martedì 8 febbraio 2005

Roma, a Palazzo Corsini
in mostra settanta fogli del Codice Atlantico di Leonardo

La Gazzetta di Parma 8.2.05
Leonardo
di Antonella Parisi


Il sorriso della Monna Lisa s'accende d'ironia. Pare che voglia lanciare la sua sfida: " Vedete un po' se ci riuscite voi a dargli una veste che non gli sia stretta. Io ci ho rinunciato". Allude alla professione del Maestro. Pittore? Scultore? Ingegnere? Anatomista? Botanico? Zoologo? Fisico? Matematico? Geologo? Geografo? No, tutto questo è troppo poco. La definizione che forse meglio gli si attaglia è quella larga d'Uomo, nel senso di Homo sapiens: " Caratterizzato dalla stazione eretta, dalla pelosità ridotta, dalle mani abili con pollice opponibile, dal grande sviluppo del cervello. Si distingue dagli animali soprattutto per l'alto grado d'intelligenza di cui è dotato", si legge nell'Enciclopedia Italiana. Ecco cos'è Leonardo: la prova dell'esistenza dell'Uomo, inteso come essere pensante. Un modello da esportazione, magari fuori del sistema solare, per far bella figura tra genti sconosciute. Un Ulisse sempreverde, navigatore in solitaria nel mare non finito del conoscere. È l'omino di Vitruvio, che scalda i muscoli nel cerchio e nel quadrato, per poi scappare ed indagare nuove geometrie. Osservare i disegni di Leonardo, quell'arruffato sbatter d'ali, il cigolare di ruote e manovelle, il fiammeggiare di occhi e fuochi, è un'esperienza che sa di universale. Siamo uomini e come tali ci sentiamo tutti parte del miracolo. Lo vedi come funziona?, spiega il padre al figlio, come se quella macchina l'avesse progettata lui. Succede a Roma, a Palazzo Corsini, sede dell'Accademia Nazionale dei Lincei che, per celebrare i quattrocento anni dalla sua fondazione, mette in mostra settanta fogli del Codice Atlantico. L'album (grande come un atlante e da qui la ragione del nome), è la più corposa raccolta di studi del genio vinciano. Fu messo assieme, colla e forbici alla mano, verso la fine del '500, dallo scultore e collezionista Pompeo Leoni. Acquistato poi dal conte Galeazzo Arconati, nel 1637 fu donato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano dove da allora si conserva - fatta eccezione per una breve vacanza francese voluta da Napoleone. In mostra non ci sono gli originali, ma le stampe della storica edizione, la prima e pi ù completa, curata dall'Accademia dei Lincei tra il 1894 e il 1904, in collaborazione con la casa editrice Hoepli. Delle 280 copie uscite dai torchi un secolo fa oggi ne sopravvivono pochissimi esemplari, uno è quello esposto. La parata di invenzioni - affiancate in mostra dalle macchine del Museo Leonardiano di Vinci e da gioielli d'aziende italiane e europee, testimoni della moderna ricerca tecnica e scientifica (catalogo Anthelios, curatore scientifico Carlo Barbieri) - ci lancia in un mondo futuribile di cinque secoli fa. Leggiamo un'ansia di scoperta tra quelle carte dense di inchiostri sfumati in chiaroscuro, quasi la mano del genio fosse portata via da un agitato spirito guida. Leonardo pare sedotto dall'incompiuto, come se la fretta di inventare lo ponesse in continua gara col tempo (scrive il Vasari: " Vedesi bene che Lionardo per l'intelligenza dell'arte cominciò molte cose e nessuna mai ne finí"). Perdiamoci tra quelle carte. Ecco l'uomo che vola appeso a un fazzoletto. Ecco l'uomo che cammina sull'acqua, con pattini speciali. E quello che cammina sott'acqua, con boccaglio e canna. E poi lo strumento per "vedere quando si guasta il tempo", di cera e di bambagia. E ancora la macchina per cardare, quella per piallare, per distillare, tornire... C'è anche il " mazzocchio", un gioco di solidi complessi, esercizio che sfiora il virtuosismo. E ancora la quadratura del cerchio - impossibile, ma ciò non conta, l'importante è provarci, non riuscirci. Le invenzioni sfilano via infinite come i grani di un rosario di maggio. E la sorpresa talvolta viene a interrompere il ritmo. Qua e là, tra i colpi di genio, si aprono squarci di vita domestica, d'affarucci da sbrigare, di tempo prosaico da smistare. Scopriamo appunti di vita privata che rubano carta alle intuizioni. Il resoconto del compenso da pagare ai giovani di bottega. Un elenco d'oggetti personali ("1 asciugatoio, 1 tovaglia, 1 guarda nappa, 6 mantil co lo sciugamano, 1 par di lenzuola, 2 camice"). La copia di una lettera inviata a Ludovico il Moro per ottenere l'incarico di progettista militare. Un abbozzo di racconto libertino, con l'immancabile prete gaudente. E la risposta al fratello che gli annuncia la nascita di un figlio: hai creato un pretendente alla tua eredità, gli scrive salace. C'è anche la coniugazione in latino del verbo amare. "Amo, amas, amat", ripete zelante come uno scolaretto. Una vera fatica per Leonardo che si definiva "omo sanza lettere". Più facile per lui il calcolo del diametro terrestre delle flessioni di verbi in lingua morta.

etnopsichiatria

Eco di Bergamo 8.2.05
Etnopsichiatria, la nuova disciplina che studia i disagi dell'immigrazione
di Martino Doni


Ling è un immigrato cinese che soffre di gravi disturbi psichici: sente «voci» di donne che lo insultano, avverte delle minacce misteriose, alterna momenti di iperattività – arrivando a lavorare fino a tredici ore al giorno – a momenti di prostrazione fisica e psichica. Ling parla solo cinese, viene dalla campagna. Il cognato che lo accompagna dal dottore per la necessaria traduzione non fa che minimizzare il disagio: per lui è una specie di scocciatura, vorrebbe che il dottore curasse il parente senza tirare in ballo le strane storie che racconta. Ma qualche cosa trapela dalle confuse parole di Ling: una ragazza l'avrebbe «affatturato» in Cina, prima che partisse per l'Italia, e poi si sente «sporco», impuro. Bisogna provvedere ai riti di purificazione.
Così incomincia la relazione che i dottori Giuseppe Cardamone e Salvatore Inglese, tra i maggiori esperti nel loro campo in Italia e all'estero, hanno tenuto all'università di Bergamo, nel corso di un seminario sull'etnopsichiatria fortemente voluto e organizzato dal «Cerco» (Centro di ricerca sull'antropologia e l'epistemologia della complessità), presentato da Mauro Ceruti e da Gianluca Bocchi. Da tempo ormai il mondo occidentale è messo alla prova dal sempre più intricato meccanismo delle migrazioni: anche i medici dell'anima devono farsi carico di una simile provocazione – da qui nasce l'esigenza di conciliare la scienza medica con lo studio delle culture «altre». L'assunto di partenza è che non esiste qualche cosa come la «mente», isolata e astratta dal contesto culturale e sociale. Dunque per «curare» la mente occorre un sapere che sappia «sporcarsi» con le consuetudini, i rituali, le credenze che caratterizzano un determinato gruppo umano. «Non c'è manifestazione psichica rilevante che non sia immersa in un particolare contesto culturale», dice Cardamone, quindi bisogna abbandonare il mito di una psichiatria che cali dall'alto le sue diagnosi e le sue terapie. È evidente che si tratta di un discorso per molti versi scomodo, sia per la società in cui viviamo, sia per la medicina «classica» che spesso si maschera dietro l'autorità del camice bianco per evitare il confronto diretto con una realtà che cambia molto più velocemente di qualunque teoria. Scomodo, certamente, ma necessario, perché non si tratta più ormai di considerare il soggetto migrante come un dato estraneo alla vita quotidiana, anzi è proprio l'esperienza di ciascuno di noi, che sta diventando essa stessa «migrante», come dimostrano gli studi applicati alle società delle grandi metropoli globalizzate. L'identità culturale non è più ereditata come un solido patrimonio dalle generazioni precedenti, ma è costruita con fatica nella condivisione quotidiana e nel dialogo con dimensioni diverse e spesso contrastanti. Per questo la psichiatria deve sapersi mettere in crisi, porre tra parentesi i propri dettami scientifici e accettare la sfida della complessità.
Ma come nasce l'etnopsichiatria?
«Si tratta di una disciplina in continuo sviluppo – spiega Cardamone (che da quest'anno insegnerà psichiatria presso la facoltà di psicologia di Bergamo, ndr) – all'inizio del secolo scorso erano pochissimi gli studiosi che osavano interpretare i disagi psichici in relazione ai contesti culturali. Anzi, negli anni trenta si cercò di fare l'operazione inversa, cioè etichettare il processo migratorio come un sintomo patologico».
Dunque il migrante era considerato un «malato»?
«In un certo senso sì: mediante l'analisi statistica – su basi peraltro assai discutibili – si tentò di provare la relazione tra patologie schizofreniche e tendenze migratorie. Ma da un certo punto di vista anche questo genere di studi servì per mettere in evidenza un problema, cioè il fatto che un sintomo non è un dato neutro, ma è sempre in rapporto con la società che lo traduce in meccanismo di malattia e di cura. Così è la cultura di provenienza che non solo “spiega” il disagio, ma in qualche modo lo produce. Il compito del medico, come ci hanno insegnato i veri maestri della disciplina etnopsichiatrica – Devereux e Collomb – non è quello di imporre un marchio di patologia sul paziente, ma di ascoltare la sua storia, quella delle sue origini e delle sue usanze».
Così però viene meno la classica distinzione tra paziente e dottore, e viene messa in crisi la stessa funzione curativa della psichiatria. La pratica terapeutica diventa «a-psichiatrica», come ha detto Inglese.
«Noi non vogliamo annullare la terapia, al contrario: vogliamo che la terapia funzioni nel modo migliore, cioè nel pieno rispetto della libertà del paziente. In ogni parte del mondo ho potuto vedere che le malattie mentali vengono diagnosticate e curate in modi completamente diversi: che diritto abbiamo noi – detentori di un sapere culturalmente determinato come il nostro – di diventare i portavoce di una scienza assoluta? La sfida dell'etnopsichiatria non consiste nel cancellare le differenze, ma al contrario le mette in gioco, tutte quante. L'esperienza di Collomb a Dakar, in questo senso, mi pare altamente significativa. Collomb comprese che per curare i malati serviva una prospettiva multidisciplinare che si avvalesse anche dei terapeuti tradizionali, quelli che di solito si chiamano ironicamente gli stregoni. Occorre riuscire a parlare la lingua matrice del paziente, altrimenti rischiamo di imporre noi stessi una lingua che nessuno riesce a decifrare, che non serve a nulla, e la pratica terapeutica diventa una pratica di oppressione».

