mercoledì 1 giugno 2005

brevi dal web

Yahoo!Salute 1 giugno 2005
La violenza come un virus: va isolata
Il Pensiero Scientifico Editore

Pensare alla violenza come ad un virus: isolare il virus protegge dalle infezioni; allo stesso modo fare in modo che gli adolescenti non siano esposti alla violenza ne potrebbe ridurre la diffusione: questa l’analogia proposta da un gruppo di ricercatori della Harvard Medical School la cui ricerca è stata pubblicata sull’ultimo numero della rivista Science. Jeffrey Bingenheimer e il suo gruppo hanno valutato quanto adolescenti che vivono in contesti violenti o che hanno assistito ad azioni violente in cui sono state usate delle armi, riescano ad avere uno sviluppo equilibrato.
Il senso comune da già una risposta a questo tipo di interrogativo, perciò si può affrontare questo tipo di notizie semplicemente scrollando le spalle e sostenendo l’ovvietà di quanto si legge. Questa è una lettura possibile, la prima e non certo la più superficiale. Ce ne sono delle altre: si provi a riflettere sul perché una delle scuole di medicina più importanti del mondo impieghi risorse in ricerche di questo tipo. Perché una società sviluppata ha bisogno della legittimazione di un lavoro scientifico per stabilire che i comportamenti violenti (tipicamente diffusi in ambienti degradati, ma non solo) generano violenza, un’ovvietà appunto.
Forse il discorso è più profondo e ha le sue origini nel modo di concepire i possibili interventi della medicina nella gestione di disagi di natura sociale. Questo tipo di studi osservazionali hanno la loro importanza per poter registrare un numero di casi che siano statisticamente significativi e possano permettere di oggettivare una serie di comportamenti e decidere gli interventi. Ma possono diventare sterili se vengo usati per spiegare dei rapporti di natura causa-effetto. Questo tipo di approccio può essere riduzionistico e non inquadrare all’interno del disagio alcuni fattori è colpevole per la medicina: non si può dimenticare, per esempio, che dietro ad ogni esperienza di violenza vi è una storia particolare che come tale va trattata.

Fonte: Harvard Medical School. Science

ilmessaggero.it 1 giugno 2005
Malati psichici, è doppia emergenza
Stop agli assegni terapeutici e da lunedì riabilitazione sospesa a Velletri
di DANIELA FOGNANI

Si fa sempre più difficile nei Castelli Romani la situazione dei cittadini in cura presso i Dipartimenti di salute mentale (Dsm) della Asl Rm H. Oltre al ritardo di mesi nell'erogazione degli assegni terapeutici agli utenti psichiatrici, che li utilizzano per sopravvivere, da lunedì scorso a Velletri sono state sospese le attività riabilitative del Centro diurno di piazza Falcone, un appartamento di 100 metri quadrati, dove da più di un mese era ospitato anche il Centro di salute mentale (Csm) di via Ariana, con 22 operatori e 500 pazienti in carico.
«Il trasferimento da parte della Asl del Csm dopo l'allagamento dei locali per la rottura di una tubazione - afferma Giulia Bartozzi, responsabile di Cittadinanza attiva per i Castelli Romani e presidente della Consulta dipartimentale per la salute mentale della Asl Rm H - nel Centro diurno, ha creato un forte disagio, mancano spazi vitali, gli operatori lavorano senza le cartelle cliniche dei pazienti, ed ora dopo un mese, invece di trovare locali idonei per il Csm, il responsabile del Dsm, Mario Pinto, ha disposto la chiusura delle attività di riabilitazione: corsi di informatica e ceramica che, per i pazienti in cura, sono parte integrante della terapia».
Della situazione è stato informato anche il sindaco di Rocca Priora, Adriano Coletta, rappresentante della Conferenza dei sindaci presso il Dsm della Asl Rm H, mentre le famiglie dei frequentatori del Centro hanno scritto al sindaco di Velletri perché solleciti la Asl a riprendere l'attività medico sanitaria.
«L'incremento di utenti che si rivolgono ai Csm, centri diurni e case famiglie - spiega Giulia Bertozzi - è di circa il 30% annuo. Già nel marzo 2003 avevamo richiesto senza ottenere risposta un incontro della Consulta dipartimentale, denunciando la necessità di adeguare il personale e di conoscere l'assegnazione e ripartizione delle risorse economiche».
Casi di depressione, malattie psicosomatiche e altre patologie legate ai disagi sono sempre più frequenti - prosegue Giulia Bartozzi - e chi non può permettersi cure private ha il diritto di ricevere dalla Asl un trattamento adeguato. Anche gli assegni terapeutici fanno parte del percorso di guarigione del paziente ed i fondi destinati a questo scopo dalla Regione, denuncia Cittadinanza attiva, vanno a finire in un budget generale della Asl che li utilizza anche per altri scopi.
«Sono in cura - spiega Giuseppe - presso il Dsm di Frascati per una forte depressione. Ora lavoro da tirocinante in biblioteca e il rimborso spese che ricevo è fondamentale per aiutarmi a vivere e riacquistare equilibrio. Ogni ritardo mi crea ansia e rischio di ricadute».

