venerdì 1 aprile 2005

terapie...

Corriere della Sera 1.4.05
Napoli, scarcerato dal Tribunale del Riesame: gli incontri utili al suo recupero
Evade per amore della psicologa. Il giudice: gli fa bene


NAPOLI - Fare l’amore con la psicologa che l’aveva in cura, rientrava nella sua terapia di recupero. E pur di essere presente a tutti gli appuntamenti, era evaso dagli arresti domiciliari. Niente male come scusa, vero? Macché. Aveva ragione lui, un 45enne ex tossicodipendente, che quando il mese scorso fu arrestato per essere venuto meno agli obblighi di pena, così si era giustificato. Ai magistrati aveva spiegato che i rapporti sessuali con la donna costituivano appunto un momento della terapia di recupero, tesi sostenuta anche dalla psicologa che aveva parlato dell’instaurazione tra medico e paziente di un «transfert erotico». Ebbene, ieri, il Tribunale del Riesame di Napoli ha accettato questa spiegazione e ha riaffidato l’uomo alla comunità del Casertano in cui era detenuto con il ripristino della misura degli arresti domiciliari.
Protagonista della vicenda, oltre all’ex tossicodipendente napoletano, è una psicologa di 20 anni più giovane. I giudici dell’ottava sezione del Riesame hanno accolto le tesi dell’avvocato Paolo Cerruti, difensore dell’imputato. «È stata una scelta di intelligente politica giudiziaria - ha commentato il legale -. In questo modo si ripropone il tema dell’affettività dei detenuti: sono convinto, del resto, che garantire gli incontri con la propria compagna serva a favorire il recupero sociale».
L’arresto risale al mese scorso quando l’ex tossicodipendente che era appunto ai «domiciliari» nella comunità casertana dopo essere stato coinvolto in un furto, tornò in carcere. La polizia, controllando le presenze nei vari alberghi disseminati sul litorale Domizio scoprì che l’uomo si era più volte recato in uno di questi hotel insieme con la psicologa, violando gli obblighi dei domiciliari. Gli incontri avvenivano sempre al ritorno da Napoli, dove l’uomo aveva ottenuto il permesso di lavorare. Per quanto gli orari previsti per il ritorno in comunità venissero rispettati, la corte di appello di Napoli decise per l’uomo la detenzione. Ieri, infine, il Riesame ha ribaltato il verdetto dopo aver acquisito la deposizione della psicologa che si è soffermata sul rapporto con il paziente e sul feeling erotico-sentimentale che, secondo lei, avrebbe rappresentato una fase importante per il recupero.

depressione in Cina

Agi.it
DEPRESSIONE: CINA, CENTO MILIONI NE SOFFRONO

(AGI/AFP) - Pechino, 1 apr. - Secondo l'istituto di ricerche psichiatriche dell'Accademia delle Scienze della Cina, sono circa cento milioni i cinesi che soffrono di depressione, vale a dire l'otto per cento della popolazione, e per la maggior parte non sono mai stati curati.
Tuttavia, sintomi di depressione sono stati accusati da un quinto della popolazione cinese, afferma lo specialista psichiatrico dell'Universita' di Pechino, Tang Denghua, il cui studio viene riportato oggi dai giornali cinesi; e nonostante l'alto numero dei malati, l'85 per cento dei casi diagnosticati non ha ricevuto una terapia adeguata.
"La maggior parte di coloro che ne soffrono non la considerano una malattia si legge nello studio svolto da Tang - e pochi chiedono il parere del medico. Due terzi dei malati hanno coltivato pensieri di suicidio".
Da precedenti studi risulta che il 90 per cento dei cinesi morti suicidi non aveva mai chiesto aiuto psichiatrico, ne' era mai stato assistito da neuro-psichiatri.

(AGI) Gus 010845 APR 05 .
010938 APR 05
due segnalazioni di Gianluca Cangemi

Le Scienze 28.03.2005

Il riconoscimento dei volti da parte dei neonati
Le loro eccezionali capacità vengono perse dopo nove mesi di vita

I neonati umani ai quali vengono mostrati volti di scimmie sono in grado di discriminare fra loro anche dopo mesi, e persino di distinguerli dalle facce di scimmie che non avevano mai visto prima, mentre i bambini che non avevano ricevuto un simile addestramento sembrano perdere questa capacità. Lo rivela uno studio di ricercatori dell'Università di Sheffield pubblicato sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences".
Nei primi mesi di vita, gli infanti sono eccezionalmente bravi a discriminare fra molti tipi di volto differenti, persino fra quelli di specie diverse dalla nostra. Questa capacità, però, vene persa attorno ai nove mesi di età. Oliver Pascalis e colleghi si sono chiesti se il sistema di elaborazione del volti umani fosse abbastanza flessibile da consentire il riconoscimento di facce non umane. Gli autori hanno mostrato fotografie di sei macachi a bambini di età compresa fra sei e nove mesi. Quando sono stati sottoposti a una verifica dopo aver compiuto i nove mesi, i bambini di un gruppo di controllo che non era stato precedentemente esposto alle immagini non riuscivano a distinguere fra loro i volti delle scimmie. Quelli che erano stati esposti alle fotografie, invece, non soltanto erano in grado di discriminare fra le singole facce estratte dallo stesso set di immagini, ma anche fra nuove scimmie che non avevano mai visto prima.

O. Pascalis, L. S. Scott, D. J. Kelly, R. W. Shannon, E. Nicholson, M. Coleman, C. A. Nelson, "Plasticity of face processing in infancy". Proceedings of the National Academy of Sciences (2005).

Le Scienze 14.03.2005
I volti vengono riconosciuti come le parole
Ogni lettera e ogni caratteristica del viso deve essere isolata dal resto

Pur trattandosi di cose completamente differenti, i volti e le parole vengono riconosciuti nello stesso modo, a partire dalle loro parti. Lo sostiene uno studio pubblicato sul numero di febbraio della rivista "Journal of Vision".
Era stato ipotizzato che i volti e le parole venissero elaborati dal cervello in maniera differente, ovvero che i volti fossero riconosciuti come un tutt'uno mentre le parole e altri oggetti venissero identificati attraverso le loro parti. Tuttavia, lo studio condotto da tre neuroscienziati dell'Università di New York rivela che come gli individui usano le lettere per riconoscere le parole, usano le caratteristiche facciali per riconoscere i volti.
Marialuisa Martelli, Najib Majaj e Dennis Pelli hanno condotto alcuni esperimenti nei quali hanno chiesto agli osservatori di concentrarsi su un punto nero, a destra del quale c'era una lettera. Alla sinistra c'era invece una parola di tre lettere, con la lettera di mezzo uguale a quella a destra del punto. Altri esperimenti riguardavano invece volti manipolati e caratteristiche del viso: in questo caso, a destra del punto sul quale si concentravano gli osservatori c'erano delle labbra di varia fattezza (spesse, sottili, sorridenti o minacciose) e sulla sinistra una faccia completa.
Quando le parole sulla sinistra erano spaziate normalmente e la faccia era di proporzioni normali, i soggetti avevano molte difficoltà a identificare la lettera e le caratteristiche delle labbra al di fuori della propria visione periferica. Pelli ne conclude che il contesto ostacola l'identificazione e sommerge ciò che deve essere identificato. Un secondo esperimento, nel quale gli osservatori erano immersi in un contesto che rendeva più facile il riconoscimento, ha confermato che, per riconoscere una parola o un volto, ogni lettera o ogni fattezza del viso deve essere isolata dal resto.

Pietro Ingrao

Liberazione 31.3.05
Ingrao: «Non permettete che cancellino l'indicibile
che è in noi».
Grande commozione all'Auditorium

Ieri a Roma la sinistra ha festeggiato Pietro Ingrao come un padre, in occasione dei suoi novanta anni
Roberta Ronconi

«Sono spaventato». La sala cade in un silenzio grave. «Sono spaventato ogni volta che vedo Berlusconi». La platea si libera in una risata. Ma Pietro Ingrao non sta scherzando. «Ho paura che mi venga sottratto quello che va oltre la politica, quell'indicibile che è dentro ogni uomo. Ho paura che mi venga tolta quell'idea dell'umano che mi ha trasmesso quasi un intero secolo di vita vissuta. Ho paura che questa domanda venga cancellata. Vi prego, non permettete che accada».

Pietro Ingrao ieri ha compiuto novanta anni. Lo hanno festeggiato in molti, moltissimi, ieri sera al Parco della Musica di Roma. Sono saliti sul palco amici, politici e artisti. Che hanno riempito la volta dell'Auditorium di parole ricche di calore. Tante parole importanti, tanti ricordi, tanta storia. Ma lui, da ultimo, con il suo discorso breve e appena appuntato ha cancellato ogni cosa, ogni persona. Ogni faccia e ogni parola. Solo lui e le sue parole. Sembrava che le cercasse lì, in quel momento.