Lebensborn: il progetto nazista di "eugenetica ariana"

La Gazzetta di Parma 8.2.04
In un libro l'esperienza di chi si è scoperto frutto di quell'orrore
di Giuseppe Martini


Il sessantesimo anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale, che il 27 gennaio scorso ha sottolineato di più intensi significati la Giornata della Memoria, non ha modificato sensibilmente il ritmo di uscita di libri sulla Shoah e sulle persecuzioni naziste, che annualmente non conoscono flessioni editoriali, evidentemente per naturale risposta a un interesse diffuso e ininterrotto dei lettori per quei drammi storicamente, e persino quotidianamente, ancora operanti nelle scelte etiche e ideologiche di milioni di persone - e non certo « per non dimenticare » ( proviamo anche a rinfrescare parole che rischiano lo svuotamento, poichè dimenticare sarebbe francamente assai difficile) . Ci sono anche storie laterali ma non meno catastrofiche, dai centomila omosessuali massacrati in Germania durante i cinque anni della guerra, ai drammi che vivono ancora oggi i discendenti per anni inconsapevoli dei tortuosi progetti nazisti. Uno di questi è stato consegnato a un racconto autobiografico che Baldini Castoldi Dalai editore ha tradotto di recente, «In nome della razza ariana» , ampia confessione-indagine di una donna tedesco-norvegese, Gisela Heidenreich, che oggi di mestiere fa la psicoterapeuta e che nel 1943 fu partorita all'interno del focoso progetto Lebensborn. Heidenreich è nata a Oslo. Ha sempre saputo di essere nata in un Lebensborn, sua nonna le spiegava che si trattava di un asilo d'infanzia, un asilo di cui era segretaria la madre di Gisela stessa. Lo shock arriva a tredici anni appena: Gisela scopre che quel Lebensborn altro non era che una delle centinaia di istituzioni tedesche artatamente predisposte dal piano partorito dalla mente di Himmler per accoppiare donne dotate di opportuni requisiti genetici a ufficiali delle SS, in modo da riprodurre e perpetuare una razza ariana "perfetta". Con frequenza le donne scelte erano scandinave, anche se spesso risultavano imbarazzantemente alte per i già alti ufficiali del Terzo Reich. Anche Gisela è figlia di un SS e di una donna norvegese, che credeva segretaria d'asilo. I bambini venivano accolti in questi campi di isolata e geometrica educazione alla razza superiore, spesso dati in adozione a famiglie di inattaccabile fede nazista, gli asili erano gestiti dalle SS stesse, i documenti furono naturalmente distrutti alla fine della guerra. Grande fioritura perciò di leggende e informazioni scorrette, specie di stampo statunitense, nell'ultimo mezzo secolo, che hanno trasformato i Lebensborn in istituti di riproduzione coatta (mentre trattavasi piuttosto di luogo dove venivano controllate le gravidanze «arianamente scorrette»). Gisela Heidenreich ha ritrovato dopo anni il padre, che credeva morto, e le è bastato sapere che non aveva mai lavorato in campi di concentramento - l'avrebbe certamente respinto, dice, e ha vissuto l'attesa di incontrarlo con la paura di una risposta che glielo avrebbe fatto perdere. Narrazione fitta, ma con la grazia di chi ha accettato un passato e lo smarrimento di chi torna sulle piste di un'identità incerta. Flash analogici rendono vivacissimo il meccanismo mentale del racconto: quando un signore nel 1996 si avvicina all'autrice chiedendo la testimonianza della madre di lei per riconoscere la propria genesi Lebensborn, citando Norimberga, ecco trasudare il flashback del ricordo di quella città, quando la madre della piccolissima Gisela dovette andare a testimoniare al Processo. C'è, in questa insospettabile placidità narrativa, la tensione aggrovigliata di un linguaggio che finge, dev'essere senz'altro per pudore, di non avere bisogno di un urlo di orrore, e si assume il lusso di una levità imperfettibile. A sostenere questa donna prodigiosa che si ritrova riassettare le bricie di una personalità perplessa non è, stando a quel che dice, la cultura psicoterapeutica o la consapevolezza stessa di possedere una cultura, sontuoso placebo a ogni crisi di indentità, ma l'amore del marito e il profumo della sua pelle, sula quale addormentarsi come appunto una bambina. Nonostante la sospettosa oleosità dei sentimenti, sono i sentimenti che assicurano ancora a questa donna invero fortissima un «Ich bin», un'autocoscienza in posizione eretta. Ma, stando alle lettere del padre alla madre della Heidenreich, il dramma fu anche ex parte patri, che non avrebbe disdegnato vedere la sua « Gisellina » . È il culmine di un periplo conoscitivo di Heidenreich durato mezzo secolo di ricerche e che qui prosegue per centinaia di pagine senza ombra di cachessía. Tale dissennata e rozza rovina di sentimenti avviata da un gigantesco meccanismo impazzito rivela in primo luogo l'inattitudine umana a programmare la sofferenza, destinata a ritorcersi senza controllo. In secondo luogo come la sofferenza sia destinata, con il tempo, a trasformarsi in fastidio. Gisela nelle ultime pagine ha ancora la forza di commuoversi, e questo la preserva per ora in un suo piccolo paradiso privato.

«questa o quella per me pari sono»
(dal Rigoletto...)

Eco di Bergamo 8.2.05
Platone invece del Prozac? Non sempre è una buona idea
di Massimo Centini