ilgiornaledibrescia.it 1 giugno 2005
Lecco, ora ammette l’annegamento
La mamma confessa: «Ho ucciso io Mirko»

Stremata dal dolore e dall’angoscia, dopo sette giorni di carcere, Maria Patrizio ha ammesso ieri sera di aver provocato lei la morte di suo figlio, Mirko Magni, di 5 mesi. Ieri sera, nel terzo drammatico interrogatorio davanti ai magistrati, su richiesta dei legali della donna, Maria ha raccontato un’altra parte di verità. Sarebbe stata lei quindi la mattina del 18 maggio a provocare la morte del suo bambino, mentre gli stava facendo il bagnetto, nell’abitazione di Valaperta, frazione di Casatenovo, ricca Brianza lecchese. Subito dopo il ritrovamento del suo bambino morto Maria aveva raccontato di essere stata aggredita da uno sconosciuto. Una settimana fa aveva fatto la prima ammissione: «Non è vero nulla, nessuno è entrato in casa mia - aveva detto -. Improvvisamente ho visto Mirko morto, ho perso la testa, mi sono legata e ho fatto credere a tutti di essere stata aggredita». Dopo una settimana di «non ricordo» ieri nella sua mente annebbiata è riemersa finalmente la verità: Mirko è morto a causa sua, forse l’ha lasciato scivolare nell’acqua, forse lo ha tenuto a testa in giù, con la testa nell’acqua, comunque sia Mirko sarebbe morto per mano della sua mamma. A quasi due settimane si chiude così nel modo più agghiacciante la tragica vicenda di Casatenovo. A provocare la morte di Mirko Magni, 5 mesi, è stata quindi Maria Patrizio, 29 anni, commessa in una panetteria, qualche aspirazione nel mondo dello spettacolo. Un dramma che può essere spiegato solo con la depressione post partum che ha distrutto quello che dovrebbe essere il periodo più felice nella vita di una donna. Sposata da cinque anni con Kristian Magni, 31 anni, operaio, Maria aveva tanto desiderato quel bambino, arrivato dopo cinque anni di matrimonio. Ma la gravidanza non era stata quel momento felice che lei si aspettava e il parto si era rivelato un esperienza traumatizzante.

datasport.it 29/05/2005 13:51.27
Holmes: "Nel 2003 volevo suicidarmi"
La campionessa olimpica degli 800 e dei 1500 si confessa

(DS) - Londra (ING), 29 maggio - Kelly Holmes, campionessa britannica medaglia d`oro ad Atene negli 800 e 1.500 metri, ha spiegato di essersi procurata dei tagli con delle forbici all`avambraccio sinistro e alla stomaco nel giugno del 2003 dopo due mesi di depressione e di aver tentato così il suicidio. In quel periodo l`atleta ha dovuto affrontare una lunga serie di infortuni alla gamba.
La Holmes ha inoltre spiegato di aver vissuto in solitudine il suo dramma, senza coinvolgere ne la famiglia ne il tecnico e senza l`utilizzo di antidepressivi, considerate sostanze illecite dei codici antidoping: "Le persone vanno in depressione per varie ragioni ma è difficile poi esprimere i proprio stati d`animo" spiega. "Questo è quello che mi è successo nella vita ma sono stata capace di cambiare ed andare avanti".

Yahoo!Salute 1 giugno 2005
Dislessia, distratti dai “rumori” di fondo?
Il Pensiero Scientifico Editore

