombe in cui si diceva a chiare lettere: "gli Usa ammettono di aver usato il napalm in Iraq". Il giornalista basa la sua inchiesta su dichiarazioni di piloti e graduati della Marina americana. Il Pentagono nega. Intervistato da Buncombe il colonello James Alles, comandante dell’undicesimo Marine Air Group ammette: "Abbiamo bombardato con il napalm i ponti sul canale Saddam e sul fiume Tigri, nel sud di Bagdad". E poi aggiunge: "purtroppo c’erano delle persone, lì abbiamo visti nel video, erano dei soldati iracheni. Non è un bel modo di morire. Ma i generali amano il napalm. Ha un effetto psicologico molto forte". Già, la pelle che brucia, corpi che sembrano fondere per potere abrasivo del micidiale cocktail messo fuori legge da una convenzione internazionale del 1980, che gli Usa non hanno sottoscritto. Un altro attacco al napalm del 21 marzo 2003 viene raccontato sul Sydney Morning Herald "La collina di Safwan - scrive l’inviato - vicina al confine con il Kwait è andata completamente a fuoco. “Ho pietà di chiunque fosse là sotto”, dice un sergente dei Marins, “li avevamo avvertiti di arrendersi”". Il San Diego Union Tribune, sempre nell’agosto 2003 riporta la testimonianza del Maggiore dei Marins Jim Amos che conferma l’uso di naplm in più occasioni durante l’invasione in Iraq. Ma è nell’inchiesta dell’Indipendent che esponenti del Pentagono parlano di operazioni chirurgiche, "a basso impatto ambientale", eseguite non con il napalm direttamente ma con bombe derivate, le cosiddette bombe incendiarie Mark 77 . Sullo stesso giornale John Pike del Global Security Group commenta: "Puoi chiamarlo in un altro modo ma è sempre napalm. È stato riformulato, nel senso che ora utilizzano un differente distillato di petrolio come base, ma al fondo è sempre quello. Gli Stati Uniti sono uno dei pochi paesi - aggiunge - che abbiano fatto largo uso di napalm, non ho notizie di altri paesi che lo facciano".
Questo accadeva più di un anno fa. E a Falluja nel novembre scorso? È perché si sono usati napalm e altre armi non convenzionali che non si è permesso e non si permette a giornalisti e media di indagare da quelle parti? Nel parlamento inglese la domanda è stata sollevata l’8 dicembre, questa volta dalla parlamentare Jenny Tonge. La risposta tarda e il 21 dicembre Alice Mahon lancia in Parlamento il suo affondo più duro: "Visto che - dice la deputata inglese - abbiamo la possibilità di fare domande, ma non ci viene permesso di aprire una discussione, voglio dire che questa guerra è illegale. È stata ingaggiata su false premesse. È, e resta, un’operazione dai costi altissimi, finanziari e umani. Una guerra che ha incrementato il terrorismo a livello internazionale". E poi lancia una stoccata a Blair: "Andare a Bassora e nella green zone come ha fatto il nostro primo ministro, non è andare a visitare l’Iraq: mi piacerebbe vedere un primo ministro che parla con qualche rifugiato di Falluja. In quanti sono morti in quella città? La battaglia di Falluja è la battaglia che
non siamo stati autorizzati a vedere. È la battaglia che avrebbe dovuto portare la democrazia in Iraq". Tanto, che arrivati alle elezioni, non ha partecipato al voto, perché area, troppo inquieta e ribelle. "Che fine hanno fatto - incalza Mahon - gli sfollati che hanno lasciato la città? Perché non ci sono immagini delle persone che ancora vivono a Falluja, alcuni in condizioni davvero estreme? Che tipo di armi sono state usate là? Gli americani hanno ammesso di usare una sostanza simile al napalm quando cominciò l’invasione. Abbiamo avuto testimonianze, in particolare dalla Reuters, che armi veramente terribili sono state impiegate dalle truppe americane. Ho cercato più volte di ottenere una risposta qui, in parlamento, ma invano. Al-Jazeera è stata messa alla porta prima della seconda battaglia a Falluaja, così non ci sono state fonti d’informazione affidabili". Poche le testimonianze dalla zona di Falluja , eccetto che dagli “embedded”. Un giornalista americano, Michael Schwartz, ha scritto il 16 dicembre scorso: "L’agghiacciante realtà di ciò che la città è diventata, comincia solo ora a venir fuori, mentre le forze militari americane continuano a bloccare quasi tutti gli accessi alla città, impedendo a tutti, reporter, cittadini, organizzazioni come la Mezzaluna rossa di entrare". "Ci sono checkpoints a tutte le cinque entrate - prosegue - controllati dalle truppe americane. Chiunque voglia entrare viene fotografato, gli vengono prese le impronte digitali e il colore degli occhi viene registrato. Tutto viene trascritto su un documento di riconoscimento". E mentre per i reporter americani l’intera operazione non richiede più di dieci minuti, per tutti gli altri, compresi i cittadini le operazioni sono lunghe e non è permesso girare senza una targhetta di riconoscimento. "È come creare un ghetto - ha denunciato Mahon in Parlamento - marchi di riconoscimento, segnali assai sinistri per persone della mia generazione che si sono a lungo occupati di lager nazisti. Non mi pare che sia portare la democrazia offrire 500 dollari per ogni casa che è stata distrutta.. La Croce Rossa denuncia - prosegue Mahon - che in città non c’è acqua e non c’è luce elettrica, non ci sono ospedali funzionanti e molte case sono state rase al suolo. Avevo fatto domande su Falluja prima
della battaglia, avevo chiesto se quello che ci veniva raccontato dei bombardamenti fosse una strategia di democratizzazione dell’Iraq.
Se lo è, non funziona. Abbiamo bisogno di alcune risposte chiare su che cosa sia stato fatto a nostro nome in Iraq. Dobbiamo sapere di più su queste elezioni, quando è chiaro che gli abitanti di Falluja non sono stati in grado di parteciparvi in modo significativo. Penso che occorra convocare una conferenza di emergenza all’Onu, con tutti i paesi membri presenti. Dobbiamo aprire un tavolo di discussione all’interno della coalizione per il ritiro delle truppe dall’Iraq, perché in questo momento noi rappresentiamo più un problema che una soluzione". E conclude: "Dopo aver visto l’esecuzione a freddo di un soldato iracheno ferito e inerme mi è parso chiaro che occorre mettere in piedi un tribunale contro i crimini di guerra. Lasciateci sapere che cosa gli Americani hanno fatto a Falluja. Per la Serbia fu istituito un tribunale di guerra e là in Kosovo i media erano presenti e potevano vedere e raccontare. Ora non sento nessuno chiedere a gran voce giustizia per i tantissimi civili iracheni che sono stati uccisi. Non mi pento di essermi schierata contro il governo sull’Iraq. Avevo ragione. Penso che che prima o poi ci dobbiate delle risposte e che qualcuno debba assumersi le sue responsabilità". Responsabilità di aver bombardato gli ospedali di Falluja uccidendo decine di civili ricoverati, come riportano, tra gli altri, il
Washington Post del 13 novembre e come ha raccontato la BBC. Responsabilità, secondo quanto scrive Simon Jenkins del British Sunday Times di aver bombardato Falluja con armi al fosforo: "Alcuni pezzi d’artiglieria hanno aperto il fuoco con cariche di fosforo bianco - ha scritto - che creano uno schermo di fuoco che non può essere estinto con l’acqua. I ribelli hanno riferito di essere stati attaccati con una sostanza che gli ha sciolto la pelle, una reazione consistente con il fosforo bianco che brucia".
Responsabilità di aver utilizzato il napalm, secondo il commentatore politico del Daily Mirror Paul Gilfeather, che il 28 novembre scorso ha scritto: "Le truppe statunitensi stanno usando in segreto dei gas al napalm proibiti per spazzare via i restanti ribelli a Falluja e nei dintorni. La notizia che il presidente George Bush ha consentito l'uso del napalm, una miscela mortale di polistirene e benzina, proibita dalle nazioni unite nel 1980, sbalordirà i governi di tutto il mondo". Allo sbigottimento non ha ancora fatto seguito un assunzione di responsabilità da parte delle forze di coalizione. Le elezioni in Iraq ci sono state, ha vinto la coalizione sciita, ma sono ancora giorni di sangue. Quando le truppe della coalizione accetteranno di togliere l’assedio e andarsene?