Freud, Jung, Lacan & C. potrebbero diventare roba vecchia? Personaggi un po tramontati ed espressione di un tempo che non c'è più? Qualcuno dirà che forse era ora. Però, tralasciando polemiche e punti di vista, sembra meritare oggi la massima attenzione la tendenza, sempre più diffusa negli Usa e adesso anche in Italia, di sostituire le psicoterapie con sedute di filosofia.
Parlare di filosofia, leggerne e tentare di sfruttarla come strumento per conoscere meglio il sé, pare funzioni bene per curare i problemi della vita, non certo per sanare le patologie vere. Basti ricordare che qualche anno fa, sempre negli Stati Uniti, il libro «Platone è meglio del Prozac» fu un vero e proprio best-sellers: forse l'incipit di una nuova moda che guarda alla speculazione filosofica come ad un'alternativa all'analisi. Il metodo antico basato sulla capacità di porsi delle domande e dialogare, perché dovrebbe essere terapeutico? Forse perché consente di andare al di là delle apparenze, oltre il limite stretto della vista che sa guardare solo l'esteriorità e le sue ambiguità.
Ma riflettere aiuta a guarire? È qui che le scuole si dividono. Infatti il pensiero è arma a doppio taglio: da un lato consente di fendere il velo dell'apparenza e di andare nel profondo delle cose scoprendone il volto più autentico. Nello stesso tempo, però, il pensiero può renderci fragili, maggiormente aggredibili dalla sofferenza che produce la capacità di entrare verticalmente nelle cose dissezionandole fino a presentare le molteplici facce della realtà. Il pensiero non è, quindi, cosa da prendere sottogamba: e se affidarsi ad uno psicoanalista sbagliato può essere deleterio, anche guardare alla filosofia come ad una panacea capace di risolvere tutti i problemi, può essere altrettanto devastante. In alcune università italiane sono già attivi corsi di specializzazione che dovrebbero consentire la formazione dei futuri «consulenti filosofici». Emblematici i titoli di alcuni di questi corsi: «Applicazioni professionali della filosofia: la consulenza» (Ca Foscari, Venezia), «La consulenza filosofica. Teoria e applicazioni pratiche» (Università di Torino). Non siamo dell'idea che per fare ricorso alla «terapia» filosofica sia necessaria una condizione ben precisa: non essere ammalati. Anche se è indubbio che la storia del pensiero, in particolare quello occidentale, è colma di filosofi ai limiti della patologia, non si deve dimenticare che l'arte dello speculare non è proprio un'operazione che si può effettuare risentendo degli effetti che possono provenire da disturbi e malesseri. Se guardare alla filosofia come ad una risorsa per evitare di diventare dipendenti della psicoterapia, quando di tale strumento effettivamente non vi è il bisogno, forse può essere anche un'utile opportunità, di certo non c'è ragionamento, per quanto elevato, che possa sostituire farmaci e l'appoggio fornito da un terapeuta.
Il «Counseling filosofico» ha comunque raggiunto una sua dignità e un suo tariffario: in Italia il costo per seduta si aggira tra i 50 e i 70 euro. La maggioranza di noi non è però ancora abituata all'idea che farsi intrattenere da un filosofo possa essere una forma di terapia e, soprattutto, ci sembra un po' strano dover anche pagare chi per mestiere tratta di argomenti difficili da quantificare e correlarli ad un costo orario. E poi, la maggioranza di noi ha un'dea precisa di che cosa sia la filosofia? Ma, prima di tutto, chi è il filosofo? Basta una laurea? Quante volte abbiamo sentito dire di qualcuno: «Quello lì è un filosofo». Riconoscimento che certo non gli veniva da titoli, pubblicazioni o docenze, ma semplicemente dal fatto che risultava provvisto di una merce oggi sempre più rara: il buon senso. Vi è quindi la possibilità, a ben guardare, che il filosofo a cui richiedere un aiuto non vada ricercato tanto lontano: forse basta osservarci dentro, porci qualche domanda, provare a ripercorrere le strade che segnano quel patrimonio chiamato esperienza. Senza dubbio costa meno.

da materialista a vaticanista:
Cacciari: «Che razza di hegeliano sarei, se non credessi nello spirito?»

una segnalazione di Andrea Ventura

L'Unità 8.2.05

Cacciari: Conclave con Wojtyla vivo? È impensabile
Il filosofo Massimo Cacciari:
«Ma da diverso tempo le condizioni
di governo del Papa sono impossibili
In questa situazione, poi... »


VENEZIA Dimissioni del Papa? No, non ci crede molto, Massimo Cacciari. Pensa ad un «dopo» imminente e necessario, ad una Chiesa che possa tornare a riflettere, interrogarsi, dialogare. Non però attraverso questa strada: semplicemente perché gli sembra molto difficile nei fatti.
Oggi il termine «dimissioni» si è affacciato per la prima volta.
«E fare un conclave con il Papa ancora vivo? Soprattutto con "questo" Papa ancora vivo? Sarebbe dura. Durissima».
Però, se fosse lui stesso a dimettersi…
«Come potrebbe un successore prendere il suo posto: subentrare ad un uomo ancora vivo, e dall'immagine straordinaria? Wojtyla è un'icona così forte... No, non credo che ci saranno dimissioni. È improbabile».
Ma «può» dimettersi un Papa?
«Come no. Come qualsiasi vescovo».
Anche se è il vicario di Cristo in terra?
«Se Dio gli dice: "Vai a casa"... ».
Un Papa nelle condizioni di salute di Karol Woytjla è in grado di governare la Chiesa?
«No. Da parecchio tempo la possibilità di un governo del Papa su infinite questioni non è pensabile. Da molti anni il Papa è una drammatica icona che attira, ma... ».
Da quanti anni?
«Una decina, almeno. Tutte le questioni attinenti la vita della Chiesa sono decise da un collegio curiale, da una sorta di ministri interni. È una situazione di sofferenza denunciata da infinite parti, nella Chiesa: la collegialità, il ruolo dei vescovi, sono fieramente limitati dalla forza della curia romana. Una struttura piramidale ha assunto il controllo della Curia. È stato facile, proprio perché aveva una grande immagine al vertice».
Che problemi lascia, Woytjla?
«È un Papa di prospettive universali; ma gli sta scappando l'Europa. Cose terribili, impensabili, accadono nella "sua" Polonia, in Spagna, in Italia non parliamone... Lui ha dato una forte impronta universale. La Chiesa, dopo lo stress imposto, ha bisogno di un momento di ri-flessione interna, soprattutto in Italia, in Europa, nella sua culla. Basta pensare ai temi della re-evangelizzazione europea... Ed ai problemi dell'ecumenismo, posti ma non risolti, anzi, nemmeno lavorati ancora con precisione: questo afflato ecumenico del papa ha prodotto poco. C'è una serie pazzesca di problemi. L'impronta di Woytjla è stata esplosiva, non implosiva».
Comunque il bivio fondamentale è...
«Questa scelta: riflessione europea o spinta universalistica?»
Dalla quale ovviamente dipenderà il futuro Papa. Chi potrebbe essere il successore di Giovanni Paolo II?
«Ma non lo so! Se investono sulla linea di Woytjla sarà asiatico, o sudamericano. Se privilegiano la riflessione, sarà probabilmente italiano. Dipenderà dallo Spirito Santo».
Lei ci crede allo Spirito Santo?
«Che razza di hegeliano sarei, se non credessi nello spirito? Sono domande da fare?».
Che Papa le piacerebbe?
«Un buon europeo, capace di affrontare con aria nuova le questioni etica, scientifica, sessuale... Che trovi un linguaggio in grado di interfacciarsi con la cultura laica... Un Papa di riflessione, ma intelligente e innovativa».
Un Papa un po' meno Papa?
«Nooo! Io non gli dico: cerca di non essere Papa, mettiti d'accordo con Pannella. Penso ad un Papa che non cede sulle questioni di principio, ma sa declinarle in modo dialogabile con l'etica laica, superando il gap di comunicazione».
Woytjla che cos'è, o che cosa è stato?
«L'uomo che per un verso o per l'altro, nel bene e nel male, ha improntato della sua figura la fine del secolo breve delle guerre civili, la fine del secondo Titano emerso dopo la seconda guerra mondiale, e l'inizio del nuovo millennio. Le sue crociate hanno segnato la fine del secolo. Oggi le sue domande, le sue angosce, sono le stesse nostre: è possibile un secolo di pace, di giustizia?».
E all’interno della Chiesa?
«Ha portato ad un accentramento di funzioni romane che ha seriamente represso l'afflato conciliare. È "prepotente" rispetto ad ogni autonomia. Quando si afferma una figura egemonica, è naturale che ne soffra la creatività diffusa. Alla lunga, è un pericolo. I poteri carismatici hanno questa doppiezza: ti conducono verso un obiettivo, ma al prezzo di ridurre la partecipazione, o di trasformarla in partecipazione di massa, come è stato in questi anni, deprimendone l'autonomia, la creatività».

l'azione mostruosa: scissione corpo/mente

L'Arena Martedì 8 Febbraio 2005
La psichiatra
Cosa c’è dietro l’azione mostruosa
Bisogni primari irrefrenabili, mascheramento e scissione corpo-mente
di Sabina Cavicchiolo, psicoterapeuta