Prima i ricordi sulle origini, su quella terra di contadini da cui proviene, la sua Ciociaria. Poi il luglio del '36, quando tutto cambia. Quando la guerra di Spagna lo costringe per «insopportabilità» verso il male, a «cambiare i libri di cinema che prima erano sul mio tavolo, con altri libri». La politica entra totale nella sua vita. «Tutta la vita, tutta la mia persona, immersa nella politica, per tutti questi anni. E quante cose importanti ci ha dato, la politica e la battaglia. La Resistenza, che resta il patrimonio più grande di questa nazione italiana». Ma gli anni passano e «quanti errori ho commesso, dentro il Pci, molti errori». Racconta, Ingrao, come se il filo di questa sua storia fosse teso e finalmente chiaro. «A un certo punto ebbi la visione chiara di quegli sbagli. E per questo decisi di non ricandidarmi alla Camera dei deputati, nonostante me lo avesse chiesto il partito». Qui, il filo della sua vita nel racconto si spezza. «Perché da allora mi porto dentro una domanda... Vivo come in una scissione». «Vedete - continua - mi sono iscritto a Rifondazione comunista, a novant'anni... pensate voi!». La voglia di partecipare non cessa. «Eppure c'è qualcosa che va oltre la politica». Ingrao cerca, esita, cerca ancora. «Non che essa non sia necessaria, anzi oggi più di sempre. Stanno stracciando la Costituzione. E qui io mi domando se non ci doveva essere uno scatto in più. Credo non si sia còlto l'evento, la soglia su cui ci stiamo affacciando». Eppure, «e pure accanto a questa necessità della politica che sempre avverto, sento la tragicità della sconfitta». Ripete quei versi che gli sono tanto cari «Pensammo una torre, scavammo nella polvere».

«Vedete...», ieri sera Gad Lerner lo ha definito un padre, un padre per tutti noi. E così sembra parlarci. «Vedete, la politica, gli obblighi sociali, la norma, le leggi, le chiese... oltre tutto questo c'è un'altra zona che io non riesco ad individuare. Ed è lo smisurato della vita e di ogni soggettività. Uno smisurato che non si riesce ad afferrare. E' l'indicibile che è dentro di noi, una fascia in cui non tutto può essere spiegato. Forse, anche in nome della pietà. Badate bene, non in senso religioso. Pietà come relazione con l'altro, che è umano, come me, ma diverso».

«Sono spaventato», conclude Ingrao. «Non lasciate, vi prego, che questa mia domanda venga cancellata».

Corriere della Sera 1.4.05
Ingrao, utopista attento ai diritti
di PAOLO FRANCHI

Oscuro. Astratto. Fumoso. Un poeta, e un buon poeta, certo; e anche un acuto appassionato di cinema. Ma un pessimo politico, perché niente ha da dare di buono alla politica un astruso filosofo ciociaro, che sempre si arrovella prima di risolversi a scelte regolarmente sbagliate, salvo poi riconoscere dopo decenni, ancora tra dolorosi tormenti, l’errore. Curiosamente ma non troppo, un giudizio di questo tipo su Pietro Ingrao ha accomunato molti suoi vecchi compagni, molti anticomunisti non necessariamente viscerali e anche molti osservatori disincantati delle cose del comunismo (e del postcomunismo) italiano. Certo, in occasione del novantesimo compleanno del vecchio Pietro quasi tutti hanno preferito glissare, scegliendo piuttosto pensieri (Ingrao padre nobile della sinistra, anzi, della democrazia, Ingrao coscienza critica del nostro Novecento) all’apparenza assai densi, ma in realtà di circostanza. Però quel giudizio di fondo, negativo e anche un po’ sprezzante, inutile negarlo, rimane. E vale la pena di ragionarci su: nel mio caso, meglio dirlo subito, dal punto di vista di chi lo comprende bene, ma non lo condivide. Tralascio le critiche ricorrenti all’«utopismo» di Ingrao, che affonda le sue radici in una (inesausta) incapacità quasi fisica di tollerare l’ingiustizia e in un (costante) rifiuto di ridurre la politica unicamente ad arte del possibile. Certo, un po’ di concretezza in più non avrebbe fatto danni. Ma che non si ottenga il possibile senza inseguire l’impossibile lo ha detto Max Weber, non Bakunin. E poi, è stato davvero un utopista permanentemente preda di astratti furori, Pietro Ingrao? Fatico a riconoscermi in questa rappresentazione. Anche perché lo ricordo per imprese che hanno lasciato segni tangibili (la direzione di un’ Unità per i suoi tempi straordinaria, ad esempio); come uomo delle istituzioni (fu, tra il ’76 e il ’79, un presidente della Camera scrupoloso e garantista, in tempi in cui il garantismo non andava proprio di moda); come il comunista più attento all’urgenza di riforme costituzionali e anche elettorali; e pure come il comunista più consapevole della necessità di porre dei limiti al primato della politica e della ragion di partito e di restituire la parola alle «masse», certo, ma pure agli individui. Non è stato e non è solo questo, Pietro Ingrao. Ma, a non tener conto anche di questo, non si capiscono i perché del suo fascino. E non si capisce neanche come mai il Pci abbia avuto, unico partito comunista del creato, una sinistra inquieta, non settaria, molto più critica della destra interna verso l’Urss e il «socialismo reale», attenta più a capire cosa cambiava nella società e nello Stato che a fare da guardiana della rivoluzione.
Sostiene Giuseppe Vacca, intervistato da Francesco Cundari per Il Riformista , che Ingrao (proprio l’Ingrao che si dichiara tuttora comunista e ha appena preso la tessera di Rifondazione) è stato in realtà il primo, vero «socialdemocratico» nella storia del Pci: addirittura molto più di Giorgio Amendola. Mi sembra una forzatura indebita. È vero che persino nelle formulazioni ingraiane all’apparenza più fumose (dal «nuovo modello di sviluppo» invocato negli anni Sessanta alla «ristrutturazione della sinistra» inseguita agli albori del decennio successivo) si può intravedere una critica per così dire «socialdemocratica di sinistra» all’impianto tradizionale del comunismo italiano. Ma è ancor più vero che Ingrao socialdemocratico non lo è stato mai (la sua ultima battaglia nel Pci la condusse, con Enrico Berlinguer, contro la socialdemocratizzazione del partito) e non vuole diventarlo ora. Me ne dispiaccio, ma le sue non mi paiono chiacchiere da vecchio grillo parlante. Auguri, Pietro.

Aprileonline.info 1.4.05
''La politica è importantissima. Ma non è tutto''. Due giorni di festa per Ingrao
Compleanni. "Non pensate a me solo come al politico che ha tante certezze. La soggettività di ognuno è più complessa".
L'omaggio di Roma e di Montecitorio

ALDO GARZIA

Due giornate per festeggiare pubblicamente i novant'anni di Pietro Ingrao. Un atto dovuto a uno dei protagonisti della sinistra italiana, ma anche della storia nazionale del dopoguerra.
Mercoledì pomeriggio, tremila persone si sono date tacito appuntamento al Parco della musica di Roma. Molte facce conosciute e molte altre di gente comune, di quel popolo comunista che una volta riempiva le sezioni di strada del Pci e ne faceva un partito di massa. Prima dei festeggiamenti, c'è per tutti il tempo di visitare una mostra di disegni di Alberto Olivetti e una mostra di foto su Ingrao, che ne ripercorrono la straordinaria biografia: dalla lotta antifascista all'elezione a presidente della Camera dei deputati (1976); dalla ripresa di studi e ricerche con il Centro riforma dello Stato alla decisione di lasciare il Pds (1993).
Tocca a Luciana Castellina, Gianni D'Elia, Ettore Scola e Walter Veltroni – con Gad Lerner in veste di cerimoniere – ricordare le tante sfaccettature della personalità di Ingrao. Castellina batte sul tratto politico di quello che si chiama "ingraismo": una comune ispirazione a capire i mutamenti della società italiana e a collegarli al rinnovamento della tradizione comunista. D'Elia, poeta, parla del suo "collega" Ingrao, che da qualche anno ha ripreso a scrivere e a pubblicare poesie cercando un altro linguaggio (meno netto di quello della politica) per prendere le misure alle emozioni e alle parzialità del conoscere che il fare non risolve del tutto. Scola ricorda la passione di Ingrao per il cinema e il pubblico ne capirà l'emozione, quando sul grande schermo c'è la "prima" di una recente intervista in cui è lo stesso festeggiato a parlare dei film e dei registi che gli piacciono con dovizia di particolari sulla tecnica del montaggio e della narrazione. Ne esce confermata la predilezione per Charles Chaplin, "Luci della città" in particolare. Veltroni rende omaggio all'Ingrao che appartiene alla comunità pubblica in tutta la sua interezza. C'è pure spazio per la lettura – con la voce recitante di Luca Zingaretti – di una missiva inviata a Goffredo Bettini da Ingrao, quando quest'ultimo decise di non accettare la conferma alla presidenza della Camera: è una meditazione sulla contraddizione tra obblighi pubblici e libertà individuale.
Ma è proprio il festeggiato a fare il mattatore, quando sale le scalette che portano sul palcoscenico e si siede da solo su una poltrona per dare il suo saluto agli invitati. Il discorso di Ingrao si divide volutamente in due. Nella prima parte ricorda la recente scelta di iscriversi a Rifondazione comunista, denuncia la manomissione della Costituzione da parte della destra, affonda contro il governo Berlusconi che rapisce perfino la possibilità di sognare e di immaginare un'Italia diversa, fa rapidi excursus anche sui suoi ricordi di bambino a Lenola dov'era la realtà contadina a dettare le sue leggi. Fin qui è l'Ingrao politico che parla, in coerenza con tutta la sua storia.
Nella seconda parte, il neo novantenne racconta un'altra parte di sé: quella che si interroga da tempo sui limiti della politica, sulla soggettività che non si esaurisce nel ruolo sociale che si occupa, su quel bisogno di relazione con gli altri che contrasta con la propria individualità, sull'irriducibilità dell'esistenza. E' la dimensione dell'uomo, accanto all'unicità del singolo, che prende il sopravvento. E' un modo per dire agli altri: "Io sono anche questo, non riducetemi solo al politico".
Chi ascolta, comprende che forse quello che si chiama "ingraismo" ha una radice peculiare: è la capacità di guardare alla politica con occhi diversi da chi sa fare solo politica. Poesia, cinema e letteratura – così tanto amate da Ingrao – arricchiscono la sensibilità nel duro apprendistato del vivere e dello scegliere da quale parte della barricata collocarsi.
Quella di Ingrao è una lezione di vita a tutto tondo, che non chiama in causa solo la coerenza di un tragitto pubblico. Ci vuol dire, come Shakespeare in "Amleto": "Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella tua filosofia". E in questo caso la filosofia è il pensiero e l'azione della politica, che restano fondamentali ma non sono tutto.
Ieri, in mattinata, c'è stato l'omaggio più ufficiale alla Camera con la presenza di molti invitati di riguardo e del presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Alle introduzioni di Pierferdinando Casini, presidente della Camera, e Mario Tronti, presidente del Centro riforma dello Stato che Ingrao ha diretto per molti anni, il festeggiato aggiunge la riflessione sugli anni passati a Montecitorio.
Ecco che racconta la scoperta del Transatlantico e dell'Aula quando era un giovane giornalista dell'Unità, poi l'esperienza da deputato con la convinzione che il Parlamento fosse il luogo della mediazione politica e del comune appartenere alla democrazia riconquistata, la curiosità – da presidente – per il rapporto tra Montecitorio e le assemblee elettive locali. Ma c'è il cruccio di una sconfitta subita proprio negli anni della sua presidenza: è l'assassinio di Aldo Moro, quando – ricorda amaramente Ingrao – "non riuscii a fare nulla per salvare quella vita". Infine, c'è un assillo: quell'articolo 11 della Costituzione ("L'Italia ripudia la guerra") che è stato violato più volte negli ultimi anni.
Casini, in chiusura, gli regala la "campanella" che i presidenti di Montecitorio usano per richiamare all'ordine l'Aula. "Grazie, molte grazie. La darò ai miei pronipoti, che sicuramente si divertiranno a usarla", dice Ingrao con il sorriso bonario del bisnonno.


