(informazione ricevuta da Arianna Rossini e da Tonino Scrimenti)
- DOMENICA 19 OTTOBRE DALLE 14:30 ALLE 16:00 È ANDATA IN ONDA SU RADIOTRE RAI UNA PUNTATA DELLA TRASMISSIONE "I LUOGHI DELLA VITA" INTERAMENTE DEDICATA A MARCO BELLOCCHIO.
- VENERDÌ 17 OTTOBRE È ANDATA IN ONDA SEMPRE SU RADIOTRE E NEL CORSO DELLA TRASMISSIONE "HOLLYWOOD PARTY", UNA BREVE INTERVISTA A MARCO BELLOCCHIO.
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«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 19 ottobre 2003
sabato 18 ottobre 2003
Simona Maggiorelli ha intervistato Tahar Ben Jelloun
(articolo ricevuto da Annalina Ferrante)
IL GIORNO- IL RESTO DEL CARLINO-LA NAZIONE 17 ottobre 2003
L'INTERVISTA/ Tahar Ben Jelloun
"LE DONNE DELL'ISLAM, STREGHE IN CERCA DI LIBERTA'"
di Simona Maggiorelli
Le trame dell'eros, la ricerca del rapporto fra uomo e donna, in cui insieme agli abiti si abbandonano per un po' le gerarchie dei ruoli, delle identità sociali. Dopo romanzi e saggi di taglio più strettamente sociale sul razzismo, sullo sradicamento, sulla lontananza, lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun propone ora un doppio intrigante viaggio letterario alla scoperta del nostro universo meno razionale, più intimo e profondo. Bompiani ha appena pubblicato il suo "Amori stregati" e, oggi Fabbri manda in libreria , una sua riscrittura della "Bella addormentata" , per i più piccoli, in chiave da "Mille e una notte". Al fondo dei due diversi lavori un'interessante indagine sul femminile, in un confronto tra Oriente e Occidente giocato a livello di "imagerie". Per presentare i due volumi il 16 ottobre Ben Jelloun sarà alla Casa delle letterature di Roma e il 17 all'Istituto di Francese di Firenze, il 18 nella bolognese Chiesa di san Giorgio a Poggiale e il 20 ottobre al centro culturale italo arabo di Torino.
Signor Ben Jelloun, il re del Marocco Mohammed VI ha annunciato un nuovo codice di diritto matrimoniale. Una possibilità di svolta che genera molte aspettative e speranze.
"E' una riforma che deve ancora passare per il parlamento, con ogni probabilità troverà l'opposizione degli islamisti del PJD, il partito della giustizia e dello sviluppo. Ma anche dei partiti tradizionalisti come l' Istiqlal. Comunque resta importante che il re abbia avuto il coraggio di proporre un nuovo codice della famiglia, dopo averlo messo a punto con una commissione per ben due anni".
Se passasse cosa potremmo aspettarci?
" Non possiamo sperare che le mentalità più oltranziste evolvano allo stesso ritmo. Ci saranno delle resistenze, ma il Marocco non sarà più fra i paesi Arabi ad avere il codice della famiglia più retrogrado. Si avvicinerà alla Tunisia, lasciandosi alle spalle l'Algeria".
Cosa porterà per le donne sul piano giuridico e sociale?
" La liberazione delle donne non si decreta. Riguarda tutti i cittadini.
Ci vorrà una grossa campagna d'informazione progressista, moderna. Tante donne lottano da tempo. Ora, l'aspetto giuridico sta dalla loro parte. Prima, non era così".
Qual è stato il contribuito dei movimenti delle donne morocchine a questa svolta?
"In Marocco esistono numerose associazioni di donne, associazioni coraggiose, solide e determinate. La loro voce è stata ascoltata. Senza la loro presenza sul terreno, questa riforma avrebbe aspettato ancora diversi anni".
E il Nobel per la pace a Shirin Ebadi inciderà?
"E' un fantastico colpo da maestro. L'Accademia Nobel ha dato un notevole aiuto alle donne musulmane che lottano per la propria libertà. Mi pare una scelta inaspettata e felicissima".
Colpisce la recente notizia di due sorelle espulse dal liceo perché portavano il velo. Cosa sta accadendo fra le generazioni di giovani donne nate in Francia da famiglie arabe?
"Il velo è un simbolo politico ed ideologico. E' un segno di appartenenza ad una comunità. Il problema sta nel fatto che siamo una società laica. La libertà degli individui è reale, ma lo è anche il dovere di rispettare la scuola pubblica. La separazione fra chiesa è stato sancita dalla legge francese fin dal 1905, è stata ottenuta dopo lunghe lotte. Bisogna rispettare questa vittoria. Le giovani donne in Francia hanno bisogno di sentirsi accettate, integrate. Indossano il velo perché sentono di essere rigettate; affermano così una loro identità. Si tratta, in ogni caso di una minoranza, anche se è molto rumorosa".
Lei ha scritto due volumi, sul razzismo e sull'islam spiegato ai giovani. Cosa ha detto loro? Quali sono le vere radici del fondamentalismo?
"Il fondamentalismo ha una base comune: il fanatismo e l'ignoranza. Che sia islamico o cristiano, si tratta di un anacronismo pericoloso perché giustifica la guerra".
Nel suo nuovo libro "Amori stregati", lei ha scritto pagine bellissime sull'eros, sulla libertà interiore che le donne arabe hanno nel rapporto d'amore. E' possibile che nella cultura islamica alle donne venga riconosciuta sul piano della vita intima e sessuale più dignità e libertà di quanto non faccia l'Occidente?
"In "Amori stregati", racconto delle finzioni; sono la testimonianza indiretta dell'immaginario delle donne la cui condizione giuridica è infelice. L'islam, come le altre due religioni monoteiste, diffida delle donne. Un versetto dice più o meno questo delle donne: "la loro capacità di furbizia è immensa !". Furbizia è inteso qui nel senso negativo. Allora, le donne costruiscono la loro vita secondo la loro capacità di immaginare, di arrangiarsi, di scansare la legge. Strappano la loro libertà dalle mani dei loro dominatori. Hanno dei poteri insospettabili. E meno male. Ma è anche vero che"Amori stregati" rispecchia una realtà abbastanza presente nel Marocco di oggi: il ricorso alla magia e alla stregoneria è un modo per reagire contro una realtà opprimente. Anche gli uomini ci credono".
Nell'Islam comunque non sembra esserci una condanna del femminile e del corpo come storicamente è avvenuto in Occidente, con tanto di caccia alle streghe...
"Nel islam, le sessualità non è tabù. Insegnare l'educazione sessuale nelle scuole viene addirittura consigliato. Il profeta Muhammad è stato sposato nove volte. Amava le donne. La sua prima moglie fu la sua padrona, la donna per la quale lavorava; era più vecchia di lui e non indossava il velo. Sono gli islamici che hanno fatto di tutto per snaturare l'islam e per farne una religione oscura e fanatica".
IL GIORNO- IL RESTO DEL CARLINO-LA NAZIONE 17 ottobre 2003
L'INTERVISTA/ Tahar Ben Jelloun
"LE DONNE DELL'ISLAM, STREGHE IN CERCA DI LIBERTA'"
di Simona Maggiorelli
Le trame dell'eros, la ricerca del rapporto fra uomo e donna, in cui insieme agli abiti si abbandonano per un po' le gerarchie dei ruoli, delle identità sociali. Dopo romanzi e saggi di taglio più strettamente sociale sul razzismo, sullo sradicamento, sulla lontananza, lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun propone ora un doppio intrigante viaggio letterario alla scoperta del nostro universo meno razionale, più intimo e profondo. Bompiani ha appena pubblicato il suo "Amori stregati" e, oggi Fabbri manda in libreria , una sua riscrittura della "Bella addormentata" , per i più piccoli, in chiave da "Mille e una notte". Al fondo dei due diversi lavori un'interessante indagine sul femminile, in un confronto tra Oriente e Occidente giocato a livello di "imagerie". Per presentare i due volumi il 16 ottobre Ben Jelloun sarà alla Casa delle letterature di Roma e il 17 all'Istituto di Francese di Firenze, il 18 nella bolognese Chiesa di san Giorgio a Poggiale e il 20 ottobre al centro culturale italo arabo di Torino.
Signor Ben Jelloun, il re del Marocco Mohammed VI ha annunciato un nuovo codice di diritto matrimoniale. Una possibilità di svolta che genera molte aspettative e speranze.
"E' una riforma che deve ancora passare per il parlamento, con ogni probabilità troverà l'opposizione degli islamisti del PJD, il partito della giustizia e dello sviluppo. Ma anche dei partiti tradizionalisti come l' Istiqlal. Comunque resta importante che il re abbia avuto il coraggio di proporre un nuovo codice della famiglia, dopo averlo messo a punto con una commissione per ben due anni".
Se passasse cosa potremmo aspettarci?
" Non possiamo sperare che le mentalità più oltranziste evolvano allo stesso ritmo. Ci saranno delle resistenze, ma il Marocco non sarà più fra i paesi Arabi ad avere il codice della famiglia più retrogrado. Si avvicinerà alla Tunisia, lasciandosi alle spalle l'Algeria".
Cosa porterà per le donne sul piano giuridico e sociale?
" La liberazione delle donne non si decreta. Riguarda tutti i cittadini.
Ci vorrà una grossa campagna d'informazione progressista, moderna. Tante donne lottano da tempo. Ora, l'aspetto giuridico sta dalla loro parte. Prima, non era così".
Qual è stato il contribuito dei movimenti delle donne morocchine a questa svolta?
"In Marocco esistono numerose associazioni di donne, associazioni coraggiose, solide e determinate. La loro voce è stata ascoltata. Senza la loro presenza sul terreno, questa riforma avrebbe aspettato ancora diversi anni".
E il Nobel per la pace a Shirin Ebadi inciderà?
"E' un fantastico colpo da maestro. L'Accademia Nobel ha dato un notevole aiuto alle donne musulmane che lottano per la propria libertà. Mi pare una scelta inaspettata e felicissima".
Colpisce la recente notizia di due sorelle espulse dal liceo perché portavano il velo. Cosa sta accadendo fra le generazioni di giovani donne nate in Francia da famiglie arabe?
"Il velo è un simbolo politico ed ideologico. E' un segno di appartenenza ad una comunità. Il problema sta nel fatto che siamo una società laica. La libertà degli individui è reale, ma lo è anche il dovere di rispettare la scuola pubblica. La separazione fra chiesa è stato sancita dalla legge francese fin dal 1905, è stata ottenuta dopo lunghe lotte. Bisogna rispettare questa vittoria. Le giovani donne in Francia hanno bisogno di sentirsi accettate, integrate. Indossano il velo perché sentono di essere rigettate; affermano così una loro identità. Si tratta, in ogni caso di una minoranza, anche se è molto rumorosa".
Lei ha scritto due volumi, sul razzismo e sull'islam spiegato ai giovani. Cosa ha detto loro? Quali sono le vere radici del fondamentalismo?
"Il fondamentalismo ha una base comune: il fanatismo e l'ignoranza. Che sia islamico o cristiano, si tratta di un anacronismo pericoloso perché giustifica la guerra".
Nel suo nuovo libro "Amori stregati", lei ha scritto pagine bellissime sull'eros, sulla libertà interiore che le donne arabe hanno nel rapporto d'amore. E' possibile che nella cultura islamica alle donne venga riconosciuta sul piano della vita intima e sessuale più dignità e libertà di quanto non faccia l'Occidente?
"In "Amori stregati", racconto delle finzioni; sono la testimonianza indiretta dell'immaginario delle donne la cui condizione giuridica è infelice. L'islam, come le altre due religioni monoteiste, diffida delle donne. Un versetto dice più o meno questo delle donne: "la loro capacità di furbizia è immensa !". Furbizia è inteso qui nel senso negativo. Allora, le donne costruiscono la loro vita secondo la loro capacità di immaginare, di arrangiarsi, di scansare la legge. Strappano la loro libertà dalle mani dei loro dominatori. Hanno dei poteri insospettabili. E meno male. Ma è anche vero che"Amori stregati" rispecchia una realtà abbastanza presente nel Marocco di oggi: il ricorso alla magia e alla stregoneria è un modo per reagire contro una realtà opprimente. Anche gli uomini ci credono".
Nell'Islam comunque non sembra esserci una condanna del femminile e del corpo come storicamente è avvenuto in Occidente, con tanto di caccia alle streghe...
"Nel islam, le sessualità non è tabù. Insegnare l'educazione sessuale nelle scuole viene addirittura consigliato. Il profeta Muhammad è stato sposato nove volte. Amava le donne. La sua prima moglie fu la sua padrona, la donna per la quale lavorava; era più vecchia di lui e non indossava il velo. Sono gli islamici che hanno fatto di tutto per snaturare l'islam e per farne una religione oscura e fanatica".
venerdì 17 ottobre 2003
da clorofilla.it, un articolo di Andrea Ventura
(segnalato da Tonino Scrimenti; nella pagina di clorofilla.it dove appare, questo articolo è corredato da immagini e link: lo si può trovare QUI)
www.clorofilla.it
Giovedì 16 ottobre 2003
Buongiorno, inconscio
di Andrea Ventura
“Io sono vecchio, mi sono fermato al problema delle donne. Non so cosa c’entrano con la conoscenza”. Così si esprime Roberto Herlizka nella parte del padre di Massimo, il protagonista di un film di Marco Bellocchio del 1994, Il sogno della farfalla.
La sceneggiatura del film, scritta da Massimo Fagioli, comparve nel primo numero della rivista “Il Sogno della Farfalla” nel lontano 1992, e oggi, mentre lo stesso attore è nel film Buongiorno, notte con cui Bellocchio ha raggiunto il suo massimo successo, l’ultimo numero della rivista offre la straordinaria opportunità di comprendere il senso più profondo di quelle parole.
“Donne e ricerca scientifica” è infatti il titolo della terza sessione del Meeting internazionale “La libertà delle donne in Europa e nel Mediterraneo” organizzato dall’Università degli Studi di Foggia, i cui Atti “Il Sogno della Farfalla” ripropone.
Commentare l’affascinante percorso di ricerca che Carla Severini, organizzatrice della sessione, e i relatori Ilaria Bonaccorsi, David Armando, Paolo Fiori Nastro e Annelore Homberg hanno proposto non è cosa semplice. Solo qualche breve cenno quindi, solo un invito alla lettura.
I lavori presentati, tra storia, filosofia, medicina e psichiatria si intrecciano attorno ad una domanda: quale è stato il ruolo delle donne nella ricerca scientifica e medica in particolare? O meglio, come si compone questo ruolo con l’identità umana, e più specificatamente maschile, da sempre identificata con la ragione? Vediamo così, nelle prime due relazioni, guaritrici, levatrici, raccoglitrici di erbe, donne che fin dai primi secoli cristiani esercitavano una capillare e in molti casi avanzatissima attività medico - pratica, essere trasformate, orientativamente nel corso del XIII secolo, in streghe e fattucchiere che possono sì guarire, ma anche far ammalare.
L’istituzionalizzazione della professione medica e la formazione delle università, con la regolamentazione che questo ha comportato e l’accesso agli studi consentito ai soli uomini, le vede quindi emarginate. Poi la cacciata delle donne dal sapere medico si trasforma nell’accusa di magia e stregoneria e nei roghi dell’Inquisizione, dove vengono inglobati nello schema del sabba tutti quegli aspetti della cultura popolare che deviano dall’ortodossia religiosa.
Infine, nel passaggio dall’Inquisizione alla fondazione della scienza moderna, vediamo ben delineato quell’elemento di continuità costituito dalla scissione tra ragione e non ragione, e come l’esclusione delle donne abbia coinciso con l’esclusione dal “pensiero”, dalla scienza e dalla conoscenza, di tutto un intero mondo non solo di esperienza medica, ma anche di passioni, immagini, sensazioni, sogni, di tutto ciò che non è ragione.
La rivoluzione scientifica quindi ha cancellato l’irrazionale e le donne, anche se, viene ricordato, dall’Ariosto a Giordano Bruno il Rinascimento aveva tentato una via diversa alla modernità, una via che non passasse attraverso l’esclusione del mondo delle passioni. Perché tutto questo? Forse, risponde il prof. Fiori Nastro, per il terrore che l’antica prassi medica delle donne potesse diventare teoria, “pensiero”, e dato che la parola “pensiero” era, ed è anche oggi, legata all’altra parola che è “ragione”, è chiaro che non era pensabile associare la ragione alle donne. Infatti, fin dalla fondazione del pensiero occidentale, ma anche orientale, l’identità umana legata alla ragione ha escluso le donne.
Così l’illuminismo e la Rivoluzione Francese, e, possiamo aggiungere, tutto il ciclo rivoluzionario che dalla Rivoluzione Francese e dal marxismo ha preso le mosse, pur proponendo la sostanziale uguaglianza tra tutti gli esseri umani, si è scontrato, è fallito, o comunque ha trovato il proprio limite nel fatto di aver definito quest’uguaglianza sull’identità umana come ragione: tutti gli uomini sono uguali e si possono comprendere tra di loro perché dotati di ragione, e questo li distingue dagli animali. Una definizione che esclude dalla realtà umana il bambino dei primi mesi o anni di vita e ogni dimensione non razionale, come quella dei sogni e del rapporto dialettico uomo - donna.
E qui, nella relazione della dottoressa Homberg, vediamo illustrato con chiarezza il cambiamento di prospettiva proposto dalla Scuola Romana di Psichiatria e Psicoterapia: “Nel rapporto uomo – donna si deve fondare una diversità assoluta tra corpo umano maschile e femminile con un’uguaglianza altrettanto assoluta, per cui entrambi sono esseri umani pur essendo diversi”. E’ un’operazione psichica poco “razionale”, che si scontra col principio di non contraddizione perché deve mettere insieme diversità e uguaglianza, tanto più difficile se si approfondisce la ricerca e si ipotizza che alla diversità fisica possa corrispondere una diversità mentale, per cui la ragione sarebbe associata all’identità maschile, mentre l’identità femminile sarebbe rimasta più legata all’irrazionale.
Qui, appunto, si viene a proporre l’idea che la psichiatria, cioè la possibilità di conoscere il mondo dell’irrazionale e di curare la malattia mentale, debba passare necessariamente per il rapporto uomo – donna e per il recupero dell’immagine e dell’identità femminile, in sé e per tutto quello che essa rappresenta. Donna e ricerca scientifica quindi. Recupero e sviluppo dell’identità umana non razionale, non scissa tra ragione e non ragione, grazie a una “teoria della nascita” identica per gli uomini e le donne che fonde l’inizio della vita fisiologica del neonato con l’inizio del pensiero, e quindi supera la scissione tra anima e corpo.
L’ampio dibattito che ha seguito le relazioni ha visto la partecipazione di Massimo Fagioli. Numerosissimi i temi toccati: le radici storiche del pensiero sulla presunta inferiorità della donna, la favola di Amore e Psiche e la sua trasformazioni in quella della Bella e la Bestia, il rapporto tra religione e mondo dell’irrazionale, le differenze tra Islam e mondo cristiano, la noxa esterna nelle malattie organiche e in quelle mentali etc. Insomma, il numero 4/2003 de “Il Sogno della Farfalla” è un’occasione da non perdere per tutti coloro che vogliono avvicinarsi ai temi della ricerca della Scuola Romana di Psichiatria e Psicoterapia.
“Io sono vecchio…” Vecchia è un’identità umana che è riuscita a svelare i segreti del cosmo e delle particelle e a far raggiungere ad una parte dell’umanità livelli di benessere economico e di salute fisica mai raggiunti prima, ma non si propone nessuna ricerca su ciò che è al di là della ragione e della coscienza, su ciò che è sano e malato nella mente dell’uomo, sui suoi rapporti più intimi, e che quindi ha pagato tutto questo col vuoto e l’anaffettività. Il singolare intreccio che ha visto nascere una rivista di psichiatria con lo stesso titolo della sceneggiatura di un film trova la sua giustificazione nel fatto che la nuova psichiatria muove dalla ricerca sulle immagini, anzitutto quelle che compaiono nei sogni, poi quelle artistiche. I sogni sono pensiero, non dissociazione, possono essere interpretati ed ogni uomo è artista quando compone il suo sogno. Alcuni lo sono anche nella veglia, così, oggi, al di là della cura medica, non solo gli psichiatri ma anche molti artisti contribuiscono allo sviluppo di questa nuova identità umana inconscia e irrazionale, e la raccontano, e come nei sogni ogni immagine nasconde un pensiero e racconta una storia, nel film di Bellocchio Buongiorno, notte, io, con un po’ di fantasia, posso leggere un’altra storia: dietro i quattro brigatisti scorgo quattro seminari a cui, da quasi trent’anni, partecipano centinaia e centinaia di persone, eredi della tradizione marxista e del sessantotto. Lo scontro con lo psichiatra dell’analisi collettiva è mortale, ma poi, superata quella tradizione e realizzata l’immagine femminile, lo lasciano libero, nel suo cappotto scuro.
www.clorofilla.it
Giovedì 16 ottobre 2003
Buongiorno, inconscio
di Andrea Ventura
“Io sono vecchio, mi sono fermato al problema delle donne. Non so cosa c’entrano con la conoscenza”. Così si esprime Roberto Herlizka nella parte del padre di Massimo, il protagonista di un film di Marco Bellocchio del 1994, Il sogno della farfalla.
La sceneggiatura del film, scritta da Massimo Fagioli, comparve nel primo numero della rivista “Il Sogno della Farfalla” nel lontano 1992, e oggi, mentre lo stesso attore è nel film Buongiorno, notte con cui Bellocchio ha raggiunto il suo massimo successo, l’ultimo numero della rivista offre la straordinaria opportunità di comprendere il senso più profondo di quelle parole.
“Donne e ricerca scientifica” è infatti il titolo della terza sessione del Meeting internazionale “La libertà delle donne in Europa e nel Mediterraneo” organizzato dall’Università degli Studi di Foggia, i cui Atti “Il Sogno della Farfalla” ripropone.
Commentare l’affascinante percorso di ricerca che Carla Severini, organizzatrice della sessione, e i relatori Ilaria Bonaccorsi, David Armando, Paolo Fiori Nastro e Annelore Homberg hanno proposto non è cosa semplice. Solo qualche breve cenno quindi, solo un invito alla lettura.
I lavori presentati, tra storia, filosofia, medicina e psichiatria si intrecciano attorno ad una domanda: quale è stato il ruolo delle donne nella ricerca scientifica e medica in particolare? O meglio, come si compone questo ruolo con l’identità umana, e più specificatamente maschile, da sempre identificata con la ragione? Vediamo così, nelle prime due relazioni, guaritrici, levatrici, raccoglitrici di erbe, donne che fin dai primi secoli cristiani esercitavano una capillare e in molti casi avanzatissima attività medico - pratica, essere trasformate, orientativamente nel corso del XIII secolo, in streghe e fattucchiere che possono sì guarire, ma anche far ammalare.
L’istituzionalizzazione della professione medica e la formazione delle università, con la regolamentazione che questo ha comportato e l’accesso agli studi consentito ai soli uomini, le vede quindi emarginate. Poi la cacciata delle donne dal sapere medico si trasforma nell’accusa di magia e stregoneria e nei roghi dell’Inquisizione, dove vengono inglobati nello schema del sabba tutti quegli aspetti della cultura popolare che deviano dall’ortodossia religiosa.
Infine, nel passaggio dall’Inquisizione alla fondazione della scienza moderna, vediamo ben delineato quell’elemento di continuità costituito dalla scissione tra ragione e non ragione, e come l’esclusione delle donne abbia coinciso con l’esclusione dal “pensiero”, dalla scienza e dalla conoscenza, di tutto un intero mondo non solo di esperienza medica, ma anche di passioni, immagini, sensazioni, sogni, di tutto ciò che non è ragione.
La rivoluzione scientifica quindi ha cancellato l’irrazionale e le donne, anche se, viene ricordato, dall’Ariosto a Giordano Bruno il Rinascimento aveva tentato una via diversa alla modernità, una via che non passasse attraverso l’esclusione del mondo delle passioni. Perché tutto questo? Forse, risponde il prof. Fiori Nastro, per il terrore che l’antica prassi medica delle donne potesse diventare teoria, “pensiero”, e dato che la parola “pensiero” era, ed è anche oggi, legata all’altra parola che è “ragione”, è chiaro che non era pensabile associare la ragione alle donne. Infatti, fin dalla fondazione del pensiero occidentale, ma anche orientale, l’identità umana legata alla ragione ha escluso le donne.