La dislessia è l’effetto di alterazioni generali della percezione sensoriale di base. È quanto sostenuto da ricercatori della University of Wisconsin-Madison e della University of Southern California (USC) dopo uno studio su 28 bimbi dislessici e 27 sani, apparso sulla rivista Nature Neuroscience. Secondo l’autrice dello studio, la psicologa Anne Sperling, la difficoltà dei dislessici risiederebbe nell’impossibilità di distinguere i rumori di fondo dagli stimoli veri e propri.
Il suo studio non solo smentisce la tesi da tempo avvalorata secondo cui dietro la dislessia si nascondono défaillance dell’elaborazione visiva, ma suggerisce anche nuove linee terapeutiche per aiutare i bimbi a superare l’effetto di disturbo dei rumori di fondo. La dislessia è un disturbo di apprendimento che può interessare fino al 10 per cento dei bambini. Poiché i piccoli dislessici hanno difficoltà nella lettura, queste problematiche si riflettono su tutta la sfera dell’apprendimento. In passato, ha ricordato la Sperling, la dislessia era stata imputata a difetti di percezione del circuito nervoso deputato all’elaborazione di stimoli visivi in rapido movimento, il circuito magnocellulare (M).
I ricercatori Usa hanno voluto verificare questa ipotesi quindi hanno sottoposto i bambini a un test. Il test consisteva nel guardare e riconoscere sullo schermo di un computer la direzione di provenienza di linee vacillanti (per attivare il circuito magnocellulare). È emerso che i bimbi sani e quelli dislessici riconoscono altrettanto bene la direzione delle linee dimostrando assenza di alterazioni funzionali del il circuito magnocellulare.
Quando però lo stesso esperimento è ripetuto aggiungendo del rumore di fondo, ovvero puntini bianchi e neri statici sullo schermo, i dislessici non sono più capaci di eseguire il compito loro richiesto.
Secondo la Sperling il circuito magnocellulare funziona normalmente mentre sono alterati i meccanismi che permettono di fare una ripulisti dei rumori di fondo e di percepire solo i veri stimoli. Questo significa, ha proposto la Sperling, che aiutando in classe i piccoli a “mettere meglio a fuoco” gli oggetti del loro apprendimento, caricando per esempio le differenze tra i suoni, potrebbe render loro più facile crearsi delle categorie e apprezzare gli stimoli rispetto ai rumori di fondo.

Fonte: Sperling AJ. Deficits in perceptual noise exclusion in developmental dyslexia. Nature Neuroscience doi:10.1038/nn1474

2 giugno, Giornata Nazionale dell'Autismo
ANGSA onlus (Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici) anche quest’anno ha proclamato la Giornata Nazionale dell’Autismo per il 2 giugno.

Nel Parco Divertimenti di Mirabilandia di Ravenna, ANGSA offrirà ai ragazzi un libricino con la storia "Calimero e l’amico speciale", di G.Ippolito, S.M. Ippolito e M. Gambatesa. In questa storia Calimero insegna ai ragazzi come comportarsi di fronte a un amico speciale come un compagno autistico. Apposite schede didattiche allegate alla storia aiutano gli insegnanti a fare comprendere meglio la problematica trattata.
Le diverse associazioni regionali aderenti all’ANGSA onlus promuoveranno manifestazioni tendenti a fare conoscere i problemi degli autistici e delle loro famiglie, circa 150.000 in tutta Italia. L’elenco delle piazze e delle manifestazioni sarà consultabile visitando il sito ANGSA oppure alla segreteria telefonica dell’ANGSA (tel. 06 43587666).
L’auspicio per il 2005 è la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul tema della ricerca delle cause specifiche dell’autismo e delle sue terapie. Obiettivo dell’iniziativa è costituire una fondazione per la raccolta di fondi per la ricerca, da devolvere agli scienziati per consentire la prevenzione e la cura di questa sindrome, tanto grave quanto poco curata.

resistenza

una segnalazione di Franco Pantalei

Repubblica 1.6.05
Mohamed Arir non è Abdallah
(e gli inglesi chiedono scusa)