I seguenti articoli (da Repubblica) sono stati inviati da Melina Sutton

Repubblica, Roma 31 MARZO 2005
AUDITORIUM
Da Foa a Scola applausi e note per festeggiare Pietro Ingrao
GABRIELE ISMAN

Novant´anni di «uno dei padri della sinistra» (Piero Fassino), «di un´esperienza esemplare» (Walter Veltroni), di una persona di «coerenza, onestà intellettuale, di rigore morale» (Vittorio Foa): festa affollata per Pietro Ingrao ieri pomeriggio all´Auditorium tra politica (Napolitano, Reichlin, ma anche Luigi Berlinguer, Nicola Zingaretti, Silvio Di Francia, gli assessori Borgna e Coscia), cinema (Lizzani e Maselli), cultura (Carla Fracci e Simona Marchini) e tanta gente comune. Tutti per Ingrao, che prima visita una mostra di quadri di Alberto Olivetti a lui ispirati e, nello spazio risonanze un´esposizione di foto e documenti aperta fino al 3 aprile. Poi il bagno di compagni, amici e di folla: Ingrao entra nella sala Santa Cecilia accompagnato dal presidente di Musica per Roma Goffredo Bettini, ed è la prima delle quattro standing ovation del pomeriggio.
Presenta Gad Lerner che parla di «un protagonista della storia del Novecento». Poi Luciana Castellina («in Ingrao lungimiranza e capacità d´ascolto»), e Luca Zingaretti. Gianni D´Elia racconta l´Ingrao poeta ed Ettore Scola si commuove parlando del politico che nel 1935 si iscrisse al centro sperimentale di cinematografia. Parla Veltroni: dagli auguri della Fiom di Scalfaro e Marrazzo ai novant´anni di vita e storia italiana, e un regalo. Poi un´intervista in video, dall´amicizia con Luchino Visconti al neorealismo e poi, finalmente, Ingrao sul palco: mezz´ora di riflessioni fra ricordi e moniti. «Stanno stracciando la Costituzione. Sono spaventato quando guardo Berlusconi» dice Ingrao: il novantenne ha ancora voglia di lottare. A seguire, concerto di pianoforte.

Repubblica 31 MARZO 2005
IL PERSONAGGIO
Duemila persone per lui all´Auditorium. "Quel comizio in Irpinia, con i contadini in lacrime..."
Ingrao, 90 anni e un sogno "Non fate mai più la guerra"
GOFFREDO DE MARCHIS

ROMA - La commozione di Ettore Scola, una lettera vecchia di tredici anni che è una lezione di stile e di vita, gli amici di sempre. Tra tanti occhi lucidi, la voce più ferma e le parole più nette le pronuncia il festeggiato: Pietro Ingrao. «Non permettete che questa domanda venga cancellata: cos´è l´umano, cos´essere umano? - dice Ingrao - . Ho paura che mi venga tolta la Costituzione e con essa l´idea dell´umano perché sono spaventato ogni volta che vedo Berlusconi». Novant´anni compiuti proprio ieri, celebrati con una festa all´Auditorium di Roma, messo a disposizione dal suo presidente Goffredo Bettini, amico e allievo di Ingrao, destinatario di quella lettera del 1992. Si fa politica per difendere «gli umili e ancor di più gli offesi», scriveva Ingrao. La si fa per se stessi, prima che per gli altri, perché certe «sofferenze mi sono insopportabili».
Nella Sala Santa Cecilia, la più grande del complesso musicale romano, c´erano più di duemila persone. Tanti volti sconosciuti e tanti anche noti: Piero Fassino («Pietro è un simbolo»), Walter Veltroni, Sandro Curzi, Carla Fracci, Giorgio Napolitano, Aldo Tortorella, Vincenzo Vita e tanti altri. Ancora più numerosi sono i messaggi di auguri giunti all´ex presidente della Camera: quelli del suo nuovo segretario Fausto Bertinotti, di Achille Occhetto, di Piero Marrazzo, di Mussi, di Scalfaro, di Domenici e della Lorenzetti. Oggi la festa si trasferisce alla Camera dove Pier Ferdinando Casini e Carlo Azeglio Ciampi racconteranno il «loro» Ingrao.
Accompagnato dalla sorella, il vecchio Pietro visita la mostra allestita con il suo archivio dall´assessorato alla Cultura della Provincia di Roma. In un´altra sala, sono esposti i ritratti dipinti da Alberto Olivetti durante un soggiorno nel ritiro di Lenola, vent´anni fa. Ingrao dice che sulle grandi pareti dell´Auditorium hanno tutto un altro effetto. Tocca a Gad Lerner tirare i fili della serata, dal palco. Vengono lette alcune poesie scritte da Ingrao, Scola ricorda il politico strappato al cinema e si commuove raccontando un comizio del dirigente comunista ad Avellino, un episodio che assomiglia alla scena di un film: Ingrao, sul podio, descrive un contadino che si toglie la coppola davanti al padrone e il figlio, accanto a lui, sta per fare lo stesso. Ma qui Ingrao inserisce il colpo di scena e urla "No". I contadini irpini piangevano in quella piazza e anche Scola ha un groppo in gola, adesso: «"Nessuno è solo", disse Pietro quella sera».
Ma Luciana Castellina non ci sta a celebrare solo l´Ingrao letterato oppure cineasta mancato per un soffio. E il politico? «Avanzò le critiche più dure all´Urss e al partito - dice - . Ogni volta che bisognava prendere una decisione ci chiedevamo: cosa farà Pietro. E oggi i no global lo amano». Veltroni racconta di un pranzo di qualche giorno fa in Campidoglio. «La sua vita è un´esperienza esemplare - sono le parole del sindaco - . Lo dobbiamo ringraziare per la scelta che ha permesso al Paese di risorgere, per la difesa della Costituzione che gli italiani sapranno preservare». Ingrao è seduto in prima fila e prende appunti, come se fosse a un congresso, non a una festa. Quando sale sul palco si fa silenzio: «La Resistenza è stata la cosa migliore che ho dato al Paese - dice - . Ma noi pensavamo che quella guerra fosse l´ultima e invece... Facciamo di tutto per opporci alla strappo della Costituzione e soprattutto dell´articolo 11 in cui si ripudia la guerra. A voi realizzare questi sogni». Ancora occhi lucidi. E applausi.