Così l’illuminismo e la Rivoluzione Francese, e, possiamo aggiungere, tutto il ciclo rivoluzionario che dalla Rivoluzione Francese e dal marxismo ha preso le mosse, pur proponendo la sostanziale uguaglianza tra tutti gli esseri umani, si è scontrato, è fallito, o comunque ha trovato il proprio limite nel fatto di aver definito quest’uguaglianza sull’identità umana come ragione: tutti gli uomini sono uguali e si possono comprendere tra di loro perché dotati di ragione, e questo li distingue dagli animali. Una definizione che esclude dalla realtà umana il bambino dei primi mesi o anni di vita e ogni dimensione non razionale, come quella dei sogni e del rapporto dialettico uomo - donna.
E qui, nella relazione della dottoressa Homberg, vediamo illustrato con chiarezza il cambiamento di prospettiva proposto dalla Scuola Romana di Psichiatria e Psicoterapia: “Nel rapporto uomo – donna si deve fondare una diversità assoluta tra corpo umano maschile e femminile con un’uguaglianza altrettanto assoluta, per cui entrambi sono esseri umani pur essendo diversi”. E’ un’operazione psichica poco “razionale”, che si scontra col principio di non contraddizione perché deve mettere insieme diversità e uguaglianza, tanto più difficile se si approfondisce la ricerca e si ipotizza che alla diversità fisica possa corrispondere una diversità mentale, per cui la ragione sarebbe associata all’identità maschile, mentre l’identità femminile sarebbe rimasta più legata all’irrazionale.
Qui, appunto, si viene a proporre l’idea che la psichiatria, cioè la possibilità di conoscere il mondo dell’irrazionale e di curare la malattia mentale, debba passare necessariamente per il rapporto uomo – donna e per il recupero dell’immagine e dell’identità femminile, in sé e per tutto quello che essa rappresenta. Donna e ricerca scientifica quindi. Recupero e sviluppo dell’identità umana non razionale, non scissa tra ragione e non ragione, grazie a una “teoria della nascita” identica per gli uomini e le donne che fonde l’inizio della vita fisiologica del neonato con l’inizio del pensiero, e quindi supera la scissione tra anima e corpo.
L’ampio dibattito che ha seguito le relazioni ha visto la partecipazione di Massimo Fagioli. Numerosissimi i temi toccati: le radici storiche del pensiero sulla presunta inferiorità della donna, la favola di Amore e Psiche e la sua trasformazioni in quella della Bella e la Bestia, il rapporto tra religione e mondo dell’irrazionale, le differenze tra Islam e mondo cristiano, la noxa esterna nelle malattie organiche e in quelle mentali etc. Insomma, il numero 4/2003 de “Il Sogno della Farfalla” è un’occasione da non perdere per tutti coloro che vogliono avvicinarsi ai temi della ricerca della Scuola Romana di Psichiatria e Psicoterapia.
“Io sono vecchio…” Vecchia è un’identità umana che è riuscita a svelare i segreti del cosmo e delle particelle e a far raggiungere ad una parte dell’umanità livelli di benessere economico e di salute fisica mai raggiunti prima, ma non si propone nessuna ricerca su ciò che è al di là della ragione e della coscienza, su ciò che è sano e malato nella mente dell’uomo, sui suoi rapporti più intimi, e che quindi ha pagato tutto questo col vuoto e l’anaffettività. Il singolare intreccio che ha visto nascere una rivista di psichiatria con lo stesso titolo della sceneggiatura di un film trova la sua giustificazione nel fatto che la nuova psichiatria muove dalla ricerca sulle immagini, anzitutto quelle che compaiono nei sogni, poi quelle artistiche. I sogni sono pensiero, non dissociazione, possono essere interpretati ed ogni uomo è artista quando compone il suo sogno. Alcuni lo sono anche nella veglia, così, oggi, al di là della cura medica, non solo gli psichiatri ma anche molti artisti contribuiscono allo sviluppo di questa nuova identità umana inconscia e irrazionale, e la raccontano, e come nei sogni ogni immagine nasconde un pensiero e racconta una storia, nel film di Bellocchio Buongiorno, notte, io, con un po’ di fantasia, posso leggere un’altra storia: dietro i quattro brigatisti scorgo quattro seminari a cui, da quasi trent’anni, partecipano centinaia e centinaia di persone, eredi della tradizione marxista e del sessantotto. Lo scontro con lo psichiatra dell’analisi collettiva è mortale, ma poi, superata quella tradizione e realizzata l’immagine femminile, lo lasciano libero, nel suo cappotto scuro.
su www.railibro.rai.it:
UNA INTERVISTA A MARCO BELLOCCHIO
(Arianna Rossini segnala l'intervista che segue, disponibile sul sito della RAI, ma fin qui sfuggita
L'intervista è disponibile, dalla data del 25 settembre 2003, in originale QUI)
25 settembre 2003
Un'intervista a Marco Bellocchio
La feconda infedeltà del cinema verso la letteratura
di Andrea Monda
Marco Bellocchio è il regista del momento: non è usuale che un film italiano superi al botteghino i grandi spettacoli che arrivano da Hollywood eppure è quello che sta facendo in questi giorni l’ultimo suo lavoro, Buongiorno, notte ispirato al caso Moro. Eppure l’uomo che incontro nel suo studio romano non ha nulla del “trionfatore”: gentilissimo, mi parla con grande affabilità della “fatica” dell’essere regista e mi confida di essere già al lavoro per un nuovo film, con Sergio Castellitto, che ha, come titolo provvisorio Il regista di matrimoni: “una storia in partenza autobiografica, su un regista in fuga dal suo mondo, ma che poi ha come una “svolta” quando incontra il personaggio che dà il titolo il film”.
D. A Urbino si è svolto un convegno sulla traduzione all’insegna del “bella e infedele”, come a dire che la traduzione anche se infedele deve essere innanzitutto bella. Anche la trasposizione cinematografica di un romanzo è una forma di traduzione e quindi può essere una forma di tradimento. Lei ha spesso esercitato questa forma di infedeltà, rivendicandone il diritto, in quanto artista, e questo vale anche per Buongiorno, notte ispirato al libro di Laura Braghetti. Ma l’infedeltà è una virtù?
R. A me non piace molto generalizzare. Credo che in arte sia quasi un obbligo. E’ questo vale anche per i film cosiddetti storici, in cui il regista prende lo spunto dalla storia e la interpreta ma sempre, inevitabilmente, partendo dal presente, dal suo presente. Così è successo per Buongiorno, notte che mi è stato proposto, nel 2001, e che io ho accettato solo a certe condizioni, a condizione, appunto, di poter essere infedele. Ho usato molto di quel vastissimo materiale, filmato e scritto, che si è accumulato in questi 25 anni sul caso Moro, ma poi ho privilegiato il libro della Braghetti proprio per quel carattere di cronaca che aveva di quei 55 giorni. Quel libro è stato una formidabile “piattaforma”. Al tempo stesso però quella fatalità della tragedia, questa accettazione dei personaggi di un destino ineluttabile in senso quasi religioso, era un elemento di difficoltà per me in quanto regista. Ho sentito quindi la necessità di innestare su quello sfondo qualche elemento di infedeltà.
D. Come è stata recepita dall’autrice del libro questa sua libertà?
R. La Braghetti ha apprezzato proprio quelle infedeltà (e così hanno fatto anche altri brigatisti come la Faranda o Morucci). Cioè nel film una serie di dettagli della cronaca sono stati sviluppati in modo tale da restituire una verità più profonda della cronaca stessa. La Braghetti ha aggiunto che anche la “falsificazione” del suo personaggio si è rivelata come un qualcosa di “vitale”. Tutto quel conflitto interiore che lei ha vissuto ma che nella cronaca di quei giorni non era uscito fuori, ora nel film è emerso, anche se in modo visionario (o forse proprio grazie a questo linguaggio infedele).
D.. Lei, nella sua carriera, ha “tradotto” molte opere letterarie, da La Balia e Enrico IV di Pirandello a Il Diavolo in corpo di Raymond Radiguet, da Il Gabbiano di Cecov, Il Principe di Hornburg di Heinrich von Kleist: tutti tradimenti?
R. Sì, ma sempre con diverse gradualità e intensità: ne Il Gabbiano c’è stata una grande fedeltà, quasi letterale. In Hornburg c’è un’infedeltà maggiore dovuta anche a dei tagli del testo di von Kleist in alcuni casi radicali; ne Il Diavolo in corpo l’infedeltà è totale, per cui dell’opera di Radiguet non è rimasto quasi nulla. Pure ne La Balia c’è una grande dose di infedeltà anche se lo spunto, la situazione, la vita familiare sono riconducibili a Pirandello. Direi quindi che c’è una vasta gamma qualitativa e quantitativa di infedeltà.
D. Queste infedeltà nascono dal diverso linguaggio artistico dovuto al mezzo usato oppure c’è stata, di volta in volta, una sua precisa scelta?
R. Tutte e due le cose. Senz’altro il linguaggio incide anche per quella dimensione del cinema di non volersi “arrendere” alla parola. Però c’è in ognuno di questi casi molto di me, una mia cifra. Per esempio ne La Balia c’è un procedimento simile a Buongiorno, Notte. Il testo di Pirandello era improntato al realismo e al naturalismo per cui la protagonista finiva nel degrado più totale e, in un finale alla Zola, diventava prostituta anche a causa della grettezza della sua famiglia borghese meschina e vigliacca che la rifiuta e la scaccia. Questo cupo fatalismo naturalista mi sembrava intollerabile per cui l’infedeltà è stata una necessità e nel finale mi sono discostato dal testo di Pirandello. La stessa cosa è avvenuta per Buongiorno, notte.
D. Però qui l’infedeltà è duplice: nei confronti del libro della Braghetti e nei confronti della storia. Lei più volte di recente ha affermato di non aver fatto una mera ricostruzione storica e tantomeno un ragionamento politico ma di aver voluto mettere al centro del suo film il tema del rapporto con il padre. Ma allora c’era proprio bisogno della figura di Moro?
R. La figura di Moro senza dubbio mi ha intrigato. Confesso che, nel corso del lavoro sulla sceneggiatura, la sua figura, progressivamente e quasi inconsapevolmente, mi ha ricordato quella di mio padre. Quando Moro passeggia per ben due volte di notte nell’appartamento (non importa se sia sogno o realtà) lì è proprio mio padre che passeggia di notte nel mio ricordo da adolescente, perché lo faceva, soprattutto negli ultimi tempi prima di morire, per cui passava intere notti insonne e veniva malinconicamente a vedere i suoi figli stanza per stanza. Quella morte di mio padre fu in qualche modo cancellata, fatta scomparire un po’ proprio come in Italia la tragedia di Moro che in questi lunghi anni ha sempre suscitato un po’ di ritrosia, una voglia più o meno celata di non volerne ridiscutere. Tutte le reazioni che in questi giorni ci sono state all’uscita del mio film mi confermano quella sensazione, come se oggi i tempi siano maturi per una ulteriore riflessione che, sia ben chiaro, io non intendevo programmaticamente riaccendere.
D. Tra le varie reazioni, quasi tutte positive, c’è anche chi l’ha accusata di revisionismo buonista. Cosa risponde a questa osservazione?
R. In effetti per qualcuno sono stato troppo buono con i brigatisti ma in realtà ho cercato di capire chi fossero e anche di rappresentare nella normalità quotidiana quella disumanità fanatica. Mi è sembrato più efficace rappresentare la “banalità del male” (secondo l’espressione della Harendt) piuttosto che far vedere i brigatisti come dei mostri assetati di sangue. Dall’altra parte sono stato accusato (magari da quegli stessi critici) di essere stato troppo buono anche con Moro che avrei in qualche modo idealizzato. Io posso dire soltanto che, in assoluta sincerità, nella dialettica dei personaggi la pacatezza e la moderazione di Moro mi sono apparse più umane che non la freddezza e la cecità dei terroristi e che quel conflitto mi sembrava degno di essere rappresentato in tutta la sua forza. Il punto è che alcune volte i critici schematizzano, per cui o c’è il realismo o c’è il sogno e il sogno è spesso visto in maniera negativa, come una “psicanalisi deteriore”. Dimenticano che nell’arte come nella vita, le cose sono molto più complesse per cui accanto al realismo e al sogno c’è anche la visionarietà. Invece spesso ci si fossilizza su alcuni termini o concetti che vengono affermati in modo astratto e assoluto e che quindi rimangono generici, apodittici, insoluti.
D. Che influenza ha avuto nel suo lavoro di regista la sua frequentazione con lo psichiatra Massimo Fagioli?
R. Ho conosciuto Fagioli proprio nel 1978. E’ stato un rapporto lungo e complesso nel quale però io ho sempre mantenuto una mia identità personale pur partecipando a un’esperienza di analisi collettiva che ovviamente mi ha trasmesso una serie di spunti e suggestioni feconde. In questo contesto c’è stato il cosiddetto periodo dello scandalo e dell’incomprensione, relativo soprattutto a tre film: Il diavolo in corpo, in cui ho chiamato Fagioli ad accompagnarmi nella regia (scelta di cui non mi pento minimamente), La condanna, la cui sceneggiatura abbiamo scritto a quattro mani e Il sogno della farfalla, in cui ho messo in scena una sua sceneggiatura. Dopodiché io ho preso una strada del tutto autonoma professionalmente in cui però non ho rinnegato la precedente ricerca che si potrebbe ritrovare persino in Buongiorno, notte, anche perché quando uno realizza un approfondimento, una ricerca, tutto questo rimane e riemerge continuamente. Nel complesso si è trattato di un’esperienza che ha avuto e ancora ha per me un’importanza notevole.
La chiacchierata è finita e Bellocchio mi accompagna alla porta. Parliamo ancora del faticoso “lavoro del regista”: “Un lavoro che può apparire inutile”, mi dice, “soprattutto in Italia. Un po’ come il direttore d’orchestra. A che serve se i musicisti da soli sanno già suonare? Ed è un lavoro pesante. Se non hai la fortuna di fare un film di successo devi sempre ricominciare da capo, convincere mezzo mondo dell’importanza del tuo progetto… tutto questo per trovare i soldi, quei tanti soldi che servono a fare i film.”. Mi sorprende però la calma con cui ne parla, cercando gli aspetti positivi di questa condizione che potrebbe apparire frustrante: “C’è però un lato positivo in tutto questo” afferma, “il regista fa un lavoro sempre attivo, sempre portato al confronto con gli altri, con il mondo. Questa brutale concretezza del cinema fa solo del bene all’artista. In qualche modo è un fattore terapeutico”. Parola di regista.
L'intervista è disponibile, dalla data del 25 settembre 2003, in originale QUI)
25 settembre 2003
Un'intervista a Marco Bellocchio
La feconda infedeltà del cinema verso la letteratura
di Andrea Monda
D. A Urbino si è svolto un convegno sulla traduzione all’insegna del “bella e infedele”, come a dire che la traduzione anche se infedele deve essere innanzitutto bella. Anche la trasposizione cinematografica di un romanzo è una forma di traduzione e quindi può essere una forma di tradimento. Lei ha spesso esercitato questa forma di infedeltà, rivendicandone il diritto, in quanto artista, e questo vale anche per Buongiorno, notte ispirato al libro di Laura Braghetti. Ma l’infedeltà è una virtù?
R. A me non piace molto generalizzare. Credo che in arte sia quasi un obbligo. E’ questo vale anche per i film cosiddetti storici, in cui il regista prende lo spunto dalla storia e la interpreta ma sempre, inevitabilmente, partendo dal presente, dal suo presente. Così è successo per Buongiorno, notte che mi è stato proposto, nel 2001, e che io ho accettato solo a certe condizioni, a condizione, appunto, di poter essere infedele. Ho usato molto di quel vastissimo materiale, filmato e scritto, che si è accumulato in questi 25 anni sul caso Moro, ma poi ho privilegiato il libro della Braghetti proprio per quel carattere di cronaca che aveva di quei 55 giorni. Quel libro è stato una formidabile “piattaforma”. Al tempo stesso però quella fatalità della tragedia, questa accettazione dei personaggi di un destino ineluttabile in senso quasi religioso, era un elemento di difficoltà per me in quanto regista. Ho sentito quindi la necessità di innestare su quello sfondo qualche elemento di infedeltà.
D. Come è stata recepita dall’autrice del libro questa sua libertà?
R. La Braghetti ha apprezzato proprio quelle infedeltà (e così hanno fatto anche altri brigatisti come la Faranda o Morucci). Cioè nel film una serie di dettagli della cronaca sono stati sviluppati in modo tale da restituire una verità più profonda della cronaca stessa. La Braghetti ha aggiunto che anche la “falsificazione” del suo personaggio si è rivelata come un qualcosa di “vitale”. Tutto quel conflitto interiore che lei ha vissuto ma che nella cronaca di quei giorni non era uscito fuori, ora nel film è emerso, anche se in modo visionario (o forse proprio grazie a questo linguaggio infedele).
D.. Lei, nella sua carriera, ha “tradotto” molte opere letterarie, da La Balia e Enrico IV di Pirandello a Il Diavolo in corpo di Raymond Radiguet, da Il Gabbiano di Cecov, Il Principe di Hornburg di Heinrich von Kleist: tutti tradimenti?
R. Sì, ma sempre con diverse gradualità e intensità: ne Il Gabbiano c’è stata una grande fedeltà, quasi letterale. In Hornburg c’è un’infedeltà maggiore dovuta anche a dei tagli del testo di von Kleist in alcuni casi radicali; ne Il Diavolo in corpo l’infedeltà è totale, per cui dell’opera di Radiguet non è rimasto quasi nulla. Pure ne La Balia c’è una grande dose di infedeltà anche se lo spunto, la situazione, la vita familiare sono riconducibili a Pirandello. Direi quindi che c’è una vasta gamma qualitativa e quantitativa di infedeltà.
D. Queste infedeltà nascono dal diverso linguaggio artistico dovuto al mezzo usato oppure c’è stata, di volta in volta, una sua precisa scelta?
R. Tutte e due le cose. Senz’altro il linguaggio incide anche per quella dimensione del cinema di non volersi “arrendere” alla parola. Però c’è in ognuno di questi casi molto di me, una mia cifra. Per esempio ne La Balia c’è un procedimento simile a Buongiorno, Notte. Il testo di Pirandello era improntato al realismo e al naturalismo per cui la protagonista finiva nel degrado più totale e, in un finale alla Zola, diventava prostituta anche a causa della grettezza della sua famiglia borghese meschina e vigliacca che la rifiuta e la scaccia. Questo cupo fatalismo naturalista mi sembrava intollerabile per cui l’infedeltà è stata una necessità e nel finale mi sono discostato dal testo di Pirandello. La stessa cosa è avvenuta per Buongiorno, notte.
D. Però qui l’infedeltà è duplice: nei confronti del libro della Braghetti e nei confronti della storia. Lei più volte di recente ha affermato di non aver fatto una mera ricostruzione storica e tantomeno un ragionamento politico ma di aver voluto mettere al centro del suo film il tema del rapporto con il padre. Ma allora c’era proprio bisogno della figura di Moro?
R. La figura di Moro senza dubbio mi ha intrigato. Confesso che, nel corso del lavoro sulla sceneggiatura, la sua figura, progressivamente e quasi inconsapevolmente, mi ha ricordato quella di mio padre. Quando Moro passeggia per ben due volte di notte nell’appartamento (non importa se sia sogno o realtà) lì è proprio mio padre che passeggia di notte nel mio ricordo da adolescente, perché lo faceva, soprattutto negli ultimi tempi prima di morire, per cui passava intere notti insonne e veniva malinconicamente a vedere i suoi figli stanza per stanza. Quella morte di mio padre fu in qualche modo cancellata, fatta scomparire un po’ proprio come in Italia la tragedia di Moro che in questi lunghi anni ha sempre suscitato un po’ di ritrosia, una voglia più o meno celata di non volerne ridiscutere. Tutte le reazioni che in questi giorni ci sono state all’uscita del mio film mi confermano quella sensazione, come se oggi i tempi siano maturi per una ulteriore riflessione che, sia ben chiaro, io non intendevo programmaticamente riaccendere.
D. Tra le varie reazioni, quasi tutte positive, c’è anche chi l’ha accusata di revisionismo buonista. Cosa risponde a questa osservazione?
R. In effetti per qualcuno sono stato troppo buono con i brigatisti ma in realtà ho cercato di capire chi fossero e anche di rappresentare nella normalità quotidiana quella disumanità fanatica. Mi è sembrato più efficace rappresentare la “banalità del male” (secondo l’espressione della Harendt) piuttosto che far vedere i brigatisti come dei mostri assetati di sangue. Dall’altra parte sono stato accusato (magari da quegli stessi critici) di essere stato troppo buono anche con Moro che avrei in qualche modo idealizzato. Io posso dire soltanto che, in assoluta sincerità, nella dialettica dei personaggi la pacatezza e la moderazione di Moro mi sono apparse più umane che non la freddezza e la cecità dei terroristi e che quel conflitto mi sembrava degno di essere rappresentato in tutta la sua forza. Il punto è che alcune volte i critici schematizzano, per cui o c’è il realismo o c’è il sogno e il sogno è spesso visto in maniera negativa, come una “psicanalisi deteriore”. Dimenticano che nell’arte come nella vita, le cose sono molto più complesse per cui accanto al realismo e al sogno c’è anche la visionarietà. Invece spesso ci si fossilizza su alcuni termini o concetti che vengono affermati in modo astratto e assoluto e che quindi rimangono generici, apodittici, insoluti.
D. Che influenza ha avuto nel suo lavoro di regista la sua frequentazione con lo psichiatra Massimo Fagioli?
R. Ho conosciuto Fagioli proprio nel 1978. E’ stato un rapporto lungo e complesso nel quale però io ho sempre mantenuto una mia identità personale pur partecipando a un’esperienza di analisi collettiva che ovviamente mi ha trasmesso una serie di spunti e suggestioni feconde. In questo contesto c’è stato il cosiddetto periodo dello scandalo e dell’incomprensione, relativo soprattutto a tre film: Il diavolo in corpo, in cui ho chiamato Fagioli ad accompagnarmi nella regia (scelta di cui non mi pento minimamente), La condanna, la cui sceneggiatura abbiamo scritto a quattro mani e Il sogno della farfalla, in cui ho messo in scena una sua sceneggiatura. Dopodiché io ho preso una strada del tutto autonoma professionalmente in cui però non ho rinnegato la precedente ricerca che si potrebbe ritrovare persino in Buongiorno, notte, anche perché quando uno realizza un approfondimento, una ricerca, tutto questo rimane e riemerge continuamente. Nel complesso si è trattato di un’esperienza che ha avuto e ancora ha per me un’importanza notevole.
La chiacchierata è finita e Bellocchio mi accompagna alla porta. Parliamo ancora del faticoso “lavoro del regista”: “Un lavoro che può apparire inutile”, mi dice, “soprattutto in Italia. Un po’ come il direttore d’orchestra. A che serve se i musicisti da soli sanno già suonare? Ed è un lavoro pesante. Se non hai la fortuna di fare un film di successo devi sempre ricominciare da capo, convincere mezzo mondo dell’importanza del tuo progetto… tutto questo per trovare i soldi, quei tanti soldi che servono a fare i film.”. Mi sorprende però la calma con cui ne parla, cercando gli aspetti positivi di questa condizione che potrebbe apparire frustrante: “C’è però un lato positivo in tutto questo” afferma, “il regista fa un lavoro sempre attivo, sempre portato al confronto con gli altri, con il mondo. Questa brutale concretezza del cinema fa solo del bene all’artista. In qualche modo è un fattore terapeutico”. Parola di regista.
per il Convegno dell'università di Milano-Bicocca:
Marco Bellocchio è intervenuto allo Spazio Oberdan
Corriere della Sera 16.10.03
CONVEGNO
Bellocchio e il cinema (...)
Il cinema come strumento per capire la realtà. Se ne parla al convegno «Il mondo, che sta nel cinema, che sta nel mondo», domani e sabato, dalle 9.30 all’Università Bicocca. E Marco Bellocchio interviene sul tema domani, alle 21 allo Spazio Oberdan (v.le Vittorio Veneto 2).
Corriere della Sera 17.10.03
Incontro con Marco Bellocchio:
di Alberto Pezzotta
«Buongiorno, notte» continua ad avere in sala un successo confortante.
