lunedì 21 luglio 2003

«in matematica i risultati arrivano in strani modi»

Repubblica 17.7.03
Intervista a Jean-Pierre Serre, vincitore del premio Abel
un matematico a cui piace il buio
i risultati arrivano in modi spesso strani
di PIERGIORGIO ODIFREDDI

Da quando è stato istituito nel 1901, il premio Nobel è l' onorificenza più ambita del mondo. Assegnato ogni anno per la letteratura, la fisica, la chimica, la medicina, l' economia e la pace, esso non contempla però la matematica. Ma non per i motivi pruriginosi che vengono spesso mormorati: il fatto, cioè, che l' inventore della dinamite avrebbe voluto evitare di aggiungere il danno alle beffe, a causa di una relazione di sua moglie con un matematico svedese, evidentemente più esplosivo di lui. La verità, come al solito più prosaica del pettegolezzo, è che Nobel era scapolo, e semplicemente non era interessato alla materia. Per rimediare alla situazione, già nel 1902 il re di Norvegia Oscar II aveva proposto un premio in onore del matematico norvegese Niels Abel, nato cent' anni prima, morto di tubercolosi a soli ventisei anni, e passato alla storia per uno dei grandi risultati dell' algebra moderna: la dimostrazione, cioè, che non esistono formule risolutive per le equazioni di quinto grado, analoghe a quelle ben note per il secondo, terzo e quarto grado. Poiché la proposta era caduta nel nulla, nel 1936 l' Unione Mondiale dei Matematici istitui la medaglia Fields, da assegnare ai congressi quadriennali ai migliori matematici under quaranta, e considerata finora l' equivalente di un premio Nobel (senza portafoglio, però). Lo scorso anno, in occasione del secondo centenario della nascita di Abel, l' Accademia delle Scienze e delle Lettere norvegese ha deciso di istituire un premio di sei milioni di corone (770.000 euro) che rivaleggiasse con il Nobel anche da un punto di vista finanziario. Il primo vincitore è stato premiato a Oslo poco tempo fa: si tratta di Jean-Pierre Serre del Collège de France, uno dei più grandi matematici del mondo, già noto per essere stato il più giovane vincitore della medaglia Fields (a soli ventott' anni, nel 1954). Come spesso succede ai geni, Serre non è una persona facile: scorbutico e caustico, non ama affatto lo smalltalk, e meno che mai le interviste. La sorpresa per la vittoria deve però avergli fatto abbassare per un attimo la guardia, visto che ha sorprendentemente acconsentito a rispondere ad alcune nostre domande. L' annuncio ufficiale del premio Abel cerca di stabilire una connessione tra il suo lavoro nella teoria dei numeri e quello di Abel stesso. Lei vede differenze tra la matematica moderna e quella classica? «Non molte. E la dimostrazione è che non si può nemmeno definire ciò che è classico, e ciò che è moderno! Naturalmente, i matematici continuano a introdurre nuove tecniche e nuove definizioni, che aiutano a risolvere alcuni problemi lasciati dai nostri predecessori. Ma non c'è stata nessuna vera discontinuità, ad esempio negli ultimi 250 anni». Sembrerebbe però che la nozione di dimostrazione sia cambiata radicalmente. «In realtà, no. Ad esempio, la dimostrazione di Euclide che ci sono infiniti numeri primi è tanto valida ora, quanto lo era ventitré secoli fa. E noi cerchiamo ancora di scrivere le dimostrazioni in quello stile». Pensavo, ad esempio, alla dimostrazione del teorema dei quattro colori, che ha richiesto 2.000 ore di verifiche al computer. O a quella collettiva del teorema di classificazione dei gruppi finiti, che prende 10.000 pagine. O a quelle ispirate alla fisica di Witten... «Nei primi due casi, dimostrazioni che sono così lunghe da essere impossibili da verificare sono più che altro dei risultati sperimentali. Quanto a Witten, non chiamerei i suoi argomenti delle dimostrazioni: sono più vicini a congetture o (al massimo) ad abbozzi di future dimostrazioni». Vari anni fa lei aveva accennato a un suo crescente interesse per la storia della matematica. Si è sviluppato, in seguito? E ha prodotto qualcosa nello stile, ad esempio, della Teoria dei numeri di André Weil (Einaudi, 1993)? «L' interesse c' è. Le pubblicazioni, no». A proposito della storia, quale matematico l' ha più influenzata attraverso il suo insegnamento, o è stato il suo modello attraverso i suoi lavori? «La risposta è facile: proprio André Weil. Non che tenga la sua foto sul muro, ma ho letto e riletto i suoi libri e i suoi lavori. E ho anche scritto il suo necrologio». Più impersonalmente, quali sono i risultati dello scorso secolo che l' hanno impressionata di più? «Qui invece ci sarebbe troppo da dire: è meglio che eviti la domanda». Una parte del suo lavoro, in geometria algebrica, è legato a quello della famosa scuola italiana di un secolo fa. Ci può dire in che modo? «A dire il vero, quando ho lavorato in questo campo (circa cinquant' anni fa) non sapevo molto della scuola italiana, se non una cosa: che non si poteva far affidamento su di essa...». In quel suo lavoro geometrico, lei si è affidato di più all' intuizione visiva o alla derivazione logica? «Non saprei: credo che queste parole, soprattutto "intuizione", siano difficili da definire. In matematica i risultati arrivano in strani modi». Una volta lei ha addirittura detto che spesso lavora mezzo addormentato. Che significa? Che nella matematica c' è un ruolo per il pensiero semiconscio? «Intendevo solo dire che spesso lavoro a letto, al buio, proprio prima di entrare nel dormiveglia. Trovo che aiuti la concentrazione e permetta una maggiore libertà di pensiero». Ora che il velo di segretezza del Bourbaki è caduto, lei ci può confermare di averne fatto parte? «Si, dal 1949 ai primi anni '70. E sono stato molto influenzato da Bourbaki, sia dal soggetto collettivo che dagli individui che ne hanno fatto parte. Anche se, dopo averci lavorato per venticinque anni, non sono più interessato ai progetti enciclopedici». Lei non si è limitato a far ricerca, ma ha anche scritto molti libri. Che opinione ha della divulgazione matematica? «A dire il vero non ho mai scritto un libro di vera divulgazione: è troppo difficile! I miei libri sono abbastanza tecnici. Il più accessibile è probabilmente Rappresentazioni lineari dei gruppi finiti, che è stato in parte scritto per mia moglie e i suoi studenti di chimica quantistica». La chimica le interessa? «Mi interessava da bambino. I miei genitori erano farmacisti, e io ho giocato molto con provette e composti chimici. Ho anche letto i libri di chimica di mio padre, ma quando l' ho studiata seriamente mi sono accorto che c' erano troppe formule, tutte più o meno uguali. Tanto valeva fare direttamente matematica». E alla filosofia della matematica è interessato? «No. Non ci ho mai trovato niente di interessante». Ma avrà ben una sua idea sulla natura degli oggetti matematici! Ad esempio, concorda con Connes che essi sono reali tanto quanto, per non dire di più, degli oggetti fisici? «Oh, si! Concordo pienamente con lui. E quando Connes ha scritto Pensiero e materia con il neurofisiologo Changeaux (Boringhieri, 1991), è stato strano, e anche un po' deprimente, vedere che quest' ultimo si rifiutava di capire». Per finire con uno sguardo al futuro, da dove arriverà l' ispirazione per la matematica? Dalla fisica, dalla biologia, dall' informatica? «Non sono competente per rispondere. E, in realtà, neppure troppo interessato ai programmi sul futuro».

civiltà precristiane

Giornale di Brescia 21.7.03
La colossale statua di avorio e oro raffigurava il padre degli dei
Il bosco di Olimpia dove Zeus sorrideva ai Greci
Mascia Nassivera