su Avvenimenti numero 8 , 25 febbraio - 3 marzo:
L’inchiesta continua con “MK-77, bomba micidiale, ancora più letale del gas usato in Vietnam” di Umberto Rapetto, con la risposta del sottosegretario alla Difesa Salvatore Cicu all’interrogazione urgente presentata da 26 parlamentari dell’Unione. Il portavoce del governo ammette di “Non avere elementi di riscontro sui fatti evocati”, aggiungendo che: “ i militari italiani impegnati in Iraq, nel rispetto della convenzione di Ginevra, non dispongono degli armamenti menzionati”. Senza fare parola su quello che l’interpellanza, di fatto, chiedeva: dell’uso di armi non convenzionali da parte delle forze statunitensi di cui il governo Berlusconi ci ha voluti stretti alleati. Gli Usa, come è noto, non hanno firmato la convenzione del 1980 contro le armi chimiche. E ancora, nel numero in edicola, un’intervista a Nuccio Iovene, senatore ds che ha firmato un progetto di legge per la messa al bando delle cluster bombs e la testimonianza di Ezio Di Nicolò, militare di 23 anni dimissionario dalla missione Antica Babilonia”. Infine, appare ripubblicato l’articolo deIl Manifesto del novembre scorso in cui Giuliana Sgrena denuncia l’uso di armi al napalm su Falluja.