Un altro terribile omicidio, un altro atto di violenza dove le vittime sono donne con alle spalle probabilmente anni e anni di violenza di svariata natura: donne senza più radici, usate come merce di scambio prima e dopo. L’individuazione di Zenatti, agricoltore, quale killer di due prostitute del sudamerica, che svolgeva apparentemente una vita encomiabile (coniugato, con figli, ricco) eppure uccide. Una vita e un soma-mente scissi in due o una integrazione mascherata? La psichiatria e la psicologia non sono ancora riuscite a dare una definizione topologica di persone con una doppia personalità ben definita, quei soggetti chiamati «serial killer», alle quali si è cercato dare loro delle prerogative sociali-caratteriali ma ancora una volta smentite. Era stato focalizzato infatti che il serial killer, per esempio, non fosse coniugato ma il caso avvenuto a Verona ieri smentisce questo dato. Vorrei poter dare degli spunti psico-sociali anzichè tentare una spiegazione psico-diagnostica.
Ho pensato alle donne quali vittime: vittime del loro stesso corpo e, per associazione, cito una frase di Sartre (L'etre et le neant, 429) ; «il corpo è l’oggetto psichico per eccellenza, il solo oggetto psichico».
Se pensiamo che la follia è la sciccione nell’uomo, la sua «lontananza» dagli altri, la sua estraneità dal mondo, ritengo sia plausibile supporre che da un soma-psiche disgregato non sia possibile capire/comporre le parti per giustapposizione, ma recuperando quella operazione simbolica che non conosce confini con cui ogni scienza ha costruito la sua razionalità.
Da quando Socrate ha inventato il concetto e la equivalenza con se stesso, l’uomo occidentale ha perso l’ambivalenza del linguaggio per darsi a quella logica bivalente che, fondandosi sulla negazione interna al giudizio, articola quella separazione tra vero/falso, buono/cattivo, giusto/ingiusto. «Sono malato»: e in tutto ciò sta quel confine, quel taglio, quella scissione tra mente e corpo. Mi chiedo se Zenatti nel profondo del suo corpo, della sua anima (psiche), possa fare quello che di tanto spregevole ha fatto, proprio perchè segnato terribilmente da questa sbarra, tra il suo corpo e il corpo stesso delle donne da lui uccise: le donne probabilmente interiorizzate unicamente come «corpo» e come tale solamente oggetto di danneggiamento, di violenza e di uccisione.
Mi accorgo che tutto ciò non differisce poi tanto dalla seconda ipotesi e cioè dal «mascheramento». La maschera è uno dei temi chiave dell’opera di Ensor, pittore e incisore belga morto nel 1940. Le sue opere sono singolari in quanto sono una serie di maschere scandalizzate, e preannunciano tutta una serie di quadri in cui scheletri e autoritratti si mescolano. Per Ensor l’ossessione della morte unita alla visione caricaturale definisce la sua arte. Ma noi non dobbiamo dimenticare che l’allegoria simboleggiata ha un preciso significato: noi, spesso, siamo diversi da ciò che sembriamo.
Sotto questa ottica spetta proprio all’analisi esistenziale di cogliere l’uomo al di là delle sue apparenze, ma invece nel suo stesso spessore. Si tratta allora di penetrare nell’universo individuale della persona, di seguire e di ricostruire la sua esperienza fenomenica così come essa si dispiega nella storia della sua vita, non nel senso biografico ma nel senso di essere. Questo per insistere soltanto su un aspetto solo ma essenziale, per evitare quello che Flaubert chiama «la smania di concludere», cioè dalla messa fuori gioco del nostro incontenibile bisogno di trarre conclusioni, di farci un’opinione, di giudicare, tutte cose difficili a causa delle nostre abitudini intellettuali scientifiche. Invece di riflettere sul dato potremmo lasciare che il dato si manifesti così com’è. Il «così com’è» contiene tuttavia un problema deontologico e fenomenologico essenziale, perchè noi esseri umani limitati non possiamo acquisire informazioni sul «come» di una cosa soltanto in riferimento alla rappresentazione del mondo che guida la nostra comprensione della cosa.
Così si viene inevitabilmente a descrivere persone che mettono in atto in modo duale l’amore e l’odio e il proprio modo di «preoccuparsi», un modo plurale (la maniera in cui egli stesso è preso dalla propria influenza e dal rapporto interumano).
Da quanto esposto è possibile forse rilevare come attraverso le varie sfaccettature una personalità organizzi comunque la propria vita tramite, forse, un mascheramento della propria vera realtà interna a favore di una realtà «falsa» che mantenga una qualche illusione di sé. Oppure che davvero possa esistere in una personalità per così dire perversa una vera e propria scissione dove il vero e il falso non sono integrati. La falsità a questo punto diventa un bisogno compulsivo di vitale importanza proprio perchè attraverso il nascondere gli è possibile mantenere apparentemente una propria integrità e quindi una propria sopravvivenza. Non dobbiamo dimenticare che il «falso» è legato ad una «deanimazione» dell’altra persona poichè visto solo in funzione delle esigenze del soggetto stesso e quindi «usato» e «manipolato» esclusivamente per soddisfare i propri bisogni compulsivi.
L’individuo sarà così portato a simulare le proprie realtà interne senza peraltro che sussista una vera e propria differenza soggettiva in quanto egli ha trovato «un’invidiabile modalità» per non sentire il dolore: simulazione e manipolazione della realtà creano una realtà adatta a sè che nasconde i suoi vuoti interni. In tali personalità esiste una esigenza di soddisfare impulsivamente e compulsivamente i propri bisogni che diventano di tanto in tanto primari. Non avvertendo la sofferenza poichè trova la soluzione nel cambiare la realtà egli attraverso un meccanismo di diniego può vivere ogni realtà che possa appagarlo ma nelle due diverse, ma analoghe, ipotesi di un «mascheramento» e di una disgregazione corpo-mente. Tutto ciò naturalmente crea però nella realtà sociale delle vittime.

sinistra
il partito riformista?
e Bertinotti a Radio Radicale

Gazzetta del Sud 8.2.05
crescono le diffidenze dei diessini sull'opportunità delle primarie
Il leader comunista non è sicuro di ciò che avverrà, nonostante gli entusiasmi al congresso della Quercia
Bertinotti scettico sul partito riformista
di Paolo Mori

ROMA – «Non sono così sicuro che il partito riformista si farà». Così Fausto Bertinotti, leader del Prc, sull'ipotesi di un partito unico riformista nel centrosinistra. «Chissà, vedremo se alla fine si farà», ha detto Bertinotti, intervenendo alla trasmissione «l'Utopista»di Radio24-Il Sole 24 Ore». «Intanto», ha aggiunto il segretario di Rifondazione, «sarei molto interessato a sapere cos'è oggi il riformismo» anche perchè – ha concluso – in questo l'onere della prova tocca ai riformisti». Nonostante i grandi successi esibiti nel congresso della Quercia, restano, dunque le spine. E da parte sua «Aprile», quotidiano telematico «della sinistra della Gad» commenta il congresso dei Ds sostenendo che l'operazione di lancio del partito riformista è riuscita e ora la «sinistra critica» deve decidere che fare. L'editoriale di oggi, a firma di Aldo Garzia, sostiene che «dopo mesi di dibattito in cui la maggioranza dei Ds non voleva ammettere che il vero centro delle assise sarebbe stato la prospettiva del partito riformista, ecco che prima sotto le sembianze della libertà di sognare (D'Alema) e poi con le approssimazioni assai concrete di un grande progetto ideale e di ristrutturazione del sistema politico italiano (Veltroni) le conclusioni del congresso sono andate ben oltre la stessa relazione di Fassino». Ora che «la linea è tracciata», per Aprile, il correntone Ds «deve scegliere se accettare o meno la prospettiva che è stata delineata». Per questo si pone «un problema grande come l'Everest al resto della sinistra», perché «l'attuale spezzettamento tra Pdci, Rifondazione, Verdi e singole sigle di movimento appare un residuo di epoche passate al confronto del messaggio lanciato dal congresso dei Ds». E resta aperto anche il problema delle primarie che volute da Prodi erano diventate il vano di democraticità della Gad. «La stragrande maggioranza del partito non è convinta della necessità di fare le primarie. Anche perché le vere primarie saranno le elezioni regionali». Così il capogruppo dei Ds al Senato Gavino Angius, ribadisce i dubbi del principale partito di opposizione sull'ipotesi di una conta interna al centrosinistra per scegliere il candidato per le elezioni politiche 2006. Anche Achille Occhetto sottolinea «che le primarie si devono tenere «ma non adesso: non avrebbero senso e darebbero via ad una falsa conta delle forze in campo. Sono invece favorevole alle primarie nei collegi per le Regioni». «Il metodo delle primarie genera confusione e delegittima la giusta funzione dei partiti politici», dice da parte sua il capogruppo dei Comunisti italiani alla Camera, Pino Sgobio.

Paolo Izzo segnala che un resoconto dell'intervento di Fausto Bertinotti a Radio Radicale - a proposito dell'ospitalità della Gad ai radicali, un'informazione data ieri - si può leggere sull'Agenzia Radicale.
Basta cliccare QUI


Agi.it 8.2.05
PRC: VERSO CONGRESSO, 60% SEZIONI - BERTINOTTI SUPERA IL 58%


(AGI) - Roma, 8 feb. - Congressi di circolo oltre il 60% in vista delle assise del Prc, che si terranno al Lido di Venezia nella prima settimana di marzo.
Il dato più significativo, con il rafforzarsi della maggioranza per il segretario, Fausto Bertinotti, è la massiccia partecipazione dei militanti, che raggiunge un sorprendente 56,2%.
La mozione di Bertinotti, che prevede l'ingresso del Prc al governo in caso di vittoria elettorale della Gad, raggiunge il 58,2% dei consensi. Il risultato dà a Bertinotti la possibilità di guidare il partito con una maggioranza autosufficiente e stabile.
La principale componente di opposizione a Bertinotti, la neoleninista area dell'Ernesto, supera con sicurezza quota 25% e si attesta al 26,4%. Il leader della componente Claudio Grassi conferma con forza, dopo i "tentennamenti" della Fed sull'Iraq, la necessità di "patti chiari" prima di dire sì alla Gad sull'eventuale partecipazione comunista al governo.
Tra le tre mozioni della sinistra trotzkista, decisamente ostili all'ipotesi governativa con i moderati della Gad, si conferma il buon risultato di Area Erre, del capogruppo al Senato, Gigi Malabarba, che con il 7,1% dei voti supera la tradizionale opposizione nel Prc, Progetto comunista di Marco Ferrando, ferma al 6,5%. Fanalino di coda la mozione di Falce e martello con l'1,8%. (AGI) -
081200 FEB 05 COPYRIGHTS 2002-2005 AGI S.p.A.