E questa sera Marco Bellocchio incontra il pubblico milanese alla Cineteca Italiana/Spazio Oberdan (ore 21.30, ingresso libero), a conclusione di un convegno dell’Università di Milano-Bicocca sul tema «Il cinema come metafora e come modello per la formazione». Sono proprio film come «Buongiorno, notte» a proporsi come modelli per interpretare la Storia: e se alcuni sono rimasti perplessi per le libertà che si è preso Bellocchio nel ricostruire la prigionia di Aldo Moro sequestrato dalle Br, all’artista va riconosciuta la libertà di intrecciare la memoria con l'immaginario.
Con Bellocchio dialogheranno una docente di cinema, Elena Dagrada, e una di storia, Barbara Bracco; i critici Paola Malanga (che a Bellocchio ha dedicato una monografia) e Sergio Di Giorgi; ed Enrico Nosei della Cineteca. Sarà anche un’occasione per dimenticare le inutili polemiche sul Leone perduto a Venezia, che comunque nulla tolgono ai meriti del film.
CONVEGNO
Bellocchio e il cinema (...)
Il cinema come strumento per capire la realtà. Se ne parla al convegno «Il mondo, che sta nel cinema, che sta nel mondo», domani e sabato, dalle 9.30 all’Università Bicocca. E Marco Bellocchio interviene sul tema domani, alle 21 allo Spazio Oberdan (v.le Vittorio Veneto 2).
Corriere della Sera 17.10.03
Incontro con Marco Bellocchio:
di Alberto Pezzotta
«Buongiorno, notte» continua ad avere in sala un successo confortante.
E questa sera Marco Bellocchio incontra il pubblico milanese alla Cineteca Italiana/Spazio Oberdan (ore 21.30, ingresso libero), a conclusione di un convegno dell’Università di Milano-Bicocca sul tema «Il cinema come metafora e come modello per la formazione». Sono proprio film come «Buongiorno, notte» a proporsi come modelli per interpretare la Storia: e se alcuni sono rimasti perplessi per le libertà che si è preso Bellocchio nel ricostruire la prigionia di Aldo Moro sequestrato dalle Br, all’artista va riconosciuta la libertà di intrecciare la memoria con l'immaginario.
Con Bellocchio dialogheranno una docente di cinema, Elena Dagrada, e una di storia, Barbara Bracco; i critici Paola Malanga (che a Bellocchio ha dedicato una monografia) e Sergio Di Giorgi; ed Enrico Nosei della Cineteca. Sarà anche un’occasione per dimenticare le inutili polemiche sul Leone perduto a Venezia, che comunque nulla tolgono ai meriti del film.
su Repubblica di Venerdì 17:
l'intervista di Paolo D'Agostini a Marco Bellocchio
La Repubblica venerdì 17.10.03
Incontro con l'autore di "Buongiorno, notte" dopo le polemiche che ne hanno accompagnato l'uscita
"Racconto la separazione dal padre"
di PAOLO D´AGOSTINI
ROMA - Per un regista come Marco Bellocchio ottenere ottimi riscontri economici è un dato che vale un´apertura di intervista. Come sta andando "Buongiorno notte"?
«Siamo alla settima settimana con questo weekend. La scorsa eravamo a tre milioni di euro. La previsione è di arrivare fra o tre e mezzo e i quattro, gli otto vecchi miliardi. "L'ora di religione" arrivò a cinque».
Chi lo va a vedere questo film, chi ha determinato l'esito?
«In relazione a quello che "il manifesto" definisce una elaborazione del lutto, tutte quelle generazioni che sono state a vario titolo coinvolte in quella tragedia e in ciò che rappresenta».
40-50enni, non più giovani?
«Naturalmente anche loro, li vedo ai dibattiti. Tanti spettatori, sono passati 25 anni, non erano neppure nati».
Quindi esercita attrazione su chi non c'era.
«Mi rifaccio a un commento che ho letto su "l'invisibile". Ci sono quelli che fanno un ragionamento storico politico e criticano. Ci sono poi quelli che si emozionano, si commuovono, sono coinvolti da quello che non avevano mai visto e sentito. Poi c'è anche un ex partito di quelli che coltivano i sensi di colpa».
Lei ha operato una "semplificazione" che ha urtato da una parte e dall'altra: come se avesse dato atto di una fede ideologica non eterodiretta, anche se ha condotto a conseguenze mostruose e sbagliate. È questo il fondo del film, il suo grande interesse?
«Nel film è molto ripetuta la separazione tra indagine storica e il vedere questi nella loro follia in qualche modo religiosa. La mia "infedeltà" nasce da questo: l'impossibilità di subire una tragedia così fatale e così immane. Parlo soprattutto dell'infedeltà rispetto al personaggio di Chiara. Come se io sentissi la necessità che questa Chiara dovesse non essere la Braghetti ma contraddire, contrastare, disordinare la fatalità di quella conclusione».
Il film ha scontentato due partiti. Chi lamenta la santificazione di Moro, chi una forzatura sull´umanità della figura che allude alla Braghetti.
«Si è parlato molto di questo, ma dissensi e consensi sono stati trasversali, spia che l'identità della sinistra è piuttosto in crisi. Ci sono stati aperti e generosi consensi da parte di gente di sinistra ma anche di destra: l'entusiasmo di Ferrara per esempio. Ma ragionano tutti come se non si potesse separare il film da un giudizio politico. Merlo dice che i brigatisti devono starsene zitti, Pirani che la linea della fermezza era giusta, quando mi pare che il film non affronti questo discorso. Le mie intenzioni erano molto chiare: vedere la disumanità dei terroristi. Non è che rivendico il diritto dell'artista, ma mi sento confortato dalle reazioni al mio andare nella direzione dell´interno delle persone, che dice: è finito il momento del chiudere gli occhi, adesso si può cominciare a raccontare, ognuno a modo suo».
Bertolucci rifiutava l'equazione tra la prima molotov e l'omicidio di Moro.
«Statisticamente la maggior parte dei terroristi viene da quel movimento. Ma forse c'è tutta una popolazione del 68 che ha esaurito in quei mesi l'esperienza. Tanti dopo la primavera sono andati per i fatti loro, ma c'è una connessione tra quelli che erano a Lettere nel '68 e poi sono andati in galera».
Bertolucci è uno dei tanti affezionati a ipotesi dietriste rimaste misteriose, esprimendo una velata critica nei suoi confronti perché nel film non ve n'è traccia.
«Questo film ha una costruzione libera da preoccupazioni di correttezza storica. Ci sono allusioni. Mi interessava esprimere l´impossibilità di un altro esito: quest´uomo doveva morire. La sfilata dei politici, o la seduta spiritica, danno il senso di impotenza e smarrimento totale. Disordine. Gli stessi che mi hanno criticato, Macaluso, hanno apprezzato l'aver sgomberato il campo dalla dietrologia. Qualcuno può considerarlo un limite, ma io non ho avuto il dilemma, ho seguito la strada che sentivo».
Lei scombina le carte invertendo un luogo comune dell'estrema sinistra di allora: paragona la condizione di Moro e i prigionieri della Resistenza: erano i brigatisti a sentirsi eredi dei Resistenti.
«Tutta la sequenza di quando cantano "Fischia il vento" è concentrata sul volto di lei: come se il ricordo del padre le facesse venire in mente la perdita totale di umanità e di rapporto con la realtà. Moro non è un eroe per me ma qualcuno più umano di loro, ha un rapporto più sicuro con la realtà, con loro stessi, è portatore di una sanità mentale che loro non hanno».
Questo è presentato nel confronto di linguaggio, di logica, tra prigioniero e carcerieri.
«Ti sei arreso alla logica dei padri, mi hanno detto. Intanto stabilivo dei valori relativi tra lui e loro, prendevo le parti sicuramente di lui in quel contesto e in più mi serviva per rivedere la figura di mio padre. Ecco, come "L'ora di religione" è la separazione dalla madre questo è la separazione dal padre».
Dove scatta questa relazione?
«Nella passeggiata finale. Il film procede secondo una visionarietà leggera in cui non sono distinguibili il sogno, la visione, la fantasticheria dal realismo. Il momento in cui si vede sulla musica di Schubert passeggiare Moro, è suggerito dall´immagine di mio padre che di notte, già malato, si aggirava per il grande appartamento, eravamo otto figli, non potendo dormire».
Sinceramente pensa di aver contribuito a dire una parola utile di riflessione e di scavo sugli ultimi decenni italiani?
«È un film che sull'argomento ha una sua novità. Una novità che può spiazzare, far incazzare. Che deriva da uno sguardo interno con uno stile non realistico. La storia si può fare con i fatti ma ormai ci hanno insegnato che si può fare anche con le psicologie, gli animi, le passioni: quell'immagine per alcuni intollerabile per altri vitalizzante di Moro che passeggia libero non è l'utopia di una piccola ragioniera che sogna ma credo valga per l'oggi. È la rappresentazione di una libertà, di una possibilità di cambiamento».
Incontro con l'autore di "Buongiorno, notte" dopo le polemiche che ne hanno accompagnato l'uscita
"Racconto la separazione dal padre"
di PAOLO D´AGOSTINI
ROMA - Per un regista come Marco Bellocchio ottenere ottimi riscontri economici è un dato che vale un´apertura di intervista. Come sta andando "Buongiorno notte"?
«Siamo alla settima settimana con questo weekend. La scorsa eravamo a tre milioni di euro. La previsione è di arrivare fra o tre e mezzo e i quattro, gli otto vecchi miliardi. "L'ora di religione" arrivò a cinque».
Chi lo va a vedere questo film, chi ha determinato l'esito?
«In relazione a quello che "il manifesto" definisce una elaborazione del lutto, tutte quelle generazioni che sono state a vario titolo coinvolte in quella tragedia e in ciò che rappresenta».
40-50enni, non più giovani?
«Naturalmente anche loro, li vedo ai dibattiti. Tanti spettatori, sono passati 25 anni, non erano neppure nati».
Quindi esercita attrazione su chi non c'era.
«Mi rifaccio a un commento che ho letto su "l'invisibile". Ci sono quelli che fanno un ragionamento storico politico e criticano. Ci sono poi quelli che si emozionano, si commuovono, sono coinvolti da quello che non avevano mai visto e sentito. Poi c'è anche un ex partito di quelli che coltivano i sensi di colpa».
Lei ha operato una "semplificazione" che ha urtato da una parte e dall'altra: come se avesse dato atto di una fede ideologica non eterodiretta, anche se ha condotto a conseguenze mostruose e sbagliate. È questo il fondo del film, il suo grande interesse?
«Nel film è molto ripetuta la separazione tra indagine storica e il vedere questi nella loro follia in qualche modo religiosa. La mia "infedeltà" nasce da questo: l'impossibilità di subire una tragedia così fatale e così immane. Parlo soprattutto dell'infedeltà rispetto al personaggio di Chiara. Come se io sentissi la necessità che questa Chiara dovesse non essere la Braghetti ma contraddire, contrastare, disordinare la fatalità di quella conclusione».
Il film ha scontentato due partiti. Chi lamenta la santificazione di Moro, chi una forzatura sull´umanità della figura che allude alla Braghetti.
«Si è parlato molto di questo, ma dissensi e consensi sono stati trasversali, spia che l'identità della sinistra è piuttosto in crisi. Ci sono stati aperti e generosi consensi da parte di gente di sinistra ma anche di destra: l'entusiasmo di Ferrara per esempio. Ma ragionano tutti come se non si potesse separare il film da un giudizio politico. Merlo dice che i brigatisti devono starsene zitti, Pirani che la linea della fermezza era giusta, quando mi pare che il film non affronti questo discorso. Le mie intenzioni erano molto chiare: vedere la disumanità dei terroristi. Non è che rivendico il diritto dell'artista, ma mi sento confortato dalle reazioni al mio andare nella direzione dell´interno delle persone, che dice: è finito il momento del chiudere gli occhi, adesso si può cominciare a raccontare, ognuno a modo suo».
Bertolucci rifiutava l'equazione tra la prima molotov e l'omicidio di Moro.
«Statisticamente la maggior parte dei terroristi viene da quel movimento. Ma forse c'è tutta una popolazione del 68 che ha esaurito in quei mesi l'esperienza. Tanti dopo la primavera sono andati per i fatti loro, ma c'è una connessione tra quelli che erano a Lettere nel '68 e poi sono andati in galera».
Bertolucci è uno dei tanti affezionati a ipotesi dietriste rimaste misteriose, esprimendo una velata critica nei suoi confronti perché nel film non ve n'è traccia.
«Questo film ha una costruzione libera da preoccupazioni di correttezza storica. Ci sono allusioni. Mi interessava esprimere l´impossibilità di un altro esito: quest´uomo doveva morire. La sfilata dei politici, o la seduta spiritica, danno il senso di impotenza e smarrimento totale. Disordine. Gli stessi che mi hanno criticato, Macaluso, hanno apprezzato l'aver sgomberato il campo dalla dietrologia. Qualcuno può considerarlo un limite, ma io non ho avuto il dilemma, ho seguito la strada che sentivo».
Lei scombina le carte invertendo un luogo comune dell'estrema sinistra di allora: paragona la condizione di Moro e i prigionieri della Resistenza: erano i brigatisti a sentirsi eredi dei Resistenti.
«Tutta la sequenza di quando cantano "Fischia il vento" è concentrata sul volto di lei: come se il ricordo del padre le facesse venire in mente la perdita totale di umanità e di rapporto con la realtà. Moro non è un eroe per me ma qualcuno più umano di loro, ha un rapporto più sicuro con la realtà, con loro stessi, è portatore di una sanità mentale che loro non hanno».
Questo è presentato nel confronto di linguaggio, di logica, tra prigioniero e carcerieri.
«Ti sei arreso alla logica dei padri, mi hanno detto. Intanto stabilivo dei valori relativi tra lui e loro, prendevo le parti sicuramente di lui in quel contesto e in più mi serviva per rivedere la figura di mio padre. Ecco, come "L'ora di religione" è la separazione dalla madre questo è la separazione dal padre».
Dove scatta questa relazione?
«Nella passeggiata finale. Il film procede secondo una visionarietà leggera in cui non sono distinguibili il sogno, la visione, la fantasticheria dal realismo. Il momento in cui si vede sulla musica di Schubert passeggiare Moro, è suggerito dall´immagine di mio padre che di notte, già malato, si aggirava per il grande appartamento, eravamo otto figli, non potendo dormire».
Sinceramente pensa di aver contribuito a dire una parola utile di riflessione e di scavo sugli ultimi decenni italiani?
«È un film che sull'argomento ha una sua novità. Una novità che può spiazzare, far incazzare. Che deriva da uno sguardo interno con uno stile non realistico. La storia si può fare con i fatti ma ormai ci hanno insegnato che si può fare anche con le psicologie, gli animi, le passioni: quell'immagine per alcuni intollerabile per altri vitalizzante di Moro che passeggia libero non è l'utopia di una piccola ragioniera che sogna ma credo valga per l'oggi. È la rappresentazione di una libertà, di una possibilità di cambiamento».
giovedì 16 ottobre 2003
i basagliani 2
La Repubblica 16.10.03
A venticinque anni dalla legge ispirata dal professore veneziano, nasce un´associazione per rilanciarne l'applicazione
Psichiatria, ecco i nuovi manicomi
Malati legati ai letti e troppi psicofarmaci: la Basaglia tradita
Esperti riuniti a Roma: dai centri diurni alle strutture private, che cosa non funziona
di MARIO REGGIO
ROMA - La legge Basaglia non si tocca. Ma a 25 anni dalla storica svolta che mise la parola fine ai manicomi come luoghi di detenzione, molte cose non funzionano e sono tornate di moda pratiche antiche: malati legati ai letti di contenzione quando vanno in crisi, abuso di psicofarmaci, anziani over 65 che passano alla categoria geriatrici, ambulatori dei Centri di salute mentali aperti solo la mattina, scarsa assistenza domiciliare. Per non parlare dei sei ospedali psichiatrici giudiziari dove sono ricoverati quasi milletrecento "criminali", per la metà analfabeti, e tra questi 70 rinchiusi per "oltraggio a pubblico ufficiale". Il caso limite è quello del manicomio criminale di Barcellona, in provincia di Caltanissetta, dove i 230 reclusi hanno a disposizione un euro e mezzo per il pranzo, mentre alla cena pensa il parroco con le collette tra i fedeli.
«Dobbiamo uscire dall´angolo dove ci siamo difesi troppo a lungo - dichiara il professor Franco Rotelli, uno dei più stretti collaboratori di Franco Basaglia a Trieste ed ora direttore generale della Asl Caserta 2 - e contrastare l'attacco quotidiano, strisciante alla legge Basaglia che permette alle strutture private di fare affari d'oro in Sicilia, ma anche la stasi che ha colto Regioni virtuose come la Toscana e l´Emilia Romagna. E poi dobbiamo smettere di discettare sulla 180 che invece va difesa a partire dalla qualificazione delle pratiche terapeutiche. Infine è giunto il momento di individuare e rendere pubblica la catena delle responsabilità: vale a dire Regioni, Aziende sanitarie e direttori generali che non applicano una legge dello Stato».
È con questi obiettivi, per rilanciare insomma l'applicazione della Basaglia, che nasce oggi a Roma il "Forum per la salute mentale", al quale hanno già aderito oltre 600 psichiatri e operatori del settore.
«Poichè in Italia ci sono già delle strutture che rispondono ai requisiti necessari, è il caso di Udine Trieste e Caserta dove già sono in funzione centri sempre aperti, riteniamo sia possibile estendere a tutto il paese questa realtà», sostiene il portavoce del Forum Giovanna Del Giudice, direttore del Dipartimento di salute mentale di Caserta-2, precisando che c'è bisogno che le Regioni si impegnino creando dipartimenti strutturali con budget propri. «Nonostante la comunità degli psichiatri riconosca la validità della legge 180, però ci sono ancora molte distorsioni tra la teoria e la pratica applicativa dei suoi principi - prosegue Del Giudice - Ci sono, e continuano a nascere, nuove strutture residenziali di diverse tipologie e dimensioni che tendono a ricreare il metodo coercitivo e di controllo tornando di fatto indietro rispetto ai propositi della legge Basaglia».
A venticinque anni dalla legge ispirata dal professore veneziano, nasce un´associazione per rilanciarne l'applicazione
Psichiatria, ecco i nuovi manicomi
Malati legati ai letti e troppi psicofarmaci: la Basaglia tradita
Esperti riuniti a Roma: dai centri diurni alle strutture private, che cosa non funziona
di MARIO REGGIO
ROMA - La legge Basaglia non si tocca. Ma a 25 anni dalla storica svolta che mise la parola fine ai manicomi come luoghi di detenzione, molte cose non funzionano e sono tornate di moda pratiche antiche: malati legati ai letti di contenzione quando vanno in crisi, abuso di psicofarmaci, anziani over 65 che passano alla categoria geriatrici, ambulatori dei Centri di salute mentali aperti solo la mattina, scarsa assistenza domiciliare. Per non parlare dei sei ospedali psichiatrici giudiziari dove sono ricoverati quasi milletrecento "criminali", per la metà analfabeti, e tra questi 70 rinchiusi per "oltraggio a pubblico ufficiale". Il caso limite è quello del manicomio criminale di Barcellona, in provincia di Caltanissetta, dove i 230 reclusi hanno a disposizione un euro e mezzo per il pranzo, mentre alla cena pensa il parroco con le collette tra i fedeli.
«Dobbiamo uscire dall´angolo dove ci siamo difesi troppo a lungo - dichiara il professor Franco Rotelli, uno dei più stretti collaboratori di Franco Basaglia a Trieste ed ora direttore generale della Asl Caserta 2 - e contrastare l'attacco quotidiano, strisciante alla legge Basaglia che permette alle strutture private di fare affari d'oro in Sicilia, ma anche la stasi che ha colto Regioni virtuose come la Toscana e l´Emilia Romagna. E poi dobbiamo smettere di discettare sulla 180 che invece va difesa a partire dalla qualificazione delle pratiche terapeutiche. Infine è giunto il momento di individuare e rendere pubblica la catena delle responsabilità: vale a dire Regioni, Aziende sanitarie e direttori generali che non applicano una legge dello Stato».
È con questi obiettivi, per rilanciare insomma l'applicazione della Basaglia, che nasce oggi a Roma il "Forum per la salute mentale", al quale hanno già aderito oltre 600 psichiatri e operatori del settore.
«Poichè in Italia ci sono già delle strutture che rispondono ai requisiti necessari, è il caso di Udine Trieste e Caserta dove già sono in funzione centri sempre aperti, riteniamo sia possibile estendere a tutto il paese questa realtà», sostiene il portavoce del Forum Giovanna Del Giudice, direttore del Dipartimento di salute mentale di Caserta-2, precisando che c'è bisogno che le Regioni si impegnino creando dipartimenti strutturali con budget propri. «Nonostante la comunità degli psichiatri riconosca la validità della legge 180, però ci sono ancora molte distorsioni tra la teoria e la pratica applicativa dei suoi principi - prosegue Del Giudice - Ci sono, e continuano a nascere, nuove strutture residenziali di diverse tipologie e dimensioni che tendono a ricreare il metodo coercitivo e di controllo tornando di fatto indietro rispetto ai propositi della legge Basaglia».
mercoledì 15 ottobre 2003
Maya Sansa
Gazzetta del Mezzogiorno, brigatista per Bellocchio
Maya Sansa: «ho dovuto studiare gli anni di piombo»
di Osvaldo Scorrano
ROMA Due premi importanti – il Pasinetti alla Mostra di Venezia per la sua interpretazione in Buongiorno, notte di Bellocchio e la Targa speciale all'Efebo d'oro 2003 – consacrano Maya Sansa come una delle attrici più incisive e intense del nostro cinema dopo soli quattro anni di carriera. Romana («sono nata sull'Isola Tiberina»), ventottenne, occhi profondi e fortemente espressivi e ciuffo di capelli neri sulla fronte, Maya Sansa si gode il successo dovuto a due film molto apprezzati dal pubblico e dalla critica: La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana e Buongiorno, notte di Marco Bellocchio.
Malgrado le recenti affermazioni, si continua a parlare di lei come di una rivelazione. Non è stanca di essere ritenuta tale?
«No, non lo sono, anzi è una definizione che mi gratifica e mi fa apprezzare ancor più il mio lavoro».
Dietro al quale si scorge una forte determinazione. A cosa è dovuta?
«Sicuramente ai miei quattro anni di studio in una delle più prestigiose scuole di arte drammatica di Londra dove mi sono formata. Da lì è anche iniziata la mia carriera, perché frequentavo ancora l'Accademia quando Marco Bellocchio mi scelse per interpretare Annetta ne La balia, il film tratto dalla novella di Pirandello. Per farlo ho dovuto sostenere sei provini ricordo che ero molto emozionata. Ma si trattava della mia prima volta su un set».
E da lì è partita una collaborazione con Bellocchio. Com'è lavorare con lui?
«Emozionante, perché è il regista che mi ha fatto scoprire il cinema. Marco è straordinario e fin da «La balia» ho sentito che la mia sensibilità era vicina al suo modo di fare cinema. Dopo quella volta ho sperato di continuare a lavorare con lui, anzi era diventato il mio più grande desiderio».
Che si è realizzato con «Buongiorno, notte», il film sul caso Moro in cui lei interpreta la brigatista Chiara.
«È stato lui a cercarmi. Io, quando ho saputo che cercava un'attrice per questo film, fremevo dalla voglia di chiamarlo, ma conoscendolo ho preferito non farlo. Voleva una ragazza giovanissima per il ruolo di Chiara, che per passione entra nelle Brigate Rosse. Se deve essere giovanissima, io non sono più adatta, ho pensato dentro di me. Poi, mi ha chiamata la sua assistente e in seguito ho incontrato Marco, che mi ha fatto fare tre provini: stavo molto male ed ero ansiosa, il secondo infatti è andato malissimo, ma alla fine ce l'ho fatta. Mi sono documentata moltissimo su quel tragico episodio, ho letto Anna Laura Braghetti, Franceschini, Morucci, cercando di capire meglio il personaggio di Chiara, di avere le idee più chiare sul periodo degli anni di piombo. Ero felicissima di ritrovare Bellocchio, che per me è come una figura paterna».
S'è molto parlato della fuga di Bellocchio da Venezia per il mancato Leone d'oro. Ma come sono andate realmente le cose?