Repubblica 30 MARZO 2005
Ingrao: "il mio Chaplin"
Intervista al dirigente comunista che compie oggi novanta anni
MARIO SESTI

"La pellicola che preferisco? Quella di ‘Luci della città´, soprattutto per il suo finale straordinario, così allusivo e assoluto"
Da ragazzo amava forse più il cinema della politica. Ora ricorda che quando nel ´36 voleva fare il regista, l´antifascismo divenne più importan
"Anche ‘Paisà´ e ‘Ladri di biciclette´ riescono quasi a fare a meno delle parole"
"L´ultimo titolo che mi ha colpito è ‘La sottile linea rossa´ dell´americano Malick"
E´ vero che lei ha dovuto rinunciare alla sua passione per il cinema a causa della lotta contro il fascismo? E´ vero che da studente del Centro Sperimentale di Cinematografia è stato tirato dentro la battaglia politica "a forza"?
«C´era stato l´attacco alla repubblica spagnola e da quel momento ho iniziato a vivere l´esperienza dell´iniziazione alla politica antifascista. Quello è stato per me un crinale decisivo. Mi ricordo quel luglio terribile del ´36, quando è scoppiata l´insurrezione di Franco, e abbiamo visto l´avanzata del fascismo che oramai si dispiegava ovunque. Sono cominciati degli anni terribili e a quel punto, per usare una frase di rito, sono cambiati i libri sul mio tavolo. Io che avevo fatto il primo anno di studio di cinema al Centro Sperimentale, e volevo fare il regista, ho ceduto - ma ceduto non è davvero il verbo giusto - alle pressioni dei miei compagni che già erano più avanti nella cospirazione. Uno fra tutti, Antonio Amendola. Sono apparsi altri libri, è cominciato il mio impegno nella politica e allora il cinema è rimasto un amore».
Quando è che ha un po´ lasciato da parte il cinema e non l´ha più seguito con la stessa assiduità? Per quale ragione?
«La vecchiaia. Io sono molto, molto anziano. Ma ho scritto più volte di cinema e presumo di capire più di cinema che di politica».
Se dovesse citare i film che più amato, i pezzi di cinema che più le sono rimasti impressi e che più hanno contato nella sua vita, quali film o autori le verrebbero in mente?
«Uno, prima di tutti. Chaplin. E un film soprattutto: Luci della città. Non è forse il più bel film di Chaplin, forse Tempi moderni è più bello, però Luci della città ha un finale straordinario: quando la ragazza cieca ritornata guarita dall´America, rincontra il vagabondo che passa per la strada, ridotto proprio male. Lui resta colpito da questa apparizione improvvisa e lei lo riconosce, ma non con gli occhi, perché non l´ha visto mai. E come? Spolverando, toccando leggermente la giacca del vagabondo. Non c´è nulla di parlato ma l´intera, breve sequenza, mi sembra di una estrema, grande allusività. In pochi, muti attimi, passano tante domande sulla vita e una capacità del cinema di essere cinema assoluto, puro, senza una parola. Poi, per il cinema italiano, mi viene in mente Paisà. L´episodio finale, quello della lotta partigiana nelle paludi. Anche lì, non c´è quasi parola, i personaggi non si parlano, avviene tutto per cenni, in uno sterminato silenzio. Non solo mi sembrava il più bello di tutto il film, ma una delle cose migliori di Rossellini: un pezzo di cinema straordinario che mi riportava a questa idea del cinema come immagine, e poi insomma, come a dire, parlava della guerra senza parlarne. E´ uno dei momenti del cinema neorealista che ancora stavano parecchio dentro l´estetica del cinema che avevo in testa io, prima dell´avvento del sonoro.
«E poi il finale di Ladri di biciclette, quando il personaggio, dopo il furto della bicicletta, viene assediato dalla folla e lo vogliono ammanettare. C´è quella scena molto bella in cui il padrone della bicicletta lo guarda in faccia come a dire "ma questo è un poveraccio come me". Allora lo lasciano andare. E c´è una sequenza brevissima, in cui il padre e il fanciullo si danno la mano e rimangono soli con tutto il mondo intorno. Un pezzo di efficacia straordinaria: che un po´ anche mi sorprese, all´epoca, perché, sapevo che De Sica aveva tante qualità ma non sospettavo possedesse quella vena struggente. Quello, diciamo così, in un museo delle cose più belle del cinema, io lo ritaglierei e poi lo metterei in un quadro come icona, insieme a Luci della città e a Paisà».
Qual è l´ultimo film che ha visto in sala dal quale è rimasto colpito?
«Quel film di quel regista americano sulla guerra in Giappone, come si chiama. La sottile linea rossa, di quel regista americano».
Terrence Malick
«Sì. C´era una bellezza singolare che non era tanto nella storia, anzi, la rappresentazione dei soldati mi sembrava piuttosto usuale. Non era quello che determinava la qualità del film. Però nella rappresentazione del paesaggio, c´erano dei pezzi che mi sembravano straordinari. C´è tutta una parte del film cui si vedono solo le vampe delle cannonate e poi il modo in cui fa vedere quelle colline presso cui si svolge tutta la battaglia.
«Ecco, lì c´è un´idea, una rappresentazione della guerra che mi sembra di grande forza. E anche, direi, più semplicemente, di grande malinconia poetica. Anche se, quando poi fa parlare i personaggi, il film diventa più convenzionale. Però l´uso di quel sonoro e quelle immagini mi sembrarono davvero notevoli».
Pensa ci sia un rapporto tra il cinema e la poesia (che è un´altra sua grande passione)?
«Sono due linguaggi diversi anche se sono tutti e due riconducibili a quell´idea che chiamiamo arte. Poi cosa sia l´arte, ci sono biblioteche intere che se lo chiedono. Però i due linguaggi sono molto diversi, mi sembra. La poesia, diciamo così, è una musica più segreta, più sottile. Tornando a quell´episodio di Luci della città, insomma, è più importante lo sguardo di Chaplin o il modo con cui la mano di lei tocca la giacca del vagabondo, la capacità del cinema di possedere un´allusività molto forte. Che spesso non è riconosciuta, perché il cinema viene letto come copia del reale. Sembra che la sua qualità stia nella quantità di realtà che può riprodurre. Invece è una bugia, perché non è così. Per me, almeno. Però la poesia ha qualcosa di diverso, qualcosa in più, che è la musica. Mentre nel cinema, tutto sommato, anche nelle scene più intense, più raccolte, più intime, beh, noi quello che vuol dire lo vediamo. Più che ad un verso, corrisponde ad un parlare scandito. Qualcosa che si vede, qualcosa che quasi lo tocchi con la mano».
Senta, le posso chiedere se c´è un film che più di altri ha raccontato il mondo della politica in maniera più autentica? Lei, spesso, quando ha parlato della politica, ha parlato della sua fatica, la fatica di dover comunicare, di dover parlare, di dover incontrare persone, eccetera. Per esempio, lei ha scritto di avere una grande ammirazione per le persone che sanno parlare a tantissime altre e nella sua vita le è capitato spesso di incontrarne e di essere lei stesso una di queste persone. Questo piacere o questa fatica della politica, le sembra siano state raccontate in un film?
«Mi pare proprio di no. Ho parlato da qualche parte di qualcosa che sembra un dato molto esteriore della politica: il comizio. Tu sali su un palco, hai dinanzi, come ce le ho avute io molte volte, la piazza piena di gente, a volte strapiena di gente. E un po´ una sceneggiata, un atto teatrale. I saluti, la presentazione, gli evviva, le bandiere. Tutto questo, però, è come l´involucro. Poi comincia invece una cosa molto più difficile e più profonda: tu che stai là sopra, riuscirai a comunicare veramente, cioè a interessare quelle persone, che a volte sono migliaia, a volte sono molte migliaia, molto diverse, grandi, piccoli, bambini? Lo scopri solo se c´è un momento, del comizio, del tuo discorso, in cui senti che ti puoi fermare, senza nemmeno finire la frase. Ti fermi e t´accorgi che la piazza non si muove perché aspetta il seguito della tua frase. Se in quel momento t´accorgi che ti puoi fermare, bere un bicchier d´acqua, soffiarti il naso o non fare nulla e la piazza sta ferma a sentire, allora vuol dire che s´è creato un filo, una comunicazione, un legame tanto forte quanto impalpabile tra te e la massa di persone che ti stanno ad ascoltare».
Un po' come al cinema
«Eh, forse».

Pietro Ingrao a Montecitorio

L'Unità 1 Aprile 2005
Ingrao: «Non si rompa l’unità dell’Italia»
Festeggiati alla Camera i suoi 90 anni. Il più grande rammarico,
Moro: «Per lui non seppi far nulla»