Per Omero Zeus era il signore degli dei, la divinità del cielo, della pioggia e dei fulmini. E pensare che, appena nato, se l’era vista brutta, rischiando di essere divorato dal padre Crono che - signore del Cielo - temeva di essere detronizzato da uno dei suoi figli. Ma Zeus si salvò e qualche anno più tardi tramutò in realtà i timori di Crono impadronendosi del potere. Da allora egli diventò il supremo dispensatore di beni e mali, come Nausicaa ricorda nell’Odissea al naufrago Ulisse: «Pure egli solo agli uomini comparte / Zeus Olimpio la gioia, ai tristi e ai buoni, / e a ciascuno come più gli aggrada; / a te dà questi mali ed è pur forza / che tu li soffra». E Zeus stesso nell’Iliade rammenta a Tetide la propria potenza: «Non è mai revocabile o fallace, / mai non rimane senza adempimento / quello ch’io col mio capo abbia sancito». Per questo i Greci decisero, dopo la loro vittoria sui Persiani a Platea, di erigere un mastodontico tempio in onore di Zeus nell’Altis, il bosco sacro di Olimpia dove già sorgevano diversi templi e dove i popoli ellenici potevano incontrarsi in pace, dimenticando le ostilità che spesso li opponevano gli uni contro gli altri. Qui fin dal 776 a.C. si svolgeva una delle più importanti manifestazioni in onore del padre degli dei, chiamata appunto Olimpiadi; la leggenda vuole che fosse stato proprio Zeus a istituire quelle competizioni agonistiche per festeggiare la sua vittoria su Crono, avvenuta a Olimpia. Accanto allo stadio dei giochi, sempre all’interno del recinto del santuario, nel 479 a.C. fu dunque iniziata la costruzione dell’enorme tempio. Subito la questione della statua della divinità da collocare nella cella, cuore sacro dell’edificio, divise gli animi; e solo dopo anni di discussioni tutti si trovarono d’accordo sul nome di Fidia. Questi, intorno alla metà del V secolo, era l’artista greco più famoso, soprattutto grazie ai capolavori creati per il Partenone di Atene; quando arrivò a Olimpia e capì che si voleva un’opera veramente speciale, non ebbe dubbi: quello che serviva era un colosso in oro e avorio («crisoelefantina», dalle parole greche che indicano i due materiali), capace di fare strabiliare contemporanei e posteri. Naturalmente ci riuscì; e in otto anni di lavoro - situati probabilmente tra il 438 e il 430 a.C. - realizzò l’immagine di Zeus più famosa del mondo antico. Ci racconta Pausania che, finita la sua opera, lo scultore chiese a Zeus che cosa ne pensasse; e il dio gli manifestò la sua approvazione con un fulmine. Chi si avvicinava alla cella del tempio si trovava di fronte a un simulacro che, con i suoi tredici metri abbondanti di altezza, sfiorava il soffitto. Siccome Zeus era assiso in trono, l’idea che alzandosi in piedi avrebbe potuto sfondare il tetto esaltava la fantasia dei visitatori, ai quali il padre dell’Olimpo sembrava così ancor più potente. Lo scultore non gli aveva dato un’espressione severa o minacciosa: anzi, colpiva il suo volto sereno, capace di tranquillizzare i pellegrini. Sempre secondo Pausania, la chioma, l’abito e i sandali erano coperti da una profusione di oro: fu calcolato che in tutto erano stati impiegati mille chili del prezioso metallo. Poiché un simile sfoggio di ricchezza attirava l’attenzione dei ladri, sembra che le parti in oro fossero smontabili, in modo da poter essere pesate di quando in quando per verificare se lo spessore aureo rimanesse sempre uguale. Il capo del colosso era cinto da una corona di ulivo dipinta di verde, molto simile a quella conferita ai vincitori delle Olimpiadi; gli occhi erano due luminosissime pietre colorate, mentre le parti nude del corpo - volto, busto, braccia e piedi - erano ricoperte da lastre d’avorio. Ma sotto i preziosi rivestimenti, quali erano i materiali che componevano la struttura portante dell’opera? Tutte le fonti concordano nel ricordare creta, legno, ferro e gesso. Con la mano destra Zeus reggeva la figura della figlia Nike (la Vittoria) con le ali spiegate, un «gingillo» alto due metri; con la sinistra impugnava lo scettro sormontato da un’aquila, animale a lui sacro. I piedi poggiavano su uno sgabello riccamente cesellato e sostenuto da un leone; e i calzari, bene in evidenza, lasciavano a bocca aperta perché ornati di bassorilievi con scene di guerra: è proprio vero che Fidia sfruttava ogni minima superficie per ricordare ai mortali l’immortalità della sua arte. Tutto il trono era ornato di statue e bassorilievi con storie mitologiche, ma forse la vera sorpresa era nascosta nel basamento di marmo della scultura. Si mormorava, infatti, che in un angolo comparisse il viso dello scultore: l’unico particolare giunto fino a noi è che si era ritratto calvo. Il complimento più bello mai fatto a questa statua fu forse quello del filosofo Plotino: «Fidia, creando la statua di Zeus, diede al dio la stessa forma che egli avrebbe scelto se avesse deciso di comparire in figura umana». Attirati dalla fama dell’opera d’arte, ma forse anche dagli splendidi panorami offerti dalla valle dell’Alfeo e dal desiderio di assistere alle Olimpiadi, passarono per il Santuario di Olimpia i più illustri personaggi dell’antica Grecia: da Pindaro ad Aristotele, da Tucidide a Demostene. Molti sovrani stranieri rimasero sbalorditi di fronte alla bellezza della scultura, tanto che lasciarono in dono mantelli, drappi e tele preziose, nei quali la statua fu avvolta. Più tardi anche gli imperatori romani si innamorarono alla follia dello Zeus di Fidia. Se Caligola tentò di trasportarlo a Roma, Nerone optò per la più facile soluzione di costruirsi una villa vicino al Santuario, in modo da poter ammirare quel gigantesco Giove tutte le volte che voleva. Il più pratico fu Adriano, che se ne fece fare una copia ridotta in oro per la sua villa di Tivoli. È naturale che un simulacro pagano così ricco di attrattiva fosse oltremodo inviso ai cristiani e agli imperatori che, abbracciata la nuova religione, combatterono il paganesimo. Nel 426 l’imperatore Teodosio II chiuse il santuario di Olimpia e ne ordinò la distruzione. Sulla sorte della statua di Fidia verità storica e mito ancora oggi si confondono. Secondo alcuni, fu distrutta insieme al tempio; altri invece sostengono che, trasportata a Costantinopoli nel palazzo di una famiglia patrizia, bruciò in un incendio nel 476 o 462 (ma forse le fiamme divamparono durante il trasporto stesso). Comunque siano andate le cose, fu una grave perdita per l’umanità. Oggi del santuario di Olimpia rimangono pochi resti, ma l’atmosfera che si respira fra quei mozziconi di colonne e mucchi di capitelli è la stessa di duemilacinquecento anni fa. Non per nulla il barone Pierre de Coubertin, fondatore delle moderne Olimpiadi, chiese che il suo cuore fosse seppellito davanti al bosco sacro di Olimpia affinché potesse continuare a palpitare di fronte a quel panorama baciato dal mito.

Giorello: il «folle volo» da Dante a Feyerabend; attraverso Bruno

Corriere della Sera 21.7.03
ELZEVIRO
Scoperte scientifiche
Il folle volo da Ulisse a Bruno
di GIULIO GIORELLO

«Quando venimmo a quella foce stretta/ Ov’ Ercole segnò li suoi riguardi,/ Acciò che l'uom più oltre non si metta» (Inferno XXVI, vv. 107-109), cioè allo stretto di Gibilterra, Ulisse e i suoi compagni - nella versione poetica di Dante - sono ormai «vecchi e tardi», disposti a correre il rischio del «folle volo» per fare esperienza di un «mondo senza gente». La loro rotta sembra una disperata rincorsa al Sole che tramonta. Eppure, questa sorta di medievale tour di marinai della terza età avviene nel segno della trasgressione. Non solo della tradizionale prudenza dei navigatori, che ben si guardavano dal gettarsi oltre le Colonne d'Ercole, ma anche della sapienza divina che ha situato l'alto monte del Purgatorio nel mezzo dell’Oceano. Il volo non può che essere folle, perché votato al disastro: altro che «virtute e conoscenza», che nell'esortazione di Ulisse ciascun vero uomo dovrebbe cercare di perseguire. Ma quelle parole sono pronunciate da una figura che per Dante è quasi la personificazione dell'inganno. Come dire che conoscenza e virtù possono essere anche votate al male. Cristoforo Colombo era convinto che non fosse affatto folle quel tipo di crociera, che avrebbe permesso «passando per Occidente» di raggiungere a Oriente terre ricche come le Indie. Ma anche lui sembra esser stato ossessionato dalla montagna del Purgatorio: la Terra non andava considerata esattamente rotonda perché «essa aveva piuttosto la forma di un seno di donna con la protuberanza del capezzolo» (che coincideva, appunto, con l'alto monte di Dante). Colombo si sbagliava: non doveva trovare sulla sua rotta le Indie, ma scoprire comunque qualcosa di molto interessante. Non l'altro mondo delle anime che scontano la loro pena, ma un nuovo mondo e pieno di gente, nonché di strane piante e animali, per non dire di oro e altri preziosi metalli. Cariche di queste meraviglie dovevano tornare in Europa le Caravelle. E cominciava una ben diversa Odissea, quella dei popoli indigeni vessati e rapiti dai conquistatori «cristiani».
Il Cinquecento, che vede compiersi il Grande Periplo con il ritorno dei superstiti della flotta agli ordini di Magellano (ma non lui che perisce) e al tempo stesso gli astronomi discutere di «novità celesti», plasmerà una potente metafora: i «filosofi della natura» sono come gli esploratori geografici - entrambi gustano il frutto proibito della scoperta e ne rendono partecipi gli altri. Nel secolo successivo, in piena rivoluzione scientifica, Galileo Galilei sarà presentato dagli Accademici dei Lincei come «il Fiorentino scopritore non di nuove terre ma di non ancor vedute parti del cielo». Ancor ai tempi nostri, come ha sottolineato Paul Feyerabend, ogni vero ricercatore non può che sentirsi imbarcato in un viaggio verso la sua «America della conoscenza».
Questa potente retorica rovescia quella di Dante: i nuovi adepti di «virtute e conoscenza» sono soprattutto uomini giovani, ma forse non così disinteressati. Già nel dialogo La cena de le Ceneri (1534) Giordano Bruno capovolgeva quest'immagine e spezzava l'analogia. I navigatori dei nostri oceani, da quelli dell'antica mitologia a uomini come Colombo, hanno insegnato agli indigeni delle terre che hanno «scoperto» soprattutto «l'arte di assassinarsi e tiranneggiarsi l'un l'altro» (e dunque folle è stato davvero il loro volo, giacché ha esportato i modi europei della violenza). Al contrario, il filosofo della natura, armato della propria ragione, «ha varcato l'aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo» e in questo modo «ha donato gli occhi alle talpe» cioè ha liberato dall'ignoranza almeno quella parte di umanità capace di seguire virtù e conoscenza.
Aveva ragione Bruno in questa sua «stroncatura»? Lo stesso Colombo nella sua Relazione della navigazione lungo tutta la costa meridionale di Cuba (1495) riporta di essere stato salutato da un cacicco «nell'isola di Santiago, che gli indigeni chiamano Jamayca», con queste parole: «Dappertutto la gente ti teme, e tu hai distrutto i cannibali, che sono assai numerosi e feroci, facendo a pezzi le loro canoe e case, prendendo le donne e i figli, uccidendo quanti non poterono mettersi in salvo». Oggi, in un’epoca in cui qualunque leggenda non è immune da revisione, William Least Heat-Moon scrive che Colombo ha dato il via «a pratiche che avrebbero condotto allo sterminio di interi popoli e culture» (Colombo nelle Americhe, Einaudi). Al contrario, l'universo «senza muraglie» e popolato da innumerevoli sistemi solari che Bruno ci ha regalato nei suoi Dialoghi italiani resta innocente di tutti gli orrori che gli uomini commettono su questa terra, piccolo pianeta «sperduto» attorno al suo Sole. Tra i pochi nell'epoca sua a denunciare l'imperialismo degli esploratori-conquistatori, Bruno rimpiangeva un'età in cui «agili navi» di pirati come Ulisse ancora non portavano desolazione da una terra all'altra. L'ultimo «mago», finito sul rogo in Campo dei Fiori il 17 febbraio 1600, nel suo vivere e morire nella contraddizione può essere eletto a simbolo di quell'Europa che ha scelto di donare al resto del mondo non la devastazione ma la conoscenza.

filosofi...