«È stata la stampa a enfatizzare e rendere negativa quella fuga. Il film era stato accolto molto bene ed era normale avere delle aspettative. Il premio lo si aspettava, ma c'è stata un'enorme tristezza alla notizia negativa e Marco, sapendo che il film a Roma stava andando benissimo, ha deciso di sconfiggere quella tristezza partendo per Roma».
«La meglio gioventù» e «Buongiorno, notte», Giordana e Bellocchio, due film e due registi diversi. Come ha vissuto queste esperienze?
«Quella con Bellocchio è stata gigantesca, bellissima, ma faticosa. Nel film di Giordana il mio personaggio non è il protagonista assoluto, perché è un film corale e l'esperienza vissuta è stata più leggera, ma egualmente bella e gratificante. La Mirella de «La meglio gioventù» è una donna solare, con cui non dovevo mettermi in discussione e confrontarmi, come invece è successo con Chiara del film di Bellocchio».
Lei compare anche in «A Levante», il «cortone» prodotto dal regista salentino Edoardo Winspeare presentato nel corso di «Negroamaro» la scorsa estate nel Salento.
«Ci sono per caso. Ero andata nel Salento ad accompagnare il mio compagno Fabrice Scott che era uno dei protagonisti e così mi sono trovata a fare un ruolo molto breve, quello di una cameriera. È stata l'occasione per passare dei giorni belli nel Salento, che è una terra che mi piace moltissimo: adoro il mare, la cucina e quel tipo di vita che si conduce, tranquilla e senza stress. Ed è stata anche l'occasione per ritrovare un amico come Edoardo Winspeare, del cui successo ottenuto con «Il miracolo» sono molto felice».
Maya Sansa: «ho dovuto studiare gli anni di piombo»
di Osvaldo Scorrano
ROMA Due premi importanti – il Pasinetti alla Mostra di Venezia per la sua interpretazione in Buongiorno, notte di Bellocchio e la Targa speciale all'Efebo d'oro 2003 – consacrano Maya Sansa come una delle attrici più incisive e intense del nostro cinema dopo soli quattro anni di carriera. Romana («sono nata sull'Isola Tiberina»), ventottenne, occhi profondi e fortemente espressivi e ciuffo di capelli neri sulla fronte, Maya Sansa si gode il successo dovuto a due film molto apprezzati dal pubblico e dalla critica: La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana e Buongiorno, notte di Marco Bellocchio.
Malgrado le recenti affermazioni, si continua a parlare di lei come di una rivelazione. Non è stanca di essere ritenuta tale?
«No, non lo sono, anzi è una definizione che mi gratifica e mi fa apprezzare ancor più il mio lavoro».
Dietro al quale si scorge una forte determinazione. A cosa è dovuta?
«Sicuramente ai miei quattro anni di studio in una delle più prestigiose scuole di arte drammatica di Londra dove mi sono formata. Da lì è anche iniziata la mia carriera, perché frequentavo ancora l'Accademia quando Marco Bellocchio mi scelse per interpretare Annetta ne La balia, il film tratto dalla novella di Pirandello. Per farlo ho dovuto sostenere sei provini ricordo che ero molto emozionata. Ma si trattava della mia prima volta su un set».
E da lì è partita una collaborazione con Bellocchio. Com'è lavorare con lui?
«Emozionante, perché è il regista che mi ha fatto scoprire il cinema. Marco è straordinario e fin da «La balia» ho sentito che la mia sensibilità era vicina al suo modo di fare cinema. Dopo quella volta ho sperato di continuare a lavorare con lui, anzi era diventato il mio più grande desiderio».
Che si è realizzato con «Buongiorno, notte», il film sul caso Moro in cui lei interpreta la brigatista Chiara.
«È stato lui a cercarmi. Io, quando ho saputo che cercava un'attrice per questo film, fremevo dalla voglia di chiamarlo, ma conoscendolo ho preferito non farlo. Voleva una ragazza giovanissima per il ruolo di Chiara, che per passione entra nelle Brigate Rosse. Se deve essere giovanissima, io non sono più adatta, ho pensato dentro di me. Poi, mi ha chiamata la sua assistente e in seguito ho incontrato Marco, che mi ha fatto fare tre provini: stavo molto male ed ero ansiosa, il secondo infatti è andato malissimo, ma alla fine ce l'ho fatta. Mi sono documentata moltissimo su quel tragico episodio, ho letto Anna Laura Braghetti, Franceschini, Morucci, cercando di capire meglio il personaggio di Chiara, di avere le idee più chiare sul periodo degli anni di piombo. Ero felicissima di ritrovare Bellocchio, che per me è come una figura paterna».
S'è molto parlato della fuga di Bellocchio da Venezia per il mancato Leone d'oro. Ma come sono andate realmente le cose?
«È stata la stampa a enfatizzare e rendere negativa quella fuga. Il film era stato accolto molto bene ed era normale avere delle aspettative. Il premio lo si aspettava, ma c'è stata un'enorme tristezza alla notizia negativa e Marco, sapendo che il film a Roma stava andando benissimo, ha deciso di sconfiggere quella tristezza partendo per Roma».
«La meglio gioventù» e «Buongiorno, notte», Giordana e Bellocchio, due film e due registi diversi. Come ha vissuto queste esperienze?
«Quella con Bellocchio è stata gigantesca, bellissima, ma faticosa. Nel film di Giordana il mio personaggio non è il protagonista assoluto, perché è un film corale e l'esperienza vissuta è stata più leggera, ma egualmente bella e gratificante. La Mirella de «La meglio gioventù» è una donna solare, con cui non dovevo mettermi in discussione e confrontarmi, come invece è successo con Chiara del film di Bellocchio».
Lei compare anche in «A Levante», il «cortone» prodotto dal regista salentino Edoardo Winspeare presentato nel corso di «Negroamaro» la scorsa estate nel Salento.
«Ci sono per caso. Ero andata nel Salento ad accompagnare il mio compagno Fabrice Scott che era uno dei protagonisti e così mi sono trovata a fare un ruolo molto breve, quello di una cameriera. È stata l'occasione per passare dei giorni belli nel Salento, che è una terra che mi piace moltissimo: adoro il mare, la cucina e quel tipo di vita che si conduce, tranquilla e senza stress. Ed è stata anche l'occasione per ritrovare un amico come Edoardo Winspeare, del cui successo ottenuto con «Il miracolo» sono molto felice».
i basagliani
Corriere della Sera 15.10.03
Due giorni di studio sulla salute mentale per rilanciare la «riforma non attuata»: «Ambulatori squallidi e strutture chiuse nei weekend»
«Psichiatria, 25 anni dopo ripartiamo dalla Basaglia»
La denuncia della moglie e degli allievi dell’uomo che aprì i manicomi: troppe prescrizioni di psicofarmaci e misure di contenzione
ROMA - Nell’80 per cento dei servizi di psichiatria la blindatura delle porte, la contenzione dei malati più turbolenti e le telecamere a circuito chiuso sono ancora in funzione. Nella maggior parte degli ambulatori le visite restano incentrate esclusivamente sulla prescrizione e, spesso, sull’abuso di psicofarmaci, oltre che «su prestazioni psicoterapeutiche del tutto avulse dalla vita, dal contesto sociale della persona in difficoltà». Di strutture aperte 24 ore su 24, compreso il fine settimana, i giorni critici della follia, se ne contano davvero poche. Gli organici del personale extra medico presentano buchi di 5 mila unità. Così si trascina la psichiatria pubblica italiana a 25 anni dalla Basaglia, o «180», la legge che ha chiuso i manicomi. La denuncia arriva, penetrante e addolorata, proprio dai sostenitori e dagli animatori, sul campo, di quella rivoluzione. Domani e dopodomani i basagliani si riuniscono a Roma in un Forum sulla salute mentale dove verranno gettate le basi di una nuova associazione nazionale per il rilancio di un sistema ridotto all’asfissia. Tra i promotori, Franca Ongaro Basaglia, moglie e memoria storica dell’uomo che liberò i «matti». Al suo fianco gli allievi dello psichiatra, Franco Rotelli e Giuseppe dall’Acqua, e poi ancora Sergio Piro che lottò con lui per far uscire i prigionieri della mente dai manicomi.
A muoverli non è il bisogno di rimettere in discussione la legge. Tutt’altro. «Il tempo passa e la dissociazione tra dire e fare è diventata drammatica - spiega le finalità del Forum, Rotelli, direttore generale di una Asl campana -. Malgrado i proclami, malgrado una letteratura scientifica che riconosce la validità di questo modello, ci troviamo di fronte ad una realtà povera, deprimente. Il 90 per cento dei luoghi considerati di salute mentale sono ambulatori squallidi, dove nulla si muove. I manicomi giudiziari sono rimasti uguali a 20 anni fa. Poi, ogni tanto Castelli o Ciampi si accorgono che c’è qualcuno chiuso là dentro da 52 anni e gli danno la grazia. E infine le strutture residenziali, che hanno avuto uno sviluppo incontrollato». Si discuterà di problemi concreti, di necessità concrete. Secondo Rotelli è il momento più opportuno per avviare un dibattito energico ed efficace: «Per fortuna le alzate di ingegno per modificare la legge 180 sono morte per strada, non dobbiamo difenderci che dalla realtà». Si riferisce, lo psichiatra, al disegno di legge sulla riforma della «180», relatrice la forzista Maria Burani Procaccini, dove si prevedeva tra l’altro la creazione di strutture residenziali controllate e l’obbligatorietà della cura. Si sta lavorando sulla revisione di un testo unificato, ancora in alto mare.
Invece, il documento programmatico della futura associazione, diffuso sul sito www.forumsalutementale.it, ha raccolto in pochi giorni 500 adesioni.
Due giorni di studio sulla salute mentale per rilanciare la «riforma non attuata»: «Ambulatori squallidi e strutture chiuse nei weekend»
«Psichiatria, 25 anni dopo ripartiamo dalla Basaglia»
La denuncia della moglie e degli allievi dell’uomo che aprì i manicomi: troppe prescrizioni di psicofarmaci e misure di contenzione
ROMA - Nell’80 per cento dei servizi di psichiatria la blindatura delle porte, la contenzione dei malati più turbolenti e le telecamere a circuito chiuso sono ancora in funzione. Nella maggior parte degli ambulatori le visite restano incentrate esclusivamente sulla prescrizione e, spesso, sull’abuso di psicofarmaci, oltre che «su prestazioni psicoterapeutiche del tutto avulse dalla vita, dal contesto sociale della persona in difficoltà». Di strutture aperte 24 ore su 24, compreso il fine settimana, i giorni critici della follia, se ne contano davvero poche. Gli organici del personale extra medico presentano buchi di 5 mila unità. Così si trascina la psichiatria pubblica italiana a 25 anni dalla Basaglia, o «180», la legge che ha chiuso i manicomi. La denuncia arriva, penetrante e addolorata, proprio dai sostenitori e dagli animatori, sul campo, di quella rivoluzione. Domani e dopodomani i basagliani si riuniscono a Roma in un Forum sulla salute mentale dove verranno gettate le basi di una nuova associazione nazionale per il rilancio di un sistema ridotto all’asfissia. Tra i promotori, Franca Ongaro Basaglia, moglie e memoria storica dell’uomo che liberò i «matti». Al suo fianco gli allievi dello psichiatra, Franco Rotelli e Giuseppe dall’Acqua, e poi ancora Sergio Piro che lottò con lui per far uscire i prigionieri della mente dai manicomi.
A muoverli non è il bisogno di rimettere in discussione la legge. Tutt’altro. «Il tempo passa e la dissociazione tra dire e fare è diventata drammatica - spiega le finalità del Forum, Rotelli, direttore generale di una Asl campana -. Malgrado i proclami, malgrado una letteratura scientifica che riconosce la validità di questo modello, ci troviamo di fronte ad una realtà povera, deprimente. Il 90 per cento dei luoghi considerati di salute mentale sono ambulatori squallidi, dove nulla si muove. I manicomi giudiziari sono rimasti uguali a 20 anni fa. Poi, ogni tanto Castelli o Ciampi si accorgono che c’è qualcuno chiuso là dentro da 52 anni e gli danno la grazia. E infine le strutture residenziali, che hanno avuto uno sviluppo incontrollato». Si discuterà di problemi concreti, di necessità concrete. Secondo Rotelli è il momento più opportuno per avviare un dibattito energico ed efficace: «Per fortuna le alzate di ingegno per modificare la legge 180 sono morte per strada, non dobbiamo difenderci che dalla realtà». Si riferisce, lo psichiatra, al disegno di legge sulla riforma della «180», relatrice la forzista Maria Burani Procaccini, dove si prevedeva tra l’altro la creazione di strutture residenziali controllate e l’obbligatorietà della cura. Si sta lavorando sulla revisione di un testo unificato, ancora in alto mare.
Invece, il documento programmatico della futura associazione, diffuso sul sito www.forumsalutementale.it, ha raccolto in pochi giorni 500 adesioni.
Henry Miller, un inedito
Corriere della Sera 15.10.03
Un testo inedito dell’autore di «Tropico del Cancro»: «Quale male ha fatto all’umanità l’atto genitale che non osiamo parlarne senza vergogna?»
La letteratura secondo Henry Miller «Perché la vera arte non è mai oscena»
di HENRY MILLER
Mi interessa la vita, tutta la vita, in ogni suo aspetto. E la vita che conosco meglio è la mia. Esaminando la mia vita, descrivendola nei dettagli, mettendola spietatamente a nudo, ho la sensazione di rendere la vita, potenziata ed esaltata, a coloro che mi leggono. E questo mi sembra un degno compito per uno scrittore, un compito nel quale ho degli illustri predecessori. È indiscutibile che il sesso sia una parte fondamentale della vita. È anche un fatto comunemente riconosciuto che il ruolo del sesso, o la sua importanza nella vita di una persona, vari da individuo a individuo. Il problema sembra essere: quanta parte della realtà della vita, per quanto attiene al comportamento sessuale, può essere utilizzata in letteratura? Forse non si tratta neanche di questo ma piuttosto del modo in cui viene introdotto l’elemento sessuale. In breve, forse la questione potrebbe essere formulata in questo modo: Esiste un modo giusto e uno sbagliato di trattare il sesso in un’opera d’arte? E questo ci porta immediatamente alla domanda successiva: Il modo giusto è quello del moralista, del censore, del poliziotto? Ossia, se volete, è lo Stato, attraverso i suoi legislatori, l’arbitro supremo di ciò che è giusto o sbagliato, buono o cattivo, in materia di arte?
A me sembra che l’unico presupposto su cui si basano le attività censorie dei nostri guardiani morali sia che accedere alla letteratura proibita potrebbe spingerci a comportarci come animali. Ma questo significa denigrare il regno animale. E al tempo stesso mettere in caricatura la passione, il maggiore carattere distintivo dell’uomo. La gamma delle passioni umane è quasi illimitata, può raggiungere vette e abissi impensati. E proprio perché abbraccia tali estremi, la passione è la pietra di paragone della nostra umanità, e forse anche della nostra divinità. Tra tutte le creature della terra l’uomo è l’unica il cui comportamento è imprevedibile. C’è in noi qualcosa di tutto il creato. Se ci viene tolta la libertà, anche in minima misura, ci sentiamo spiritualmente frustrati e menomati. È la piena consapevolezza della nostra natura complessa e l'integrazione della miriade di elementi di cui siamo composti a renderci completi, a renderci umani. La religione può fare di noi dei santi, o anche solo dei buoni cittadini; ma quello che ci rende uomini, quello che ci rende umani fino in fondo, è la libertà. È una parola terrificante, libertà, per coloro che hanno trascorso la vita intera con la mente in catene.
In un saggio intitolato «Su alcuni versi di Virgilio», Montaigne scrive: «Che male ha fatto all'umanità l'atto genitale, così naturale, così necessario e così legittimo, che non osiamo parlarne senza vergogna, e lo escludiamo dalle nostre conversazioni più serie e comuni? Abbiamo il coraggio di pronunciare parole come uccidere , rubare , tradire ; e quell’altra parola osiamo solo pronunciarla sottovoce? Significa forse che meno ne parliamo e più siamo liberi di riempirne i nostri pensieri? Perché è buffo che le parole meno usate, meno scritte e più soffocate, siano le più conosciute e le più universalmente comprese. Non c'è persona di qualsiasi età o inclinazione morale che non le conosca bene quanto conosce la parola pane ...».
Sono sinceramente convinto che la paura e il terrore che l'osceno ispira, soprattutto nei tempi moderni, nascano dal linguaggio utilizzato piuttosto che dall'idea. È come se avessimo a che fare con dei tabù primitivi. Il fatto che certe parole, certe espressioni che vengono spesso, anche se non sempre, collegate al sesso, siano considerate «proibite» è in fondo del tutto fuorviante. Anche le persone che restano scioccate, addolorate, ferite o inorridite davanti a questi simboli scritti probabilmente usano quelle espressioni nella lingua parlata. Tutti sentiamo queste parole «immonde», «volgari», «brutte» ogni giorno, dalla culla alla tomba. Come mai, allora, e perché, non ne siamo diventati immuni? Quali sono le proprietà magiche che possiedono e da cui non possiamo difenderci? Faccio rilevare che è in particolar modo contro il loro utilizzo nella letteratura che si levano le obiezioni dei benpensanti. Ma perché mai la letteratura dovrebbe essere più sacra della lingua parlata? Scrivere non è un altro modo di parlare? La gioventù viene corrotta - questo è il venerabile termine che tiriamo sempre in ballo - solo dal linguaggio osceno? I corruttori dei giovani sono stati accusati in tutte le epoche di tante cose, e così diverse tra loro, che è difficile immaginare che la lista di questi «mali» possa essere allungata. Ed è sempre contro lo spirito stesso della vita che queste accuse vengono dirette. Ma la vita, come è stato ripetutamente dimostrato, rifiuta di lasciarsi limitare e contenere da codici morali, da leggi o decreti di qualsiasi tipo. Ciò che governa la vita è lo spirito, e lo spirito dell'uomo, che è essenzialmente divino, rimane inattaccabile. (...)
Non è possibile, mi chiedo a volte, che esista un motivo più profondo per la messa al bando dei libri «immorali»? Ho osservato che in molti casi l'autore di un'opera «oscena» è un uomo di verità. Frequentemente ha fatto uso del suo linguaggio discutibile e «licenzioso» per denunciare i mali della nostra vita. Le sue verità scandalizzano perché la verità è sempre nuda. L'inganno e l'ipocrisia, così come appaiono spesso nel nostro tempo, sono capaci di provocare negli uomini onesti l'uso di un linguaggio aggressivo, sconveniente. A essere sinceri, io stesso trovo che nella vita esiste ben poco che possa essere considerato «ripugnante», a meno che si tratti di male puro, che è una cosa rara. Non riesco veramente a capire come un argomento, uno stile o una trattazione possano essere condannati in sé e per sé. Se la nostra vita quotidiana è piena di bruttezza, è inevitabile che vi siano uomini che la descrivono e la rivelano in tutti i suoi molteplici dettagli. La verità sulla vita non può essere soffocata, così come la diffusione della conoscenza. L'unica cosa che la censura può sperare di ottenere è di rimandare l'inevitabile. Perché i libri, come tutte le altre cose di questo universo, vengono creati per rispondere alle nostre necessità, quelle più profonde. Appartengono allo spirito del tempo. Il pensiero torna sempre a galla. Se non riesce a venire alla superficie, attraverso i vari mezzi dell'arte, scaverà nel profondo, seguirà canali sotterranei e alla fine contaminerà le sorgenti stesse della vita. Inoltre, è abbastanza improbabile che le idee, per quanto ripugnanti, siano il prodotto di pochi individui mostruosi. Le idee sono nell'aria, come si dice, e l'artista non fa altro che usarle. È un fenomeno molto curioso anche il fatto che la cosiddetta letteratura oscena sia la più resistente di tutte le forme letterarie. Esiste dai tempi più antichi, e resiste, senza alcuna protezione, senza tanto baccano, nonostante tutto quello che si dice su di essa. C'è solo un altro tipo di letteratura altrettanto durevole, ed è quella che riguarda l'occulto. La prima evidentemente risponde a un qualche bisogno vitale, che non è possibile estirpare malgrado tutti i tentativi moraleggianti e di criminalizzazione, mentre la seconda risponde a quel senso del mistero che c'è in noi e che nessuna spiegazione scientifica o religiosa soddisferà mai.
Ogni giorno, nella foresta, nelle fattorie, sottoterra, nell'aria, in ogni angolo del nostro pianeta, le creature di questa terra, così come gli uomini e le donne, si abbandonano all'atto sessuale, e, se dobbiamo credere a uno scrittore come Rémy de Gourmont, spesso in modi che ci sconcerterebbero. L'unico linguaggio verbale con cui è ammesso descrivere questo stato di fregola cosmica è, attualmente, quello scientifico. L'allevatore di bestiame può scrivere i suoi opuscoli e trattati; il medico può raccontare in dettaglio i suoi casi di psicopatia; l'antropologo può descrivere le sue ricerche sulle abitudini sessuali dei popoli primitivi - ma al semplice scrittore di narrativa, a chi vorrebbe descrivere la vita che lo circonda in modo completo e libero, è vietato parlare. Eppure è il solo che può scrivere in modo appassionato e significativo, l'unico che è veramente distaccato, spiritualmente libero, che vede la vita nella sua interezza e può dunque essere onesto, veritiero, allegro e in fondo terapeutico .
(traduzione Bruna Tortorella)
Il testo qui pubblicato, inedito in Italia, è tratto dal volume: Henry Miller, «Una tortura deliziosa. Pagine sull’arte di scrivere», edizioni minimum fax, pagine 303, euro 9, in libreria in questi giorni
Un testo inedito dell’autore di «Tropico del Cancro»: «Quale male ha fatto all’umanità l’atto genitale che non osiamo parlarne senza vergogna?»
La letteratura secondo Henry Miller «Perché la vera arte non è mai oscena»
di HENRY MILLER
Mi interessa la vita, tutta la vita, in ogni suo aspetto. E la vita che conosco meglio è la mia. Esaminando la mia vita, descrivendola nei dettagli, mettendola spietatamente a nudo, ho la sensazione di rendere la vita, potenziata ed esaltata, a coloro che mi leggono. E questo mi sembra un degno compito per uno scrittore, un compito nel quale ho degli illustri predecessori. È indiscutibile che il sesso sia una parte fondamentale della vita. È anche un fatto comunemente riconosciuto che il ruolo del sesso, o la sua importanza nella vita di una persona, vari da individuo a individuo. Il problema sembra essere: quanta parte della realtà della vita, per quanto attiene al comportamento sessuale, può essere utilizzata in letteratura? Forse non si tratta neanche di questo ma piuttosto del modo in cui viene introdotto l’elemento sessuale. In breve, forse la questione potrebbe essere formulata in questo modo: Esiste un modo giusto e uno sbagliato di trattare il sesso in un’opera d’arte? E questo ci porta immediatamente alla domanda successiva: Il modo giusto è quello del moralista, del censore, del poliziotto? Ossia, se volete, è lo Stato, attraverso i suoi legislatori, l’arbitro supremo di ciò che è giusto o sbagliato, buono o cattivo, in materia di arte?
A me sembra che l’unico presupposto su cui si basano le attività censorie dei nostri guardiani morali sia che accedere alla letteratura proibita potrebbe spingerci a comportarci come animali. Ma questo significa denigrare il regno animale. E al tempo stesso mettere in caricatura la passione, il maggiore carattere distintivo dell’uomo. La gamma delle passioni umane è quasi illimitata, può raggiungere vette e abissi impensati. E proprio perché abbraccia tali estremi, la passione è la pietra di paragone della nostra umanità, e forse anche della nostra divinità. Tra tutte le creature della terra l’uomo è l’unica il cui comportamento è imprevedibile. C’è in noi qualcosa di tutto il creato. Se ci viene tolta la libertà, anche in minima misura, ci sentiamo spiritualmente frustrati e menomati. È la piena consapevolezza della nostra natura complessa e l'integrazione della miriade di elementi di cui siamo composti a renderci completi, a renderci umani. La religione può fare di noi dei santi, o anche solo dei buoni cittadini; ma quello che ci rende uomini, quello che ci rende umani fino in fondo, è la libertà. È una parola terrificante, libertà, per coloro che hanno trascorso la vita intera con la mente in catene.