la complicità della ragione con la religione
sull'Unità: una discussione su Cartesio

L'Unità 27 Febbraio 2005
Santo Padre, perché ce l’ha con Cartesio?
Bruno Gravagnuolo

Del libro del Papa, Memoria e identità (Rizzoli, pagg. 225, euro 16) s’è parlato variamente sui giornali, già a partire dalle anticipazioni e dagli annunci di agenzia prima della sua comparsa ufficiale la settimana scorsa. E il Grundakkord da tutti registrato di quest’ultima meditazione pontificale è stato giustamente - perché è centrale senz’altro in questo libro - quello della filosofia della storia. Ovvero la Teodicea, giustificazione storica di Dio, attraverso i mali, o meglio il Male del Novecento. In fondo si potrebbe definire questa sorta di testamento spirituale del Papa (lunga vita!) come un rilancio in grande stile della meditazione agostiniana sul cammino della Città terrena verso la Città Celeste, sebbene quest’ultima resti indefinitivamente avvolta nel mistero sfuggente della redenzione finale, sempre presentita dalla fede e adveniens.
Il proprium di questo Papato è esattamente il suo tratto forte e planetario, egemonico e avvolgente. Gerarchico e accogliente. Veritativo ed ecumenico, che prende di petto la modernità e tende a dargli forma. In questo senso la cattolicità di Wojtyla si presenta come l’ultima delle Grandi Narrazioni, l’ultima delle Utopie, con il Sacro immanente nella storia e capace di riemergere per eterogenesi dei Fini - il Bene tramite il Male - quasi al modo della filosofia hegeliana, ma con la Trascendenza ovviamente come meta, all’opposto dell’immanenza assoluta e laica di Hegel. Ebbene c’è un «incunabolo», un tassello di questa maestosa costruzione, che nessuno finora ha notato: Cartesio. E a cui Memoria e identità dedica pagine importanti. Sono pagine di demolizione del grande filosofo in certa parte incomprensibili, dal punto di vista teoretico. Ma in realtà comprensibili se ci si mette dalla parte dell’ortodossia profetica ed autoritativa del Papa.
L’accusa a Cartesio? Aver celebrato il primato del Cogito sull’Esse. Del Pensiero sull’Essere. Dopo Cartesio, argomenta il Papa, la filosofia diventa puro pensiero. E il mondo di conseguenza, che Tommaso re-spettava come ente esterno a cui adeguarsi, diviene puro contenuto della coscienza umana. Di qui l’arbitrio, la manipolazione dell’ente. La possibilità da parte dell’uomo di decidere ciò che è bene e ciò che è male, Auschwitz e il Gulag, la volontà di potenza, il titanismo della libertà del singolo e collettiva, magari sotto forma di Parlamenti democratici. Irresponsabili nel sancire aborto, fecondazione artificiale e altre deviazioni libertarie. Occorre dirlo. Questo giudizio del Papa (o di Ratzinger?) altresì rivelativo, è insostenibile. E, per paradossale che appaia, anche da un punto di vista cattolico e metafisico-teologico. Cartesio, infatti, non solo era un devotissimo credente rispettosissimo del dogma di fede e dell’Autorità. Ma mise in atto un grandioso tentativo di dimostrazione rigorosa del Dio personale e trascendente. Passando certo attraverso il pensiero e la Ragione, ma desumendo da essa la distinzione tra Essere e Cogito. E tra Mondo e Dio. Il pensiero, che è dubbio, si scopre in Cartesio imperfetto, carente. Dunque, segnato dall’idea originaria della Perfezione, ontologicamente reale e a monte di tutto: Dio. Inoltre, tramite il reticolo delle idee innate, distinte da quelle acquisite e artificiali, l’ordo rerum cartesiano è riflesso dell’ordo idearum che ha in Dio la sua pietra angolare. Cartesio perciò riconduce tutta la rivoluzione meccanica del seicento all’albero maestoso della metafisica tomista, rinnovata nei metodi e nelle giunture. Naturalmente, c’è la libertà e l’ardire della ragione umana, che s’inoltra nel conoscere e nei suoi rami (ottica, matematica, fisica). Ma fare di Cartesio il padre negativo di un Illuminismo perverso, significa condannare a priori ogni gesto filosofico imperniato sull’autonomia del pensare. E a beneficio perenne dell’Auctoritas tramandata e imposta. Il che è fomite non solo di Irratio, ma anche di Rivolta nichilistica senza limiti (a cui succede Auctoritas peggiore). I due Mali da cui derivarono tutti i Mali del 900. Santo Padre ma perché ce l’ha tanto con Cartesio?
APCOM 27/02/2005 - 09:15
FRANCIA/ OGGI ALL'ASTA L'ORIGINALE DEL "DISCORSO SUL METODO" DI CARTESIO
Base da 50.000 euro per pietra miliare filosofia moderna

Roma, 26 feb. (Ap) - Sarà una domenica speciale per i bibliofili di tutto il mondo: oggi verrà messa all'asta a Evreux (Francia) l'edizione originale del "Discorso sul metodo" di Cartesio (René Descartes), pietra miliare della filosofia moderna. Il volume, scoperto da poco e per caso in una collezione privata, è stato pubblicato nel 1637. La base d'asta partirà da 50.000 euro.
"Il mio cuore si è messo a battere", racconta con trasporto Pierre Poulain, che ha ritrovato il libro. «Ho contato le pagine una ad una, - spiega - le ho ricontate il giorno dopo per vedere che non ne mancasse qualcuna». E una volta accertatosi dell'integrità, l'esperto non ha nascosto il proprio sollievo e la commozione.
«"Il discorso" apre l'era della filosofia moderna», afferma Poulain. «E' una pietra miliare del patrimonio francese e universale poiché, anche se oltre 350 anni ci separano della sua pubblicazione, il suo contenuto non cessa di stupire con la sua attualità e la sua pertinenza".
Atto fondatore della filosofia moderna, il "Discorso sul metodo" è soprattutto il frutto di un'avventura intellettuale: quando uscì infatti, a guisa di introduzione di altri saggi, la condanna di Galileo da parte della Chiesa era recente e aveva indotto Cartesio alla prudenza nel rendere pubblico il suo pensiero. Cgi/ vgp
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un film sulla pedofilia

Il Tempo 1.2.05
«Adolescenti a rischio se scatta la molla dell’identificazione»
Cla. Mon.