il professor Boncinelli
domani a Firenze

L'Unità 8.2.05
Domani a Leggere per non dimenticare a Firenze si presenta il suo «Il posto della scienza-realtà, miti, fantasmi»
Boncinelli e i dubbi dello scienziato
Renzo Cassigoli


FIRENZE Colpisce nel libro di Edoardo Boncinelli, Il posto della scienza-realtà, miti, fantasmi (Mondadori 2004), che si presenta domani a Leggere per non dimenticare a Firenze, il costante riferimento a Shakespeare che nel testo sembra assumere il ruolo di spirito guida facendosi contrappunto drammaticamente poetico all'impianto rigorosamente razionale dello scienziato. Capitolo dopo capitolo, Shakespeare precede e annuncia il contenuto dell'appassionante viaggio di Boncinelli sullo stato della scienza oggi, analizzando «lo statuto teorico e pratico dell'impresa scientifica, la sua capacità (o incapacità) di fornirci informazioni sulla natura del mondo, la sua utilità (o inefficacia) nel cambiare in meglio la sfera del quotidiano». Fin dalle prime pagine Boncinelli introduce la categoria del dubbio. Non solo: avverte subito il lettore di essere «uomo di scienza, portatore di un pensiero forte e senza compromessi sul tema e, per giunta, un'ottimista», consapevole, però - aggiunge citando gli Uccelli di Aristofane che: «Dagli avversari il saggio impara moltissimo». Il libro si apre con un esergo tratto da Misura per misura: «La verità è verità/ alla fine dei conti». Il '900 è stato 'veramente' il secolo della scienza e della tecnica. «In particolare la sua seconda metà - osserva Boncinelli - che ha visto un susseguirsi senza precedenti di scoperte scientifiche e di applicazioni che hanno trasformato profondamente la nostra esistenza» producendo radicali cambiamenti nel mondo economico e sociale: «Tutti hanno goduto dei benefici di questo progresso scientifico e ne godranno ancora». Ma la realtà ci dice che i grandi successi della scienza hanno sì recato sollievo e progresso alla condizione umana, ma non su tutta la Terra. E questa è la verità, alla fine dei conti. Del resto è lo stesso Boncinelli ad avvertire che le «verità della scienza sono parziali, circoscritte e provvisorie». Nei giorni scorsi l'Unità ha pubblicato due foto: quella d'un ragazzo del nostro mondo occidentale, che avrà un'attesa di vita di 78 anni, e d'un ragazzo del Terzo Mondo che forse arriverà a 30 anni. Non tutti, anzi solo una minoranza ha goduto e gode dei progressi della scienza visto che l'attesa di vita premia chi ha la fortuna di nascere dalla parte giusta del pianeta. Forse ha ragione Boncinelli nella sua battaglia contro i «catastrofisti pronti a scorgere nei ricercatori impegnati nelle biotecnologie agrarie dei servi responsabili di multinazionali senza scrupoli», ma non si può negare che le multinazionali esistono e guidano la politica capovolgendo il principio einaudiano. «Non credo possiamo immaginare un futuro senza Ogm» dice l'autore. Certo, dopo che il Terzo Mondo, una volta distrutte le sue microeconomie, sarà costretto ad approvvigionarsi alla "bottega planetaria", come la chiama Moni Ovadia. Interessante è la riflessione di Boncinelli sui rapporti tra economia e ricerca scientifica e sul fatto che la scienza «rappresenta una grande scuola di libertà e di democrazia».
Ma ci sono state non poche drammatiche eccezioni. Momenti nei quali lo scienziato si è chiesto se doveva spingersi oltre nella ricerca o doveva fermarsi. Come Opphenaimer o Eistein, che si battè per realizzare l'atomica, consapevole che potevano costruirla i nazisti, ma rifiutò di costruire la bomba all'idrogeno che Teller realizzò. Teller nelle sue memorie scrive dell’opposizione di Fermi: «Io non voglio farla, se tu vuoi falla pure, ma spero che tu non ci riesca». Nessun limite alla libertà della ricerca, ma resta la domanda fondamentale posta da Toraldo di Francia ne Il pianeta assediato: «Siamo preparati a un uso responsabile del potere e della conoscenza di cui la scienza ci fa dono, sapendo che ogni scienza contiene in sé il principio della costruzione e della distruzione, della vita e della morte?».

(...toccando ferro...)
un'intervista al prof. Severino

La Stampa 08 Febbraio 2005
SEVERINO: «Cogito perché soffro»
FILOSOFIA E CATASTROFI. COME PUÒ AIUTARCI IL PENSIERO IN UN MONDO SEGNATO DA GUERRE, ATTENTATI, EPIDEMIE, TERREMOTI
di Mario Baudino
inviato a BRESCIA

«Tutto nasce dallo stupore di fronte al dolore e alla morte
La riflessione filosofica è un tentativo di porre rimedio all’aspetto tragico della vita umana»