Il Mattino di Napoli 21.7.03
L’altro pensiero
di Corrado Ocone

Si può giocare con le date e con la filosofia? Certamente. Anche quando le date sono funeste e i filosofi hanno un fondo di tragicità. L’11 settembre è la data in cui (giusto cento anni fa) nacque Theodor Wiesegrund Adorno, con Max Horkheimer autore di una delle opere più importanti del secolo scorso (La dialettica dell’illuminismo, del 1942) e fondatore dell’Istituto di Scienze Sociali di Francoforte. Ma è anche la data in cui la città renana, da un po’ di anni, consegna a un autore particolarmente rappresentativo della cultura contemporanea il Premio intitolato al fondatore della celebre Scuola e della Teoria critica. Due anni fa il prescelto fu Jacques Derrida, ma il filosofo del «decostruzionismo», impegnato in una serie di conferenze in Giappone, dovette chiedere agli organizzatori di posticipare al 22 settembre la data della consegna e della sua lectura. Cosa successe poi quell’11 settembre è cosa risaputa.
E, talmente incredibile e imprevedibile, che Derrida si vide costretto a riporre mano al suo discorso e a farvi cenno. Non fu difficile in verità, perché la prolusione solo apparentemente aveva per oggetto un elemento minimo e privatissimo quale può essere un sogno. In realtà essa era una discussione a briglia sciolta e profondissima sul mondo contemporaneo, sulla tendenziale scomparsa in esso della differenza fra sogno e veglia, fra spettacolo e realtà (e quale fiction ha mai superato in forza immaginativa e impatto reale l’attacco alle Twin Towers?).
Dicevamo del sogno. A farlo fu Walter Benjamin, che lo confidò a Gretel Adorno, la moglie del filosofo, in una lettera che le indirizzò il 12 ottobre 1939 dalla Nièvre, ove si trovava internato. Sapete cosa accomuna Derrida e Benjamin, oltre al fatto di essere filosofi e ebrei? Non ci crederete, ma ancora una data: sono nati entrambi il 15 luglio. Ma, di grazia, cosa sognò Benjamin in una notte di quell’anno orribile per la civiltà europea? Uno scialle ricamato e se stesso che diceva in francese: «Si tratta di trasformare uno scialle in una poesia». Scialle era reso con «fichu», che significa anche «cattivo», «perduto», «condannato», o più trivialmente «fottuto». Ove il «fottuto» era sicuramente egli stesso, che si avviava verso la morte, ma anche, secondo Derrida, il nostro mondo occidentale.
Bisogna seguire però per bene le evoluzioni teoriche del filosofo francese nel bel discorso appena pubblicato in italiano in un agile volumetto (Il sogno di Benjamin, pagine 55, euro 5). Si capirà come si possa parlare filosoficamente di tanti temi del presente: del disagio dell’espatriato, dell’esilio, della difficoltà di esprimersi in una lingua che non è la propria natia, delle «egemonie linguistiche» e di quelle culturali, dell’«avvenire politico dell’Europa e della mondializzazione». E si soppeserà la forza della proposta di un «nuovo illuminismo» e di una nuova teoria critica che ci permetta un «pensiero altro» e «pensare l’altro». Non si potrà tuttavia non scorgere nel fondo un persistente odio verso l’America, che pure ha fatto di Derrida un filosofo acclamato e di successo.
«La mia compassione assoluta per le vittime dell’11 settembre - afferma - non mi impedirà di dirlo: non credo all’innocenza politica di nessuno in questo crimine».
Fra gli attacchi filosofici alla contemporaneità occidentale uno dei più acuti è senza dubbio quello sferrato da Slavoij Zizek, che comincia solo ora a essere tradotto in italiano pur essendo ormai un guru filosofico in tutto il mondo. Lo studioso sloveno si è recentemente impegnato in una decostruzione del concetto chiave delll’Occidente: quello di tolleranza (Difesa dell’intolleranza, Città aperta, pagine 92, euro 8). Non si tratta affatto, a suo modo di vedere, di un concetto asettico e neutrale. Nella volontà di escludere infatti il conflitto dalla sfera politica, il liberale tollerante assume il proprio punto di vista come universale senza sapersi mettere nei panni di chi è escluso e vive ai margini: il migrante, il non occidentale o semplicemente il lavoratore flessibile e precario.
A costoro egli dice: io vi tollero, ma solo nella misura in cui non mi mettete in discussione. È un discorso «totalitario» in quanto non riconosce le differenze. I terroristi ideologici, in quest’ottica, rispondono, secondo Zizek, con un’inaccettabile violenza a una violenza egualmente inaccettabile. Ma, bisogna chiedersi, dovrà pur esserci una differenza fra la presunta violenza culturale e quella reale che miete vittime spesso innocenti, fra il fondamentalismo e la tolleranza? Non sarebbe opportuno spostare il discorso dalla teoria alla pratica?
Mark Jurgensmeyer, sociologo della California, studia il modo di pensare dei fondamenalisti religiosi (islamici, ebrei, cristiani, induisti, buddisti) con un’indagine sul campo che spesso li fa parlare in prima persona. Alla fine del lungo reportage (Terroristi in nome di Dio, Laterza, pagine 340, euro 18), tutto ci sentiremmo di dire tranne che i capi terroristi vivano ai margini o non siano perfettamente integrati nei gangli vitali del mondo globale.

domenica 20 luglio 2003

un caldo da impazzire

Il Giorno di Milano 20.7.03
Emergenza caldo: tutto esaurito anche in psichiatria
di Paola D'Amico

Milano. Superlavoro alla Mangiagalli, con ostetricia al completo e posti contati in neonatologia. Al limite rianimazioni, unità coronariche (chiusa la cardiologia del San Carlo) e anche qualche chirurgia (Niguarda). Ma il dato che più sorprende è il seguente: è in difficoltà la metà dei dipartimenti psichiatrici della città. Tutto esaurito al Fatebenefratelli, al San Carlo e al Policlinico. In giugno i Tso (trattamenti sanitari obbligatori) avevano raggiunto picchi inediti. La psichiatria non è stata sfiorata dal piano di chiusure estive degli ospedali eppure i letti non bastano. Colpa del caldo. Come confermano i dati statistici e anche recenti ricerche.
(...)