«CERTI film vanno visti ma è fondamentale, soprattutto se il pubblico è formato da giovani e adolescenti, parlarne per approfondirne tutti gli elementi. Per evitare, soprattutto, che scatti la molla dell’identificazione o, almeno, della simpatia nei confronti di chi si macchia di gravi reati». Anna Oliverio Ferraris, titolare della cattedra di Psicologia dello Sviluppo alla Sapienza di Roma, parla così di «The Woodsman», la pellicola che affronta apertamente per la prima volta il problema della pedofilia, visto però dalla parte del "mostro". «L’opera è interessante per l’ottimo lavoro dell’interprete e della regista che rendono benissimo la complessità psicologica del protagonista». Il pericolo che la docente intravede è quello dell’indulgenza nei confronti del pedofilo. In fondo, sostiene la Oliverio Ferraris, è lo stesso meccanismo che scatta nei fan delle rockstar. «Le tante manifestazioni di solidarietà a personaggi dello spettacolo pur colpevoli o, almeno, accusati di gravi reati, sono dovute al principio di identificazione dei giovani con artisti affermati. È la cosiddetta sovrapposizione dei piani indulgenti. Per Michael Jackson o per gli altri prima di lui rimasti coinvolti in storie torbide che dovrebbero originare un moto di repulsione o almeno di distacco, scattano le stesse molle su cui punta la pubblicità. I consumatori, soprattutto i più giovani, si identificano con il personaggio noto dello spot e per imitarlo acquistano il prodotto. A genitori, scuola ed educatori il compito di spezzare questa spirale».

mente e corpo: il cuore

Yahoo! Salute martedì 1 marzo 2005
Per il cuore la mente è importante come il corpo
Il Pensiero Scientifico Editore
David Frati
Corpo e mente sono ugualmente importanti nelle patologie cardiache: lo sostiene uno studio pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology. Depressione, stress e gli altri comuni fattori di rischio psicosociale infatti giocano un ruolo essenziale nel quadro clinico dei cardiopatici.
“Il numero di ricerche che analizzano gli effetti della psicologia e del comportamento sulla salute cardiaca è enorme”, spiega Alan Rozanski della Columbia University di New York. “Tutti indicano che non uno solo, ma numerosi fattori psicosociali contribuiscono all’insorgere delle patologie cardiache: depressione, isolamento sociale, povertà, stress sul lavoro, stress da matrimonio. Tutti questi fattori si sono rivelati dannosi tanto quanto i fattori di rischio comunemente tenuti sott’occhio: diabete, ipertensione, fumo, obesità”.
I dati indicano anche che l’incidenza di disordini psicologici è significativamente più alta tra i cardiopatici che nel resto della popolazione. Urge allora secondo i ricercatori che i cardiologi, che già ogni giorno spronano i loro pazienti a smettere di fumare, a fare esercizio fisico e ad adottare uno stile di vita sano, intervengano anche su questioni eminentemente psicologiche. “In pochi minuti un cardiologo è in grado di identificare i pazienti con gravi sintomi psicologici e di indirizzarlo ad uno specialista”, spiega Rozanski, “mentre tanti altri hanno solo bisogno di incoraggiamento e comprensione”.

Fonte: J Am Coll Cardiol 2005; 45:637-51.