«I disastri naturali sono il farsi avanti degli eterni orrendi. Ma la nostra angoscia è soprattutto effetto della persuasione che le cose vengano dal nulla e vadano nel nulla»
CHE cosa ci dice la filosofia nell'era delle catastrofi? A che cosa ci serve? Il maremoto che ha colpito le coste dell'Asia è solo l'evento più recente, e date le sue caratteristiche anche il primo totalmente «globalizzato», che si è imposto istantemente, attraverso i media, in tutto il mondo. Ma la serie di terremoti, magari dimenticati in fretta, è lunga e fitta negli ultimi anni, per non parlare delle malattie, della strage silenziosa dei morti per Aids soprattutto in Africa. La natura riacquista nel mondo della comunicazione il suo aspetto spaventoso, antico, smentendo una società evoluta il cui senso comune tendeva a ritenerla ormai qualcosa di domato da tempo, al più da proteggere proprio nei confronti dei pericoli rappresentati dall'attività umana. Non era così, o almeno non era solo così. La natura sembra essersi risvegliata come un antico Dio, furibondo e minaccioso.
Di fronte al terrore, se non vogliamo risolvere il problema rivolgendoci a questa o quella fede religiosa, restano le «consolazioni della filofia», cui almeno in Italia la gente sembra da anni rivolgersi con interesse sempre maggiore. I filosofi sono tornati a occupare un ruolo centrale almeno per l'opinione pubblica più colta. E a loro abbiamo rivolto domande semplici, forse brutali, cominciando da Emanuele Severino; in questi giorni ha pubblicato due libri, Nascere per Rizzoli e Fondamento della contraddizione per Adelphi, che affrontano i temi della bioetica da una parte e del pensiero aristotelico dall'altra. Proprio al filosofo greco, al precettore di Alessandro Magno, il filosofo bresciano affida la premesse di una risposta che è certamente di netta chiarezza. «Aristotele diceva: la filosofia non serve perché non è una serva. La filosofia "si serve". È un po' come chiedere a che cosa serve l'uomo».
Professore, abbiamo sbagliato tutto?
«No; al di là della battuta, va osservato che la filosofia nasce proprio in relazione al carattere costantemente catastrofico del mondo. I primi scritti erano definiti infatti come perì physeos, che andrebbe tradotto non come si fa abitualmente con "intorno alla natura", ma "intorno all'essere" che si manifesta come natura. Da Platone a Aristotele la filosofia nasce da ciò che chiamiano erroneamente la "meraviglia", il tháuma greco, ovvero l'angosciato stupore di fronte al dolore e alla morte, dove ciò che signoreggia è la catastrofe naturale, non meno della morte apportata dagli uomini».
Quindi l'era delle catastrofi corrisponde all'era dell'umanità, è antica quanto la nostra cultura, è la nostra stessa storia?
«Lo stupore viene dall'aspetto tragico della vita. Le catastrofi naturali hanno un ruolo importante: pensi ai terremoti, alle pestilenze. La più conosciuta, quella di Milano raccontata dal Manzoni, ridusse una popolazione di 250 mila persone a 60 mila sopravvissuti. Il pensiero filofosico è un tentativo di porre rimedio al dolore che sta al centro dell'esistenza umana».
Si può allora dire, contrariamente a Aristotele, che in un altro senso la filosofia è ciò che più serve?
«Si può dire. Se esaminiamo un altro tentativo di rimedio, e cioè il mito, vediamo che nasce anch'esso per rendere sopportabile il dolore attraverso l'affermazione che il mondo ha un senso. Ma il senso mitico del mondo non resiste al dubbio. Il mito è la prima forma di rimedio perché dà un senso al dolore, lo rende in qualche modo prevedibile, contenibile, e quindi comprensibile, ma la posta in gioco è troppo alta. Il dubbio esige che il senso del mondo non sia il prodotto di una volontà umana, ma qualcosa che si impone alla coscienza dell'uomo e perciò in qualche modo sia vero. Aristotele osserva infatti che l'amante del mito è un po' filosofo, ma non del tutto».
Solo il filosofo, quindi, può guardare con spavento ma anche lucidità alla catastrofe?
«La filosofia, sotto questo aspetto, conosce persino il concetto di distruzione totale del mondo. Eraclito definisce il mondo una fiamma viva che si accende e si spegne. È un'idea presente in tutta la filosofia greca, e passa in quella cristiana con l'Apocalisse. Anche Aristotele crede in una catastrofe ciclica, e tuttavia ritiene il mondo eterno, nel susseguirsi di queste fasi di rinascita e distruzione. Si arriva fino a Giacomo Leopardi, dove però il "rimedio" filosofico appare schiacciato dalla consapevolezza dell'impossibilità di assolvere al suo compito».
Ma allora, se tutto questo fa parte intimamente della nostra cultura, lo sconcerto e lo spavento, l'idea di vivere in un'età della catastrofe sono solo un effetto di smemoratezza?
«No, perché qualcosa è mutato. Non la natura, ma la filosofia moderna, che negli ultimi due secoli ha portato alle estreme conseguenze ciò che era già nei greci. Ha scosso le sicurezze delle élite intellettuali, che non ne sono uscite indenni: la loro certezza è che non c'è alcuna salvezza dal nulla, perché il mondo viene dal niente e finisce nel niente. E la situazione non cambia molto se ci aggiungiamo un Dio creatore e distruttore. L'ateo e il credente credono, appunto, alla stessa cosa. Oggi è questo il senso che diamo al mondo. E determina la sbandamento della gente».
Che non ha mai letto un filosofo, ma è comunque impregnata indirettamente da queste riflessioni, perché fanno parte della cultura in cui viviamo.
«Direi proprio che sono le masse a perdere l'aggancio al grande passato rassicurante, senza però potersi abituare facilmente alle promesse della tecnica, che dice loro: tutto è possibile».
Lei però non propone un ritorno al passato.
«Si riferisce al titolo del mio libro Ritorno a Parmenide? No, nel passato c'è già tutto quello che la tecnica avrebbe portato ai suoi esiti d'oggi. Se invece vogliamo parlare del "mio" pensiero, e lo metta tra virgolette quel mio, allora parliamo di eternità. Nel senso però che non solo il mondo è eterno, ma ogni istante, ogni sentimento, la mia voce che parla in questa stanza, lei che scrive, tutto lo è. È presente in ognuno di noi, risplende nell'inconscio più profondo, l'eternità di ogni cosa, che resta per lo più non testimoniata dal linguaggio. È una teoria, e non un'esperienza, dire che le cose sparite sono diventate niente».
Ma che risponderebbe a chi le parlasse della propria paura per il terremoto? Di non preoccuparsi perché è eterno?
«No, sarebbe una battuta inutile e anzi dannosa. Che provocherebbe credo anche un giusto risentimento. Le catastrofi sono il farsi avanti degli eterni orrendi, come le agonie, le morti. Ma l'angoscia umana per il dolore e la morte è soprattutto conseguenza della persuasione che le cose vengano dal nulla e vadano nel nulla.
Quindi non direbbe niente?
«Spinoza, una volta che da una donna gli fu chiesto consiglio sul fatto se cambiare o meno la propria religione, rispose: tienitela cara. Kant, invece, si prodigò per una signora che gli aveva confidato un problema famigliare, e lei poco dopo si uccise. Se si cede alla tentazione di andare incontro al prossimo con una battuta, non si fa il bene del prossimo».

Iran: violenza contro le donne

Il Tempo 7.2.05
In Iran troppa violenza contro le donne


TEHERAN — «Preoccupazione» per la condizione femminile in Iran è stata espressa ieri a Teheran dalla relatrice dell'Onu per le violenze sulle donne, Yakin Erturk, dopo una visita durata una settimana. In una conferenza stampa, la Erturk ha invitato le autorità di Teheran ad approvare la Convenzione internazionale contro la discriminazione delle donne, già votata dal precedente Parlamento riformista ma poi bloccata dal Consiglio dei Guardiani, organo conservatore non eletto. Inoltre la rappresentante delle Nazioni Unite ha chiesto che venga messa mano a una serie di riforme giudiziarie che eliminino quelle che ha definito le «leggi discriminatorie». Sono queste leggi, secondo la Erturk, unite a un «malfunzionamento della giustizia», che fanno sì che «donne che cercano di vedere punita la violenza subita, vengano esse stesse condannate dalla legge e dalla società, al posto dei colpevoli». La rappresentante dell'Onu, che durante la sua permanenza in Iran ha incontrato autorità, attiviste per i diritti umani e detenute, ha parlato di «violenze psicologiche, fisiche e sessuali nelle famiglie», dove tra l'altro a una donna è molto difficile iniziare una causa di divorzio, e ancor più ottenere la custodia dei figli, anche quando il marito abbia compiuto abusi su di lei. Secondo la Erturk, esiste poi una violenza «della comunità», per cui, ad esempio, risulta difficile a una donna vittima di uno stupro portare in giudizio il colpevole. Infine, ci sono i casi che riguardano lo Stato. A questo proposito l'inviata dell'Onu ha denunciato «arresti arbitrari» per «opinioni politiche», maltrattamenti e mancato accesso alla difesa legale, anche durante gli interrogatori. Yakin Erturk ha anche sottolineato il fatto che, sebbene le esecuzioni delle sentenze di lapidazione (previste tra l'altro dalla legge islamica per gli adulteri) siano state sospese da due anni per decreto della magistratura, questi verdetti continuino ad essere emessi. A questo proposito, ha auspicato che il Parlamento vari una legge che abolisca questo supplizio, così come le condanne a morte di minorenni. Un progetto di legge riguardante quest'ultimo aspetto è attualmente proprio all'esame del Parlamento.

psichiatria e nazismo

L'Arena Lunedì 7 Febbraio 2005
Psichiatri e storici hanno discusso il tema in Letteraria
Lo sterminio dei disabili altro orrore del nazismo
di Rosangela Lupinacci


VERONA. Alla Società Letteraria si è concluso il programma per il Giorno della Memoria con un incontro fra psichiatri e storici, salutati dal presidente Alberto Battaggia, che hanno discusso su "Psichiatria, nazismo, sterminio", l'eugenetica nazista che ha portato allo sterminio dei disabili e alla deportazione dei pazienti dagli ospedali psichiatrici italiani. "In un pamphlet weimariano del 1920 si teorizzava la liberalizzazione di un'estinzione di una vita priva di valore;- ha esordito lo storico Carlo Saletti, curatore degli incontri - un testo spaventoso che dimostra che l'idea mortifera è antecedente a Hitler: i disabili sono un peso per la società e possono compromettere il patrimonio genetico. Per tanti anni si è pensato che la cultura fosse un antidoto al genocidio: Auschwitz insegna che sono complici."
Michael von Cranach, psichiatra e storico, direttore di un istituto presso Monaco di Baviera, ha ricordato come dalla riforma psichiatrica del 1980 gruppi di giovani studiosi abbiano deciso di fare i conti in Germania con un passato rimosso. "Il primo settembre 1939, giorno della marcia delle truppe tedesche in Polonia, Hitler varò una legge sull'eutanasia o "morte di grazia" data dai medici ai pazienti;- ha spiegato von Cranach - il comando dell'operazione, detta T4, era appunto a Berlino, in Tiergarten-strasse 4. In sei manicomi vennero allestite camere a gas; si calcola che dal 1940-41 vennero uccise 75.000 persone; nel '41 la legge fu abrogata e le camere a gas trasferite nei lager. Negli ospedali la morte avveniva per overdose di oppiacei e barbiturici, "cura della fame", anche su bambini; erano ammesse sperimentazioni. La cosa più difficile da capire è come questi psichiatri di cultura, buona educazione, non psicotici, abbiano potuto uccidere i loro malati. Anche se la colpa non può essere collettiva, noi tedeschi abbiamo la responsabilità del passato, di commemorare le storie individuali e restituire loro dignità. Il processo di riconciliazione con il riconoscimento della colpevolezza dei criminali, il dialogo con le vittime, il sentimento di lutto, cominciato nel dopoguerra e approfondito dalla generazione del '68, non è concluso. L'amicizia in Europa si basa sulla memoria".
Lorenzo Torresini, psichiatra e direttore dei servizi di psichiatria a Merano, ha illustrato alcuni episodi. "Dopo il processo contro i persecutori della Risiera di San Sabba nel 1973, che ha portato Trieste a riappropriarsi della memoria della deportazione dei pazienti ebrei, ho cominciato ricerche d'archivio con la scoperta che i malati erano "dimessi manu militari e portati in destinazione ignota", cioè Auschwitz.- ha affermato Torresini - Nel 1938, quando per gli accordi fra Mussolini e Hitler, fu permesso ai sudtirolesi di scegliere fra l'Italia o la Germania, i malati psichiatrici vennero considerati al seguito dei familiari; a Pergine (Trento) i pazienti delle famiglie optanti vennero trasferiti in ospedali oltre frontiera e se ne persero le tracce. A San Servolo a Venezia ci furono molte deportazioni; come dice Michel Foucault sulla microfisica del potere, chi è deprivato di potere per crisi esistenziali sperimenta la sopraffazione: la porta chiusa a chiave nei reparti acuti o il letto di contenzione non sono nazismo, ma sono il problema di un'attitudine alla prevaricazione e all'internamento. La legge sull'eutanasia approvata nella democratica Olanda ci impone risposte etico-politiche".
"Il progetto T4 non è finito: nel 1994 è stato usato in Bosnia-Erzegovina con la pulizia e gli stupri etnici;- ha ammonito Angelo Lallo, ricercatore di Portogruaro (Venezia), che ha portato in visione i documenti su sei deportati ebrei di san Servolo - in poche righe abbiamo concentrato il paradigma fra nazismo e psichiatria. Dove vanno a finire questi malati dimessi secondo le cartelle cliniche? Sono consegnati alle SS nell'ottobre del '44 con la partenza in convoglio probabilmente per Auschwitz."
"L'olocausto psichiatrico non ha limiti nel tempo o nello spazio: lo sterminio nasce da una cultura di darwinismo sociale ottocentesca;- ha sostenuto Antonio Balestrieri, ordinario di psichiatria a Verona e direttore dell'Associazione psichiatrica italiana - Eugen Bleuler, che ha scoperto la schizofrenia, si chiedeva se i suicidi frequenti fra questi malati non fossero utili. In Polonia i nazisti nei manicomi uccidevano medici, infermieri, malati per far spazio ai loro soldati. Dietro questa ideologia di distruzione dei malati di mente c'è quasi una convinzione religiosa, uno spirito spaventoso".
"La medicina scientifica psichiatrica ha inventato contenitori, i manicomi, che non sono neutri, ma hanno creato cronicità per i degenti e frustrazione per gli operatori;- ha concluso Torresini - Franco Basaglia rispondeva che non c'era "soluzione finale" alla follia. Sono gli psichiatri che hanno inventato la pulizia etnica anche in Bosnia: la cultura dell'internamento è un continuo interrogativo".