In un saggio intitolato «Su alcuni versi di Virgilio», Montaigne scrive: «Che male ha fatto all'umanità l'atto genitale, così naturale, così necessario e così legittimo, che non osiamo parlarne senza vergogna, e lo escludiamo dalle nostre conversazioni più serie e comuni? Abbiamo il coraggio di pronunciare parole come uccidere , rubare , tradire ; e quell’altra parola osiamo solo pronunciarla sottovoce? Significa forse che meno ne parliamo e più siamo liberi di riempirne i nostri pensieri? Perché è buffo che le parole meno usate, meno scritte e più soffocate, siano le più conosciute e le più universalmente comprese. Non c'è persona di qualsiasi età o inclinazione morale che non le conosca bene quanto conosce la parola pane ...».
Sono sinceramente convinto che la paura e il terrore che l'osceno ispira, soprattutto nei tempi moderni, nascano dal linguaggio utilizzato piuttosto che dall'idea. È come se avessimo a che fare con dei tabù primitivi. Il fatto che certe parole, certe espressioni che vengono spesso, anche se non sempre, collegate al sesso, siano considerate «proibite» è in fondo del tutto fuorviante. Anche le persone che restano scioccate, addolorate, ferite o inorridite davanti a questi simboli scritti probabilmente usano quelle espressioni nella lingua parlata. Tutti sentiamo queste parole «immonde», «volgari», «brutte» ogni giorno, dalla culla alla tomba. Come mai, allora, e perché, non ne siamo diventati immuni? Quali sono le proprietà magiche che possiedono e da cui non possiamo difenderci? Faccio rilevare che è in particolar modo contro il loro utilizzo nella letteratura che si levano le obiezioni dei benpensanti. Ma perché mai la letteratura dovrebbe essere più sacra della lingua parlata? Scrivere non è un altro modo di parlare? La gioventù viene corrotta - questo è il venerabile termine che tiriamo sempre in ballo - solo dal linguaggio osceno? I corruttori dei giovani sono stati accusati in tutte le epoche di tante cose, e così diverse tra loro, che è difficile immaginare che la lista di questi «mali» possa essere allungata. Ed è sempre contro lo spirito stesso della vita che queste accuse vengono dirette. Ma la vita, come è stato ripetutamente dimostrato, rifiuta di lasciarsi limitare e contenere da codici morali, da leggi o decreti di qualsiasi tipo. Ciò che governa la vita è lo spirito, e lo spirito dell'uomo, che è essenzialmente divino, rimane inattaccabile. (...)
Non è possibile, mi chiedo a volte, che esista un motivo più profondo per la messa al bando dei libri «immorali»? Ho osservato che in molti casi l'autore di un'opera «oscena» è un uomo di verità. Frequentemente ha fatto uso del suo linguaggio discutibile e «licenzioso» per denunciare i mali della nostra vita. Le sue verità scandalizzano perché la verità è sempre nuda. L'inganno e l'ipocrisia, così come appaiono spesso nel nostro tempo, sono capaci di provocare negli uomini onesti l'uso di un linguaggio aggressivo, sconveniente. A essere sinceri, io stesso trovo che nella vita esiste ben poco che possa essere considerato «ripugnante», a meno che si tratti di male puro, che è una cosa rara. Non riesco veramente a capire come un argomento, uno stile o una trattazione possano essere condannati in sé e per sé. Se la nostra vita quotidiana è piena di bruttezza, è inevitabile che vi siano uomini che la descrivono e la rivelano in tutti i suoi molteplici dettagli. La verità sulla vita non può essere soffocata, così come la diffusione della conoscenza. L'unica cosa che la censura può sperare di ottenere è di rimandare l'inevitabile. Perché i libri, come tutte le altre cose di questo universo, vengono creati per rispondere alle nostre necessità, quelle più profonde. Appartengono allo spirito del tempo. Il pensiero torna sempre a galla. Se non riesce a venire alla superficie, attraverso i vari mezzi dell'arte, scaverà nel profondo, seguirà canali sotterranei e alla fine contaminerà le sorgenti stesse della vita. Inoltre, è abbastanza improbabile che le idee, per quanto ripugnanti, siano il prodotto di pochi individui mostruosi. Le idee sono nell'aria, come si dice, e l'artista non fa altro che usarle. È un fenomeno molto curioso anche il fatto che la cosiddetta letteratura oscena sia la più resistente di tutte le forme letterarie. Esiste dai tempi più antichi, e resiste, senza alcuna protezione, senza tanto baccano, nonostante tutto quello che si dice su di essa. C'è solo un altro tipo di letteratura altrettanto durevole, ed è quella che riguarda l'occulto. La prima evidentemente risponde a un qualche bisogno vitale, che non è possibile estirpare malgrado tutti i tentativi moraleggianti e di criminalizzazione, mentre la seconda risponde a quel senso del mistero che c'è in noi e che nessuna spiegazione scientifica o religiosa soddisferà mai.
Ogni giorno, nella foresta, nelle fattorie, sottoterra, nell'aria, in ogni angolo del nostro pianeta, le creature di questa terra, così come gli uomini e le donne, si abbandonano all'atto sessuale, e, se dobbiamo credere a uno scrittore come Rémy de Gourmont, spesso in modi che ci sconcerterebbero. L'unico linguaggio verbale con cui è ammesso descrivere questo stato di fregola cosmica è, attualmente, quello scientifico. L'allevatore di bestiame può scrivere i suoi opuscoli e trattati; il medico può raccontare in dettaglio i suoi casi di psicopatia; l'antropologo può descrivere le sue ricerche sulle abitudini sessuali dei popoli primitivi - ma al semplice scrittore di narrativa, a chi vorrebbe descrivere la vita che lo circonda in modo completo e libero, è vietato parlare. Eppure è il solo che può scrivere in modo appassionato e significativo, l'unico che è veramente distaccato, spiritualmente libero, che vede la vita nella sua interezza e può dunque essere onesto, veritiero, allegro e in fondo terapeutico .
(traduzione Bruna Tortorella)
Il testo qui pubblicato, inedito in Italia, è tratto dal volume: Henry Miller, «Una tortura deliziosa. Pagine sull’arte di scrivere», edizioni minimum fax, pagine 303, euro 9, in libreria in questi giorni
psichiatri lombardi
Il Giorno 15.10.03
Psichiatri lombardi: riformate la 180
di Paola D'Amico
Considerare la crisi acuta di un malato psichico alla stregua di un infarto e introdurre il principio del dovere alla salute - lo stesso che impone il casco a chi circola in moto e che porta a sanzionare chi non lo indossa - per il malato di mente che, dimesso dopo un ricovero, rifiuta le cure. Gli psichiatri lombardi chiedono un aggiornamento della legge 180. Attraverso un progetto di legge che, dopo i passaggi di rito in Commissione sanità e in Consiglio regionale, dovrebbe prendere la via della Capitale, si fanno promotori di un'integrazione che riempia un vuoto lasciato dalla legge. «Non vogliamo il ritorno ai manicomi. Ma riteniamo che i malati psichiatrici siano come tutti gli altri pazienti e come tali debbano essere trattati - hanno spiegato Claudio Mencacci, psichiatra al Fatebenefratelli, e Carlo Safiotti, presidente della commissione Sanità in Regione -. La legge Basaglia non deve essere snaturata ma integrata». Oggi la proposta sarà oggetto di un dibattito al convegno «I trattamenti senza consenso».
Due sono gli strumenti che si chiede di introducce: l'accertamento sanitario d'urgenza e il contratto terapeutico vincolante. «Oggi abbiamo l'accertamento sanitario e il trattamento sanitario obbligatorio - ha precisato Mencacci -. Due atti estremamente burocratizzati per i quali possono trascorrere giorni. Ma la crisi di un paziente psichico non aspetta. Nel primo caso da una segnalazione di familiari, del medico curante, di un vicino, si passa ad una visita a domicilio con uno specialista che bussa alla porta del soggetto. Che può anche rifiutarsi di aprirla. Nel secondo, il Tso, si passa al ricovero coatto, ma non c'è, ancora una volta, il concetto che la malattia psichica può essere un'urgenza. Tra proposta del medico, convalida, autorizzazione del Sindaco passano anche due giorni». Invece, la segnalazione di una crisi merita l'attenzione che si dà ad un infarto. Deve essere il 118 ad occuparsene.
E sul principio che il malato psichico è un paziente come tutti gli altri si basa anche la seconda integrazione della Basaglia.
«Oggi un malato dimesso dall'ospedale dopo un lungo ricovero può rifiutare le cure - spiega Mencacci -. Mi riferisco, naturalmente, a pazienti gravi, schizofrenici,che soffrono di delirio, di disturbo bipolare. Oggi non possiamo imporre loro di proseguire cure di cui avrebbero bisogno. La malattia psichiatrica va curata per mesi, anni, per la vita. Vorremmo, invece, evitare i cosiddetti "pazienti persi". Attraverso un contratto tra loro e gli operatori, cerchiamo di costringerli in modo soft alle cure. Il principio è quello del dovere alla salute. Chi non porta il casco in moto può essere multato. Non vogliamo rinchiudere chi soffre, ma costringerlo ad aderire alle cure. E così responsabilizzare operatori e familiari e medici curanti».
Psichiatri lombardi: riformate la 180
di Paola D'Amico
Considerare la crisi acuta di un malato psichico alla stregua di un infarto e introdurre il principio del dovere alla salute - lo stesso che impone il casco a chi circola in moto e che porta a sanzionare chi non lo indossa - per il malato di mente che, dimesso dopo un ricovero, rifiuta le cure. Gli psichiatri lombardi chiedono un aggiornamento della legge 180. Attraverso un progetto di legge che, dopo i passaggi di rito in Commissione sanità e in Consiglio regionale, dovrebbe prendere la via della Capitale, si fanno promotori di un'integrazione che riempia un vuoto lasciato dalla legge. «Non vogliamo il ritorno ai manicomi. Ma riteniamo che i malati psichiatrici siano come tutti gli altri pazienti e come tali debbano essere trattati - hanno spiegato Claudio Mencacci, psichiatra al Fatebenefratelli, e Carlo Safiotti, presidente della commissione Sanità in Regione -. La legge Basaglia non deve essere snaturata ma integrata». Oggi la proposta sarà oggetto di un dibattito al convegno «I trattamenti senza consenso».
Due sono gli strumenti che si chiede di introducce: l'accertamento sanitario d'urgenza e il contratto terapeutico vincolante. «Oggi abbiamo l'accertamento sanitario e il trattamento sanitario obbligatorio - ha precisato Mencacci -. Due atti estremamente burocratizzati per i quali possono trascorrere giorni. Ma la crisi di un paziente psichico non aspetta. Nel primo caso da una segnalazione di familiari, del medico curante, di un vicino, si passa ad una visita a domicilio con uno specialista che bussa alla porta del soggetto. Che può anche rifiutarsi di aprirla. Nel secondo, il Tso, si passa al ricovero coatto, ma non c'è, ancora una volta, il concetto che la malattia psichica può essere un'urgenza. Tra proposta del medico, convalida, autorizzazione del Sindaco passano anche due giorni». Invece, la segnalazione di una crisi merita l'attenzione che si dà ad un infarto. Deve essere il 118 ad occuparsene.
E sul principio che il malato psichico è un paziente come tutti gli altri si basa anche la seconda integrazione della Basaglia.
«Oggi un malato dimesso dall'ospedale dopo un lungo ricovero può rifiutare le cure - spiega Mencacci -. Mi riferisco, naturalmente, a pazienti gravi, schizofrenici,che soffrono di delirio, di disturbo bipolare. Oggi non possiamo imporre loro di proseguire cure di cui avrebbero bisogno. La malattia psichiatrica va curata per mesi, anni, per la vita. Vorremmo, invece, evitare i cosiddetti "pazienti persi". Attraverso un contratto tra loro e gli operatori, cerchiamo di costringerli in modo soft alle cure. Il principio è quello del dovere alla salute. Chi non porta il casco in moto può essere multato. Non vogliamo rinchiudere chi soffre, ma costringerlo ad aderire alle cure. E così responsabilizzare operatori e familiari e medici curanti».
martedì 14 ottobre 2003
Marco Bellocchio:
una nuova breve intervista è andata in onda su RaiTre
CINEMA: BELLOCCHIO ANNUNCIA NUOVO PROGETTO CON CASTELLITTO
Adnkronos 13/OTT/03 - 16:49
(ricevuto da Andrea Mancini e Simonetta Pitzalis)
Roma, 13 ott. (Adnkronos) - Si intitola ''Il regista di matrimoni'' il nuovo progetto cui sta lavorando Marco Bellocchio. Il regista lo ha rivelato nel corso di un'intervista a ''Off Hollywood- Rai Educational'', in onda domani [oggi, per chi legge. ndr] alle 0.36 [o 0.50] su Raitre. Il film avra' per protagonista Sergio Castellitto, gia' attore per Bellocchio di 'L'ora di religione". Nel corso dell'intervista, il regista ha anche spiegato di aver accantonato il progetto del "Mercante di Venezia". Il regista e' tornato poi a parlare delle polemiche sulla Mostra del cinema di Venezia che ha lasciato senza premi il suo "Buongiorno, notte". Bellocchio, rispondendo alle accuse di Nanni Moretti all'amministratore delegato di Rai Cinema, Giancarlo Leone, ha detto: «Moretti e' un bravo politico ma lasci perdere i moralismi. Io e Nanni siamo divisi da molte cose. Io non appartengo a nessuna lobby e non partecipo neppure alle votazioni per i David di Donatello». (Ken/Cnz/Adnkronos)
Libertà 14.10.03
Rivelazione a Rai educational
Bellocchio: mai più a un concorso
ROMA. «Mai più ad un concorso». Lo dice Marco Bellocchio, nonostante la calorosa accoglienza ricevuta da Buongiorno, notte al New York Film Festival, in un'intervista esclusiva che sarà proposta oggi a “Off Hollywood”, il programma di Rai Educational in onda alle 0.36 [o 0.50] su Raitre che in occasione delle celebrazioni del Columbus Day proporrà una puntata speciale da New York. «Aveva ragione il mio amico Bertolucci quando mi consigliò di lasciar perdere la gara», sottolinea Bellocchio in gara alla Mostra di Venezia. «Se ho perdonato i giurati di Venezia? Delusione grande ma per me il caso è chiuso. I riscontri da Rio, Londra, Toronto e New York contraddicono chi sostiene che la storia è solo “italiana”».
che cosa aveva detto Moretti:
Yahoo Notizie, giovedì 2.10.03
Cinema, Moretti: ''Vergognosa la dichiarazione di Leone a Venezia''
di Marcello Giannotti
Roma, 2 ott. - (Adnkronos) - Un po' in ritardo ma alla fine gli strali di Nanni Moretti sulla Mostra del cinema di Venezia sono arrivati. Non sui film presentati o sull'organizzazione ma sul doppio concorso, sulla cerimonia di premiazione e, soprattutto, sulle proteste di Rai Cinema rispetto al verdetto della giuria che ha 'bocciato' 'Buongiorno, notte' di Marco Bellocchio. ''Sono particolarmente imbarazzato -spiega Moretti in un'intervista al mensile 'Ciak'- perche' ho sempre lavorato bene con Rai Cinema avendo per di piu' scelto, per principio, di non lavorare con Mediaset o Medusa. Ma trovo la dichiarazione di Leone ridicola e vergognosa'', dice il regista che e' stato presidente della Giuria a Venezia nel 2001. All'indomani del verdetto, l'amministratore delegato di Rai Cinema, Giancarlo Leone, ha detto che dal prossimo anno i titoli di Rai Cinema non andranno piu' al Lido. ''Non so con quale giravolta fara' l'inevitabile marcia indietro -dice Moretti riferendosi a Leone- ma purtroppo ha appannato l'immagine non solo della Mostra appena finita ma anche delle prossime edizioni. Se in futuro ci dovesse essere un premio importante a un film italiano ci si chiedera' infatti se sara' stato assegnato perche' lo meritava veramente o perche' gli apparati statali e parastatali avranno definitivamente 'italianizzato' la Biennale con quel che ne consegue. Da regista, produttore e spettatore -spiega Moretti, impegnato nella scrittura del suo nuovo film con Heidrun Schleef- resto comunque per la competizione, in concorsi garantiti da giurie qualificate e indipendenti''. Poi l'attacco a come la Mostra e' stata vista dai media e al doppio concorso: ''Ho visto in tv qualche trasmissione pietosa con ospiti che dicevano insensatezze sul cinema, sui giornali poco spazio per i film e troppo per le cavolate -dice Moretti in un'intervista pubblicata sul mensile 'Ciak'- E la peggior premiazione da molti anni a questa parte. E poi i premi sono troppi, eliminerei il secondo concorso''.
Adnkronos 13/OTT/03 - 16:49
(ricevuto da Andrea Mancini e Simonetta Pitzalis)
Roma, 13 ott. (Adnkronos) - Si intitola ''Il regista di matrimoni'' il nuovo progetto cui sta lavorando Marco Bellocchio. Il regista lo ha rivelato nel corso di un'intervista a ''Off Hollywood- Rai Educational'', in onda domani [oggi, per chi legge. ndr] alle 0.36 [o 0.50] su Raitre. Il film avra' per protagonista Sergio Castellitto, gia' attore per Bellocchio di 'L'ora di religione". Nel corso dell'intervista, il regista ha anche spiegato di aver accantonato il progetto del "Mercante di Venezia". Il regista e' tornato poi a parlare delle polemiche sulla Mostra del cinema di Venezia che ha lasciato senza premi il suo "Buongiorno, notte". Bellocchio, rispondendo alle accuse di Nanni Moretti all'amministratore delegato di Rai Cinema, Giancarlo Leone, ha detto: «Moretti e' un bravo politico ma lasci perdere i moralismi. Io e Nanni siamo divisi da molte cose. Io non appartengo a nessuna lobby e non partecipo neppure alle votazioni per i David di Donatello». (Ken/Cnz/Adnkronos)
Libertà 14.10.03
Rivelazione a Rai educational
Bellocchio: mai più a un concorso
ROMA. «Mai più ad un concorso». Lo dice Marco Bellocchio, nonostante la calorosa accoglienza ricevuta da Buongiorno, notte al New York Film Festival, in un'intervista esclusiva che sarà proposta oggi a “Off Hollywood”, il programma di Rai Educational in onda alle 0.36 [o 0.50] su Raitre che in occasione delle celebrazioni del Columbus Day proporrà una puntata speciale da New York. «Aveva ragione il mio amico Bertolucci quando mi consigliò di lasciar perdere la gara», sottolinea Bellocchio in gara alla Mostra di Venezia. «Se ho perdonato i giurati di Venezia? Delusione grande ma per me il caso è chiuso. I riscontri da Rio, Londra, Toronto e New York contraddicono chi sostiene che la storia è solo “italiana”».
che cosa aveva detto Moretti:
Yahoo Notizie, giovedì 2.10.03
Cinema, Moretti: ''Vergognosa la dichiarazione di Leone a Venezia''
di Marcello Giannotti
Roma, 2 ott. - (Adnkronos) - Un po' in ritardo ma alla fine gli strali di Nanni Moretti sulla Mostra del cinema di Venezia sono arrivati. Non sui film presentati o sull'organizzazione ma sul doppio concorso, sulla cerimonia di premiazione e, soprattutto, sulle proteste di Rai Cinema rispetto al verdetto della giuria che ha 'bocciato' 'Buongiorno, notte' di Marco Bellocchio. ''Sono particolarmente imbarazzato -spiega Moretti in un'intervista al mensile 'Ciak'- perche' ho sempre lavorato bene con Rai Cinema avendo per di piu' scelto, per principio, di non lavorare con Mediaset o Medusa. Ma trovo la dichiarazione di Leone ridicola e vergognosa'', dice il regista che e' stato presidente della Giuria a Venezia nel 2001. All'indomani del verdetto, l'amministratore delegato di Rai Cinema, Giancarlo Leone, ha detto che dal prossimo anno i titoli di Rai Cinema non andranno piu' al Lido. ''Non so con quale giravolta fara' l'inevitabile marcia indietro -dice Moretti riferendosi a Leone- ma purtroppo ha appannato l'immagine non solo della Mostra appena finita ma anche delle prossime edizioni. Se in futuro ci dovesse essere un premio importante a un film italiano ci si chiedera' infatti se sara' stato assegnato perche' lo meritava veramente o perche' gli apparati statali e parastatali avranno definitivamente 'italianizzato' la Biennale con quel che ne consegue. Da regista, produttore e spettatore -spiega Moretti, impegnato nella scrittura del suo nuovo film con Heidrun Schleef- resto comunque per la competizione, in concorsi garantiti da giurie qualificate e indipendenti''. Poi l'attacco a come la Mostra e' stata vista dai media e al doppio concorso: ''Ho visto in tv qualche trasmissione pietosa con ospiti che dicevano insensatezze sul cinema, sui giornali poco spazio per i film e troppo per le cavolate -dice Moretti in un'intervista pubblicata sul mensile 'Ciak'- E la peggior premiazione da molti anni a questa parte. E poi i premi sono troppi, eliminerei il secondo concorso''.