Tossicodipendenza e metadone

Galileo, luglio 2003
METADONE
La forza del pregiudizio
di Alessandro Tagliamonte

Il metadone come farmaco sostitutivo per la terapia della dipendenza da eroina fu scoperto casualmente all'inizio degli anni Sessanta a New York da una psichiatra, Mary E. Nyswander, e suo marito, l'endocrinologo Vincent P. Dole.
I due scienziati seguivano presso la Rockfeller University alcuni eroinomani, somministrando loro morfina endovena a intervalli regolari in modo da evitare una crisi d'astinenza e allo scopo di studiarne il comportamento in ambiente ospedaliero. La morfina venne a mancare per qualche giorno e, per evitare l'interruzione dell'osservazione e pur con qualche incertezza, fu sostituita con un oppioide di sintesi, appunto il metadone, somministrato per via orale. Già dopo un giorno col nuovo trattamento i due ricercatori notarono alcuni cambiamenti rilevanti. I soggetti in studio erano più collaborativi e non mostravano i tipici sintomi disforici, cioè l'atteggiamento iperreattivo, a volte aggressivo, in un sottofondo di basso tono dell'umore, di diffusa insoddisfazione e ripetute lamentele. Dopo qualche giorno i pazienti avevano assunto un sorprendente comportamento d'interesse per l'ambiente di degenza e cura della propria persona.
In poche parole, esibivano quei comportamenti tipici nei pazienti d'ospedale che hanno riacquistato il benessere e, spontaneamente, ne condividono il piacere con i compagni di stanza, aiutandoli se e quando necessario e contribuendo fattivamente a mantenere in ordine l'ambiente di degenza.
Questi comportamenti apparivano del tutto inconsueti rispetto a quelli degli eroinomani ricoverati e trattati con morfina, per cui Nyswander e Dole decisero di tornare al regime iniziale, appunto con morfina. Il comportamento disforico ricomparve rapidamente, la morfina fu di nuovo sostituita col metadone e i pazienti riacquistarono l'atteggiamento collaborativo mostrato durante la prima esperienza.
Questo comportamento "normale" non solo non si riduceva nel tempo, ma tendeva a rafforzarsi e a strutturarsi, con la cosciente partecipazione dei pazienti.
Raccontata così sembra una fiaba. Dole e Nyswander, fatte tutte le prove per evitare abbagli da artefatti (try hardly to disprove yourself) si resero conto di aver scoperto qualcosa di notevole e si impegnarono per informarne la comunità scientifica presso cui, con sorpresa e amarezza, trovarono spesso un muro di incomprensione.
Sporadici attestati di stima e d'interesse a collaborare vennero all'inizio da ambienti non accademici. Un giovane operatore sociale, Henry Joseph, oggi qualificato ricercatore, che aveva il compito di seguire gli eroinomani rilasciati dal carcere on parol, cioè con l'impegno della buona condotta, fu il primo a sperimentare l'impatto del metadone sulle problematiche del quotidiano di un tossicodipendente.
I soggetti affidati alle sue cure ricadevano in poche ore o pochi giorni nell'uso di eroina, un motivo sufficiente a interrompere il provvedimento di clemenza, e non c'era verso di modificare questa situazione. I due ricercatori proposero a Joseph di trattare con metadone i soggetti on parol e, quasi per incanto, essi osservarono che chi accettava il nuovo trattamento non restava più invischiato in comportamenti illeciti. Da subito spariva la compulsione a ricercare e consumare farmaci al di fuori del metadone e comparivano comportamenti responsabili.
I dati di Joseph impressionarono alcuni funzionari e politici e Dole e Nyswander, con la collaborazione di alcuni giovani medici e psicologi, ebbero l'opportunità di organizzare una rete di ambulatori (le cosiddette methadone clinics) per il trattamento con metadone a New York. La favola, cioè il razionale utilizzo del metadone in chi ne ha necessità e fino a che ne ha necessità, finisce qui o, meglio, la diffusione della lieta novella subisce a questo punto un rallentamento che ancora oggi perdura.
Le resistenze vennero da diverse direzioni e, cosa che lascia ancora oggi perplessi noi addetti ai lavori, contro il metadone si schierarono scienziati, medici, giornalisti, operatori sociali, magistrati e qualificati rappresentanti delle forze dell'ordine, in aggiunta ai religiosi, ai politici, agli psicologi, ecc. Si potrebbe parlare di un numeroso, articolato, vero e proprio partito trasversale anti-metadone.
Politicamente il metadone è stato definito a fasi alterne farmaco di destra e di sinistra. In realtà, i medici e gli altri operatori che ne promuovono l'utilizzo si attengono a una valutazione obiettiva dei dati clinici, indipendentemente dalle proprie convinzioni politiche. Tuttavia, spesso, il dibattito fra questi medici e chi "non ha in simpatia il metadone", o considera che somministrarlo agli eroinomani cronici equivale a "prescrivere whiskey a un etilista che beve prevalentemente vino o birra" o a "offrire una donna ad uno stupratore", assume toni così accesi da fare apparire come ideologia il pragmatismo.
Il dibattito su un tema che attiene alla salute dovrebbe essere condotto in modo che le reazioni emotive alle problematiche connesse restino sempre distinte dagli aspetti tecnici, cioè medici.
In altre parole, se si vuole fare chiarezza sulle cause di una patologia e sulle risorse reali esistenti per prevenire e controllare queste cause e per curare la patologia stessa, non si deve far confusione fra dati scientifici e opinioni, soprattutto se le opinioni sono di non addetti ai lavori. Detto questo non tornerò sullo stucchevole e time consuming dibattito su metadone sì metadone no.
Kraepelin cento anni or sono definiva il morfinismo cronico come un marasma della volontà e considerava dei cialtroni coloro che, anche allora, promettevano soluzioni salvifiche o cure brevi.
Oggi la tossicodipendenza da eroina è definita una malattia cronica di carattere psichiatrico ad andamento recidivante. Come la depressione, tanto per intenderci, con la differenza che la depressione non ha una causa esogena altrettanto ben definita, mentre ha ben definito il carattere della familiarità. Non soltanto la tossicodipendenza da eroina ma anche l'etilismo, il tabagismo e altre forme di tossicodipendenza appartengono al vasto capitolo delle malattie psichiatriche croniche da agenti esogeni ad andamento recidivante.
Per i non addetti ai lavori è concettualmente difficile porre sullo stesso piano un eroinomane, un cocainomane e un tabagista, meglio noto come fumatore, e non è immediata la corrispondenza fra fumatore e cocainomane. In medicina queste apparenti contraddizioni sono relativamente comuni. Una diagnosi di ipertensione arteriosa è spesso fatta casualmente su una persona giovane che non accusa sintomi soggettivi. L'ipertensione è considerata, per questo motivo, una condizione al limite fra malattia e stato di rischio per una futura patologia d'organo (cuore, reni, ecc.); ma, indipendentemente dalla definizione, è dimostrato che un soggetto iperteso, se non si controllano i suoi valori pressori alterati, ha un'aspettativa di vita nettamente inferiore rispetto a quella della popolazione generale. La pressione arteriosa in alcuni casi può essere controllata con rigorose misure igieniche, ma nella maggior parte dei casi è necessaria la somministrazione di farmaci: per tutta la vita. Anche il tabagismo è sicuramente una condizione di rischio per lo sviluppo di patologie d'organo come infarto del miocardio, vasculopatie periferiche ostruttive, broncopneupopatia ostruttiva, tumore polmonare. Basterebbe smettere di fumare per ridurre, se non addirittura eliminare, il rischio di sviluppo di queste patologie; cioè, l'accettazione di una rigorosa misura igienica da parte di un fumatore potrebbe, teoricamente, risultare superiore all'uso di qualsiasi farmaco da parte di un iperteso. Di fatto, i fumatori hanno un'aspettativa di vita di almeno 15 anni inferiore rispetto alla popolazione generale: nella Comunità Europea muoiono 500.000 persone all'anno a causa del fumo e il 50 per cento dei fumatori che ha un infarto dopo tre mesi ha ripreso a fumare. Per questi motivi il tabagismo è classificato come tossicodipendenza, che è la perdita del controllo sull'uso di una sostanza che intossica.
La tossicodipendenza è una malattia o una condizione di rischio?
La risposta è articolata, poiché alcune delle sostanze che inducono tossicodipendenza producono anche effetti comportamentali alterati che di per sé configurano una patologia. Per esempio, la cocaina può indurre una psicosi paranoide che, dopo una prima fase di sensibilizzazione, ricompare come effetto acuto a ogni somministrazione del farmaco.
La sensibilizzazione agli effetti della cocaina, così come la conseguente psicosi paranoide, sono manifestazioni cliniche connesse all'uso di cocaina che si possono manifestare indipendentemente dai sintomi di tossicodipendenza. Nell'abuso di eroina non esistono modificazioni del comportamento altrettanto drammatiche connesse a un'intossicazione acuta o cronica. L'auto-somministrazione ripetuta di eroina induce tolleranza e dipendenza e, se s'interrompe il trattamento, compare la sindrome di astinenza. È in astinenza che l'eroinomane presenta la disforia e l'ansia che condizionano i suoi comportamenti e le sue relazioni sociali; l'assunzione di una dose ottimale di eroina (adeguata al grado di tolleranza raggiunto) gli restituisce la normalità.
Anche il fumatore appare "nervoso" se resta senza sigarette, ma appena ne fuma una la nicotina gli restituisce la sua normalità.
La distinzione fra condizione di rischio e malattia ha, quindi, un valore soprattutto speculativo. Certamente, ciò che maggiormente differenzia l'ipertensione dal tabagismo è l'esistenza di numerose classi di farmaci antiipertensivi efficaci che si contrappone alla pressoché completa mancanza di risorse farmacologiche antifumo. Immaginate un farmaco che preso al mattino o alla sera prima di dormire garantisse per le successive 24 ore uno stato di non-necessità di fumare, senza conseguenze sul tono dell'umore, attenzione, appetito, ritmo del sonno.
Sarebbe un problema prescrivere a un fumatore questo farmaco, anche per il resto della sua vita, in sostituzione delle sigarette? Sarebbe "troppo facile", "non risolverebbe il problema alla radice", dovrebbe questo farmaco guadagnarsi le simpatie di qualcuno o sarebbe sufficiente dimostrarne l'efficacia per promuoverne l'uso?
Dole, da endocrinologo, teorizzò una stretta similitudine fra la risposta dei diabetici all'insulina e la risposta degli eroinomani al metadone e propose l'ipotesi dell'eroinismo cronico come malattia metabolica. Un uso prolungato di eroina produrrebbe uno squilibrio metabolico che solo la somministrazione continua di un agonista oppioide sarebbe in grado di riequilibrare.
L'ipotesi è affascinante e ancora oggi, con le opportune correzioni connesse alle moderne conoscenze di psicobiologia, ha validità. Certo è che malessere soggettivo e comportamenti alterati sono presenti nell'eroinomane solo in fase di astinenza.
Come più volte sottolineato, se a un eroinomane viene somministrata per infusione endovena una dose di eroina sufficiente a prevenire la comparsa di sintomi di astinenza, finché dura l'infusione l'eroinomane sta bene ed ha un normale controllo sul proprio comportamento.
L'infusione continua presenta notevoli difficoltà pratiche e può essere sostituita efficacemente con un farmaco che sia ben assorbito ed eliminato lentamente dall'organismo. Il metadone somministrato per via orale è assorbito per il 98 per cento ed è eliminato molto lentamente.
Il metadone ha effetti farmacologici molto simili a quelli dell'eroina.
Sicuramente se iniettiamo per endovena a un eroinomane una dose equivalente di eroina o metadone, non distingue nell'immediato una dall'altro. L'effetto dell'eroina dura poche ore perché l'organismo la degrada ed elimina rapidamente; l'effetto del metadone è prolungato nel tempo. L'eroina somministrata per bocca è rapidamente degradata e solo una minima parte raggiunge il circolo; il metadone ha un assorbimento orale pressoché completo e il suo effetto dopo una singola dose orale copre il soggetto per almeno 24 ore. Come conseguenza della sua lenta eliminazione dall'organismo col metadone si possono ottenere concentrazioni stabili per 24 ore nel sangue e nel cervello, che definiamo massimali, sufficienti a neutralizzare l'effetto di una dose aggiuntiva di farmaci simili, per esempio di eroina. Questa dose è stata denominata blocking dose ed è utilizzata per disincentivare l'uso di eroina in quei soggetti che compulsivamente si auto-iniettano nonostante non avvertano il minimo segno di astinenza. Questi dosaggi massimali si raggiungono gradualmente in base alla risposta clinica del soggetto, poiché il metadone, come la morfina e qualsiasi altro narcotico-analgesico deprime i centri del respiro.
La depressione dei centri del respiro è la causa della morte da intossicazione acuta da eroina, la famigerata overdose. A questo effetto compare rapidamente tolleranza e la blocking dose può essere raggiunta senza rischi in una-tre settimane. Gli oppiacei, prodotti estrattivi dell'oppio, e gli oppioidi, loro analoghi di sintesi, non hanno tossicità d'organo. Non sono tossici per il rene, per il cuore, per i polmoni, per il fegato.
Inducono tossicodipendenza se assunti per auto-somministrazione.
Una volta strutturata una tossicodipendenza non è eradicabile.
"Once an alcoholic always an alcoholic", un alcolista resta tale per tutta la vita, come un eroinomane o un tabagista.
Diventare eroinomane presuppone mesi, se non anni, d'uso ripetuto; per ricadere nell'uso di eroina bastano uno-due giorni anche dopo anni di astinenza. Altrettanto vale per alcool e tabacco.
Per questi motivi definiamo le tossicodipendenze come malattie croniche ad andamento recidivante. Smettere di fumare o di bere è relativamente facile, così come è relativamente facile smettere di iniettarsi eroina. Ma non si deve mai commettere l'errore di confondere una fase di remissione, che può durare anni e che non necessariamente esita in recidiva, con la guarigione.
La recidiva fa parte del quadro clinico di una tossicodipendenza e non deve essere vissuta dal medico, almeno da lui, come una delusione riguardo alla forza di volontà del soggetto.
Fare una predica a un eroinomane o a un tabagista in recidiva equivale a sgridare un asmatico perché "anche quest'anno, a primavera, ti sei ripreso l'asma". I soggetti trattati con dosaggi personalizzati di metadone a mantenimento riacquistano il loro equilibrio psicofisico di base, non hanno comportamenti compulsivi connessi al procacciamento di eroina e, se messi in grado di svolgere un'attività lavorativa, sono in grado di esprimere al meglio le proprie capacità produttive. È per questi motivi che il trattamento a mantenimento con metadone migliora il grado di socializzazione e riduce la criminalità fra i tossicodipendenti. Con l'eliminazione della ricerca compulsiva (craving) dell'eroina, che è il sintomo cardine di una tossicodipendenza, l'igiene personale riacquista importanza e il rischio di infezioni si riduce di conseguenza.
Più complesso è spiegare perché alcune sostanze inducono tossicomania e chi ne fa uso più o meno rapidamente perde il controllo e la sua esistenza appare controllata e scandita dall'assunzione di queste sostanze, indipendentemente dalla loro pericolosità. Tutti sentiamo la necessità di sentirci protetti dal rischio di diventare tossicodipendenti, ed è rassicurante ipotizzare che chi lo è deve essere diverso, in qualche modo tarato rispetto a una teorica popolazione generale.
Per questo motivo vengono sottolineati, spesso in alternativa, la necessità di una predisposizione genetica o di un ambiente stressante e ricco di condizioni frustranti.
Ma anche il cibo è da considerare una sostanza d'abuso e l'obesità una forma di tossicodipendenza, per cui si ripete anche che "solo chi è predisposto diventa obeso".
Che dire, allora, di fronte ad un'incidenza di obesità che supera il 40 per cento negli adolescenti? Apparteniamo a una società di tarati? Negli anni Cinquanta oltre il 50 per cento della popolazione generale fumava, oggi le stime si sono attestate appena al di sotto del 30 per cento. L'occasione fa l'uomo ladro, le merendine fanno il bambino obeso, i tabaccai fanno dell'uomo un fumatore. È così semplice? Non è affatto semplice, ma questi sono i termini del problema. Un'affezione colpisce solo chi è predisposto se l'agente patogeno ha una scarsa diffusione; ma la società del benessere che ci mette a disposizione e impone i supermercati, i fast food, i più raffinati tabacchi e alcolici, una martellante televisione che invita a spendere di più, sia per il nostro benessere sia per salvare l'economia nazionale, ci ha anche regalato percentuali mai raggiunte prima di obesità.
Inoltre, per quanto sia difficile sostenere che etilismo e tabagismo sono tipici di una società del benessere, è ben vero che solo dove si producono grandi quantità di alcolici l'etilismo si diffonde e che fu la scoperta dei fiammiferi a sfregamento e delle macchine produttrici di sigarette che favorirono la diffusione del fumo.
La farmacologia ci propone nuovi miracolosi farmaci contro il fumo, l'alcool, l'obesità. Di fronte alla povertà dei risultati dovuta alla scarsa efficacia di questi prodotti, si sente ripetere che data la dimensione del problema anche i piccoli farmaci vanno utilizzati. In contrasto, di fronte al problema eroinismo, che è definito una delle piaghe della nostra società, assistiamo alla continua paradossale demonizzazione del metadone che, appropriatamente utilizzato, potrebbe risolvere i problemi psicofisici e sociali della maggior parte degli eroinomani.