il «mal d'amore»

Yahoo! Salute lunedì 7 febbraio 2005
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
Mal d'amore? Esiste e può anche portare alla morte
Il Pensiero Scientifico Editore
David Frati


Il concetto di ‘mal d’amore’ potrebbe essere qualcosa di più di una figura poetica. Uno studio inglese pubblicato sulla rivista The Psychologist svela che si tratta di una condizione in grado di causare nel paziente un vero e proprio trauma mentale, e in alcuni casi addirittura la morte.
Il leader del team di ricercatori Frank Tallis spiega: “Per secoli e secoli le manie, le depressioni e le ossessioni associate all’amore romantico sono state considerate un genuino stato mentale, e non delle pose. Ma negli ultimi due secoli si è fatta strada una decisa sottovalutazione di questi sintomi. Nell’era moderna, l’amore è associato alla pazzia solo nei testi delle canzoni”.
Il problema invece non andrebbe sottovalutato affatto: moltissime persone sembrano non riuscire a gestire l’intensità dell’amore, o sono destabilizzate dall’innamoramento, oppure soffrono per un amore non corrisposto: i sintomi includono mania (esaltazione, eccessiva autostima, tendenza a fare regali eccessivi), depressione, disturbi ossessivo-compulsivi, sintomi che si registrano anche in numerose psicopatologie. Le similitudini tra mal d’amore e alcuni tipi di patologie non sono affatto superficiali. La ricercatrice italiana Donatella Marazziti ha scoperto che quando ci si innamora i livelli di serotonina sono simili a quelli riscontrati nei pazienti affetti da DOC (Disturbo Ossessivo-Compulsivo).
L’amore passionale è generalmente descritto come uno stato di intenso desiderio per l’amato. Se reciproco, l’amore è associato a felicità, euforia ed estasi: ma queste emozioni sono invariabilmente oscurate da sentimenti quali l’ansia, la gelosia e la tristezza. È sostanzialmente impossibile vivere l’esperienza dell’amore passionale in assenza di una qualche sofferenza psicologica.
“Sebbene moltissime ricerche moderne si occupino della sfera delle relazioni personali e dei problemi psico-sessuali, c’è ancora poco riguardo allo specifico problema della sofferenza d’amore. Forse è giunto il tempo di affrontarlo più seriamente prendendo esempio dagli antichi clinici che diagnosticavano il mal d’amore e lo trattavano con terapie esattamente come tutti gli altri disturbi”, conclude Tallis.

Fonte: Tallis F. Crazy for you - Lovesickness. The Psychologist 2005; 18(2):72-74.

sul tema una segnalazione di Gianluca Cangemi:
una Associated Press da The Times of India

Lovesickness not just a poetic notion
AFP[ MONDAY, FEBRUARY 07, 2005 01:56:04 AM ]

LONDON: The concept of lovesickness might be more than just a flighty poetic notion, as it can burden the afflicted with genuine mentald trauma, a British psychological study said on Sunday.
In the most serious cases the 'disease' can prove fatal, the researchers said, calling for lovesickness to be taken more seriously by the medical profession. For many centuries, the manias, depressions and obsessions associated with romantic love were considered a genuine state of mind rather than an affectation, clinical psychologist and author Dr Frank Tallis said.
However, in the past two centuries lovesickness had fallen out of favour as a proper diagnosis, Tallis said in a report for The Psychologist magazine, the official publication of the British Psychological Society.
In the modern era, while love was still associated with madness, this was only likely to be in the lyrics of a pop song, Tallis noted. "The average clinical psychologist will not receive referral letters from GPs (general practitioners) and psychiatrists mentioning lovesickness," Tallis said.
"Examination of the sanitised language will reveal that lovesickness may well be the underlying problem.
Symptoms include mania, such as elevated moods and inflated self-esteem, depression, or OCD, such as repeatedly checking for e-mails.

Giuliana

Il manifesto.it 6 febbraio 2005
Le verità di Giuliana
ALESSANDRO ROBECCHI


Ma insomma, cos'è successo a Falluja? Com'è che tutti quelli che si avvicinano troppo per sapere dei giorni spaventosi dell'assedio e della conquista si scottano o spariscono? Come la nostra Sgrena, come la collega francese Aubenas. Cos'è successo laggiù che è così delicato, così pericoloso raccontare? Può sembrare una domanda oziosa, ora, e come tutti i dettagli nel momento della paura e dello sgomento pare di sfiorare il cinismo. E però, se guardate bene, dentro questa domanda c'è il senso intero e compiuto di quel che Giuliana faceva lì. Falluja, naturalmente. Che vale Kandahar, che vale Mogadiscio, che vale Kabul. Che vale tutti i posti in cui l'accecamento delle fazioni non consente posizioni terze, visioni problematiche, volontà di capire e raccontare. Meglio non ci siano testimoni: la guerra è una faccenda piuttosto mafiosa, sarebbe gradito accettare le versioni ufficiali, non ficcare il naso. Nessuno che risolva le questioni a pistolettate, con i camion bomba o i bombardieri gradisce molto queste intrusioni di intelligenza che sono le domande, le richieste di spiegarzioni, le storie che raccontano la realtà. Amico/nemico è il sistema binario elementare - direi primitivo - che genera e alimenta la macchina della guerra. Incidentalmente, e con deplorevole tempismo, ce l'hanno ricordato poche ma significative schifezze comparse su alcuni giornali della destra.
Amica dei guerriglieri, ben ti sta, o cose simili. Come si vede, la logica troglodita della guerra fiorisce anche ben lontano dal fronte. Ogni falco gradisce un falco come nemico, e per le colombe sono tempi duri. E invece pare proprio il momento per dire chiaro e forte che è il contrario. Che la capacità di sfuggire a questa logica accecante è l'unico modo per uscirne. E cioè il guardare e il raccontare quel che accade, che vive o che tenta di vivere a dispetto di questa logica. Come fa Giuliana, appunto, come fanno quelli che non si accontentano delle versioni ufficiali, che vanno a fare domande, che ascoltano (cosa rara) le risposte. Così l'Iraq che ci racconta Sgrena non è esattamente quello che ci raccontano gli altri. Gli elettori disincantati e stanchi dei suoi reportages non sono quelli entusiasti e «liberati» che abbiamo visto e sentito in altri più accomodanti racconti. E dietro il dito indice sporco di inchiostro dei tanti votanti iracheni, lei sa dirci tutta la mesta complessità di una situazione, anche umana, anche privata, che compone il mosaico di un pezzo di storia che molti ci raccontano in un altro modo.
Sapere cos'è successo a Falluja, ora, vedete, non pare un'emergenza, forse un giorno lo sapremo e metteremo al suo posto un altro tassello del mosaico della barbarie dell'oggi. Ma, almeno in metafora, mai come oggi è doveroso saperlo. Perché non è solo la notizia qui che conta, ma la possibilità e la libertà di dirla, di cercarla e raccontarla a tutti. La rivendicazione di voler capire un po' di più, di non essere embedded nel cervello e il sacrosanto diritto di non essere arruolati a forza in una guerra sbagliata, folle e tanto dolorosa. Questa differenza, questa stonatura rispetto allo spartito ufficiale, questo guardare la guerra da dentro, ma da pacifista, è un punto di forza e non - come vorrebbero farci credere i soliti «armiamoci e partite» - una sconsiderata contraddizione.
E' in questa differenza, in questo modo di guardare le cose, che sta tutta - ma proprio tutta - la nostra lontananza da questa guerra e dalla logica che l'ha prodotta, e nessuno come Giuliana Sgrena sapeva raccontarlo, grazie alla scelta del suo angolo di visuale, alla sua speciale prospettiva di donna e pacifista e giornalista. Ovvio che deve tornare a casa al più presto, perché quel suo angolo di visuale è tanto prezioso quanto raro. E perché - tra le tante cose - deve raccontarci quel che c'è dietro questa guerra. E anche cosa è successo a Falluja.