citati al Lunedì
(...oltre alla bella trasmissione "Ritratto d'Autore" con Marco Bellocchio, di venerdì 10.10 su Skay - adesso disponibile, oltre che in visione presso la libreria AMORE E PSICHE di Roma, anche sul web all'indirizzo http://www.mawivideo.it -, e al pessimo inserto su "Buongiorno, notte" pubblicato sul supplemento (Alias) del manifesto dell'11.10)
Repubblica sabato 11.10.03
L' orribile commedia dell' affare Moro
FRANCO CORDERO
L' affare Moro, evocato da "Buongiorno, notte", ha riacceso vecchie dispute, placate le quali, mi permetterei di fissare qualche punto. Cominciando da uno incontrovertibile: la colpa dello Stato nell' avvenimento che insanguina via Fani, angolo Stresa, giovedì mattina 16 marzo 1978, ore 9.15, quando nove brigatisti l' aspettano al varco: eccolo sulla solita 130 blu, seguito dall' Alfetta bianca; una 128 le supera, converge a destra, frena; gli otto appostati sparano sulle vetture imbottigliate ammazzando l' intera scorta con ragguardevole precisione, visto che lui esce incolume; se ne impadroniscono; lo portano via in barba alle polizie che accorrono inutilmente sul luogo, anziché sciamare sui possibili percorsi della fuga. Gli uccisi erano bersaglio d' un tiro a segno, sagome inerti. Quanto al rapito, sarebbe stato meno pericoloso andare in taxi o sull' autobus. Le Brigate rosse appartengono al bestiario italiano: uccidono da qualche anno; Aldo Moro costituiva la massima preda, fautore d' intese larghe fino alla graduale inclusione del Pci nell' area governativa, quindi odiato dagli estremisti hinc inde, 10 anni prima che cada il Muro; e non dimentichiamolo, presidente in pectore della Repubblica. Insomma, era molto esposto; bisognava difenderlo; quanto male vi provvedessero i responsabili, consta dall' assurda strage. Altrettanto ovvia la seconda conclusione: non l' hanno protetto; sta in mano ai sequestratori; lo salvino. L' indomani nasce un comitato interministeriale, le cui 7 riunioni pesano meno d' una giaculatoria. Nel Viminale un' équipe presieduta dal ministro tiene riunioni quotidiane, poi trisettimanali, senza verbali né appunti: anziché agire, gli apparati inscenano le frenesie d' un corpo senza cervello; spiegamenti pour épater le bourgeois; viene il dubbio che non lo cerchino. Esce una fotografia dalla "prigione del popolo". Terzo capitolo. Nella prima lettera, giovedì 29, il recluso ventila negoziati. No, esclamano i virtuosi: lo Stato non siede al tavolo dei terroristi assassini, e commettono una cosiddetta "ignorantia elenchi": vizio piuttosto diffuso, consiste nell' evadere dai termini della causa; "prouver autre chose que ce qui est question" (Arnauld e Nicole, Logique de Port-Royal, III.19.1). L' argomento varrebbe se, trattando, l' autorità abdicasse: ad esempio, quel telegramma 28 ottobre 1922 dal Quirinale a Benito Mussolini; ma le Brigate rosse non la riconoscono né chiedono riconoscimenti. Nel loro universo fantasmagorico l' unico rapporto possibile con le diaboliche sovrastrutture borghesi è guerra senza quartiere: avendo sequestrato un nemico importante, intendono scambiarlo con dei detenuti, uomini loro; altrimenti morrà. Dal punto di vista dello Stato, classica estorsione: può resistere o subirla, riservandosi il rendiconto; vince il più forte; sono partite tra ordinamenti incompatibili. Il giovane Cesare ne sbriga una, anno 75 a.C.: navigando verso Rodi, alla scuola del retore-grammatico Molone (rectius Apollonio), cade in mano ai pirati; la sua vita vale 50 talenti; li paga sull' unghia; riparte, arma una piccola flotta, insegue i rapitori, li cattura e impicca. A parte il supplizio, così agiscono gli Stati rispettabili, dove manchino alternative. Inutile dire quale sia l' auspicabile, irrompere nel covo. Se al Viminale sedesse Giolitti (s' era sempre tenuto gl' Interni), non vi penserebbe due volte. In spregio alle norme? Nossignori, nel codice penale esiste l' art. 54: fatti previsti come reato (a esempio, aprire le porte ai detenuti fuori dei casi legittimi) diventano leciti ("scriminati") ogniqualvolta l' autore vi sia "costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale d' un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile". Come minimo, i negoziati mangiano tempo, guadagno netto dove esistano organi efficienti. Qui non lo sono. Dura 55 giorni la bancarotta poliziesca. L' ex-oratoriano Fouché, ministro napoleonico, risolveva casi simili in poche ore. Siamo al quarto punto, orribile commedia. Moro penalista era scrittore nebuloso. L' uomo politico coltivava un lessico ermetico in frasi lunghe, sinuose, a taglio multiplo, sul filo del nonsense (le famose "convergenze parallele"). Nella "prigione del popolo" cambia stile. Sono chiarissime le 8 lettere edite, l' ultima all' allora presidente della Repubblica, 4 maggio, quando gli restano solo più 5 mattine. Sciolti i sottintesi, il discorso suona così: "Possibile che nessuno scovi la mia prigione?; allora riscattatemi; il mio sangue non giova a nessuno; lo espiereste". Non è più lui, rispondono i santoni: l' autentico Aldo Moro era uno statista; i verbi all' imperfetto mandano rintocchi funebri; e quanto più disperatamente ragiona, tanto meno l' ascoltano; lo seppelliscono vivo. Hieronymus Bosch ha dipinto tali maschere nella salita al Calvario. Mentre i Tartufi fingono compassione, dei rigoristi gliela negano: non piagnucoli come un povero diavolo qualunque; gli uomini al potere hanno privilegi e responsabilità. Massima romana, ma diversamente da Attilio Regolo, costoro fanno gli eroi sulla pelle altrui. Fioriscono vari teoremi. A esempio, deve morire perché sono morti i cinque: "le mort saisit le vif"; discorsi degni delle Erinni, spiriti infernali incombenti su Oreste prima che Atena l' addomestichi. «Il contrappasso non c' entra», direbbe la dea protoilluminista: «avevano un compito, difenderlo dalle aggressioni; non era comoda sinecura; sia colpa loro o dei superiori, non l' hanno adempiuto; riposino in pace; salvate lui piuttosto». Nella primavera italiana 1978 rombano retoriche funeree sorde all' intelligenza illuministica. Poi, articolo quinto, vengono i brigatisti. Il colpo in via Fani era una quaterna al lotto. Hanno l' occasione irripetibile: l' establishment svela miserie, infamie, stupidità; che colpo sarebbe dire al prigioniero «sei libero», gratis. Paolo VI li esorta nell' appello 21 aprile: "Restituite l'onorevole Aldo Moro; liberatelo semplicemente". Anche Sua Santità avalla la linea dura? Sarebbe un avallo incongruo e l' espertissimo curialista non commette gaffes simili. Se vuol persuadere i brigatisti, l' appello va letto così: sinora hanno tenuto lo Stato in scacco; non buttino via la vittoria. L' enorme prestigio acquisito con una mossa da signori benevoli vale più d' ogni riscatto. Dicono d' essere in guerra con gl' imperialismi: liberando Moro, scatenano pandemoni nei santuari del potere; l' atto omicida serve solo a chi, avendo giocato la carta mortuaria, sbiancherebbe vedendoselo davanti, altro che Lazzaro. Discorso molto persuasivo se i destinatari capissero. Che teste abbiano, lo dicono i 32 capitoli della "Risoluzione strategica" annessa al comunicato n. 4, 4 aprile, asfissiante logorrea sulla guerra civile antimperialista. Nessun dubbio sull' anamnesi: discendono dal chiericato marx-leninista, un filone eretico, onniscienti come ogni chierico; senonché l' infallibile dottrina non spiega come gestire Moro, né possono insistere nel sequestro; faute de mieux, l' ammazzano. Stupidità macabra. L' ultimo capitolo tocca l' attuale teatro italiano dell' assurdo. L' allora ministro degli Interni era irremovibile sulla linea ferma, uno dei due nella Dc (lo ricorda senza pentimenti: intervista al Corriere, Sette, 18 settembre). Cosa v'aspettereste? Che esca umilmente dal giro, e altrove succede. Qui no: l' enorme défaillance lo lancia alle stelle; nei 7 anni seguenti presiede il consiglio, poi la Camera alta, infine sale al Quirinale, eletto trionfalmente. Svanisce l' equivoco "compromesso storico": Spadolini, Craxi, ancora gabinetti democristiani, equilibrio instabile, finché il sistema consociativo implode, consumato dal malaffare (i processi sono effetto, non causa); e dal rimescolìo salta fuori l' affarista plutocrate, creatura della defunta consorteria. L' Italia riaffonda, stavolta sotto un regime personale la cui bancarotta politica appare prossima, ma la ronda seguiterà se non cambia qualcosa nei cromosomi.
Repubblica sabato 11.10.03
Il regista esplora i meandri dell' amicizia e dell' erotismo negli anni della contestazione
Bertolucci, il Sessantotto dedicato a chi non c' era
Tre ragazzi scoprono l' amore, mentre in strada scoppiano le prime molotov
di PAOLO D' AGOSTINI
L' ha fatto per sé e per chi era giovane nel ' 68, oppure per i ragazzi di oggi? Non importa tanto rispondere a questa domanda (ma l' autore vuole interessare la gioventù odierna, stimolarne la curiosità: e ci riuscirà, perché il tema universale è quello dell' essere giovanissimi), quanto dire che Bernardo Bertolucci ha fatto un film importante. Denso, profondo, poetico: come, così compattamente, non gli accadeva da un pezzo. I sognatori racconta il "prima" di ciò che ha portato a quel "dopo" le cui estreme conseguenze stanno dentro il film fratello Buongiorno, notte del regista fratello Marco Bellocchio che dal 4 settembre raccoglie allori in giro per l' Italia e il mondo. Neanche quest' accostamento - quello tra le prime molotov e le Brigate rosse - piace a Bertolucci. Ma non racconta né mostra, se non al minimo indispensabile, cortei né bandiere, slogan né sassaiole. Ha scelto, per questo suo prima della rivoluzione 39 anni dopo il film giovanile così intitolato, una chiave intimista, ossessivamente "chiusa" all' esterno (alla strada: lo slogan che alla fine gridano i manifestanti del Maggio sorgente è "dans la route") e claustrofobica. Torna in mente Ultimo tango? Non a torto: i due appartamenti si somigliano, ma non c' è ombra di cinica ricerca di rilancio dello scandalo di allora. Nella primavera parigina dell' anno che nessuno sapeva ancora destinato a diventare "il ' 68" si conoscono lo studente americano che più americano di provincia non si può Mathew, e la coppia di fratello e sorella parigini Theo e Isabelle. Li unisce la passione viscerale per il cinema, la frequentazione - primissime file, come si conviene a un cinéphile doc - della mitica Cinématèque diretta dal mitico Langlois. Che proprio sotto i loro occhi, e furono i prodromi del "Maggio", viene rimosso dall' incarico provocando un imponente schieramento di solidarietà da Godard a Carné. I due ragazzi borghesi, legati da un amore morboso ma anche da un' intelligenza vivida, una sensibilità speciale, un vitalismo incoercibile, coinvolgono lo yankee in una convivenza scioccante e rivelatrice. L' esplorazione dei meandri dell' amicizia e dell' erotismo farà di lui un' altra persona, spregiudicata e più matura. Ma, quando alle ultimissime battute la "strada" non potrà non richiamarli, sarà lui a capire subito, e non i due sofisticati intellettuali (e, ahinoi, quanti come loro), che le barricate e le bottiglie incendiarie non promettono nulla di buono, a sapere che il rifiuto dell' autoritarismo e la non violenza si fanno ottima compagnia.
Repubblica mercoledì 8.10.03
"Contro i revisionisti racconto il meglio del '68"
Il regista parla di "The Dreamers" che uscirà venerdì in 350 sale
compromessi Ideologia oggi è una parolaccia, riformismo da insulto è diventato il target da raggiungere
L'atmosfera Allora la politica si legava al sesso, al cinema, al rock'n'roll e ai primi spinelli
di Paolo D'Agostini
(già citato anche al Mercoledì)
ROMA - Si poteva coltivare un pregiudizio negativo su I sognatori, si poteva pensare a un film preoccupato soprattutto di rinnovare il sapore della provocazione e dello scandalo di Ultimo tango, una brutta copia, invece la nuova opera di Bertolucci è molto bella, densa, poetica. «E autonoma. Mi fa piacere di aver deluso questo pregiudizio. Non c'è niente di vicino se non il fascino che hanno per me gli interni delle case haussmaniane a Parigi. Lì come qui sono importanti: i muri fanno parte del racconto».
Il '68 del film è la scoperta del sesso e del cinema, della libertà nei comportamenti. Molto meno della politica.
«La politica accade fuori da loro, per le strade. In quelle poche uscite dalla claustrofobia sentiamo che qualcosa sta nascendo ed esploderà. Non potevo immaginare di fare un film sul '68 con le assemblee e gli slogan. A me interessava l'atmosfera che io sentii allora. La politica era una delle cose insieme a cinema, rock, sesso, le prime "canne". Nel mio '68 non c´era il predominio della politica».
È l'aspetto che è sopravvissuto meno, il resto ha lasciato il segno.
«Quando qualcuno dei protagonisti di allora deluso parla del fallimento del '68 si riferisce al sogno della rivoluzione. Mentre tutti questi revisionisti che vogliono buttare il '68 nell´immondizia non ricordano che tutto il mondo che viviamo oggi è stato immaginato nel '68. Dove è cominciata la trasformazione totale dei rapporti tra le persone? Io ero già adulto e ricordo bene un'Italia di piccole autorità, dovunque c'era qualcuno che ti diceva "silenzio, torna a posto"».
Un messaggio da trasmettere ai ragazzi di oggi, a chi non c'era?
«Assolutamente sì. Proprio perché dal momento in cui è caduto il Muro di Berlino si è cominciato a disprezzare la parola ideologia, c'è stata anche la caduta di interesse per la politica. Se la politica viene privata dell'ideologia diventa una disciplina per tecnici, e interessa molto meno. Oggi ideologia è una parolaccia. Mentre quello che era l'insulto del '68 è diventato il target da raggiungere, il riformismo. Madonna mia, quanti compromessi».
Come in Prima della rivoluzione anche qui si racconta una vigilia. Un "prima" il cui "dopo" ha condotto a ciò che racconta Bellocchio.
«Non mi sembra giusta l'equazione molotov-terrorismo. Non identificherei la molotov del finale del film con le Br. Marco non lo dice ma è tutto ancora terribilmente oscuro quello che è accaduto in quei giorni del rapimento, del processo, dell'esecuzione di Moro, io sento tremenda la presenza di servizi segreti. Qualcuno tra i brigatisti ha preso una strada molto losca. Io ero a Valle Giulia. Abitavo al Babuino, guardo giù e vedo il corteo avviato ad Architettura, scendo e mi unisco. Ho visto bruciare i pullman della Celere, ho visto i "cari studenti vi odio cari studenti" di Pier Paolo, ho preso una sassata da un poliziotto. Sarebbe come dire che non si può usare il fornello a gas perché è stato usato per l'Olocausto. Quelli che di più demonizzano il '68 lo fanno per ragioni strumentali legate al presente politico».
Quale dei suoi film più ha espresso lo spirito di quel momento?
«Credo proprio Prima della rivoluzione, che è del ´64. Per questo io nel '68, avendo vissuto quel tipo di emozione qualche anno prima, non potevo partecipare come hanno fatto amici e colleghi, quel tipo di estremismo era già consumato. Questo mi ha portato a momenti di tensione con Godard e con Bellocchio che erano procinesi militanti - La chinoise, La Cina è vicina - ed ero così irritato dal loro anticomunismo da sinistra che mi sono iscritto al Pci».
Quanto è significativo che alla fine quello dei tre personaggi che fa proprio il più autentico spirito del '68 sia proprio l'americano, in partenza è il più distante ed estraneo?
«Perché la sua non violenza era quella degli hippies ed era tipicamente americana. I loro falò dove bruciare le cartoline di richiamo per il Vietnam. Sorprende perché oggi gli americani appena possono dichiarano guerra a un paese, i francesi invece si tirano fuori. Io credo che questo sia anche un film sul presente. Tenevo molto che questi tre ragazzi, gli attori, restassero loro stessi. Un giovanissimo giornalista mi ha detto: questo è un film su di noi, io con Internet sto sempre in casa, come vorrei anch'io vivere quelle emozioni. Mi piace se i giovani lo sentono così».
Quindi il film soddisfa il desiderio che a varie riprese aveva espresso di tornare al presente: a partire dal suo giudizio sull'Italia politica di oggi, e sui movimenti di dissenso del presente?
«Io avevo molto desiderato di chiudere Novecento con un terzo atto sull'Italia dalla fine della guerra alla fine del secolo. Ma mi sembrava un falso. Novecento era nato in un momento speciale, di tensione ideale, che sarebbe stato stroncato dalla morte di Berlinguer e dal delitto Moro. Ho deciso di lasciar perdere. Quando ho letto questo libro di Gilbert Adair mi sembrava che contenesse una visione poetica così affascinante di quegli anni, quasi a riempire in me un buco lasciato dalla rinuncia a Novecento. Ho una specie di frenesia di fare un film sul presente, anche se il prossimo sarà quello su Gesualdo, finalmente. Ma anche lì giocherò molto sul presente-passato. C'è Stravinsky nel '51 a Napoli con sua moglie Vera che va a visitare i luoghi di Gesualdo, la casa di Napoli e il castello a Venosa. Per lui ascoltare Gesualdo nel contesto della musica del '500 è come, dice, vedere Picasso sulle mura della Sistina. Più sono attratto da storie che avvengono tanto tempo fa e più sento che devo arrivare a quel tanto tempo fa attraverso un cordone ombelicale legato all'oggi. Mi sono completamente arreso al fatto che l'unico tempo del cinema è il presente, perché la macchina filma il presente anche se davanti cè limperatore della Cina. Ti trovi davanti il presente di quei visi, quei corpi, quel giorno. Il cinema si coniuga solo al presente».
Repubblica sabato 11.10.03
L' orribile commedia dell' affare Moro
FRANCO CORDERO
L' affare Moro, evocato da "Buongiorno, notte", ha riacceso vecchie dispute, placate le quali, mi permetterei di fissare qualche punto. Cominciando da uno incontrovertibile: la colpa dello Stato nell' avvenimento che insanguina via Fani, angolo Stresa, giovedì mattina 16 marzo 1978, ore 9.15, quando nove brigatisti l' aspettano al varco: eccolo sulla solita 130 blu, seguito dall' Alfetta bianca; una 128 le supera, converge a destra, frena; gli otto appostati sparano sulle vetture imbottigliate ammazzando l' intera scorta con ragguardevole precisione, visto che lui esce incolume; se ne impadroniscono; lo portano via in barba alle polizie che accorrono inutilmente sul luogo, anziché sciamare sui possibili percorsi della fuga. Gli uccisi erano bersaglio d' un tiro a segno, sagome inerti. Quanto al rapito, sarebbe stato meno pericoloso andare in taxi o sull' autobus. Le Brigate rosse appartengono al bestiario italiano: uccidono da qualche anno; Aldo Moro costituiva la massima preda, fautore d' intese larghe fino alla graduale inclusione del Pci nell' area governativa, quindi odiato dagli estremisti hinc inde, 10 anni prima che cada il Muro; e non dimentichiamolo, presidente in pectore della Repubblica. Insomma, era molto esposto; bisognava difenderlo; quanto male vi provvedessero i responsabili, consta dall' assurda strage. Altrettanto ovvia la seconda conclusione: non l' hanno protetto; sta in mano ai sequestratori; lo salvino. L' indomani nasce un comitato interministeriale, le cui 7 riunioni pesano meno d' una giaculatoria. Nel Viminale un' équipe presieduta dal ministro tiene riunioni quotidiane, poi trisettimanali, senza verbali né appunti: anziché agire, gli apparati inscenano le frenesie d' un corpo senza cervello; spiegamenti pour épater le bourgeois; viene il dubbio che non lo cerchino. Esce una fotografia dalla "prigione del popolo". Terzo capitolo. Nella prima lettera, giovedì 29, il recluso ventila negoziati. No, esclamano i virtuosi: lo Stato non siede al tavolo dei terroristi assassini, e commettono una cosiddetta "ignorantia elenchi": vizio piuttosto diffuso, consiste nell' evadere dai termini della causa; "prouver autre chose que ce qui est question" (Arnauld e Nicole, Logique de Port-Royal, III.19.1). L' argomento varrebbe se, trattando, l' autorità abdicasse: ad esempio, quel telegramma 28 ottobre 1922 dal Quirinale a Benito Mussolini; ma le Brigate rosse non la riconoscono né chiedono riconoscimenti. Nel loro universo fantasmagorico l' unico rapporto possibile con le diaboliche sovrastrutture borghesi è guerra senza quartiere: avendo sequestrato un nemico importante, intendono scambiarlo con dei detenuti, uomini loro; altrimenti morrà. Dal punto di vista dello Stato, classica estorsione: può resistere o subirla, riservandosi il rendiconto; vince il più forte; sono partite tra ordinamenti incompatibili. Il giovane Cesare ne sbriga una, anno 75 a.C.: navigando verso Rodi, alla scuola del retore-grammatico Molone (rectius Apollonio), cade in mano ai pirati; la sua vita vale 50 talenti; li paga sull' unghia; riparte, arma una piccola flotta, insegue i rapitori, li cattura e impicca. A parte il supplizio, così agiscono gli Stati rispettabili, dove manchino alternative. Inutile dire quale sia l' auspicabile, irrompere nel covo. Se al Viminale sedesse Giolitti (s' era sempre tenuto gl' Interni), non vi penserebbe due volte. In spregio alle norme? Nossignori, nel codice penale esiste l' art. 54: fatti previsti come reato (a esempio, aprire le porte ai detenuti fuori dei casi legittimi) diventano leciti ("scriminati") ogniqualvolta l' autore vi sia "costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale d' un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile". Come minimo, i negoziati mangiano tempo, guadagno netto dove esistano organi efficienti. Qui non lo sono. Dura 55 giorni la bancarotta poliziesca. L' ex-oratoriano Fouché, ministro napoleonico, risolveva casi simili in poche ore. Siamo al quarto punto, orribile commedia. Moro penalista era scrittore nebuloso. L' uomo politico coltivava un lessico ermetico in frasi lunghe, sinuose, a taglio multiplo, sul filo del nonsense (le famose "convergenze parallele"). Nella "prigione del popolo" cambia stile. Sono chiarissime le 8 lettere edite, l' ultima all' allora presidente della Repubblica, 4 maggio, quando gli restano solo più 5 mattine. Sciolti i sottintesi, il discorso suona così: "Possibile che nessuno scovi la mia prigione?; allora riscattatemi; il mio sangue non giova a nessuno; lo espiereste". Non è più lui, rispondono i santoni: l' autentico Aldo Moro era uno statista; i verbi all' imperfetto mandano rintocchi funebri; e quanto più disperatamente ragiona, tanto meno l' ascoltano; lo seppelliscono vivo. Hieronymus Bosch ha dipinto tali maschere nella salita al Calvario. Mentre i Tartufi fingono compassione, dei rigoristi gliela negano: non piagnucoli come un povero diavolo qualunque; gli uomini al potere hanno privilegi e responsabilità. Massima romana, ma diversamente da Attilio Regolo, costoro fanno gli eroi sulla pelle altrui. Fioriscono vari teoremi. A esempio, deve morire perché sono morti i cinque: "le mort saisit le vif"; discorsi degni delle Erinni, spiriti infernali incombenti su Oreste prima che Atena l' addomestichi. «Il contrappasso non c' entra», direbbe la dea protoilluminista: «avevano un compito, difenderlo dalle aggressioni; non era comoda sinecura; sia colpa loro o dei superiori, non l' hanno adempiuto; riposino in pace; salvate lui piuttosto». Nella primavera italiana 1978 rombano retoriche funeree sorde all' intelligenza illuministica. Poi, articolo quinto, vengono i brigatisti. Il colpo in via Fani era una quaterna al lotto. Hanno l' occasione irripetibile: l' establishment svela miserie, infamie, stupidità; che colpo sarebbe dire al prigioniero «sei libero», gratis. Paolo VI li esorta nell' appello 21 aprile: "Restituite l'onorevole Aldo Moro; liberatelo semplicemente". Anche Sua Santità avalla la linea dura? Sarebbe un avallo incongruo e l' espertissimo curialista non commette gaffes simili. Se vuol persuadere i brigatisti, l' appello va letto così: sinora hanno tenuto lo Stato in scacco; non buttino via la vittoria. L' enorme prestigio acquisito con una mossa da signori benevoli vale più d' ogni riscatto. Dicono d' essere in guerra con gl' imperialismi: liberando Moro, scatenano pandemoni nei santuari del potere; l' atto omicida serve solo a chi, avendo giocato la carta mortuaria, sbiancherebbe vedendoselo davanti, altro che Lazzaro. Discorso molto persuasivo se i destinatari capissero. Che teste abbiano, lo dicono i 32 capitoli della "Risoluzione strategica" annessa al comunicato n. 4, 4 aprile, asfissiante logorrea sulla guerra civile antimperialista. Nessun dubbio sull' anamnesi: discendono dal chiericato marx-leninista, un filone eretico, onniscienti come ogni chierico; senonché l' infallibile dottrina non spiega come gestire Moro, né possono insistere nel sequestro; faute de mieux, l' ammazzano. Stupidità macabra. L' ultimo capitolo tocca l' attuale teatro italiano dell' assurdo. L' allora ministro degli Interni era irremovibile sulla linea ferma, uno dei due nella Dc (lo ricorda senza pentimenti: intervista al Corriere, Sette, 18 settembre). Cosa v'aspettereste? Che esca umilmente dal giro, e altrove succede. Qui no: l' enorme défaillance lo lancia alle stelle; nei 7 anni seguenti presiede il consiglio, poi la Camera alta, infine sale al Quirinale, eletto trionfalmente. Svanisce l' equivoco "compromesso storico": Spadolini, Craxi, ancora gabinetti democristiani, equilibrio instabile, finché il sistema consociativo implode, consumato dal malaffare (i processi sono effetto, non causa); e dal rimescolìo salta fuori l' affarista plutocrate, creatura della defunta consorteria. L' Italia riaffonda, stavolta sotto un regime personale la cui bancarotta politica appare prossima, ma la ronda seguiterà se non cambia qualcosa nei cromosomi.