Vattimo: mai con Bertinotti

Corriere della Sera 01 marzo 2005
Verso il congresso del Prc
Vattimo: mai con Bertinotti
Il filosofo critica il leader di Rifondazione: «E' troppo di destra. Spero che la sinistra si faccia sentire»
Aldo Cazzullo

Professor Vattimo, che ci fa uno spirito libero come lei tra i Comunisti italiani?
«Ormai sono quasi fuori dalla politica: voglio solo fare il sindaco di San Giovanni in Fiore, il paese di Gioacchino».
Non l'hanno neppure fatta rieleggere a Bruxelles.
«Non solo: Marco Rizzo mi ha chiesto un risarcimento esagerato per aver detto la verità, cioè che i suoi seguaci avevano intimidito i miei in campagna elettorale. Cecchi Paone, di cui avevo detto cose orribili, si era accontentato di 10 mila euro».
Rizzo invece?
«Non posso dirlo. Cecchi Paone non deve saperlo. Basti dire che in caso di condanna mi resterebbero solo le mutande».
Perché allora non va con Bertinotti?
«Non ce la faccio. E' troppo di destra. Si è adagiato su Prodi».
Adagiato.
«Non capisco perché Bertinotti rinunci a chiedere l'uscita dell'Italia dalla Nato e si unisca a Prodi nel cantare "Welcome Mr President". Com'è cambiato Bush, se non in peggio? Gli agenti della Cia scorrazzano per l'Italia indisturbati. In Iraq comanda Negroponte, l'uomo del piano Condor e dei contras. Avrei potuto accettare elezioni manipolate, purché funzionassero: invece muoiono venti iracheni al giorno, l'alternativa a Negroponte sono gli ayatollah e i giornalisti sono costretti ad andarsene».
Il rapimento di Giuliana Sgrena impone all'opposizione di rinviare le polemiche.
«Lei è così sicuro che la Sgrena sia stata rapita dai cosiddetti terroristi? Perché, a parte i body-guard, in Iraq sono stati sequestrati solo giornalisti e volontari di sinistra? Perché Baldoni è stato ucciso come un cane? Chi ha interesse a tenere lontani i cronisti?».
Vorrà mica dire che la Sgrena è in una prigione della Cia?
«Non dico questo. Ma se ancora oggi ci chiediamo chi c'è dietro il caso Moro, o chi ha messo le bombe sui treni in Italia, un Paese sovrano, non oso pensare cosa possa fare la Cia in un Paese che amministra di persona».
In ogni caso, che potrebbe fare Bertinotti?
«Fare la sinistra. Invece, se Prodi e Bertinotti vinceranno le elezioni — e io non ne sono affatto sicuro —, la sinistra ne verrebbe schiacciata. Le ultime uscite del segretario di Rifondazione mi sembrano poco chiare, così come il suo libro sulla nonviolenza. A meno che non voglia semplicemente andare al governo, che sia stufo di star fuori. Allora si capisce tutto».
Cosa non va nella nonviolenza di Bertinotti?
«La rinuncia alla piazza. La riduzione della politica alle battaglie parlamentari, anche se fatte solo per salvarsi la coscienza. La fine di quello che a Lisbona, commemorando la rivoluzione dei garofani su invito di Soares, ho chiamato il sovversivismo democratico. La rinuncia a pratiche lecite, come il boicottaggio. E' un'idea mia, che poi Eco si è rivenduto: comprare la pasta Cunegonda. Se tutti gli elettori di sinistra non comprassero più i prodotti pubblicizzati da Mediaset... ci sono molte altre marche di pasta, alcune buonissime».
Ma Bertinotti enuncia un principio. Un ripensamento teorico.
«Arriva a criticare la formula di Brecht — "noi che volevamo edificare la gentilezza non potemmo essere gentili" — e a definire illegittima la violenza dei rivoluzionari d'Ottobre. Ma di questo passo non gli andrà più bene neppure la Rivoluzione francese. Allora avremmo ancora l'Inquisizione. A proposito, anche questa storia della religione...».