Gramsci, Togliatti, Stalin

il Tempo domenica 20 luglio 2003
Su Gramsci Stalin e Togliatti erano d’accordo
di RAFFAELLO UBOLDI

PER capire la complessa vicenda nei rapporti fra Gramsci, Togliatti e Stalin, occorre (al di là delle arrampicature sui vetri dei vari Canfora e Macaluso — lascio fuori dal mazzo, e spiegherò perché, Pons, direttore dell’Istituto Gramsci) tener presenti i fatti. E i fatti ci dicono che Gramsci, chiuso a Milano nel carcere di San Vittore, in attesa di comparire davanti al Tribunale Speciale, imposta così la sua linea di difesa: egli è comunista, ma da che è stato eletto deputato non si è più occupato del partito. Ed ecco, a smentirlo che gli arriva la lettera di un togliattiano di provata fede, Grieco (si badi, spedita per posta ordinaria, quindi a piena disposizione della censura) che lo qualifica come l’unico, riconosciuto capo del Pci. Gramsci non ha dubbi su chi gli abbia sparato nella schiena. Tanto è vero che in una lettera alla cognata, Tania Schucht, scriverà: «Chi mi ha condannato è stato un organismo più vasto, di cui il Tribunale Speciale non è stato che l’indicazione esterna e materiale che ha compilato l’atto legale di condanna». E più avanti: «Devo dire che tra questi condannatori c’è stata anche mia moglie, Julca, credo, anzi, sono fermamente convinto, persuasa inconsciamente, e c’è una serie di altre persone meno inconscie». Una riprova che Togliatti fosse dietro al complotto contro il suo grande avversario nel partito la si ha del resto nel dopoguerra, allorché nella prima edizione delle «Lettere dal carcere» di Gramsci, curata dallo stesso Togliatti (in collaborazione con Felice Platone) questa lettera non figura. Verrà pubblicata solo dopo la morte di Togliatti.
Questi i fatti; che adesso trovano conferma in un’altra lettera, quella che la cognata maggiore di Gramsci, Evgenia, e la moglie Julca, spediscono a Stalin attorno al 1940, con una serie di accuse, dirette o indirette, a Togliatti, fra cui quella di non aver fatto nulla per farlo riparare in Unione Sovietica, sottraendolo ai fulmini del regime fascista. Il direttore dell’Istituto Gramsci questa lettera l’ha trovata, e bene ha fatto a pubblicarla, scatenando le reazioni dei togliattiani a tutt’oggi più fedeli. In sintesi: chi non volle Gramsci a Mosca, Togliatti o Stalin? La questione è controversa, al punto da indurre gli estimatori di Togliatti (parrà strano, ma ce ne sono ancora) a sostenere una tesi che sembra contenere una parte di verità. Non aprendogli la strada di Mosca, Togliatti ha salvato Gramsci da un destino atroce, quello di finire davanti a un plotone di esecuzione, comunque in un gulag.
Che questa a Mosca sarebbe stata la fine di Gramsci, non c’è dubbio alcuno. In più di una occasione aveva condannato i metodi con cui Stalin governava il partito sovietico e la sua politica di guerra aperta ai socialisti, bollati come eretici, e perfino tacciati di «socialfascisti». Una politica che divideva la sinistra davanti a Hitler e Mussolini. Ma proprio per questo è difficile pensare che Togliatti abbia agito indipendentemente da Stalin nel decidere del destino di Gramsci. Fu un fedelissimo di Stalin, quando nella segreteria del Comintern controfirmò la condanna dei comunisti polacchi, in Spagna nelle epurazioni a sinistra contro trozkisti e anarchici. In Italia nel tentativo di svuotare dall’interno la democrazia del dopoguerra, pur aderendovi formalmente. Fu con Mosca durante la repressione a Budapest (ricordiamo l’episodio, narrato da Ingrao, del brindisi all’intervento sovietico). Insomma: un fedele non privo di risvolti opportunistici, se la Madre Russia glielo chiedeva. Gramsci gli stava bene in galera in Italia: se non gli aprì la strada di Mosca fu solo perché Stalin non glielo chiese. Quello Stalin per cui una galera valeva l’altra, incapace perfino di concepire che da noi potessero essere diverse.
Diverse rispetto a quelle sovietiche, pur nel quadro di una dittatura. Con un carcere, quello di Turi, che carcere pur sempre era, ma per malati cronici. Con la possibilità per Gramsci di morire non in cella, ma nella clinica Quisisana di Roma; per la cognata Tania e per l’economista Sraffa, con la possibilità di salvare i suoi documenti (i «Quaderni», o le «Lettere dal carcere»), che nessuno in Italia provvide a sequestrare, come accadde nella Russia staliniana per gli scritti di Trotzky o di Bucharin. È in questo quadro che la lettera di Evgenia e di Julca a Stalin assurme soltanto un’importanza temporale. In una Russia dove ciascuno doveva piegarsi al rito dell’accusa, le due donne fecero quanto gli si chiedeva, perfino disegnando il ritratto di uno Stalin migliore di Togliatti, quando nella realtà i due filavano di comune accordo. La prova? Il fatto che Togliatti sia uscito indenne dalle purghe che pure avevano travolto tante figure in posizioni simili alla sua.

Giordano Bruno e Clemente VIII

Il Giornale Di Brescia 20.7.03
Luci e ombre nella biografia del pontefice
CLEMENTE VIII TRA GIORDANO BRUNO E LE RIFORME
di Raffaello Uboldi

All’alba del 17 febbraio del 1600 i romani videro un corteo preceduto da un uomo in catene e con la lingua bloccata da uno strumento detto «mordecchia», usato per impedire agli eretici di bestemmiare sul rogo. La processione si dirigeva verso la piazza di Campo de’ Fiori, dov’era stata allestita la pira. L’uomo in catene era Giordano Bruno, l’ex-frate domenicano arrestato nel maggio del 1592 su ordine dell’Inquisizione e condannato al rogo per eresia dopo un processo durato otto anni. Fra le accuse che gli erano state mosse c’era quella di essersi fatto portavoce del libero pensiero, anche in contrasto coi dettami della Chiesa, di aver sostenuto, in linea con la filosofia copernicana, ma addirittura superandola, la pluralità dei mondi e il dilatarsi all’infinito dell’Universo, e così via. Mentre Giordano Bruno moriva, il pontefice Clemente VIII, al secolo Ippolito Aldobrandini, saliva la Scala Santa nell’ambito delle celebrazioni del Giubileo. Un Giubileo che riscosse molto successo, con un milione e duecentomila pellegrini affluiti a Roma da ogni dove, ottomila Messe celebrate in San Pietro e 200.000 fedeli presenti nel giorno di Pasqua alla benedizione papale. La morte di Bruno non aveva mutato in nulla i rapporti dei fedeli con la Chiesa. Del resto, vedere un eretico salire sul rogo era abbastanza consueto. Prima del frate domenicano, altri diciassette eretici - o presunti tali - erano stati condannati alla stessa pena durante quel pontificato. E pochi (o nessuno) erano a conoscenza delle parole gettate da Giordano Bruno in faccia ai suoi giudici: «Voi pronunciate la sentenza con maggiore paura di quella con la quale io l’ascolto». In seguito, col passare del tempo, le cose sono mutate: all’esaltazione della figura di Giordano Bruno si è unita, in parallelo, la condanna di Clemente VIII. Ma meritava davvero, quel Pontefice, un simile destino? È la domanda che si pone Rita Pomponio in un libro appassionante, dal taglio di un romanzo, anche se rigorosamente aderente ai fatti: Il Papa che bruciò Giordano Bruno (Piemme, 300 pagine, 18 €). La conclusione è che, a quasi quattrocento anni dalla sua morte - avvenuta il 5 marzo 1605 per emorragia cerebrale, - pochi conoscono appieno la figura di colui che fu «un grande pontefice», vissuto in uno dei secoli più tormentati per l’Europa e la Cristianità. Un uomo del suo tempo, certo; e questo spiega i roghi per eresia, le confessioni estratte con la tortura, i processi davanti al terribile tribunale della Santa Inquisizione, dove l’importante era arrivare a una condanna, capace di servire da monito agli spiriti ribelli, più che appurare la realtà dei fatti. Un Pontefice che era la guida della Chiesa, ma che al tempo stesso regnava su uno Stato minacciato dalle dottrine protestanti, dai Turchi alle porte e dalle rivalità tra i principi cristiani. È proprio tenendo conto di un orizzonte così burrascoso, che il pontificato di Clemente VIII viene esaltato per i traguardi raggiunti, dalla conquista del Ducato di Ferrara all’abiura - anche se per motivi certamente più politici che religiosi - di Enrico IV, convinto che Parigi, cioè il trono di Francia, valesse bene «una Messa»; dalla riforma della Chiesa, attuata sulla base dei decreti approvati dal Consiglio di Trento, all’avvio di nuove missioni in Oriente. Nel servire la Chiesa, questo Papa si avvalse spesso della collaborazione di un amico e confidente quale Filippo Neri, che molti anni prima gli aveva fatto questa predizione: «Un giorno sarai papa e ti chiamerai Clemente». Sostenne San Giuseppe Calasanzio nell’istituzione della prima scuola pubblica gratuita per i figli del popolo, l’unica allora esistente in tutta l’Europa. Un’attenzione particolare fu rivolta ai malati di mente, accolti nell’Ospedale di Santa Maria della Pietà con la raccomandazione che venissero loro prodigate «cure amorevoli al fine di recuperarli a una vita normale». Il Papa propose perfino di istituire una moneta unica in Italia. Introdusse pene severe per gli usurai, per coloro che divulgavano false notizie e per i criminali che lanciavano pietre contro le carrozze. Con eguale severità cercò di combattere il traffico dilagante di opere d’arte e i tombaroli che saccheggiavano i siti archeologici. Chiese ai giudici di accelerare i processi, per evitare agli imputati, specie quando la loro innocenza fosse ovvia in partenza, una lunga e ingiusta reclusione. Vietò ai magistrati, avvocati e carcerieri di accettare regalie dai detenuti. Stese di persona leggi molto rigorose per arginare la «cattiva abitudine», che si andava diffondendo fra i rampolli della nobiltà, di assassinare i genitori al fine di ereditarne i beni. Fu amico di letterati, fra i quali giganteggia la figura di Torquato Tasso. Preoccupato della condotta non proprio ascetica di tanti religiosi e della mancanza di disciplina nei conventi, fu il primo pontefice a compiere quelle visite che furono chiamate «pastorali». Insomma, Clemente VIII fu un pontefice che avrebbe meritato una maggiore stima fra i posteri. Se non fosse per quella morte sul rogo a cui condannò un uomo che ci ha insegnato che il diritto di pensare con la propria testa merita il sacrificio della vita.