Bruno Gravagnuolo

Standing ovation e difesa del Parlamento. Con tanta commozione irrituale, che diviene palpabile allorché Ciampi - che aveva ascoltato il festeggiato con la massima attenzione - si alza in piedi e si associa agli applausi di tutta la sala della Lupa della Camera. Che regala a Pietro Ingrao un omaggio corale. È stato il suggello di una commemorazione in vita del tutto speciale. Quella per i 90 anni di Pietro Ingrao alla Camera, alla quale hanno partecipato Pierferdinando Casini, attuale presidente della Camera, Mario Tronti, presidente del Centro per la Riforma dello Stato e lo stesso Ingrao, con un discorso lucidissimo che andava dritto al cuore del presente. Tra il pubblico oltre a Ciampi, Amato, Forlani, Fassino, D’Alema, Scognamiglio, Bertinotti, Reichlin, Macaluso e tanti altri, assieme a familiari di Ingrao, amici, gente comune. Con un messaggio forte: questa Repubblica è fondata sulla centralità del Parlamento. E solo di qui può nascere la civiltà e il rispetto reciproco, pur nel massimo di conflitto politico. Che questo fosse il senso della giornata l’ha chiarito subito Pierferdinando Casini, ricordando come «la passione politica di Ingrao si univa alla visione forte e intransigente della centralità del Parlamento». Grande fu infatti per Casini il suo contributo fattivo, volto a dare «spessore» alle istituzioni «attraverso la custodia attenta delle prerogative parlamentari nel quadro dell’equilibrio tracciato dalla Carta Costituzionale». Casini non manca di ricordare che con il maggioritario «la centralità del Parlamento ha assunto un altro significato». E tuttavia rimarca l’integrità dell’intuizione ingraiana: «la giusta tendenza a vedere nel Parlamento il luogo della sintesi più alta della comunità nazionale». Poi il Presidente della Camera ricorda il disinteresse e l’onestà intellettuale di Ingrao, che non esitò a difendere «i diritti umani» anche dinanzi alla tragedie di quel comunismo in cui Ingrao ha creduto e crede. E chiude Casini elogiando il clima della mattinata, «che mostra la possibilità di convivenza e stima tra tra personalità di opposti schieramenti».
Mario Tronti esordisce con un prologo polemico rivolto alla sinistra. Cita prima Jünger e Schmitt che dicevano «che a 90 anni non si è anziani, ma patriarchi». Poi definisce Ingrao «patriarca della sinistra». E però «di una sinistra revisionista ben diversa dal revisionismo corrente e ben diversa anche da quanti - ingraiani non autorizzati - sono stati poco fedeli all’impegno». Ma dov’è la «diversità» di Ingrao?: «Non c’è distinzione in Ingrao - spiega Tronti - tra etica della convinzione ed etica della responsabilità». E in lui si coniugano bene «forte carica ideale e senso dello stato». Il comunismo? «Un mito positivo con inflessioni religiose, capace di parlare al mondo cattolico. Un’idea di avvenire dal basso, e di potere come giustizia quotidiana partecipativa». Infine per Tronti, Ingrao è «la rappresentanza contro il feticcio della governabilità e contro i rischi autoritari che vi si associano».
Tocca a Ingrao, che parla di getto e con pochi appunti sott’occhio. Racconta della sua carriera di giornalista parlamentare a cui lo aveva destinato il partito prima di diventare direttore de l’Unità. E ricorda la figura di un parlamentare comunista sardo, Renzo Laconi. Che gli spiegò che «i deputati del Pci erano lì non come comunisti ma come deputati della nazione, depositari nella loro coscienza di dignità in quanto tali». Ed è un punto chiave questo, grazie al quale Ingrao fa giustizia implicita di una concezione «proprietaria» e «commissaria» della rappresentanza. Quella che la Cdl vuole affermare nel segno di un «premierato» mai esistito, e che stride con la liberaldemocrazia. Ingrao parla del Parlamento come comunità della nazione, che era capace di sollecitare l’esecutivo a rispondere. Sempre, e come fatto fisiologico. E della sua amicizia con Scalfaro, superando vecchi pregiudizi. Poi ricorda il caso Moro e si duole di non aver avuto la forza di battersi per la trattativa, per salvare un uomo chiave della Repubblica: «Non seppi far nulla e fu la tragedia che segnò il mio mandato». Rievoca la sua rinuncia a candidarsi di nuovo alla Presidenza della Camera, per capire quel che accadeva nella bufera della Repubblica di allora e nel mondo che cambiava. A Ciampi dice: «Vorrà essere paziente se sono un po’ noioso e torno sull’art. 11 della Costituzione. Ma sarei un bugiardo se non dicessi che nel mondo si sta legittimando la guerra e che questo mi spaventa». Elogia Ciampi, «per i suoi viaggi nelle cento città che cementano l’unità degli italiani». E chiude con l’appello a non rompere la compagine della nazione. Alla fine Casini regala il campanello di Presidente della Camera a Ingrao. Che dice ancora: «Lo regalerò ai miei pronipoti che ci giocheranno, anche se questo non è un gioco». E qui la sale esplode. Ciampi si alza in piedi e poi parlotta con Ingrao. Nella calca non si sente quel che dicono. Ma che Pietro ha fatto breccia, si capisce.

Bertinotti sulle elezioni in Toscana
e in un'intervista su Aprileonline

L'Unità 1 Aprile 2005
Bertinotti: «La divisione in Regione non è colpa nostra»

C'è una divisione, ma non l’abbiamo certamente voluta noi. La Toscana costituisce un'eccezione a l'Unione». Lo ha detto il segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti a margine dell'incontro elettorale a Firenze a sostegno del candiato presidente del Prc, Luca Ciabatti, che corre diviso dal candidato del centrosinistra Claudio Martini. «Questo -ha commentato Bertinotti- renderà più difficile la collaborazione nel 2006 e lascerà indubbiamente degli strascichi». Bertinotti ha però sottolineato che «l’alternativa a Berlusconi rende comunque acuto anche qui il tema dell'unità. Bisognerà in ogni caso -ha concluso- discutere seriamente del perchè si è arrivati a questa divisione». Nella mattinata di ieri il candidato di Prc alla guida della Regione, Luca Ciabatti, ha avuto un incontro con l’Arci fiorentina. Diritto di voto agli immigrati, ripubblicizzazione dell' acqua, conversione di Camp Darby a usi civili e legge sulla partecipazione. «È arrivato il momento di dare il diritto di voto agli immigrati - ha detto Ciabatti - Riguardo la ripubblicizzazione dell' acqua, darò insieme al Prc tutto il mio sostegno affinchè possa diventare legge regionale. Dobbiamo rimettere in discussione le servitù militari e la conversione ad uso civile di Camp Darby è un tema non più rinviabile».

Aprileonline.info 1.4.05
Centrosinistra ottimista. Colloquio con Fausto Bertinotti
Regionali. L'Unione ''porta a porta'' nel paese reale, i sondaggi sono favorevoli, anche Massimo D'Alema parla di una ''campagna di grande intensità''
Alessandro Cardulli

Un ottimismo crescente: così gli esponenti del centrosinistra ormai a poche ore dalla chiusura della campagna elettorale, mentre Romano Prodi svolge il ruolo di frenatore.
"Ho visto una grande partecipazione di popolo -dice Fausto Bertinotti, segretario di Rifondazione, a convalida dell'ottimismo- un segno che dalla società si sta innalzando una forte domanda di cambiamento che riguarda i governi locali per arrivare fino al governo nazionale. Il paese reale è assai distante e diverso da quanto le destre vogliono farci credere". "La partecipazione e il coinvolgimento mi induce ad essere ottimista-ribadisce Massimo D'Alema dalla Puglia- e a credere che il centrosinistra vincerà questa prova elettorale conquistando il maggior numero di Regioni con il maggior numero di voti. Mentre Berlusconi e i "governativi" occupano tutti gli spazi possibili nelle televisioni, pubbliche e private, dalla Rai a Mediaset, giù giù fino alla emittenti locali, le opposizioni unite rafforzano il loro rapporto con i cittadini, con il paese reale cui faceva riferimento Bertinotti nell'intervista che ci ha rilasciato in occasione di questo nostro secondo "viaggio" nella campagna elettorale.
Comizi dei leader nazionali, dei segretari dei partiti, tante iniziative dei candidati: nelle grandi città, nei centri più piccoli,ovunque si sviluppa quello che Piero Marrazzo, candidato alla presidenza della Regione Lazio, chiama un gigantesco "porta a porta" che niente ha a che vedere con quello di Vespa e Berlusconi.
Un eloquente squarcio del panorama elettorale, ce lo offre l'adunata fallita dei giovani promossa a Firenze dal commissario della Croce Rossa, dimissionario per finta, Maurizio Scelli. In questi ultimi giorni ultimi giorni le destre si stanno esibendo in tutto il loro squallore. Ma, insieme, esibiscono anche la loro paura di perdere. Anche da qui nasce l'ottimismo degli esponenti del centrosinistra. Dice Pecoraro Scanio leader dei Verdi: "Nemmeno la Croce Rossa potrà salvare la Cdl da una rovinosa sconfitta. I giovani non sono stupidi e non si fanno irretire dalle sirene del centrodestra. La gravissima strumentalizzazione della Cri conferma la debolezza della Cdl. E' stata messa in atto una spericolata manovra per racimolare qualche voto. Non servirà a niente".
I sondaggi indicano una tendenza favorevole, ma i distacchi sono minimi, i margini di errore consistenti, gli indecisi ancora in numero rilevante. L'ottimismo si basa su quella che il segretario di Rifondazione, proprio in contrasto con le poco edificanti prestazioni del centrodestra, definisce una "campagna di grande intensità". "In questi giorni- afferma- le destre e Berlusconi stanno giocando la carta della disperazione, si affidano alla bassa propaganda, ai toni aspri, alle promesse che non manterranno. Sanno che i loro consensi sono in notevole ribasso e sanno altresì che se perderanno alcune regioni chiave, penso a una tra Lazio, Piemonte e Puglia entreranno in una crisi irreversibile". Torna così al "clima". Parte dalle iniziative di Rifondazione che "hanno registrato entusiasmo, consensi e partecipazione, attraversando tutta la società, tutte le età, tutte le categorie lavorative. Ci ha colpito in particolare la presenza numerosa di giovani e i tanti lavoratori costretti a fare i conti con una crisi economica che sta mettendo in ginocchio il paese. La forza di Rifondazione sta proprio nel riuscire a intercettare la domanda di cambiamento che cresce nella società e, nello stesso tempo, coinvolgere e rendere partecipi tutti questi soggetti di un nuovo percorso politico. Per questo guardo con ottimismo al voto di domenica e lunedì. Un voto per cambiare, per dare a questo paese un assetto di governo diverso, per dire basta a Berlusconi,alle destre, alle sue politiche neoliberiste. Le Regioni, le Province, i Comuni possono costituire la prima chiave di cambiamento, il primo segnale significativo che un altro modo di governare è possibile".
In questo nostro secondo viaggio elettorale abbiamo incontrati altri leader. Valutazioni identiche Vengono da Oliviero Diliberto, segretario del Pdci, che guarda al dopo elezioni. "Se il centrodestra perde un numero consistente di Regioni dove governa è un segnale politico che dovrebbe indurre Berlusconi a dimettersi. Soltanto la sua strafottenza gli consentirà di rimanere ancora a Palazzo Chigi. Noi prevediamo di vincere e di convincere. Sarà un banco di prova per le elezioni politiche".
Di buonumore Francesco Rutelli, leader della Margherita, si rivolge a Berlusconi affermando che "il ragazzo è confuso. Prima aveva detto che non partecipava alla campagna elettorale poi ci ha ripensato. Mi augurerei che andasse a concludere le campagne elettorali in tutta Italia perché sono ormai tre anni che tutte quelle chiuse dai comizi di Berlusconi vedono regolarmente la vittoria del centrosinistra". E Berlusconi parlerà a Roma per sostenere Storace. Speriamo mantenga il ritmo.