Repubblica sabato 11.10.03
Il regista esplora i meandri dell' amicizia e dell' erotismo negli anni della contestazione
Bertolucci, il Sessantotto dedicato a chi non c' era
Tre ragazzi scoprono l' amore, mentre in strada scoppiano le prime molotov
di PAOLO D' AGOSTINI
L' ha fatto per sé e per chi era giovane nel ' 68, oppure per i ragazzi di oggi? Non importa tanto rispondere a questa domanda (ma l' autore vuole interessare la gioventù odierna, stimolarne la curiosità: e ci riuscirà, perché il tema universale è quello dell' essere giovanissimi), quanto dire che Bernardo Bertolucci ha fatto un film importante. Denso, profondo, poetico: come, così compattamente, non gli accadeva da un pezzo. I sognatori racconta il "prima" di ciò che ha portato a quel "dopo" le cui estreme conseguenze stanno dentro il film fratello Buongiorno, notte del regista fratello Marco Bellocchio che dal 4 settembre raccoglie allori in giro per l' Italia e il mondo. Neanche quest' accostamento - quello tra le prime molotov e le Brigate rosse - piace a Bertolucci. Ma non racconta né mostra, se non al minimo indispensabile, cortei né bandiere, slogan né sassaiole. Ha scelto, per questo suo prima della rivoluzione 39 anni dopo il film giovanile così intitolato, una chiave intimista, ossessivamente "chiusa" all' esterno (alla strada: lo slogan che alla fine gridano i manifestanti del Maggio sorgente è "dans la route") e claustrofobica. Torna in mente Ultimo tango? Non a torto: i due appartamenti si somigliano, ma non c' è ombra di cinica ricerca di rilancio dello scandalo di allora. Nella primavera parigina dell' anno che nessuno sapeva ancora destinato a diventare "il ' 68" si conoscono lo studente americano che più americano di provincia non si può Mathew, e la coppia di fratello e sorella parigini Theo e Isabelle. Li unisce la passione viscerale per il cinema, la frequentazione - primissime file, come si conviene a un cinéphile doc - della mitica Cinématèque diretta dal mitico Langlois. Che proprio sotto i loro occhi, e furono i prodromi del "Maggio", viene rimosso dall' incarico provocando un imponente schieramento di solidarietà da Godard a Carné. I due ragazzi borghesi, legati da un amore morboso ma anche da un' intelligenza vivida, una sensibilità speciale, un vitalismo incoercibile, coinvolgono lo yankee in una convivenza scioccante e rivelatrice. L' esplorazione dei meandri dell' amicizia e dell' erotismo farà di lui un' altra persona, spregiudicata e più matura. Ma, quando alle ultimissime battute la "strada" non potrà non richiamarli, sarà lui a capire subito, e non i due sofisticati intellettuali (e, ahinoi, quanti come loro), che le barricate e le bottiglie incendiarie non promettono nulla di buono, a sapere che il rifiuto dell' autoritarismo e la non violenza si fanno ottima compagnia.
Repubblica mercoledì 8.10.03
"Contro i revisionisti racconto il meglio del '68"
Il regista parla di "The Dreamers" che uscirà venerdì in 350 sale
compromessi Ideologia oggi è una parolaccia, riformismo da insulto è diventato il target da raggiungere
L'atmosfera Allora la politica si legava al sesso, al cinema, al rock'n'roll e ai primi spinelli
di Paolo D'Agostini
(già citato anche al Mercoledì)
ROMA - Si poteva coltivare un pregiudizio negativo su I sognatori, si poteva pensare a un film preoccupato soprattutto di rinnovare il sapore della provocazione e dello scandalo di Ultimo tango, una brutta copia, invece la nuova opera di Bertolucci è molto bella, densa, poetica. «E autonoma. Mi fa piacere di aver deluso questo pregiudizio. Non c'è niente di vicino se non il fascino che hanno per me gli interni delle case haussmaniane a Parigi. Lì come qui sono importanti: i muri fanno parte del racconto».
Il '68 del film è la scoperta del sesso e del cinema, della libertà nei comportamenti. Molto meno della politica.
«La politica accade fuori da loro, per le strade. In quelle poche uscite dalla claustrofobia sentiamo che qualcosa sta nascendo ed esploderà. Non potevo immaginare di fare un film sul '68 con le assemblee e gli slogan. A me interessava l'atmosfera che io sentii allora. La politica era una delle cose insieme a cinema, rock, sesso, le prime "canne". Nel mio '68 non c´era il predominio della politica».
È l'aspetto che è sopravvissuto meno, il resto ha lasciato il segno.
«Quando qualcuno dei protagonisti di allora deluso parla del fallimento del '68 si riferisce al sogno della rivoluzione. Mentre tutti questi revisionisti che vogliono buttare il '68 nell´immondizia non ricordano che tutto il mondo che viviamo oggi è stato immaginato nel '68. Dove è cominciata la trasformazione totale dei rapporti tra le persone? Io ero già adulto e ricordo bene un'Italia di piccole autorità, dovunque c'era qualcuno che ti diceva "silenzio, torna a posto"».
Un messaggio da trasmettere ai ragazzi di oggi, a chi non c'era?
«Assolutamente sì. Proprio perché dal momento in cui è caduto il Muro di Berlino si è cominciato a disprezzare la parola ideologia, c'è stata anche la caduta di interesse per la politica. Se la politica viene privata dell'ideologia diventa una disciplina per tecnici, e interessa molto meno. Oggi ideologia è una parolaccia. Mentre quello che era l'insulto del '68 è diventato il target da raggiungere, il riformismo. Madonna mia, quanti compromessi».
Come in Prima della rivoluzione anche qui si racconta una vigilia. Un "prima" il cui "dopo" ha condotto a ciò che racconta Bellocchio.
«Non mi sembra giusta l'equazione molotov-terrorismo. Non identificherei la molotov del finale del film con le Br. Marco non lo dice ma è tutto ancora terribilmente oscuro quello che è accaduto in quei giorni del rapimento, del processo, dell'esecuzione di Moro, io sento tremenda la presenza di servizi segreti. Qualcuno tra i brigatisti ha preso una strada molto losca. Io ero a Valle Giulia. Abitavo al Babuino, guardo giù e vedo il corteo avviato ad Architettura, scendo e mi unisco. Ho visto bruciare i pullman della Celere, ho visto i "cari studenti vi odio cari studenti" di Pier Paolo, ho preso una sassata da un poliziotto. Sarebbe come dire che non si può usare il fornello a gas perché è stato usato per l'Olocausto. Quelli che di più demonizzano il '68 lo fanno per ragioni strumentali legate al presente politico».
Quale dei suoi film più ha espresso lo spirito di quel momento?
«Credo proprio Prima della rivoluzione, che è del ´64. Per questo io nel '68, avendo vissuto quel tipo di emozione qualche anno prima, non potevo partecipare come hanno fatto amici e colleghi, quel tipo di estremismo era già consumato. Questo mi ha portato a momenti di tensione con Godard e con Bellocchio che erano procinesi militanti - La chinoise, La Cina è vicina - ed ero così irritato dal loro anticomunismo da sinistra che mi sono iscritto al Pci».
Quanto è significativo che alla fine quello dei tre personaggi che fa proprio il più autentico spirito del '68 sia proprio l'americano, in partenza è il più distante ed estraneo?
«Perché la sua non violenza era quella degli hippies ed era tipicamente americana. I loro falò dove bruciare le cartoline di richiamo per il Vietnam. Sorprende perché oggi gli americani appena possono dichiarano guerra a un paese, i francesi invece si tirano fuori. Io credo che questo sia anche un film sul presente. Tenevo molto che questi tre ragazzi, gli attori, restassero loro stessi. Un giovanissimo giornalista mi ha detto: questo è un film su di noi, io con Internet sto sempre in casa, come vorrei anch'io vivere quelle emozioni. Mi piace se i giovani lo sentono così».
Quindi il film soddisfa il desiderio che a varie riprese aveva espresso di tornare al presente: a partire dal suo giudizio sull'Italia politica di oggi, e sui movimenti di dissenso del presente?
«Io avevo molto desiderato di chiudere Novecento con un terzo atto sull'Italia dalla fine della guerra alla fine del secolo. Ma mi sembrava un falso. Novecento era nato in un momento speciale, di tensione ideale, che sarebbe stato stroncato dalla morte di Berlinguer e dal delitto Moro. Ho deciso di lasciar perdere. Quando ho letto questo libro di Gilbert Adair mi sembrava che contenesse una visione poetica così affascinante di quegli anni, quasi a riempire in me un buco lasciato dalla rinuncia a Novecento. Ho una specie di frenesia di fare un film sul presente, anche se il prossimo sarà quello su Gesualdo, finalmente. Ma anche lì giocherò molto sul presente-passato. C'è Stravinsky nel '51 a Napoli con sua moglie Vera che va a visitare i luoghi di Gesualdo, la casa di Napoli e il castello a Venosa. Per lui ascoltare Gesualdo nel contesto della musica del '500 è come, dice, vedere Picasso sulle mura della Sistina. Più sono attratto da storie che avvengono tanto tempo fa e più sento che devo arrivare a quel tanto tempo fa attraverso un cordone ombelicale legato all'oggi. Mi sono completamente arreso al fatto che l'unico tempo del cinema è il presente, perché la macchina filma il presente anche se davanti cè limperatore della Cina. Ti trovi davanti il presente di quei visi, quei corpi, quel giorno. Il cinema si coniuga solo al presente».
"psicoterapia" di guerra
Corriere della Sera 14.10.03
AL FRONTE
Il Pentagono arruola psicologi per curare il male oscuro dei soldati
Dopo 13 casi di suicidio, allarme per la stanchezza delle truppe in prima linea
(...)
C'è il fuoco nemico. Quello «amico» di chi uccide per errore un compagno in combattimento. E quello «molto amico» di chi decide di farla finita. E' la piccola storia di Corey Small, 20 anni, sposato, con una figlia di due. L'ha raccontata Usa Today: il 3 luglio in una base di Bagdad il soldato Small si è sparato un colpo alla testa dopo aver chiamato casa, davanti ai commilitoni in coda al telefono. Come lui, secondo i dati diffusi dallo Stato Maggiore della Difesa, negli ultimi sette mesi almeno 10 soldati e tre marines si sono tolti la vita in Iraq. Altri dodici decessi «sospetti» sono sotto inchiesta. Su base annua corrisponde a 17 suicidi ogni 100 mila militari. Di solito nelle forze armate (come nella popolazione civile) il tasso è di 10-13.
Nel 2002 è stato di otto. Quest'anno il doppio. L'Iraq peggio dell'Afghanistan. Dati che hanno indotto il Pentagono a inviare un team di dottori per indagare sul morale delle truppe. Un contingente di psicologi, psichiatri, assistenti sociali ha fatto parlare a ruota libera un campione di 700 soldati.
(...)
AL FRONTE
Il Pentagono arruola psicologi per curare il male oscuro dei soldati
Dopo 13 casi di suicidio, allarme per la stanchezza delle truppe in prima linea
(...)
C'è il fuoco nemico. Quello «amico» di chi uccide per errore un compagno in combattimento. E quello «molto amico» di chi decide di farla finita. E' la piccola storia di Corey Small, 20 anni, sposato, con una figlia di due. L'ha raccontata Usa Today: il 3 luglio in una base di Bagdad il soldato Small si è sparato un colpo alla testa dopo aver chiamato casa, davanti ai commilitoni in coda al telefono. Come lui, secondo i dati diffusi dallo Stato Maggiore della Difesa, negli ultimi sette mesi almeno 10 soldati e tre marines si sono tolti la vita in Iraq. Altri dodici decessi «sospetti» sono sotto inchiesta. Su base annua corrisponde a 17 suicidi ogni 100 mila militari. Di solito nelle forze armate (come nella popolazione civile) il tasso è di 10-13.
Nel 2002 è stato di otto. Quest'anno il doppio. L'Iraq peggio dell'Afghanistan. Dati che hanno indotto il Pentagono a inviare un team di dottori per indagare sul morale delle truppe. Un contingente di psicologi, psichiatri, assistenti sociali ha fatto parlare a ruota libera un campione di 700 soldati.
(...)
grandezza della psicologia anglosassone:
no all'innatismo, in un mese tutti ottimisti!
Gazzetta del Mezzogiorno 14.10.03
Lo psicologo inglese Richard Wiseman: bisogna alimentare un “circolo virtuoso” dell'ottimismo
Fortunati non si nasce, si diventa
Una scuola insegna a interpretare positivamente gli eventi
di Luisella Seveso
Fortunati si diventa: nessuno nasce con la camicia, ma si comporta in modo tale da “attirare” gli eventi positivi. Cosa aiuta? L'intuito, la serenità, la socievolezza e anche un bel sorriso. Lo sostiene (e lo motiva) un autorevole psicologo inglese, Richard Wiseman, dell'Università dell'Hertfordshire. Autore di importanti ricerche in campo psicologico (solitamente pubblicate da riviste del calibro di “Nature” o “Science”), Wiseman non è nuovo a esperimenti originali. Ha, tra l'altro, realizzato un “laboratorio della risata” on line , raccogliendo tra i navigatori oltre 100.000 barzellette per scoprire l'essenza dell'umorismo. Insieme con un altro grande divulgatore, Simon Singh, ha scritto e portato in scena uno spettacolo a metà tra scienza e cabaret: «Il teatro della Scienza». In questi anni Wiseman si è fatto inoltre promotore di un curioso esperimento scientifico condotto con il suo staff su oltre un migliaio di «sfortunati Paperini» e «fortunatissimi Gastoni» (nella foto gli straordinari personaggi Disney) . L'esperimento si è tradotto in un saggio di grande successo: «Fattore fortuna» (Sonzogno). Wiseman svela quelli che lui considera i quattro princìpi per imparare a essere fortunati (cogliere le opportunità offerte dal caso; seguire l'istinto; essere ottimisti; trasformare la sfortuna in fortuna). Un vero e proprio corso con esercizi, questionari, schemi e verifiche. Provare per credere. – Come è nata, dottor Wiseman, questa “scuola di fortuna”? «È successo che mi sono accorto che in tutti i colloqui che facevo emergeva spesso il fattore fortuna, al quale le persone davano un gran peso. Al contrario né la psicologia né la scienza gli attribuivano invece qualche importanza. Ho deciso allora di indagare». – Perché sostiene che non si nasce fortunati? «Ho iniziato questa ricerca perché volevo far piazza pulita di un'idea molto diffusa tra la gente: che la fortuna sia un fatto genetico e che non si possa far niente per modificare questo stato. Invece con un po' di impegno si può fare moltissimo». – Che significa «trasformare la sfortuna in fortuna»? «Le persone fortunate, quando parlano della propria vita, sostengono di non aver mai vissuto eventi fortemente negativi. Indagando ci si accorge invece che anche loro ne hanno avuti, ma che hanno saputo tradurli in qualcosa di positivo». – L'ottimismo è fondamentale, evidentemente, ma per un pessimista cambiare è molto difficile. «Vero. Ecco perché, come dico nel libro, ci vuole almeno un mese per ottenere i primi risultati. La cosa importante però è che il cambiamento si autoalimenta, l'importante è fare un primo sforzo. Basta in effetti cercare di vedere con più ottimismo anche una piccola parte della propria vita, e le cose lentamente cambiano. L'ho verificato nella mia “Luck school”: un piccolo lento cambiamento alimenterà un circolo virtuoso dell'ottimismo».
Lo psicologo inglese Richard Wiseman: bisogna alimentare un “circolo virtuoso” dell'ottimismo
Fortunati non si nasce, si diventa
Una scuola insegna a interpretare positivamente gli eventi
di Luisella Seveso
Fortunati si diventa: nessuno nasce con la camicia, ma si comporta in modo tale da “attirare” gli eventi positivi. Cosa aiuta? L'intuito, la serenità, la socievolezza e anche un bel sorriso. Lo sostiene (e lo motiva) un autorevole psicologo inglese, Richard Wiseman, dell'Università dell'Hertfordshire. Autore di importanti ricerche in campo psicologico (solitamente pubblicate da riviste del calibro di “Nature” o “Science”), Wiseman non è nuovo a esperimenti originali. Ha, tra l'altro, realizzato un “laboratorio della risata” on line , raccogliendo tra i navigatori oltre 100.000 barzellette per scoprire l'essenza dell'umorismo. Insieme con un altro grande divulgatore, Simon Singh, ha scritto e portato in scena uno spettacolo a metà tra scienza e cabaret: «Il teatro della Scienza». In questi anni Wiseman si è fatto inoltre promotore di un curioso esperimento scientifico condotto con il suo staff su oltre un migliaio di «sfortunati Paperini» e «fortunatissimi Gastoni» (nella foto gli straordinari personaggi Disney) . L'esperimento si è tradotto in un saggio di grande successo: «Fattore fortuna» (Sonzogno). Wiseman svela quelli che lui considera i quattro princìpi per imparare a essere fortunati (cogliere le opportunità offerte dal caso; seguire l'istinto; essere ottimisti; trasformare la sfortuna in fortuna). Un vero e proprio corso con esercizi, questionari, schemi e verifiche. Provare per credere. – Come è nata, dottor Wiseman, questa “scuola di fortuna”? «È successo che mi sono accorto che in tutti i colloqui che facevo emergeva spesso il fattore fortuna, al quale le persone davano un gran peso. Al contrario né la psicologia né la scienza gli attribuivano invece qualche importanza. Ho deciso allora di indagare». – Perché sostiene che non si nasce fortunati? «Ho iniziato questa ricerca perché volevo far piazza pulita di un'idea molto diffusa tra la gente: che la fortuna sia un fatto genetico e che non si possa far niente per modificare questo stato. Invece con un po' di impegno si può fare moltissimo». – Che significa «trasformare la sfortuna in fortuna»? «Le persone fortunate, quando parlano della propria vita, sostengono di non aver mai vissuto eventi fortemente negativi. Indagando ci si accorge invece che anche loro ne hanno avuti, ma che hanno saputo tradurli in qualcosa di positivo». – L'ottimismo è fondamentale, evidentemente, ma per un pessimista cambiare è molto difficile. «Vero. Ecco perché, come dico nel libro, ci vuole almeno un mese per ottenere i primi risultati. La cosa importante però è che il cambiamento si autoalimenta, l'importante è fare un primo sforzo. Basta in effetti cercare di vedere con più ottimismo anche una piccola parte della propria vita, e le cose lentamente cambiano. L'ho verificato nella mia “Luck school”: un piccolo lento cambiamento alimenterà un circolo virtuoso dell'ottimismo».
Ernesto De Martino
Il Mattino di Napoli 14.10.03
CICLO DI INCONTRI A MATERA E POTENZA
De Martino,
le apocalissi a Mezzogiorno
di Corrado Ocone
A cinquant’anni esatti dalla missione di Ernesto De Martino (1908-1965) nelle terre di Lucania, l’Università della Basilicata ha avuto la splendida idea di ricordare il grande antropologo con una serie di conferenze che si si svolgeranno fino al 7 novembre fra Matera e Potenza (con Massimo Cacciari, Ernesto Galli Della Loggia, Antonino Buttitta e Giovanni Jervis). Il titolo del ciclo, «Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche», riproduce fedelmente quello di un saggio che De Martino pubblicò nel 1964 su «Nuovi argomenti». È certamente un titolo pregnante, che testimonia una precisa scelta prospettica da parte degli organizzatori. Tanto più necessaria nel caso di una personalità poliedrica e non facilmente riducibile quale è stata quella dello studioso napoletano.
Al tema dell’apocalissi, cioè dell’attesa di un cambiamento radicale del mondo, De Martino lavorò nella fase più matura della sua vita di pensatore, quella che comincia nel 1959, l’anno in cui diventò professore di ruolo di Storia delle religioni nell’Università di Cagliari. È una tematica particolarmente attuale anche perché mette in gioco il rapporto fra la civiltà occidentale e le culture altre. È essa che permette a De Martino di elaborare la prospettiva dell’«etnocentrismo critico», che, con i dovuti accorgimenti, è sicuramente valida ancora oggi. Essa consiste in un modo di guardare la realtà che evita sia l’etnocentrismo classico di chi ritiene che i valori della nostra cultura siano da considerarsi «superiori» in assoluto e vadano senz’altro imposti alle altre civiltà, sia il relativismo di chi ritiene che ogni civiltà abbia valore in sé e vada rispettata e non giudicata con parametri di valore suoi non propri. Per de Martino è necessario certamente, da una parte, che la civiltà occidentale si storicizzi e faccia costantemente autocritica, ma anche, dall’altra, che essa non rinunci a denunciare le culture che contraddicano palesemente quei valori umanistici e di tolleranza che sono iscritti nel suo Dna.
De Martino, come ha messo in evidenza magistralmente Giuseppe Galasso, aveva subito profondamente, da giovane, attraverso Adolfo Omodeo, l’influsso crociano. Egli tuttavia, troppo curioso del mondo quale era, non si pose come epigono o ripetitore. Con la sua trasversalità di interessi, anche metodologici e disciplinari, De Martino andò anche oltre l’immagine crociana del «discepolo non inerte». Prese semplicemente altre strade. E discusse da pari a pari col Maestro, che, ormai vecchissimo, cominciò a dubitare, grazie anche all’influsso del giovane allievo, della saldezza e universalità delle sue categorie. Il ragionamento di De Martino era suppergiù questo: le categorie individuate da Croce, lungi dall’essere delle strutture universalmente umane, sono storicamente condizionate e determinate. E, prima dell’ambito razionale, c’è il campo prelogico della vita vissuta. In questa dimensione, l’umanità ha vissuto per lungo tempo, agli inizi della sua avventura, e vive oggi ancora in molte civiltà non occidentali. Non solo: la stessa nostra civiltà conserva tracce di «primitivismo», che vanno studiate e capite se si vuole afferrare veramente l’umano.
Il Sud, da questo punto di vista, offriva a De Martino un privilegiato terreno di indagine. In esso persistono vecchie tradizioni magico-religiose, di origine probabilmente pagana, che il cattolicesimo non ha saputo superare e ha dovuto, in qualche modo, integrare. Utilizzando strumenti di documentazione e analisi di tipo moderno, De Martino compì, negli anni Cinquanta, con una équipe di studiosi di varie discipline, tre missioni scientifiche nelle terre del Sud: una nel Salento, per cercare di capire il tarantismo, due in Lucania per studiare il complesso mitico-rituale delle fascinazione e le persistenze del pianto funebre. Il documentario «Nei giorni e nella storia», realizzato dalla Rai e presentato ieri pomeriggio all’Università di Matera, dà testimonianza proprio degli «itinerari lucani» dell’antropologo.
CICLO DI INCONTRI A MATERA E POTENZA
De Martino,
le apocalissi a Mezzogiorno
di Corrado Ocone
A cinquant’anni esatti dalla missione di Ernesto De Martino (1908-1965) nelle terre di Lucania, l’Università della Basilicata ha avuto la splendida idea di ricordare il grande antropologo con una serie di conferenze che si si svolgeranno fino al 7 novembre fra Matera e Potenza (con Massimo Cacciari, Ernesto Galli Della Loggia, Antonino Buttitta e Giovanni Jervis). Il titolo del ciclo, «Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche», riproduce fedelmente quello di un saggio che De Martino pubblicò nel 1964 su «Nuovi argomenti». È certamente un titolo pregnante, che testimonia una precisa scelta prospettica da parte degli organizzatori. Tanto più necessaria nel caso di una personalità poliedrica e non facilmente riducibile quale è stata quella dello studioso napoletano.
Al tema dell’apocalissi, cioè dell’attesa di un cambiamento radicale del mondo, De Martino lavorò nella fase più matura della sua vita di pensatore, quella che comincia nel 1959, l’anno in cui diventò professore di ruolo di Storia delle religioni nell’Università di Cagliari. È una tematica particolarmente attuale anche perché mette in gioco il rapporto fra la civiltà occidentale e le culture altre. È essa che permette a De Martino di elaborare la prospettiva dell’«etnocentrismo critico», che, con i dovuti accorgimenti, è sicuramente valida ancora oggi. Essa consiste in un modo di guardare la realtà che evita sia l’etnocentrismo classico di chi ritiene che i valori della nostra cultura siano da considerarsi «superiori» in assoluto e vadano senz’altro imposti alle altre civiltà, sia il relativismo di chi ritiene che ogni civiltà abbia valore in sé e vada rispettata e non giudicata con parametri di valore suoi non propri. Per de Martino è necessario certamente, da una parte, che la civiltà occidentale si storicizzi e faccia costantemente autocritica, ma anche, dall’altra, che essa non rinunci a denunciare le culture che contraddicano palesemente quei valori umanistici e di tolleranza che sono iscritti nel suo Dna.
De Martino, come ha messo in evidenza magistralmente Giuseppe Galasso, aveva subito profondamente, da giovane, attraverso Adolfo Omodeo, l’influsso crociano. Egli tuttavia, troppo curioso del mondo quale era, non si pose come epigono o ripetitore. Con la sua trasversalità di interessi, anche metodologici e disciplinari, De Martino andò anche oltre l’immagine crociana del «discepolo non inerte». Prese semplicemente altre strade. E discusse da pari a pari col Maestro, che, ormai vecchissimo, cominciò a dubitare, grazie anche all’influsso del giovane allievo, della saldezza e universalità delle sue categorie. Il ragionamento di De Martino era suppergiù questo: le categorie individuate da Croce, lungi dall’essere delle strutture universalmente umane, sono storicamente condizionate e determinate. E, prima dell’ambito razionale, c’è il campo prelogico della vita vissuta. In questa dimensione, l’umanità ha vissuto per lungo tempo, agli inizi della sua avventura, e vive oggi ancora in molte civiltà non occidentali. Non solo: la stessa nostra civiltà conserva tracce di «primitivismo», che vanno studiate e capite se si vuole afferrare veramente l’umano.