sabato 19 luglio 2003

Gramsci

Corriere della sera 19.7.03
IN FAMIGLIA
Evgenia, Julia, Tania Tre sorelle unite dalla fede comunista
di AURELIO LEPRE

La lettera di Evgenia e Julia Schucht a Stalin è un altro segno di come sia stato stretto il groviglio che ha unito pubblico e privato nella vita di Antonio Gramsci. E come le sue vicende familiari possano rendere ancora più complesso il nodo della questione dei rapporti tra Gramsci e Togliatti. Antonio aveva conosciuto per prima Evgenia, nel 1922, tra le nevi del sanatorio di Sieriebriani bor, in Russia, dove entrambi erano ricoverati per esaurimento. Le fatiche dell'attività rivoluzionaria minacciavano di stroncare sia il dirigente politico italiano sia la giovane russa, che aveva combattuto la guerra civile nel corpo dei fucilieri. Tra i due nacque una forte simpatia, ma poi Antonio conobbe Julia, la sorella più giovane, e se ne innamorò. Quando nacque Delio, Evgenia si affezionò morbosamente al nipote: inutilmente il padre, Apollon, le diceva che il bambino aveva una sola madre, Julia. Antonio, che era assente per ragioni politiche, era stato avvertito, ma non era intervenuto. La situazione si aggravò nei mesi in cui i tre vissero insieme a Roma: Evgenia cercava di non fare affezionare Delio ad Antonio, che trattava con freddezza. Più tardi, mentre era in carcere, Antonio non approvò i metodi con cui Julia ed Evgenia educavano Delio e l'altro figlio, Giuliano. Non conosciamo con precisione quali rapporti si siano stabiliti in quegli anni durissimi all'interno della famiglia Schucht: Tania accennava frequentemente a complessi problemi psicologici, che Antonio non era in grado di comprendere e che lo tormentavano. Carlo, il fratello di Gramsci, dopo una visita a Mosca, informò Tania (che ne scrisse a sua volta ad Antonio) che nella famiglia Schucht si cercava di allontanare i figli dal padre, accusandolo di non essersene mai occupato, nemmeno prima di finire in carcere. Un giorno Tania gli inviò un passo di una lettera di Apollon in cui era scritto: «Non ho detto che Giulia non scrive perché è ammalata, ho detto che non lo fa che raramente, perché le riesce assai penoso di farlo nelle condizioni in cui si è costretti di compierlo».
Aldo Natoli ha avanzato l'ipotesi che Evgenia, fervente stalinista, ritenesse Gramsci filotrotzkista e cercasse perciò di impedire a Julia di scrivergli. Era la fine del 1930. L'accusa di trotzkismo mossa da Evgenia ai presunti «traditori» di Gramsci appare singolare: non è un'ipotesi azzardata supporre che, se Gramsci in quegli anni fosse vissuto in Unione Sovietica, sarebbe stato processato proprio come «trotzkista».
Nella lettera a Stalin fra i «traditori» le due sorelle non nominano né Grieco né Togliatti, ma il primo era stato un seguace di Bordiga e poteva perciò essere facilmente sospettato di simpatie per Trotzkij; il secondo aveva rischiato di essere coinvolto nei grandi processi ed era caduto in disgrazia per i suoi atteggiamenti durante la guerra di Spagna. Dolores Ibarruri dichiarò a Dimitrov, segretario del Comintern, di non fidarsene pienamente, perché sentiva in Togliatti «qualcosa di estraneo, di non nostro». È strano, inoltre, che nel 1940 Evgenia e Julia scrivano di essersi rivolte a Ezov, uno dei più sanguinari pretoriani di Stalin, che lo stesso dittatore mandò a morte nel 1938, dopo essersene servito contro i suoi nemici. Sui personaggi politici eliminati di solito cadeva il silenzio.
Per i suoi toni aspri e inquisitori la lettera sembra appartenere molto più a Evgenia che a Julia. Vero è che anche la mite Tania, quando, dopo la morte di Gramsci, cercò di riaprire la discussione sul «tradimento», ne diede un'interpretazione eguale a quella su cui venivano costruiti i processi staliniani: lo attribuì, infatti, «all’esplicarsi di un'attività quasi diabolica». Poiché Tania scrisse queste parole a Sraffa, è possibile pensare che volesse accennare, oltre che a Grieco, anche a Togliatti? A me non sembra probabile, ma per un chiarimento definitivo bisognerebbe conoscere meglio quale fu il ruolo di Piero Sraffa in tutta la vicenda, se semplice mediatore tra Tania e Togliatti o qualcosa di più.

Breve ma autorevole affermazione anglosassone sul più importante quotidiano nazionale

Corriere della Sera 19.7.03
LONDRA
Stress e depressione Una predisposizione nel Dna

Stress e depressione: è tutto nel Dna. Ricercatori inglesi, americani e neozelandesi hanno rivelato il ruolo dell'interazione tra geni e ambiente. Il tipo di reazione ad eventi stressanti o dolorosi è determinato da un tratto di Dna che, se più corto, produce meno serotonina e rende meno resistenti alla depressione.

Schopenhauer

La Stampa Tuttolibri 19/7/2003
Schopenhauer e il barboncino: lo amo perché non si pone domande

NON appena Arthur Schopenhauer cominciò a pensare si sentì diviso dal mondo. Era d'accordo con Leopardi nel ritenerlo una lega di furfanti contro gli onesti e di vigliacchi contro i generosi. Pur non respingendo nessun essere umano, incontrava solo miseri gnomi, limitati di cervello, malvagi di cuore. Le rare eccezioni avevano dai venticinque ai quarant'anni più di lui. Ai Musei Vaticani scoprì incisa sotto il busto di Biante una scritta in greco: ”La maggior parte degli uomini è malvagia”. A trent'anni ne ebbe abbastanza di considerare suoi simili esseri che in realtà non lo erano. Finché il gatto è giovane, si disse, gioca con pallottoline di carta perché crede che siano vive e simili a lui. Ma una volta cresciuto, sa cosa sono e le lascia stare. Considerando nullità gli uomini accanto a cui viveva, il suo massimo godimento erano i pensieri tramandati di esseri simili a lui che un tempo si erano affannati come lui tra quanti non lo erano. La loro lettera morta gli parlava in tono più familiare che non la viva esistenza dei bipedi. Per l'emigrato, diceva, una lettera da casa vale più di una conversazione con gli stranieri che gli stanno intorno. Considerava il suo l'isolamento di un individuo eccelso, del quale il bipede finge di non notare la superiorità con lo stesso istinto con cui un insetto si finge morto. La madre lo fece andare via di casa perché con questi discorsi offendeva i suoi ospiti. L'unico con cui Schopenhauer convisse da allora in poi fu un barboncino. Schopenhauer lo amava perché non si poneva domande. Solo l’uomo si meraviglia della propria esistenza. A trent'anni scrisse un'opera che cominciava con queste parole: ”Il mondo è la mia rappresentazione”. Ne vendette pochissime copie, nonostante alcuni paragrafi fossero stati scritti dallo Spirito Santo. Come Angelo Silesio, Schopenhauer sapeva che senza di lui Dio non poteva vivere un attimo. Come Cartesio e come i Veda, riteneva che nessuno di noi possa uscire da se stesso e vedere le cose per quello che sono, che tutto ciò di cui si ha conoscenza certa si trovi dentro il nostro sistema nervoso e cerebrale. Come per Platone, Pindaro, Sofocle, Shakespeare e Calderon de la Barca, la vita per Schopenhauer era un sogno, una ragnatela di apparenze, un sortilegio. Schopenhauer era un seguace di Kant, ma mentre per Kant il fenomeno era autenticamente accessibile alla mente umana, per Schopenhauer era come il velo di Maya che copre il vero volto delle cose. L'unica cosa che esiste, diceva Schopenhauer, è la volontà di vivere, l'impulso inconscio e irresistibile che accomuna il filosofo, il barboncino, i fili d'erba e i cristalli. Ma a differenza dei cristalli, dei fili d'erba e del barboncino, il filosofo squarciava il velo di Maya dell’illusione quando asseriva di non essere che volontà. La volontà, spiegava Schopenhauer, è l'elemento in assoluto più basso e più spregevole in noi. Bisogna nasconderla come si nascondono i genitali. La vita di Schopenhauer era guidata da una massima: ”Volere il meno possibile e conoscere il più possibile”. La felicità dell'uomo comune consiste nell'alternanza di lavoro e piacere. Per Schopenhauer, invece, erano una cosa sola. Se a volte Schopenhauer si sentì infelice, fu perché aveva creduto di essere un altro rispetto a quello che era e ne aveva compianto la miseria. Per esempio quando aveva pensato di essere un libero docente che non riesce a diventare professore.