Hans Christian Andersen

La Stampa 1 Aprile 2005
ANDERSEN l’erotica ossessione
di Harold Bloom

TUTTORA sono molti i bambini americani affascinati dalle favole di Hans Christian Andersen e molti gli adulti che le leggono ai propri figli, ma sarebbe un errore confondere lo scrittore con il garbato sognatore interpretato da Danny Kaye in un film biografico non particolarmente fedele.
La produzione letteraria del vero Andersen è sterminata, ed è destinata tanto agli adulti che ai bambini.
Nato il 2 aprile 1805 a Odense, allora una povera cittadina non lontana da Copenhagen, Andersen proviene da una famiglia di umile estrazione, il padre era un ciabattino e la madre una lavandaia forse costretta dalle difficili circostanze alla prostituzione.
Sebbene ad Andersen non faccia difetto l'originalità nelle sue fiabe, la stoica accettazione del Fato che le contraddistingue deriva direttamente dal folklore. Secondo Nietzsche nella vita è sempre opportuno tenere distinta l'origine dalla meta. In Andersen non troviamo un simile desiderio e questo gli è costato molto: non ha mai avuto una casa né una storia d'amore duratura, ma gli ha consentito di raggiungere uno straordinario livello letterario. Come quelle di Walt Whitman, le autentiche tendenze sessuali di Andersen erano omosessuali. Nella pratica, l'orientamento di entrambi era piuttosto autoerotico, anche se il desiderio di Andersen per le donne era più intenso di quanto non fosse l'ampiamente letteraria propensione di Whitman per l'eterosessualità. Ma Whitman era un poeta profeta che offriva la salvezza (non cristiana). Sebbene Andersen professasse invece una devozione piuttosto sentimentale per Gesù bambino, la sua arte è essenzialmente di natura pagana.
Il suo contemporaneo danese, Kierkegaard, avvertì fin dall'inizio e con perspicacia questi segnali. Dalla prospettiva del XXI secolo, stranamente, Andersen e Kierkegaard sembrano dividersi la palma dell'eccellenza nella letteratura danese. Cosa c'è nelle storie di Andersen che le rende eterne? Kierkegaard aveva ben identificato il proprio progetto: mostrare la difficoltà di essere cristiani in una società dichiaratamente cristiana. Andersen, più nascostamente, aveva un progetto differente: come restare bambini in un mondo dichiaratamente adulto.
Personalmente non vedo alcuna distinzione tra la letteratura per ragazzi e la buona o grande letteratura per ragazzi estremamente intelligenti di tutte le età. J.K. Rowling e Stephen King sono entrambi pessimi scrittori, due titani perfetti per il nuovo Medioevo dello schermo: computer, cinema, televisione. Viene spontaneo spronare i ragazzi di tutte le età a leggere e rileggere Andersen e Dickens, Lewis Carroll e Edward Lear, invece di Rowling e King.
Quando faccio queste dichiarazioni in pubblico mi sento spesso ribattere: non è meglio leggere prima Rowling e King e quindi passare a Andersen, Dickens, Carroll e Lear? La mia risposta è pragmatica: il tempo che ci è stato concesso è limitato. Ogni libro letto o riletto va necessariamente a scapito di altri. Se potessimo vivere per diversi secoli, ci sarebbe probabilmente il tempo sufficiente, ma il principio di realtà ci obbliga ad una scelta.
Andersen ha intitolato una delle sue autobiografie La favola della mia vita. È un titolo emblematico di quanto sia stato doloroso per lui emergere dalla classe operaia danese del primo Ottocento. Il fine principale della sua carriera era di guadagnare onori e fama senza dimenticare come era stato difficile raggiungerli. Il suo ricordo del padre che gli leggeva Le mille e una notte resterà quello più intenso. Immergersi nelle biografie di Andersen è un processo curioso: quando prescindo da quello che ho appreso, ho l'impressione di un giovane eccezionalmente diretto che marcia su Copenhagen e viene travolto dalla gentilezza degli stranieri. Questo aspetto del suo carattere è durato per tutta la vita: in viaggio per l'Europa si è presentato a Heine, Victor Hugo, Lamartine, Vigny, Mendelssohn, Schumann, Dickens, i Browning e molti altri. Instancabile cacciatore di celebrità, desiderava soprattutto diventarlo egli stesso e ci è riuscito inventando fiabe.
Andersen è stato straordinariamente prolifico in tutti i generi: racconti, racconti di viaggio, poesia, teatro, ma era e sarà sempre ricordato per le fiabe, che ha saputo trasformare in creazione originale, fondendo la vita comune e il soprannaturale in un modo che continua a sorprendermi, più ancora dei racconti di Hoffmann, Gogol’ e Kleist, per non parlare del mondo spaventoso e sublime dell'imprescindibile Poe. La frustrazione sessuale è la sua onnipresente ma nascosta ossessione, incarnata nelle streghe e nelle gelide seduttrici e nei principi androgini. D.H. Lawrence, uno dei principali autori di racconti del XX secolo, ci ha tramandato un magnifico motto critico: «Credete al racconto, non all'artista». Andersen ci ha raccontato che le sue fiabe erano la storia della sua vita e i critici e i biografi hanno accreditato in larga misura questa tesi, ma io resto scettico. Come quella del suo principale contemporaneo americano, Walt Whitman, l'opera di Andersen è solo apparentemente facile.
Il fatto che Whitman e Andersen fossero sostanzialmente omosessuali non è un nesso sufficiente, visto il numero di grandi scrittori che condivide questo tipo di orientamento sessuale. Ad avvicinare Whitman e Andersen è il comune allontanarsi da quello che apparentemente è il loro progetto. Whitman si proclamava il poeta della democrazia, ma la sua poesia è ermetica, d'élite. Andersen ha inventato quella che verrà poi definita la «letteratura per ragazzi» ma con l'eccezione di qualcuno dei primi racconti non è più accessibile per i soli ragazzi di quanto non lo siano Kafka e Gogol’. Andersen ha scritto per ragazzi di straordinaria intelligenza di tutte le età, dai 9 ai 90 anni.
A volte, almeno per un momento, mi sembra di preferire tra tutti i racconti di Andersen Il colletto, una cosuccia di un paio di pagine, ma non meno piena di vita e di significato di un frammento di parabola di Kafka, come Il cavaliere del secchio o Il cacciatore Gracco. Scritto nel 1848 dopo una visita in Inghilterra, Il colletto ironizza sull'Andersen ossessivo promotore di sé stesso e sui giornali danesi infastiditi dal clamore estero di questa one-man band.
Uno degli aspetti più notevoli e bizzarri di Andersen è che le sue storie vivono in un microcosmo animistico, in cui i semplici oggetti non esistono in quanto tali. Ogni albero, ogni cespuglio, animale, manufatto, capo di vestiario, mucchietto d'argilla ha una sua anima inquieta, una voce, un desiderio sessuale, un desiderio di affermazione unito al terrore della prospettiva dell'annientamento. La bipolarità di Andersen, i suoi episodi di isteria in cui si alternavano esaltazione e depressione, sono così discordanti con questo mondo immaginario dove sirene e vergini dei ghiacciai, cigni e cicogne, anatroccoli e abeti, colletti e giarrettiere, pupazzi di neve e folletti dei boschi, streghe e mal di denti, tutti possiedono un desiderio di sopravvivenza crudele e disperato come il nostro.
Cristiano dichiarato, Andersen fin dall'inizio era un pagano narcisistico che adorava il Fato, ai suoi occhi una divinità sadica che potremmo chiamare con più precisione Nemesi. Il genio di Andersen è profondamente basato su un animismo antico, anteriore alle Mille e una notte. Shakespeare, il più universale dei geni, senza dubbio ha influenzato Andersen con il Sogno di una notte di mezz'estate in cui compaiono i deliziosi piccoli elfi Ragnatelo, Bruscolo, Fior di Pisello e Gran di Senape. Sono così anderseniane queste figure che, anacronisticamente, potremmo pensare che sia stato Shakespeare a trarle dallo scrittore danese, con l'avvertenza di notare che il narratore di Odense ne avrebbe fatto esseri ben più oscuri. L'universo di Andersen è sì completamente vitalistico, ma anche tendenzialmente maligno.
Andersen è nel novero di William Blake e Walt Whitman, le cui realtà non contemplavano oggetti inanimati, ma solo sensibilità in ogni sassolino, cespuglio o muretto. Ma qui si tratta di profeti dell'apocalisse che esortavano queste cose a riassumere la forma umana. Andersen, come il suo omologo danese, Amleto, è il profeta dell'annientamento. Un piccolo racconto come Il colletto è uno studio su sé stessi più di quanto non lo sia il monologo di Amleto.
Come Andersen stesso, il colletto continua a proporsi in matrimonio ma è rifiutato da una giarrettiera, un ferro da stiro, una forbice e un pettine. Questi oggetti non devono essere visti come allegorie di Riborg Voigt, Louise Collin e Jenny Lind, ma solo di Henrik Stampe e Harald Scharff. Tutto procede bene finché il colletto non finisce nel cesto di raccolta di una cartiera e afferma rassegnato: «È giunta l'ora per me di essere trasformato in carta bianca». A quel punto, mi sono affezionato al colletto e così resto piuttosto scosso dal paragrafo finale della storia: «Ed ecco quello che accadde. Tutti i brandelli vennero trasformati in carta bianca ma il colletto si trasformò proprio nel pezzo di carta che state osservando, quello su cui è scritta questa favola...».
Tra i suoi contemporanei, possiamo collocare il narratore Andersen tra Dickens, che ha abbandonato il danese dopo che questi si era trattenuto oltre il dovuto in quella che diventò una visita di cinque settimane, e Tolstoj, che apprezzava la semplicità e il modo diretto della narrativa di Andersen. Schiacciato tra Dickens e Tolstoj qualsiasi autore di racconti uscirebbe distrutto, ma Andersen sopravvive, con la stessa allegra noncuranza dell'indistruttibile soldatino di piombo.
E tuttavia né Dickens né Tolstoj sono crudeli, fatta eccezione per quando la natura e la storia sono crudeli. I sogni ad occhi aperti di Andersen, così privi di storia e di natura, sono invece frequentemente crudeli, persino sadici, forse a causa di un impulso androgino. In Freud, tutto lo sforzo è rivolto a pensare liberamente al proprio passato sessuale, o alla curiosità sessuale dei bambini. Andersen, il cui progetto è quello di restare bambino, attinge alle energie del suo passato sessuale e riceve in cambio il vigore e il ritmo della sua arte.
Tutti i biografi sottolineano come in Andersen fossero presenti due diverse personalità, il danese in Danimarca, vulnerabile e ossessionato da una supposta sottovalutazione e l'uomo di spettacolo all'estero, il ragazzo prodigio di Weimar e di Londra, l'instancabile girovago danese che parte per Costantinopoli. Fanciullesco in patria, Andersen lo era anche all'estero, interprete dei suoi sogni ad occhi aperti, una celebrità internazionale come Lord Byron prima e Hemingway dopo. Byron e Hemingway, lo sappiamo, erano androgini come Andersen, anche se largamente più attivi sessualmente del riluttante danese, che frequentava i bordelli solo per contemplare le prostitute senza mai sfiorarle. La somiglianza più vera è con Walt Whitman la cui carriera sessuale, se si eccettuano uno o due incontri omosessuali, era soprattutto con sé stesso.
Andersen ebbe flirt in patria e all'estero con ambo i sessi, ed era, come Kierkegaard, un teorico della seduzione ma in realtà un monumento al narcisismo. I due principali autori dell'età dell'oro danese erano entrambi monomaniaci ossessionati da sé stessi. Due capitani Achab a caccia della balena bianca, ma diversamente dal protagonista di Moby Dick entrambi troppo avveduti per tentare anche solo di arpionare quelle che sapevano ben essere solo visioni solipsistiche. Questo va ascritto a merito dei due danesi: l'intelletto sottile di Kierkegaard rivaleggia con la perspicacia di Schopenhauer, Nietzsche e Freud, mentre un'antica saggezza popolare dimora in Andersen, che è in grado di dire e immaginare qualsiasi cosa e allo stesso tempo di dimenticare le conseguenze pratiche delle sue narrazioni.