E' stata dura, ma alla fine il sudanese Mohamed Arir ce l'ha fatta ed è riuscito a dimostrare di non essere Abdallah. Non è stato facile, anche perché gli inglesi non ne volevano sapere. Ma adesso la partita è chiusa e, chissà, è anche possibile che Mohamed Arir in Inghilterra riesca ad avere lo status di rifugiato.
E' una storia surreale ma, per l'Italia, anche consolante. Dimostra, infatti, che non abbiamo il monopolio dell'ottusità burocratica.
Alla base di tutto c'è "l'accordo di Dublino". E' questo il nome del sistema che i paesi dell'Unione europea hanno ideato per rispondere alla domanda che si propone quando si ha a che fare con uno dei cosiddetti "rifugiati in orbita", cioè con una di quelle persone che i vari Stati europei, in assenza di un regolamento, si rimpallerebbero eternamente tra loro. La domanda è: "A chi tocca occuparsene?" Nel 1990, a Dublino, si è stabilito che la competenza spetta al primo paese dell'Unione che consentì l'ingresso del rifugiato nel suo territorio. In parole povere, se una persona presenta la domanda d'asilo in Inghilterra ma si scopre che era passata per l'Italia, la si invia qui da noi. Naturalmente il principio vale anche in senso contrario, anche se si tratta di casi meno frequenti.
In ogni paese dell'Unione, esistono delle strutture che si chiamano "Unità Dublino" e che hanno il compito dare applicazione all'accordo creando una sorta d'anagrafe europea dei rifugiati. Ma siccome l'accordo di Dublino, come tutte le normative, è soggetto ad interpretazioni: il suo funzionamento è molto meno semplice di come potrebbe apparire sulla carta.
Inoltre, alcune "unità Dublino" mostrano un'esagerata predilezione per l'Italia. Nel senso che, quando si ha a che fare con un "rifugiato in orbita" e non si riesce a ricostruirne la provenienza, si tende a presumere che sia in ogni caso transitato per il nostro paese. Un retaggio di quella nomea di "colabrodo d'Europa" che ci portiamo appresso dall'inizio degli anni Novanta.
In questa casistica rientra, almeno in parte, la bizzarra vicenda di Mohamed Arir. "Orbitava" in Inghilterra nell'attesa della risposta alla sua richiesta d'asilo quando gli dissero che sarebbe stata l'Italia ad occuparsi del suo caso. L'annuncio lo sorprese: lui in Italia non c'era mai stato e non aveva alcuna intenzione di andarci. Chiese spiegazioni. Si sentì rispondere: "No, si ricorda male o mente. Lei, infatti, in Italia è passato, eccome. Risulta a noi e soprattutto risulta alla questura di una città del sud Italia, Lecce, dove lei è stato schedato. Dunque, deve tornare in Italia, signor Abdallah":
"Ma io mi chiamo Mohamed. Mohamed Arir", protestò. Niente da fare. Per gli inglesi era Abdallah, e come tale fu trattato.
Giunto in Italia, Mohamed-Abdallah cercò qualcuno che potesse aiutarlo ed entrò in contatto con un operatore del Cir, il Consiglio italiano per i rifugiati, che lo accompagnò alla questura di Lecce, cioè dove, secondo gli inglesi, era stato fotografato e dove gli erano state prese le impronte digitali.
Fu subito evidente che Mohamed Arir non era quell'Abdallah che era transitato in Puglia: non corrispondevano né la foto, né le impronte. Gli inglesi si erano sbagliati. E' quanto immediatamente comunicò a Londra "l'unità Dublino" italiana. Caso risolto? Nient'affatto. Mentre Mohamed Arir, ridotto ad un fantasma privo d'identità, di documenti validi, di mezzi di sostentamento, attendeva la risposta e trascorreva i giorni come un barbone, mangiando nelle mense dei poveri e dormendo dove gli capitava, "l'unità Dublino" britannica - con molta calma - esaminava suo caso. La risposta arrivò dopo sei mesi. Strabiliante. Fatte le verifiche, gli inglesi avevano accertato che nei loro file non esisteva alcun altro individuo con quelle caratteristiche e che dunque Abdallah non poteva che essere lui. Un'identità definita per esclusione, un 'dover essere' anagrafico, un incubo.
La storia sarebbe probabilmente finita là se l'orbitante Mohamed Arir non avesse avuto le energie fisiche, la volontà, la tenacia di resistere: sarebbe diventato un nuovo fantasma, un nuovo clandestino, la preda ideale per uno dei tanti sfruttatori del lavoro nero. Per un errore burocratico, per un file impazzito. Ma aveva allacciato i contatti giusti. Il Cir trovò in Inghilterra un avvocato disposto ad occuparsi del suo caso e a ricorrere alla magistratura. Una causa vinta facilmente, a mani basse: c'era la dichiarazione della questura di Lecce, c'era la mancata corrispondenza delle impronte digitali.
Il governo di Londra è stato condannato a pagare a Mohamed Arir l'equivalente di 5000 euro di risarcimento e a riammetterlo nel territorio inglese. Ancora non è chiaro perché "l'unità Dublino" britannica abbia tentato fino all'ultimo di negare l'evidenza del suo errore. C'è però un'ipotesi poco onorevole per il governo di Sua Maestà britannica: che, semplicemente, contasse sul fatto che Mohamed, sbattuto in un paese dove non aveva né contatti, né mezzi di sostentamento, non avrebbe trovato il modo di reagire al sopruso. Evidentemente, in altre occasioni, la tecnica aveva funzionato. Non questa volta. Dal 23 marzo Mohamed Arir è tornato a Londra e nessuno osa più chiamarlo Abdallah.