Si è definito un uomo che cerca.
«Le conversioni non le ho mai capite. Cosa può dirti un prete che non sia già nei Vangeli? Io ad esempio sono cattocomunista sin da quando ho l'età della ragione. In alcune stagioni sono stato più catto, in altre più comunista».
E' stato anche prodiano. Ora Prodi non le piace più?
«Si è capito quel che ha in mente: rifare la Dc. Fed sta per fede. Anche questo scodinzolamento leccaBush rivela un profondo pessimismo: non credono che esistano alternative alla pax americana. Ma così si torna agli Anni '50, alla guerra fredda: America e alleati contro chi si ribella. Da qui la mia provocazione sul partigiano Al Zarqawi. Non a caso la chiesa sta tornando all'apice del potere, come allora».
Lei nel 1953 faceva campagna nei comitati civici.
«Perché ero contro Stalin. Ma non votai Dc: non potevo, avevo solo 17 anni».
Al Zarqawi partigiano, però...
«C'è un Paese occupato. Ci sono iracheni con le spade che si battono contro gli occupanti con i bombardieri. Fanno le loro schifezze, ma non per questo sono terroristi. Tutti i rivoluzionari all'inizio sono terroristi. La sinistra dovrebbe dire questo. Non affermare che i resistenti sono gli elettori, come ha fatto Fassino. O ringraziare il Papa per aver sconfitto il comunismo, come ha fatto D'Alema. Sarà pure vero, ma lo lasci dire agli Escrivà da Balaguer, di cui è grande estimatore».
Lei lo è di Mercedes Bresso, candidata qui in Piemonte. Le ha attribuito il profilo di una buona casalinga e di una discreta insegnante media.
«E ho sbagliato. Sono stato offensivo. Con le casalinghe. Quand'ero a Bruxelles e lei era presidente della Provincia, la incontravo in ogni momento. Che ci faceva? Trascurava la casa. Non credo più sia una buona casalinga».
Torniamo a Rifondazione. Cosa si a
ttende dal congresso?
«Che l'opposizione interna si faccia sentire. La sinistra-sinistra, questo 15% degli italiani che dovrà pure trovare qualche forma di raccordo, rischia di restare senza rappresentanza sociale, schiacciata da Prodi e dai Ds, questo partitazzo sempre in mano a D'Alema, che controlla l'apparato e quindi gli stipendi di deputati, consiglieri, assessori».
Sta dicendo che in caso di vittoria non comanderebbero Bertinotti e tantomeno Rizzo...
«Ma Padoa Schioppa, Mario Monti e Franco Debenedetti, che è mio amico ma da cui sono in disaccordo. Cacciare Berlusconi va bene, ma non a qualsiasi costo. E poi non è così antipatico...».
Non si stupisca se Asor Rosa la definisce "avventatissimo".
«Ho letto, e mi sono inferocito. Che vuole da me quel vecchio barbagianni? Dice che non sono significativo. Lui invece? Si occupi dei suoi gatti! Lo dico con simpatia perché in fondo Asor sostiene le stesse idee mie, ovviamente con maggior eleganza letteraria. Ma io non sono mai stato a Capalbio. Non frequento le terrazze. Sono figlio di un poliziotto calabrese e di una sarta valsusina. Sono un anarchico pacifico e il mio unico obiettivo, a parte fare il sindaco di San Gioacchino in Fiore, è tenere una rubrica dal titolo "Il coglione sinistro"».
Non potrà più affidargliela il suo amico Furio Colombo.
«Una vicenda paradossale. Furio cacciato perché troppo di sinistra da gente come Fassino che, quando lui era presidente della Fiat Usa, dava manforte ai picchetti davanti alla Fiat Mirafiori insieme con Giuliano Ferrara. Dicono che l'
Unità perda copie. Forse perché pubblica lenzuolate di interviste a D'Alema, anziché i miei articoli...».
Censura?
«No. Autocensura».