Distribuito dal The New York Times Syndicate.
Traduzione del gruppo Logos

L'Eco di Bergamo
Andersen, l'anatroccolo che divenne un cigno
Giusi Quarenghi
Il 2 aprile 1805 nasceva in Danimarca uno dei più grandi narratori di storie per bambini Ebbe un'infanzia povera ma le sue fiabe lo consacrarono scrittore di fama mondiale. Anche per adulti
Duecento anni ben portati meritano d'essere riconosciuti, e lo faccio molto volentieri, anche se non stravedo per Andersen. Al Brutto anatroccolo, preferisco infatti, il Gatto con gli stivali, almeno da quando me ne ricordo. Da bambina, non disponevo di una biblioteca, ma le fiabe mi sono state raccontate. Non moltissime, ma quelle poche, moltissime volte. Posso dire di conoscerli bene, i due, di aver ascoltato le loro biografie fantastiche con tanto trasporto e partecipazione d'aver voluto diventassero le mie, di aver imparato presto a riraccontarmele da sola, quando capivo che non potevo contare che su di me: mi capitava, da bambina, indipendentemente dal fatto che mi sentissi amata o meno.
Il Gatto con gli Stivali era, e rimane, la mia fiaba preferita. Credo che ad affascinarmi fosse quella sua capacità di trasformare sé e anche l'altro da sé, di fare per gioco ma sul serio, di avere un disegno e di perseguirlo con furbizia, intelligenza, allegria, tramutando i punti deboli in forza, la sicumera in vulnerabilità, il destino in qualcosa da costruire più che da subire. Mi metteva sempre di buon umore, il Gatto, mi faceva sentire gli stivali ai piedi che, per correre, sono meglio delle ali.
Ma quando mi prendeva malinconia, quando la voglia di piangere mi seduceva più di una giostra, quando credevo di toccare con mano la mia non predilezione, il non essere prediletta da alcuno, allora il Brutto anatroccolo (e le rondinelle, i soldatini, le ballerine) era la compagnia d'elezione. Ma, in fondo, gliene volevo, e gliene voglio ancora, per quell'abisso di tristezza aperto da un rifiuto d'amore, per quel desiderio di metamorfosi tramutato in bisogno e condizione di sopravvivenza, per quel riconoscimento d'amore tardivo, troppo tardivo e, a quel punto, dovuto, per eccesso di eccellenza. Sempre troppo, l'anatroccolo, per essere amato: troppo brutto prima, troppo bello dopo; prima neanche accettato, dopo lodato e rispettato, amato mai.
Ma credo sia più pertinente porre la questione non tanto in termini di alternativa e contrapposizione quanto di inclusione. Non «o - o» ma «e - e»: Gatto con gli stivali e Brutto anatroccolo. Perché dal Brutto anatroccolo non si scappa. È una fiaba perché, converrebbe Calvino, è una biografia, è lo schema di quasi ogni biografia, di ogni percorso di crescita e mutamento, e anche di consapevolezza, nel tratto in cui mutamento, crescita e consapevolezza si giocano con più intensità. Cominciamo sentendoci impropri, inadeguati, brutti, non amati perché impropri-inadeguati-brutti (la fiaba non conosce il capovolgimento della psicologia: impropri-inadeguati-brutti perché non amati, e non le concede nulla; per questo permane raccontabile e piena di senso). Il Gatto con gli Stivali compensa illuministicamente il Brutto anatroccolo.
Io ho avuto bisogno di tutti e due, e credo di essere sopravvissuta all'infanzia, e di portarne ancora un po' con me, tenendoli, facendomi tenere, per mano, da tutti e due, il gatto e l'anatroccolo: quello che corre avanti e quello che è lasciato indietro; quello che gioca e inventa e quello che patisce e subisce; quello che si fa riconoscere e quello che questua il riconoscimento; quello che sta in qualunque storia perché sa di poterla anche cambiare e quello che può salvarsi solo se diventa un altro. Una mano al gatto e una all'anatroccolo: una buona compagnia, anche per tutta la vita.
Goffo ed eccentrico
Quanto a biografie, Andersen è il Brutto anatroccolo. Nasce il 2 di aprile del 1805, a Odense, in un'isola della Danimarca, figlio di una madre «attempata» e di un ciabattino piuttosto bizzarro, che pare dedicasse più tempo a leggere e a fantasticare che al tavolino in bottega. Spirito avventuroso e vagabondo, si arruolò volontario nelle truppe di Napoleone; quando tornò a casa, deluso e malato, non ebbe che il tempo per morire, nel 1816, consegnando moglie e figlio alla miseria. Nella sfida per la sopravvivenza la madre si aiutò come poté, facendo la lavandaia e bevendo; e l'undicenne Hans lasciò la scuola (l'obbligo scolastico era stato istituito nel 1814 in terra di Danimarca) per i campi, le storie e il teatro. Povero, brutto, isolato, sognava di diventare attore e cantante; si costruì un piccolo teatro di burattini e vi mise in scena le proprie rappresentazioni. Appena adolescente, andò a Copenaghen e si presentò al Teatro Reale, deciso a tentare la fortuna come attore, cantante, ballerino. Ma fu respinto dalla commissione esaminatrice per il suo aspetto fisico, goffo, allampanato, eccentrico quanto sgradevole.
Di questa commissione, composta da gentiluomini assai per bene e della classe agiata, di alta cultura e di moralità ineccepibile, faceva parte anche un alto funzionario del re danese Federico IV, Jonas Collin, che intuì nel bizzarro giovinetto la scintilla del genio, e decise di prenderne a cuore il destino. Praticamente lo adottò, consentendogli di frequentare una buona scuola, e gli fece anche assegnare un appannaggio dal re. Andersen si mise a studiare con impegno, lesse i romantici tedeschi e, accantonati i sogni di attore, cantante e ballerino, si mise alla prova come scrittore di versi, melodrammi, poemi drammatici, romanzi, racconti di viaggio. Come l'epoca imponeva, compì anche il viaggio in Italia, nel 1833-'34, e fu la sua iniziazione.
In Italia, infatti, incominciò a scrivere fiabe, le sue fiabe, che pubblicò in fascicoli, con regolare cadenza annuale, a partire dal 1835 fino al 1872, tre anni prima di morire. Aveva trovato il suo genere: furono infatti le fiabe a consacrarlo scrittore, a guadagnargli fama, successo, e riconoscimenti (la povera casa di Odense divenne museo mentre lui era ancora in vita), a trasformarlo in cigno.
Andersen narratore di fiabe, certo, pesca nel grande, generoso, multiforme universo della tradizione orale: dalle leggende della mitologia nordica alle fiabe popolari dalle novelle classiche alle mille e una notte, ma reinventa il genere. Nella resistente, lunga, flessibile catena di anonime bocche che narrano e anonime orecchie che ascoltano sostenendo la tradizione orale che narra e rinarra l'eterna quotidiana vicenda della condizione umana, Andersen si inserisce con nome e cognome e dà corpo a un genere d'autore in cui fiaba e favola si fondono. Agli scenari avventurosi, fantastici, reali e surreali insieme della fiaba unisce la moralità, e anche il moralismo, della favola. Ai paesaggi per lo più rurali e contadini della fiaba, affianca, e sostituisce, interni domestici borghesi, negozi, piazze, oggetti d'arredo «moderni» che datano tempo e luogo di quel che si narra, senza nulla togliere alla sovratemporalità del messaggio e della morale della vicenda. Umili oggetti quotidiani di nessuna rilevanza narrativa, come per esempio l'ago da rammendo, diventano nelle mani di Andersen, protagonisti egregi e maestri di vita. Esseri umani, animali più e meno nobili, piante, statuine, giocattoli, oggetti inanimati vengono tutti affrattellati in un destino antropomorfico dove la speranza si traduce in riscatto morale, il ben-fare in ben-essere, secondo i dettami dell'etica protestante, e la felicità raramente è di questo mondo: se arriva, si compie unitamente allo spezzarsi del cuore e tanto più riluce quanto più è contigua alla morte.