Matteo Ricci, primo sinologo, vittima della Santa Inquisizione

Il Giornale di Vicenza Sabato 19 Luglio 2003
Una mostra che si apre oggi a Macerata ripropone al grande pubblico l’opera dell’umanista e matematico del Cinquecento
Matteo Ricci, un gesuita alla Corte dei Ming
di Nicoletta Castagni

Riuscì a costruire per la prima volta un solido ponte culturale tra l’Occidente e la Cina
Fu chiamato «il saggio d’Occidente» e riuscì a portare per la prima volta, alle soglie del ’600, il pensiero occidentale e cattolico alla corte imperiale della Cina. Eppure l’opera del gesuita Matteo Ricci è ancora sconosciuta ai più, rimossa dalle condanne dell’Inquisizione. Una mostra da oggi a Macerata (dove Ricci nacque nel 1552) la ripropone al largo pubblico. Presentata a Roma, la rassegna «Padre Matteo Ricci. L’Europa alla Corte dei Ming» (che in autunno arriverà a Roma in una sede ancora da definire) è curata da Filippo Mignini, ordinario di Storia della filosofia all’Università di Macerata, che con grande passione è riuscito a mettere insieme pezzi straordinari e in parte mai esposti prima, capaci di ricostruire l’esperienza emblematica del missionario gesuita, umanista e matematico, interamente volta a far incontrare due mondi e due culture all’epoca separati da distanze siderali.
Si tratta di una mostra difficile, ha esordito Mignini senza nascondere le difficoltà dell’iniziativa ideata dall’Istituto Matteo Ricci (nato due anni fa a Macerata), e organizzata per conto della Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata in collaborazione con il Comune, la Provincia, la Regione e Banca delle Marche.
La fama di Ricci non è pari alla sua grandezza, ha proseguito il curatore, sottolineando che l’importanza del gesuita va ben oltre a quella di Marco Polo. In Cina, solo chi va all’università conosce le imprese del viaggiatore veneziano (anche se ora sono state divulgate da un film di successo), ha aggiunto, mentre tutti conoscono la vita di Li Madou, come veniva chiamato Padre Ricci nel Paese del Drago.
Il gesuita impiegò diciotto anni per risalire da Macao a Pechino dove arrivò all’età di 32 anni con la consegna di convertire al cattolicesimo l’imperatore di quello sconfinato e sconosciuto paese. Nell’attesa di entrare in Cina, Ricci imparò alla perfezione a leggere e scrivere nel cinese dei mandarini e come tale arrivo alla corte imperiale. Lì, come illustra la mostra di Macerata, il gesuita portò la sua considerevole cultura, formata a Firenze e a Roma, sotto la guida di maestri come il matematico Cristoforo Clavio, che fu amico di Keplero e Galilei. Ma soprattutto la sua curiosità, il desiderio di aprirsi alla diversità culturale.
Ricci introdusse per primo in Cina la teologia, la filosofia, la letteratura e le arti della vecchia Europa, rivelò che la Terra non era quadrata bensì rotonda e realizzò cinque diverse carte geografiche universali (le sei tavole del Mappamondo del 1602 saranno esposte per la prima volta in mostra). Pubblicò in cinese Cicerone, Euclide e convertì al cattolicesimo un gran numero di alti funzionari dell’apparato burocratico e militare cinese. Il suo modo di rapportarsi a quella cultura tanto diversa non era però in sintonia con la Chiesa di Roma, che non apprezzò le sua traduzione in cinese di «Deus» («Figlio del Cielo» era considerato troppo legato all’aspetto materiale) e la tolleranza per i riti confuciani (per Ricci che ne conosceva la valenza filosofica erano riti civili, di rispetto e gratitudine). Tanto che, nel 1704 l’Inquisizione condannò l’operato del gesuita, che venne riabilitato solo da Pio XII e quindi dal Concilio Vaticano II.

un proverbio toscano: "chi si somiglia si piglia"

Giornala di Brescia 19.7.03
Herbert Marcuse sepolto a Berlino accanto a Hegel
INUMATE IERI LE CENERI

BERLINO - Le ceneri del filosofo americano di origine tedesca Herbert Marcuse sono state inumate ieri a Berlino, ventiquattro anni dopo la sua morte. Durante la cerimonia, cui hanno partecipato un centinaio di persone, erano presenti il figlio di Marcuse, Peter, insieme a suo figlio Harold e alla femminista americana Angela Davis, allieva del filosofo. Marcuse è stato tra i fondatori della storica «Scuola di Francoforte» ed è morto nel 1979 durante una visita a Stanberg, in Germania. La vedova Ricky, che riteneva «sufficiente il numero di ebrei mandati nei forni crematori in Germania», volle che il corpo del marito fosse cremato in Austria, poi le ceneri furono portate negli Stati Uniti. L’urna è stata conservata per diversi anni a New Haven, nel Connecticut, vicino alla residenza del figlio Peter e riportata soltanto il 14 luglio scorso in Germania per la sepoltura. Marcuse, oltre a riposare vicino alla tomba di Hegel, suo padre spirituale, sarà seppellito vicino ad un altro importante filosofo tedesco, Johann Gottlieb Fichte, teorico della «Nazione tedesca».

venerdì 18 luglio 2003

i bambini imparano una lingua solo nel rapporto interumano: gli americani constatano, ma non capiscono...

Le Scienze 17.07.2003
Come i bambini imparano le lingue (...)

Secondo tre diversi studi, condotti da ricercatori dell' Università di Washington (http://www.pnas.org/) , l'interazione sociale sembrerebbe svolgere un ruolo molto più importante di quanto si pensasse sul modo in cui i neonati apprendono il linguaggio.
In un primo studio i ricercatori, guidati dal neuroscienziato Patricia Kuhl, hanno esaminato bambini americani di 9 mesi che hanno ascoltato per meno di cinque ore persone di madrelingua che parlavano in cinese mandarino: in seguito, i bambini erano in grado di distinguere gli elementi fonetici di quella lingua. In un secondo studio, lo stesso materiale linguistico è stato fatto ascoltare a un altro gruppo di bambini americani, ma stavolta tramite un DVD oppure un'audiocassetta. In questo caso, i bambini non si sono dimostrati capaci di distinguerne le unità fonetiche. Le scoperte, pubblicate sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences", costituiscono la prima dimostrazione sperimentale di apprendimento fonetico mediante l'esposizione naturale al linguaggio sotto condizioni controllate di laboratorio.
"I risultati - spiega Kuhl - indicano che a 9 mesi i bambini possono accumulare informazioni fonetiche dall'esposizione per la prima volta a una lingua straniera per un periodo di tempo relativamente breve, ma solo se la lingua viene prodotta da un essere umano. Questo ci dice che l'interazione sociale è una componente importante dell'apprendimento delle lingue".
In un terzo studio, pubblicato ad aprile sulla rivista " Developmental Science " (http://www.blackwell-synergy.com/servlet/useragent?func=showIssues&code=desc), gli scienziati hanno esaminato l'impatto della qualità della lingua parlata dalla madre sull'apprendimento dei bambini, scoprendo un'associazione estremamente elevata fra la chiarezza con cui parla la madre e l'efficacia con cui il bambino distingue i suoni del linguaggio.
© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A.

giovedì 17 luglio 2003

psichiatri dell'infanzia...

il Tempo 17.7.03
PSICHIATRI DELL’INFANZIA A CONVEGNO
Traumi, le «cicatrici» che restano nella mente dei ragazzi

NON SOLO guerra. A far soffrire di disturbi mentali leggeri o gravi un ragazzo su cinque, fino all’età di 15 anni, possono essere anche episodi di terrorismo o disastri naturali, abusi e violenze sessuali. I «segni» che restano sono depressione, ansia, mal di testa, attacchi d’asma, ulcera, dolori cronici oltre alla difficoltà a relazionarsi con i coetanei e con gli adulti.
È questo lo spunto del primo convegno in corso a Roma, promosso dalla Fondazione Child e dalla IACAPAP, l'associazione mondiale degli psichiatri dell'infanzia e dell'adolescenza, tra i più autorevoli scienziati internazionali nell'area della salute mentale che intendono individuare comuni modelli d’intervento per la prevenzione e cura dei traumi infantili. Secondo i recenti dati diffusi dall'International Society for Traumatic Stress Studies, se si considera l'intera popolazione mondiale, un numero di bambini compreso tra il 14 ed il 43% ha vissuto almeno un evento traumatico nella propria vita. All'11 settembre, alla guerra in Iraq, e al terremoto che ha colpito il Molise, vanno aggiunti a lutti improvvisi, episodi di violenza urbana, rapimenti, disastri naturali, guerre e attentati terroristici, abusi sessuali, violenze domestiche, incidenti automobilistici/aerei, senza dimenticare che la violenza può essere vissuta anche in modo indiretto, attraverso i mass-media.
Le reazioni dei bambini e degli adolescenti (vittime o testimoni) a questi eventi possono essere gravi e tutt'altro che transitorie; a partire da un'esperienza traumatica possono avere origine conseguenze psicopatologiche di diversa natura e severità (sintomi depressivi, disturbo post-traumatico da stress, disturbi dell'attenzione, abuso di sostanze, etc.)
«È necessario, anche in Italia, un investimento sempre maggiore nella ricerca in questo settore - ha detto Ernesto Caffo, presidente Child e vice presidente IACAPAP - Occorre costruire modelli di intervento efficaci, a partire dalle più recenti evidenze scientifiche, considerando il bambino come soggetto, e non come oggetto, di cura e protezione e valorizzando la rete dell'intervento costituita dalle agenzie presenti sul territorio: sia quelle dell'emergenza - protezione civile, emergenza sanitaria, forze di polizia - che quelle della prevenzione - scuola, servizi psico-sociali, volontariato». «L'impegno di ogni governo per la tutela dei minori dovrebbe essere attivo a 360 gradi - ha detto nel suo saluto il ministro Maurizio Gasparri - La protezione e la salvaguardia dei minori dovrebbe essere il primo dovere di ogni governo purtroppo la storia insegna che è quasi impossibile evitare le guerre, però è possibile attivarsi per il sostegno psicologico e materiale dei minori che sono le prime vittime di conflitti bellici, atti terroristici, e disastri ambientali». Lo scopo quindi è arrivare ad una «Carta di Roma», che sancirà la nascita di una rete internazionale di studiosi, che in uno scambio di riflessioni ed esperienze, dovrebbero contribuire a delineare modelli di intervento condivisibile a livello mondiale.
S.B.

libri di filosofia

L'eco di Bergamo 17.7.03
Il ritorno di Plotino, la logica di Frege

È forse Plotino, tra i grandi filosofi metafisici del passato, quello che più si avvicina agli interessi della nostra epoca. Anche alcuni scienziati si stanno interessando ai suoi testi, che hanno suggestive analogie con le riflessioni attuali. I Meridiani Mondadori ripubblicano, a cura di Giovanni Reale, grandissimo esperto di quest'autore, le «Enneadi» (pp. 2.093, euro 49), la sua opera più importante. Questa edizione (con testo greco a fronte) si differenzia dalle altre presenti sul mercato per la nuova traduzione, opera del collaboratore di Reale Roberto Radice, condotta in stretto contatto con il commento. Plotino con le «Enneadi» crea una nuova forma di linguaggio parallela a quella logico-dialettica: l'Uno per lui è «al di sopra dell'essere e del pensiero» e dunque non si può afferrare con le categorie del discorso dialogico. (...).
Tra le recenti uscite di filosofia, uno studio di Anthony Kenny su «Frege» (Einaudi, pp. 240, euro 16), grande logico, essenziale per capire la filosofia analitica inglese e americana, ma non facile da avvicinare, e di Maurice Merleau-Ponty «Segni» (Il Saggiatore, pp. 436, euro 13,50), tutt'altra riflessione sul linguaggio: parte dalla fenomenologia di Husserl.