zingari e sterminio

Corriere della Sera 8.2.05
Dopo le divisioni sull’iscrizione oggi verrà annunciata la costruzione del monumento
Zingari vittime di Hitler, un memoriale a Berlino
Paolo Valentino


BERLINO - Un altro memoriale incendia l’ennesima polemica sul passato e sul ricordo, nella capitale tedesca.
Il Consiglio centrale dei Sinti e Roma è sul piede di guerra contro la proposta del Parlamento e del governo federale di dedicare il monumento «a coloro che, come zingari, vennero perseguitati e uccisi in Europa e in Germania». E chiede che sulla stele venga invece inscritta una frase dell’ex presidente della Repubblica federale, Roman Herzog, dove la loro sofferenza viene equiparata a quella degli ebrei. Roma e Sinti, così disse Herzog, furono vittima dello stesso odio razziale che portò all’Olocausto.
Il ministro della Cultura tedesco, Christina Weiss, spiegherà oggi in una conferenza stampa le ragioni che hanno convinto il Bundestag e il governo a optare per un’iscrizione che non contenesse il termine Sinti e Roma e, soprattutto, mantenesse una distinzione tra il genocidio ebraico e quello degli zingari. Come hanno anticipato nei giorni scorsi i portavoce del ministero, «parlare soltanto di Roma e Sinti escluderebbe altri gruppi etnici più piccoli». Inoltre, «gli storici vedono differenze sostanziali tra la persecuzione degli ebrei e quella degli altri gruppi, rendendo problematico presentarli come identici».
È proprio la negazione di questa affinità, a irritare maggiormente il Consiglio centrale. «È questo il punto decisivo - spiega il presidente, Romani Rose, che la scorsa settimana ha partecipato alle celebrazioni per i sessant’anni della liberazione di Auschwitz -: il nostro destino è sempre stato trattato come un dettaglio dell’Olocausto degli ebrei, ma in realtà siamo stati oggetto della stessa volontà sistematica di distruggerci da parte dei nazisti».
Furono più di 6 milioni gli ebrei massacrati dal Terzo Reich. Molto meno conosciuto è però lo sterminio di 500 mila zingari e di oltre 100 mila omosessuali. Ma anche sull’uso di questo termine la polemica appare incandescente. Per Rose si tratta di «un termine diffamatorio, usato dai nazisti, che umilia e degrada le nostre vittime, così come le nostre generazioni future». L’utilizzo di questa parola sul monumento è «inaccettabile», spiega Reinhard Florian, 81 anni, sopravvissuto al lager. E aggiunge: «Non potrei mai vederlo scritto sulla stele, mi farebbe pensare subito alle SS».
La questione è piuttosto controversa. Come spiegava ieri Eberhard Jaeckel sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, dedicare il memoriale soltanto a Sinti e Roma, come vorrebbe Romani Rose, sarebbe una «discriminazione, poiché significherebbe escludere molti altri gruppi di zingari». È vero infatti che i Sinti sono la comunità più numerosa nel mondo di lingua tedesca, ma non sono i soli: «C’erano altri gruppi, come i Lalleri e i Litautikker, e anch’essi appartengono a quelli perseguitati dai nazisti».
Quanto al termine Roma, che significa persone, «il suo uso renderebbe il binomio illogico, poiché nella sua prima parte indica un gruppo specifico e nell’altra l’insieme, sarebbe come dire i bavaresi e i tedeschi». Se poi, secondo un’altra accezione, Roma indicasse gli zingari dell’Europa dell’Est, allora vorrebbe dire ignorare gruppi come i Manusch, provenienti dalla Francia, o i Kale, originari nella penisola iberica. L’argomento viene accettato anche da una parte della comunità, quella che si riconosce nell’Alleanza dei Sinti.
Il memoriale dedicato agli zingari sorgerà in un terreno non lontano dal Reichstag e dalla nuova cancelleria federale. Per la sua costruzione, il governo tedesco ha stanziato 2 milioni di euro. Poco lontano, accanto alla Porta di Brandeburgo, è in fase di completamento il monumento agli ebrei d’Europa sterminati dai nazisti, oltre 2.800 stele di pietra nera, opera dell’architetto Peter Eisenmann.

la filosofia buddista

Corriere della Sera 8.2.05
Lasciare invece di Prendere: ecco il Buddha filosofo


C’è chi lo studia attraverso gli innumerevoli testi prodotti sull’argomento, chi prova a esserlo attraverso la meditazione e l’eremitaggio, chi lo pratica estrapolandolo dal contesto e applicandolo all’interno delle regole occidentali. E c’è qualcuno cha ha fatto tutto questo insieme, mischiando idee teoriche e apparentemente astratte con la pratica di vivere i precetti tra le montagne dell’Himalaya, per poi tornare nel mondo occidentale odierno e comporre un testo che a tutti gli effetti il New York Times definisce una autobiografia intellettuale.
Promette moltissimo An End to Suffering- the buddha in the world di Pankaj Mishra (Farrar, Strauss & Giroux, pp. 422, $25). Anzi, forse era il libro che molti (compresa me) si aspettavano, che siano buddhisti o no. A scanso di equivoci si precisa subito che An End to Suffering non considera il buddismo da un punto di vista religioso quanto invece come un sistema di pensiero. E il Buddha stesso un filosofo piuttosto che una deità che vide i limiti e le finitezze dell’uomo e cercò di porvi rimedio. Filosofo che visse in un’epoca di grandi mutamenti sociali, quando la società indiana perdeva la priorità assegnata alla vita dei piccoli villaggi che si amministravano da soli secondo gli usi locali. Di colpo queste piccole collettività si trovarono catapultate, senza più identità, all’interno di un’organizzazione più grande perdendo letteralmente il senso di orientamento dato dalla saggezza dei più anziani. Le conseguenze furono enormi: carestie, guerre, mutamenti sociali, migrazioni. Questa è l’India nella quale visse Buddha, a questo mondo tentò di dare un altro significato che andava cercato dentro l’essere umano. Fu il primo che diede risposta all’angoscia e all’incertezza della modernità, così come la si intende anche oggi.
Curiosamente le condizioni dell’oggi presentano tratti comuni ad allora. E Misha tratti comuni con lo stesso Buddha. Anche lui è nato da una famiglia indù che nelle trasformazioni sociali ha perso i suoi averi e si è spostata dal confine nepalese vero una grande città. Privato di identità, privato dello status quo della casta Misha si trovava esattamente in quella posizione dolorosa dove la libertà si confonde con il dolore. Decide di partire per un viaggio nei luoghi sperduti, di villaggio in villaggio per capire veramente il Buddha perché non gli basta frequentarlo trasmutato e forse manipolato dall’Occidente. Quando torna e va a Londra, vede negli occhi delle gente che prende la metropolitana la frettolosità ipercinetica che rende ciechi e rivela un enorme panico interiore. Occorre fermarsi, trasformare le costrizioni e gli eccessi del nostro vivere in mezzo alla moltiplicazione dei desideri. In fondo è questa la forza del buddismo nel nostro mondo. Prolifica ora, che il terreno abitato dall’occidente si trova in un caotico, antropico, febbrile fermento. Misha sottolinea anche nel suo libro appassionato, impegnato, ingenuo e semplice, complicato e profondamente umano (così lo definisce il Nyt) la difficile applicazione che l’Occidente fa della filosofia buddista, che non ha divinità, peccati originali, inferno o paradiso. Ma che non per questo è più semplice o più consolatoria. Buddha come Aristotele o Platone, non come Dio, questo è il punto di vista di Mishra. Non un accecato credere per ottenere ma un profondo comprendere per lasciare.