L'aspirazione a una vita migliore e più degna è costante nelle fiabe di Andersen, e cresce parallela al desiderio dell'uomo Andersen di salire nella scala sociale e di essere accolto nella buona società della quale, comunque, non teme rappresentare il lato ipocrita e la paralisi affettiva. Occorre meritarsi la buona sorte, il successo è segno di una predilezione conquistata, chi vince può permettersi il pensiero di essere anche giusto, di aver vinto perché giusto. E questo piace molto agli adulti, al ceto dominante, piace così tanto che si è sempre dato molto da fare, non ha ancora smesso, per convincere anche i bambini. Andersen ebbe di fatto successo prima e più presso gli adulti che presso i bambini, dei quali per altro fu presto universalmente eletto maestro narratore.
«Il re è nudo!»
Ma l'Andersen amato dagli adulti, desideroso di far comunque parte delle classi alte, l'affabulatore moralista che mai smette di indicare il buon fare e il buon agire come garanzia di ogni ben-essere e di degno destino, è anche colui che ha frecce di acuminatissima irrisione nei confronti del potere, dà voce a una naturale sapienzialità infantile, a una non negoziabile innocenza di specie di cui l'infanzia è portatrice. «Il re è nudo!», grida impietoso e ilare, competente e incorruttibile, il bambino all'intera società degli adulti, re, ciambellani, ministri, mercanti, intellettuali organici e pubblico plaudente, tutti prigionieri consenzienti di un circuito in cui si irretiscono a vicenda.
Nella compravendita di omertà e perbenismo che il potere alimenta e da cui è alimentato, il bambino che snuda ridendo la verità, la salva, ci salva, è il raggio di sole che vorremmo vedere non tramontare mai. «Il re è nudo!»: i bambini lo dicono, ma i bambini non contano; e quando contano non lo dicono più, perché non hanno più occhi per la nudità del re e per la propria.
Nelle fiabe di Andersen la felicità è la meta ma ha inesorabilmente un prezzo molto alto, il senso morale è ben amministrato dentro un'idea di giustizia retributiva che contempla anche la crudeltà, le lacrime sono sempre lì lì, la commozione è provocata fino allo sfinimento e allo scandalo… Eppure, eppure Andersen non è tutto qui.
C'è un Andersen, meno conosciuto e riconosciuto, ma non meno prezioso, almeno secondo me. È l'Andersen amico. Solo e senza una famiglia propria, quando non era in viaggio, il nostro si faceva gradevolmente ospitare dagli amici (rigorosamente agiati), per una cena ma anche per lunghi periodi, gradito a grandi e bambini (fu padrino di molti), intrattenendo amabilmente gli uni e gli altri. Raccontava storie e fiabe, certo, ma anche le metteva in scena, mettendo a disposizione della fantasia la propria abilità di «ritagliatore». Prendete un uomo in età, lungo e allampanato, con una vaga espressione da lama, labbra pronunciate, naso esagerato e mani gigantesche. Mettetegli in mano un paio di forbici, avvicinategli dei fogli, tanti, nuovi e usati, colorati e no, a tinta unita e stampati, dozzinali o di qualità, con figure e scritte di ogni genere; aggiungete matite e pennelli, lasciate che intanto racconti quel che vuole, e preparatevi a gustare e ad ammirare la gioiosa pazienza e la perizia creativa con cui si mette a ritagliare, dare forma, accostare, incollare, creando pagine nuove e inedite, uniche, scenari di storie infinite, per chi è lì e per chi si ritroverà a prendere in mano questo materiale, altrove, dopo, anche 200 anni dopo. Pare una fiaba nella fiaba.
Bisogna dire che allora di libri illustrati non ce n'erano molti, non erano così diffusi e neppure così belli. Girava una gran quantità di fogli illustrati, per ogni tipo di pubblico, dalla qualità di stampa che andava dall'infima (con le figurine comunque colorate, per risparmiare!, «a mano», da bambini) alla più alta, con le figurine dell'immaginario popolare e anche le riproduzione d'arte per i più colti e/o più abbienti. La fotografia non c'era ancora e questi fogli stampati offrivano, nel mondo post-illuminista dell'ascesa borghese e della prima industrializzazione, il repertorio del mondo, vicino e lontano, quotidiano ed esotico, popolare e aristocratico, naturale e paesaggistico quanto tecnologico e del primo consumismo, umoristico e pubblicitario…
Andersen, da fogli e giornali, ritagliava le figure, le scritte; era espertissimo facitore di «pizzi» di carta e di silhouettes, figurine che si tenevano per mano e si muovevano nell'aria; faceva rime con immediatezza e facilità: aveva tutto quanto serviva per essere un estroso e affascinante compilatore di album, i cosiddetti e in voga «album illustrati», veri e propri scrigni per la fantasia, bauli colmi di tesori per ogni immaginario, non solo infantile, non solo personale.
Il «Libro di Christine»
Il Libro di Christine è uno di questi, compilato da Andersen con l'amico Adolph Drewsen, proprietario delle più grandi cartiere danesi (nonché genero di quel Jonas Collin che aveva tanto aiutato Andersen ragazzo) per la nipotina di questi, Christine appunto, alla quale fu regalato per il suo terzo compleanno, il 30 ottobre 1859. Drewsen ne aveva già fatti due per proprio conto ma per questo volle l'aiuto del «Grand'uomo, della Delizia d'Europa, per non dire del Mondo». Andersen da parte sua si era già prodotto nell'Agnete Literature, ben 5 album, per la piccola Agnete Lind. Il Libro di Christine è stato pubblicato in Italia da Mondadori nel 1984, su licenza della Fondazione intestata al «Libro di Christine Stampe» (l'originale è al museo di Silkeborg, cittadina della cartiera Drewsen).
Sfogliando l'album si è presi dal gioco delle associazioni, si è coinvolti a entrare nel labirinto dei collegamenti possibili e bizzarri, ci si incanta per la preveggenza e l'importanza di un tale regalo per una bimba di tre anni, si pensa al dono d'immaginazione, un vero patrimonio, che le viene dedicato e si è testimoni e partecipi del gran gioco e del bel regalo che gli adulti compilatori hanno fatto anche a se stessi, grazie alla bimba. Come ben dice lo stesso Andersen nella novella Il libro delle figure del nonno (1868): «Il nonno quando veniva Natale, prendeva un quaderno con le pagine bianche e ci incollava sopra le immagini che aveva ritagliato da libri e giornali, e se non ne trovava di abbastanza adatte alla sua storia, le disegnava lui stesso. [...] Il nonno aveva scritto sulla copertina: “Se il libro si guasta non ci badare, è un libro fatto per guardare”. Meglio di tutto era quando il nonno stesso stava a guardarlo con me, leggendomi i versi e quello che vi aveva scritto, e mi raccontava tante cose. E allora sì che la storia era davvero una storia!»
Questo è il regalo: raccontarsi le storie. Questa è la bella storia: che siamo qui, a raccontarcela. Questo il messaggio: voler bene ai bambini fa bene anche agli adulti. Questo il regalo di Andersen. Quando si celebrano compleanni come il duecentesimo vuol dire che, in verità, è il festeggiato a fare regali, a continuare a fare regali. E noi non abbiamo che da dire grazie.