L'ora di religione concorre al premio "Fregene per Fellini". L'inaugurazione domani sera, la premiazione il 25. A Fregene, naturalmente

mercoledì 16 luglio 2003

schizofrenia, uno studio da Toronto

La Stampa TuttoScienze 16.7.03
Espressioni dello sguardo e schizofrenia

Un nuovo studio basato sul neuro-imaging condotto dall’Istituto di Psichiatria di Toronto mostra per la prima volta come anormalità a livello cerebrale e difficoltà sociali siano correlate: in particolare, si sono rilevate differenze tra il funzionamento cerebrale di un soggetto «sano» ed il funzionamento cerebrale di un soggetto schizofrenico che possono spiegare perché sia così difficile per gli schizofrenici interpretare i sentimenti delle altre persone. Condotto dal dr. Tonmoy Sharma, lo studio ha ideato un nuovo focus di ricerca, ossia ha combinato lo studio della cognizione sociale (la capacità di riconoscere e di comprendere i sentimenti delle altre persone) con la tecnica della risonanza magnetica funzionale (fMRI), per esplorare come e perché gli schizofrenici abbiano difficoltà ad interpretare il comportamento delle altre persone. Lo schizofrenico presenta infatti problemi nel comprendere e nel prevedere pensieri, emozioni e comportamenti altrui, cosa che intacca profondamente la vita sociale, rendendo difficile - ad esempio - relazionarsi alle altre persone, fare amicizia o procurarsi un lavoro. Proprio questo fallimento nell’empatizzare con gli altri correttamente potrebbe essere una causa, o una concausa, di alcune di quelle esplosioni di violenza caratteristiche di alcune forme di schizofrenia. Nell’esperimento che supporta questo studio veniva chiesto ai partecipanti di identificare una serie di espressioni dello sguardo, e mentre essi svolgevano questo compito venivano prese immagini del loro cervello in funzionamento: si è trovato così che gli schizofrenici sono risultati effettivamente meno abili ad identificare le emozioni espresse da quegli sguardi rispetto al campione di controllo, composto da soggetti «sani». Usando l’fMRI, i ricercatori hanno inoltre potuto mostrare che nella schizofrenia le difficoltà sociali sono strettamente correlate a differenze nel funzionamento cerebrale: l’imaging ha rilevato ridotta attivazione cerebrale nei circuiti fronto-temporali dell’emisfero sinistro. Anormalità in queste aree sono ben documentate nella schizofrenia, ma questo è il primo studio in cui si usa la tecnica di fMRI per studiare le difficoltà sociali proprie della schizofrenia. Il dr. Sharma sostiene che questa sia un’area di indagine che ha assoluto bisogno di essere ulteriormente esplorata: “La capacità di riconoscere le emozioni è ciò che ci rende esseri umani, ed è proprio questa essenziale capacità che si perde nella schizofrenia. La prossima sfida è capire quali trattamenti farmacologici e psicoterapici possano recuperare questi deficit nella cognizione sociale”.
Rossana Pecorara

schizofrenia (e igiene sociale su base israeliana)

Il Gazzettino di Venezia 16.7.03
LA NOSTRA MENTE
La schizofrenia è un morbo più funzionale che organico, legato ad un cattivo meccanismo dei processi neurocognitivi
Il cervello che perde la bussola
Prof. Antonio Augusto Rizzoli

Non molti anni fa insegnavano che la schizofrenia era caratterizzata da sintomi deliranti con un sensorio lucido, probabilmente su base organica e senza evidenti deficit psicologici. Oggi si ritiene che la schizofrenia sia una malattia, con una facilitazione genetica, più funzionale che organica, legata ad un cattivo meccanismo dei processi neurocognitivi. Il cervello di uno schizofrenico funziona diversamente dal cervello di una persona normale? Parrebbe di sì perché in esso non sarebbero attive le connessioni tra la corteccia prefrontale (pianificatoria) e le aree corticali deputate alle singole funzioni, a causa dell'interruzione di uno (o più) circuiti prefrontali sottocorticali. Queste interruzioni - di varia misura ed entità - si ipotizza sostengano la complessa sintomatologia della malattia, raggruppata attorno a tre nuclei patologici: povertà psicomotoria, distorsione della realtà e disorganizzazione dei processi logici. La schizofrenia con povertà psicomotoria (o negativa) è quella che mostra una compromissione maggiore dell'area frontoparietale ed è non solo la forma più grave di schizofrenia, ma anche quella che inizia più precocemente, portando ad un rapido deterioramento dei rapporti sociali. Il deficit di interazione sociale è interpretato come la incapacità di percepire lo stato mentale degli altri e sarebbe connesso ad un malfunzionamento della corteccia prefrontale sinistra, che è stata trovata costantemente ipofunzionante e diminuita di volume. La capacità di interazione sociale dello schizofrenico si misura con il riconoscimento dell'espressione del viso degli altri e con la percezione di ciò che sono gli intendimenti sociali, sia astratti che concreti. Gli schizofrenici, soprattutto quelli con deficit negativi (povertà motoria e/o disorganizzazione), hanno un' evidente diminuzione della capacità di riconoscimento dell'espressione di un volto, mentre gli schizofrenici con distorsione della realtà (o positivi), come gli schizofrenici paranoidi, mantengono ancora una discreta possibilità di percezione dell'espressione del viso. Il sistema di riconoscimento sociale sembra si organizzi attorno alla corteccia orbitofrontale, il solco temporale superiore e l'amigdala, mentre altre strutture (come la corteccia parietale destra, la corteccia dell' insula, i gangli della base) pare abbiano un ruolo secondario (Amy Pinkham, Am. J. Psychiatry 2003). D'altro canto un cattivo funzionamento sociale (accoppiato ad un cattivo funzionamento dell'intelligenza e alla carenze di capacità organizzative) è un preciso predittore di una possibile insorgenza di malattia schizofrenica, come hanno dimostrato nel 1999 dei ricercatori israeliani. La controprova del malfunzionamento di questi circuiti nella schizofrenia è stata data dal fatto che, in un totale di 24 studi internazionali, i più usati antipsicotici, come la clozapina, il risperidone, lo ziprasidone e l'aripiprazolo (ambedue non in vendita in Italia) l'olanzapina e la quetiapina hanno contemporaneamente sia un effetto di miglioramento dei deficit cognitivi, sia un effetto di miglioramento sulla sintomatologia della schizofrenia, superiore a quello dei neurolettici tradizionali.
aa.rizzoli@ve.nettuno.it

psicoanalisti: una bella chiacchierata tra amici

Il Giornale di Vicenza Mercoledì 16 Luglio 2003
Psicoanalisti a consulto a Lavarone nel convegno del Centro studi Gradiva, quest’anno dedicato ai «Nuovi disagi della civiltà». Il tasso di scontento attuale per il consumismo è altissimo
La nostra normale infelicità

Nel suo saggio Il disagio della civiltà Sigmund Freud indicava i "sacrifici pulsionali" imposti dalla civile convivenza come causa del malessere avvertito sia dal nevrotico che dall'uomo comune. Era l'anno 1929. Oggi, nella cultura occidentale avanzata, di fatto nessuno pone limiti alle nostre pulsioni e al nostro desiderio di autoaffermazione, eppure la libertà dai vincoli repressivi non ci rende felici. Serpeggiano, invece, nuove forme di malessere. Da questa constatazione ha preso spunto il congresso organizzato a Lavarone dal Centro Studi Gradiva. Quest'anno, nell'esplorare le frontiere della psicoanalisi, l'attenzione si è concentrata dunque sui «Nuovi disagi della civiltà», in un confronto serrato con la sociologia e l'antropologia per individuare e comprendere i cambiamenti. Superata l'identità unitaria della società industriale, oggi non possiamo ignorare gli shopping center, nuovi spazi fluidi che originano nuovi comportamenti e nuovi stili. Massimo Canevacci dell'Università La Sapienza ha sottolineato il transito dalle merci tradizionali alle merci odierne, a forte componente visuale: i loro corpi, per la forma e per il modo di presentazione (il packaging) hanno un vero e proprio sex-appeal. Ecco dunque il fascino dell'inorganico, che ha una biologia sempre più sessuata, dove sfuma la distinzione fra utile e inutile, e interviene la molteplicità della comunicazione pubblicitaria, sofisticata, ad altissimo livello di produzione semiotica.
La comunicazione è, anzitutto, televisione, e in questo campo è importante volgere l'attenzione ai bambini. Per la prima volta nella storia dell'umanità, tutti i bambini del mondo crescono conoscendo la stessa fantastica mitologia: ad affermarlo è Marina D'Amato, autrice di ricerche e pubblicazioni sul rapporto fra media e minori. I nuovi eroi, con i loro valori e modelli di comportamento, attraversano lo schermo della televisione e popolano tutte le zone del pianeta. Si possono individuare tre matrici dominanti: quella protestante, dove l'eroe vince, da solo, contro tutti, quella scintoista dei cartoni giapponesi, dove gli eroi raggiungono i risultati a costo della morte; poi ci sono i cartoni senza morale, vero e proprio filone dei senza-storia. Se aggiungiamo l'invadenza della pubblicità e la spettacolarizzazione imposta dall'audience, allora è davvero urgente educare i ragazzi a usare la televisione rimanendo liberi.
Sempre in tema di bambini la psicoanalista Anna Ferruta, sulla base della sua esperienza clinica, ha analizzato alcuni snodi fondamentali per il processo di identificazione, e precisamente la sessualità infantile, il dolore dei bambini e l'esigenza di appartenenza a un gruppo. La malattia del tempo moderno sta nella velocità, che è impedimento per il processo di identificazione.
Il tasso di scontento attuale è altissimo. Per Simona Argentieri dell'Associazione Italiana di Psicoanalisi serpeggiano nuove forme di malessere, ma soprattutto di "normale infelicità", che si diffondono nella vita di coppia, nella famiglia, nella definizione dell'identità di genere sessuale, nelle relazioni sociali. Potremmo vivere la pienezza delle emozioni e degli affetti, invece rischiamo di avere passioni affievolite ed emozioni false.
Insomma quella attuale è una società ad alto rischio che trasferisce sul piano individuale le proprie contraddizioni: secondo Ildo Tumscitz, psicologo e psicoterapeuta, in questa condizione di sicurezza endemica, assume un ruolo di primo piano l'elaborazione soggettiva dei rischi e delle minacce. Per contrastare i rischi di vulnerabilità e impoverimento del pensiero, è urgente mettere in atto misure adeguate nella scuola.
Il convegno organizzato dal Centro Gradiva si è svolto nel Centro Congressi di Lavarone con la partecipazione di numerosissimi docenti e terapeuti. L'iniziativa comprendeva anche, nell'arco di un'intera settimana, una rassegna cinematografica, una mostra dell'editoria psicoanalitica, presentazioni di libri. E a proposito di libri, il Premio Gradiva è stato assegnato, quest'anno, ex-aequo a due titoli: Il limite dell'esistenza di F. De Masi e Paesaggi della psiche di P. Aite, entrambi dell'editore Bollati Boringhieri.