Il Sud, da questo punto di vista, offriva a De Martino un privilegiato terreno di indagine. In esso persistono vecchie tradizioni magico-religiose, di origine probabilmente pagana, che il cattolicesimo non ha saputo superare e ha dovuto, in qualche modo, integrare. Utilizzando strumenti di documentazione e analisi di tipo moderno, De Martino compì, negli anni Cinquanta, con una équipe di studiosi di varie discipline, tre missioni scientifiche nelle terre del Sud: una nel Salento, per cercare di capire il tarantismo, due in Lucania per studiare il complesso mitico-rituale delle fascinazione e le persistenze del pianto funebre. Il documentario «Nei giorni e nella storia», realizzato dalla Rai e presentato ieri pomeriggio all’Università di Matera, dà testimonianza proprio degli «itinerari lucani» dell’antropologo.
Manoel de Oliveira è a Roma
il manifesto 14.10.03
Manoel de Oliveira, il cinema e l'utopia
Un secolo di grande cinema, dal muto alla «globalizzazione». Premio Filmcritica 2003, il regista portoghese Manoel de Oliveira è a Roma. Ha affascinato l'Europa cercando di emulare, nella scrittura visiva, Camoes e Pessoa. E, a 95 anni, sarà presto sul set
di ROBERTO SILVESTRI
ROMA. Ogni film realizzato, dal `31 ad oggi, da "Aniki Bobo" a "Un film parlato", una sorpresa. Difficile intrappolarlo in una definizione, come quasi tutti i cineasti ribollenti che piacciono a Filmcritica, la più eccentrica rivista italiana, a tutt'oggi, di cinema. E che, dopo Clint Eastwood e Paul Scharder, assegna domani il suo premio annuale a Manoel de Oliveira, portoghese di Porto, classe 1908, autore di capolavori come "Il passato e il presente", "Amore di perdizione", "Benilde o la vergine madre". Oggi, alle ore 12, in cerimonia solenne al Campidoglio (nella adattissima sala Pietro da Cortona dei musei Capitolini, dedicata a uno dei tre grandi architetti della Roma barocca) l'assessore Gianni Borgna (è un cinephile poco hard il sindaco-critico Walter Veltroni?) gli consegnerà il premio Filmcritica. La vacanza romana del cineasta (ex atleta, per anni campione di canotaggio) è iniziata il 12, al teatro Argentina, quando ha presentato, applauditissimo sia prima che dopo la proiezione, la sua ultima opera, "Un filme falado" (Un film parlato) reduce dal concorso di Venezia e acida e crudele metafora della globalizzazione criminale.
Cineasta di idee e di passioni forti, Manoel de Oliveira è forse il più rosselliniano dei cineasti europei di oggi, per la serietà e libertà con la quale costruisce, sempre come «work in progress», i suoi elaborati giochi, «play» elisabettiani di straordinaria tensione e, coraggiosamente, sempre sull'orlo dell'abisso. Forse fin troppo emozionante la sua tastiera creativa, almeno per il pubblico accecato da piaceri schermici piccoli piccoli....
Diciamo che Manoel de Oliveira fa film d'avventura. Ma per adulti. E piuttosto profondi per i cine-burocrati che ci circondano abitualmente tra Rai e Cinecittà. In Italia non farebbe un film. Le sue sono avventure di profondità nella cultura e nella storia lusitana, nei riti popolari, nella fatica del lavoro salariato (Douro), nell'anarchia dei poetici ragazzi portegni, nella insorgenza delle donne (Benilde), nella scrittura sopraffina che cerca di emulare, con immagini degne di Camoes, Camilo Castelo Branco, Pessoa... Mai esotico, mai fiabesco, mai consolatorio. Artista concettuale? No, sarebbe troppo limitativo per una carriera sfavillante durante gli anni settanta, ma iniziata con il muto e ammutolita dal fascismo salazariano illetterato, e molto segnata dal formalismo sovietico e dalle avanguardie storiche, poi dispiegata interamente, dopo la rivoluzione dei garofani, al ritmo di un film all'anno, fino a oggi. Grazie anche all'appoggio di un produttore mecenate del calibro e dell'intelligenza di Paulo Branco.
Arzillo novantacinquenne, oggi, de Oliveira è in già procinto di tornare sul set, argomento il «mito di re Sebastiano», il sovrano scomparso sul campo di battaglia per difenderci dai Mori....Certo che i suoi film rischiano sempre di essere «troppo» letterari, teatrali, addirittura operistici, «fredde riproduzioni», fiancheggiatori, come sono, di drammi, melodrammi, classici, rappresentazioni sacre o romanzi di alta qualità. E invece Manoel de Oliveira, nato in una metropoli dall'architettura granitica e barocca, è proprio così, un regista contemporaneamente rarefatto e disumano, fino alla trascendenza formale, e contemporaneamente sensuale, passionale, commuovente, ironico, sarcastico, di umorismo «celtico»: un alchimista che lavora i materiali di partenza trasformando e «reificando» tutto, fino a renderle «il verbo carne cinematografica».
Insomma è indocile alle imbragature d'autore, alle costanti stilistiche d'origine controllata, alla rendita parassitaria dei tanti artisti di regime che controllano in Europa i finanziamenti pubblici. De Oliveira infastidisce i burocrati perché è un regista commerciale. È amato dal pubblico (certo, di tutto il mondo). Lo rispetta. Ha maltrattato le ipocrisie e i crimini della classe politica portoghese di centro destra e di centro sinistra molto prima che i recenti scandali (pedofilia) distruggessero il partito socialisto di Sampaio. Ha conquistato come pochi la fiducia di chi va al cinema per ripetere un rito sempre differente. Conoscere le cose dal di dentro. Attraverso documentari, propri e impropri.
Manoel de Oliveira, il cinema e l'utopia
Un secolo di grande cinema, dal muto alla «globalizzazione». Premio Filmcritica 2003, il regista portoghese Manoel de Oliveira è a Roma. Ha affascinato l'Europa cercando di emulare, nella scrittura visiva, Camoes e Pessoa. E, a 95 anni, sarà presto sul set
di ROBERTO SILVESTRI
ROMA. Ogni film realizzato, dal `31 ad oggi, da "Aniki Bobo" a "Un film parlato", una sorpresa. Difficile intrappolarlo in una definizione, come quasi tutti i cineasti ribollenti che piacciono a Filmcritica, la più eccentrica rivista italiana, a tutt'oggi, di cinema. E che, dopo Clint Eastwood e Paul Scharder, assegna domani il suo premio annuale a Manoel de Oliveira, portoghese di Porto, classe 1908, autore di capolavori come "Il passato e il presente", "Amore di perdizione", "Benilde o la vergine madre". Oggi, alle ore 12, in cerimonia solenne al Campidoglio (nella adattissima sala Pietro da Cortona dei musei Capitolini, dedicata a uno dei tre grandi architetti della Roma barocca) l'assessore Gianni Borgna (è un cinephile poco hard il sindaco-critico Walter Veltroni?) gli consegnerà il premio Filmcritica. La vacanza romana del cineasta (ex atleta, per anni campione di canotaggio) è iniziata il 12, al teatro Argentina, quando ha presentato, applauditissimo sia prima che dopo la proiezione, la sua ultima opera, "Un filme falado" (Un film parlato) reduce dal concorso di Venezia e acida e crudele metafora della globalizzazione criminale.
Cineasta di idee e di passioni forti, Manoel de Oliveira è forse il più rosselliniano dei cineasti europei di oggi, per la serietà e libertà con la quale costruisce, sempre come «work in progress», i suoi elaborati giochi, «play» elisabettiani di straordinaria tensione e, coraggiosamente, sempre sull'orlo dell'abisso. Forse fin troppo emozionante la sua tastiera creativa, almeno per il pubblico accecato da piaceri schermici piccoli piccoli....
Diciamo che Manoel de Oliveira fa film d'avventura. Ma per adulti. E piuttosto profondi per i cine-burocrati che ci circondano abitualmente tra Rai e Cinecittà. In Italia non farebbe un film. Le sue sono avventure di profondità nella cultura e nella storia lusitana, nei riti popolari, nella fatica del lavoro salariato (Douro), nell'anarchia dei poetici ragazzi portegni, nella insorgenza delle donne (Benilde), nella scrittura sopraffina che cerca di emulare, con immagini degne di Camoes, Camilo Castelo Branco, Pessoa... Mai esotico, mai fiabesco, mai consolatorio. Artista concettuale? No, sarebbe troppo limitativo per una carriera sfavillante durante gli anni settanta, ma iniziata con il muto e ammutolita dal fascismo salazariano illetterato, e molto segnata dal formalismo sovietico e dalle avanguardie storiche, poi dispiegata interamente, dopo la rivoluzione dei garofani, al ritmo di un film all'anno, fino a oggi. Grazie anche all'appoggio di un produttore mecenate del calibro e dell'intelligenza di Paulo Branco.
Arzillo novantacinquenne, oggi, de Oliveira è in già procinto di tornare sul set, argomento il «mito di re Sebastiano», il sovrano scomparso sul campo di battaglia per difenderci dai Mori....Certo che i suoi film rischiano sempre di essere «troppo» letterari, teatrali, addirittura operistici, «fredde riproduzioni», fiancheggiatori, come sono, di drammi, melodrammi, classici, rappresentazioni sacre o romanzi di alta qualità. E invece Manoel de Oliveira, nato in una metropoli dall'architettura granitica e barocca, è proprio così, un regista contemporaneamente rarefatto e disumano, fino alla trascendenza formale, e contemporaneamente sensuale, passionale, commuovente, ironico, sarcastico, di umorismo «celtico»: un alchimista che lavora i materiali di partenza trasformando e «reificando» tutto, fino a renderle «il verbo carne cinematografica».
Insomma è indocile alle imbragature d'autore, alle costanti stilistiche d'origine controllata, alla rendita parassitaria dei tanti artisti di regime che controllano in Europa i finanziamenti pubblici. De Oliveira infastidisce i burocrati perché è un regista commerciale. È amato dal pubblico (certo, di tutto il mondo). Lo rispetta. Ha maltrattato le ipocrisie e i crimini della classe politica portoghese di centro destra e di centro sinistra molto prima che i recenti scandali (pedofilia) distruggessero il partito socialisto di Sampaio. Ha conquistato come pochi la fiducia di chi va al cinema per ripetere un rito sempre differente. Conoscere le cose dal di dentro. Attraverso documentari, propri e impropri.
a Ravenna un Corso sul cinema di Marco Bellocchio,
con qualche evidente limite però...
CORRIERE Romagna martedì 14 ottobre 2003
Edizione di: RAVENNA
Il cinema nella storia Corso su Bellocchio
Ravenna - Lezioni di cinema in vista del Festival dei registi emiliano-romagnoli. La quinta edizione della manifestazione ravennate, in programma dal 7 al 13 novembre, sarà dedicata a marco Bellocchio. Contemporaneamente il Comune di Ravenna, in collaborazione con la Provincia e la regione Emilia Romagna, organizza un ciclo di lezioni dedicate all’aggiornamento e alla qualificazione professionale in campo didattico. Il calendario delle lezione prevede quattro appuntamenti - tutti in programma in via di Roma 69 dalle 17 alle 19 - a partire da giovedì prossimo quando il critico cinematografico Pierpaolo Loffreda terrà la prima lezione sul cinema di Bellocchio da "I pugni in tasca" a "La Cina è vicina". Seguirà il 23 ottobre un incontro con Tiberio Pedrini che illustrerà l’impegno intellettuale-politico del regista piacentino. Giovedì 30 ottobre Chiara Pioppo commenterà “La Balia: la novella di Pirandello e il film di Bellocchio”. Il giovedì successivo il critico Loris Lepri presenta “Un salto nel vuoto”, mentre il giorno successivo, il 7 novembre, si terrà l’incontro conclusivo che vedrà la partecipazioni dei critici cinematografici Tullio Masoni, Gualtiero De Santi e Giacomo Gabetti, e dello stesso regista Marchio Bellocchio. Per iscrizione ai corsi è possibile telefonare, entro domani, allo 0544 35142.
Edizione di: RAVENNA
Il cinema nella storia Corso su Bellocchio
Ravenna - Lezioni di cinema in vista del Festival dei registi emiliano-romagnoli. La quinta edizione della manifestazione ravennate, in programma dal 7 al 13 novembre, sarà dedicata a marco Bellocchio. Contemporaneamente il Comune di Ravenna, in collaborazione con la Provincia e la regione Emilia Romagna, organizza un ciclo di lezioni dedicate all’aggiornamento e alla qualificazione professionale in campo didattico. Il calendario delle lezione prevede quattro appuntamenti - tutti in programma in via di Roma 69 dalle 17 alle 19 - a partire da giovedì prossimo quando il critico cinematografico Pierpaolo Loffreda terrà la prima lezione sul cinema di Bellocchio da "I pugni in tasca" a "La Cina è vicina". Seguirà il 23 ottobre un incontro con Tiberio Pedrini che illustrerà l’impegno intellettuale-politico del regista piacentino. Giovedì 30 ottobre Chiara Pioppo commenterà “La Balia: la novella di Pirandello e il film di Bellocchio”. Il giovedì successivo il critico Loris Lepri presenta “Un salto nel vuoto”, mentre il giorno successivo, il 7 novembre, si terrà l’incontro conclusivo che vedrà la partecipazioni dei critici cinematografici Tullio Masoni, Gualtiero De Santi e Giacomo Gabetti, e dello stesso regista Marchio Bellocchio. Per iscrizione ai corsi è possibile telefonare, entro domani, allo 0544 35142.
il cinema di Bellocchio a Caracas a Dicembre, e in India:
ma perché non "Buongiorno, notte"?
Liberazione 14.10.03
Il nuovo cinema italiano a dicembre a Caracas
Presso la Cinamateca Nacional di Caracas, Venezuela, si aprirà il prossimo 2 dicembre la prima rassegna cinematografica sul Nuovo Cinema Italiano. La rassegna comprenderà alcune fra le opere del nostro cinema piò premiate in ambito europeo come ad esempio "Respiro" di Emanuele Crialese che sarà presente alla rassegna, "Il mestiere delle armi" di Ermanno Olmi e "L'ora di religione" di Marco Bellocchio. Aprirà la rassegna "Il mio viaggio in Italia" di Martin Scorsese.
The Times of India
TIMES NEWS NETWORK [SUNDAY, OCTOBER 12, 2003 03:28:21 PM]
The Italian connection
He’s an Indian film aficionado with a difference. Luca Marziali, the director of the River to River Indian film festival in Florence, discusses the magic of the movies. (...)
Marziali, who first came to India in 1984, has been here at least 15 times since. He was recently in the country to scout for Indian feature and documentary films for his festival, as well as to coordinate "New Italian Eyes", a package of Italian films that will travel to India for the international film festivals of India (Delhi, Mumbai, Kolkata and Thiruvananthapuram). Besides, he coordinated a package of Indian films at the recent Namaste India programme held during the Fashion Week in Milan. (...)
The New Italian Eyes package coming to the Indian festivals include Marco Bellocchio’s "L’ora di religione" (My Mother’s Smile), Gabriele Muccino’s Come te nessuno mai (But forever in my mind), Ettore Scola’s Concorrenza Sleale (Unfair competition), and two films by the maestro Pietro Germi – A Bad Swindle and Ladies and Gentlemen. (...)
Il nuovo cinema italiano a dicembre a Caracas
Presso la Cinamateca Nacional di Caracas, Venezuela, si aprirà il prossimo 2 dicembre la prima rassegna cinematografica sul Nuovo Cinema Italiano. La rassegna comprenderà alcune fra le opere del nostro cinema piò premiate in ambito europeo come ad esempio "Respiro" di Emanuele Crialese che sarà presente alla rassegna, "Il mestiere delle armi" di Ermanno Olmi e "L'ora di religione" di Marco Bellocchio. Aprirà la rassegna "Il mio viaggio in Italia" di Martin Scorsese.
The Times of India
TIMES NEWS NETWORK [SUNDAY, OCTOBER 12, 2003 03:28:21 PM]
The Italian connection
He’s an Indian film aficionado with a difference. Luca Marziali, the director of the River to River Indian film festival in Florence, discusses the magic of the movies. (...)
Marziali, who first came to India in 1984, has been here at least 15 times since. He was recently in the country to scout for Indian feature and documentary films for his festival, as well as to coordinate "New Italian Eyes", a package of Italian films that will travel to India for the international film festivals of India (Delhi, Mumbai, Kolkata and Thiruvananthapuram). Besides, he coordinated a package of Indian films at the recent Namaste India programme held during the Fashion Week in Milan. (...)
The New Italian Eyes package coming to the Indian festivals include Marco Bellocchio’s "L’ora di religione" (My Mother’s Smile), Gabriele Muccino’s Come te nessuno mai (But forever in my mind), Ettore Scola’s Concorrenza Sleale (Unfair competition), and two films by the maestro Pietro Germi – A Bad Swindle and Ladies and Gentlemen. (...)
domenica 12 ottobre 2003
sul Domenicale de Il Sole 24ore (in edicola domenica 12.10):
Una lettera di Paolo Izzo dal titolo "Ridare dignità ai sogni", pag. 2.
(qui di seguito la lettera di Paolo Izzo al prof. Paolo Rossi pubblicata oggi, la risposta di quest'ultimo apparsa anch'essa oggi, e la recensione del 28.9 alla quale questo carteggio si riferisce)
la lettera pubblicata oggi:
Egregio Paolo Rossi,
dal momento che Lei accenna alle “timide riserve” concesse ai “non specialisti”, mi permetto di proporLe un punto di vista intorno al Suo commento del libro di Luciana Repici e non, come sarebbe più ovvio, intorno al libro stesso. Anzi, Le dirò di più: non leggerò il saggio in questione soprattutto perché è stato Lei, Suo malgrado(?), a sconsigliarmelo.
Innanzitutto per parlare di sogni non ha utilizzato mai la parola “inconscio”, ripiegando su un’anima… buona per tutte le stagioni! Delle due l’una: o questo semplice termine non è proprio presente nel testo di Repici oppure Lei non si è lasciato andare abbastanza, rimanendo su un piano tutto razionale (il che, per l’onirico, non va bene).
Secondo, non mi ha mai sedotto l’idea di Platone circa l’invio dei sogni da parte di un dio, né quella di Aristotele per cui sarebbero “demonici” gli influssi che inducono a sognare: le considerazioni a proposito degli animali essendo ancor più fuorvianti dal momento che nessun animale ha mai dichiarato di aver fatto un sogno! Non mi lascio ingannare dal Suo riferimento alla pratica dell’incubazione per colmare “la distanza che ci separa dal mondo antico”, né mi intimidisce l’accenno all’immancabile Freud e a come egli sia rimasto affascinato dall’affermazione di una sostanza demonica della natura: che cosa aspettarsi da uno che considerava il neonato come un perverso e l’inconscio come un mondo inconoscibile?
In ultimo, non riesco a concordare con chi alluda ai sogni come a qualcosa di dipendente dal caso, ossia da cause accidentali e indeterminate”, lasciando credere che causale è uguale a casuale…
Credo, piuttosto, che lo studio della psiche umana non abbia fatto e non faccia grandi passi proprio perché si porta dietro questi concetti vetusti e astrusi (che Freud in primis ha avallato e enfatizzato)!
Fino a quando si parlerà dei sogni come qualcosa che arriva dall’ultraterreno; fino a quando l’inconscio rimarrà uno strumento perverso nelle mani di una natura demonica, preda di visioni, divinazioni e cause accidentali; fino a quando si preferirà credere che i sogni siano buoni soltanto per giocare i numeri al lotto, allora la psichiatria rimarrà nelle sabbie mobili dell’impotenza.
Per contro, preferisco stare con chi considera i sogni come immagini che nascono nell’inconscio - prerogativa dell’essere umano - e che sono il frutto dei rapporti interumani.
Paolo Izzo
la risposta di oggi del prof. Paolo Rossi:
Egregio Paolo Izzo,
la ringrazio molto per il suo intervento e le dico subito che sono del tutto d’accordo con la preferenza che lei esprime al termine della sua lettera. La sua scelta finale è anche la mia. Tra la convinzione che i sogni arrivino dall’al di là e servano per giocare al lotto e, all’opposto, la convinzione che si tratti di immagini che nascono nell’inconscio, anch’io non ho dubbi e decisamente e senza tentennamenti “preferisco stare” con coloro che sostengono quest’ultima tesi. Sia detto fra parentesi: avrei qualche dubbio solo sull’espressione finale «e che sono il frutto dei rapporti interumani». Non credo infatti che allo stato attuale delle nostre conoscenze sui sogni si possa senz’altro affermare che quelle immagini siano sempre e comunque espressione o frutto di quei rapporti.
Sul resto della sua lettera cercherò di esporre il mio punto di vista. In primo luogo mi dispiace di aver distolto qualcuno dalla lettura di Aristotele. Perché il libro di cui ho parlato sul Sole-24 Ore è stato scritto da Aristotele e non da Luciana Repici che lo ha tradotto, annotato e introdotto. Lei mi critica per non aver mai usato la parola inconscio e per aver «ripiegato» sul termine anima. Quando ho usato questa parola, l’ho fatto in un contesto che diceva: «Platone pensa che nel sonno l’anima percepisce cose che non sapeva prima eccetera». Perché mai avrei dovuto usare il termine inconscio per dire che cosa pensava Platone? La nozione di inconscio si affaccia nella storia della filosofia a partire da Leibniz e diventa esplicita con Schelling e i filosofi e gli scienziati del Romanticismo. Fra Platone e Leibniz intercorrono venti secoli ovvero duemila anni. Credo che molte delle sue impressioni negative nascano da un equivoco che dipende (sono senz’altro disposto a riconoscerlo) da insufficiente chiarezza da parte mia.
Debbo tuttavia correggere un punto: non ho mai parlato della pratica dell’incubazione «per colmare la distanza che ci separa dal mondo antico». Al contrario. Ho infatti scritto che, se pensiamo a quella pratica, «giungiamo a percepire la incolmabile distanza che ci separa dal mondo antico». Tutta la prima parte della mia recensione non parlava del testo curato da Luciana Repici, ma era precisamente diretta a chiarire questo punto. Voleva servire a dare a un lettore non specialista in psicologia o in storia antica, il senso di una distanza. Chiarivo che nel nostro passato (nonché in molte altre civiltà) i sogni sono stati interpretati non come fatti privati o espressioni di una coscienza singola, ma come racconti che contengono verità o previsioni. Per questo avevo accennato a Ernesto De Martino (un autore di cui Repici non parla) e alla sua definizione della nostra civiltà come una «civiltà della veglia». Tra i padri fondatori della civiltà della veglia va annoverato proprio Freud (sul quale, probabilmente, abbiamo idee molto diverse). Freud scrisse: «Il sogno è un prodotto psichico assolutamente asociale; non ha niente da comunicare ad altri; sorto all’interno di una persona come compromesso tra le forze psichiche che vi si combattono, resta incomprensibile anche a questa persona e pertanto è privo di qualsiasi interesse per gli altri».
Un conto è leggere un nostro contemporaneo e un altro conto è leggere un testo del passato. Quando leggiamo Platone o Aristotele o un altro classico dobbiamo sapere in anticipo che vi troveremo affermazioni molto distanti dal nostro modo di pensare e anche affermazioni che ci colpiranno per la loro inattesa attualità. La storia nasce dalla curiosità di sapere da dove vengono le cose che pensiamo e di capire che molte cose pensate sono state poi abbandonate. Serve a dare, insieme, il senso della distanza e della vicinanza. Come aveva capito molto bene René Descartes assomiglia molto al viaggiare in un Paese straniero. Ma viaggiare non è obbligatorio e si può egregiamente vivere anche senza aver mai letto un testo di Platone o di Aristotele.
Paolo Rossi
la recensione del 28.9 alla quale il carteggio precedente si riferisce:
STORIA DELLE IDEE / Quando i sogni erano veri
di Paolo Rossi
“Domenica” de Il Sole 24 Ore – 28 settembre 2003
Quando, nel sogno di Penelope, l’aquila (che è il simbolo di Ulisse) piomba sulle oche (che sono il simbolo dei Proci) e le stermina, è indubbio che né l’autore di quei versi, né il lettore facevano riferimento a processi soggettivi presenti nella mente di Penelope. La nostra, diceva Ernesto De Martino, è una civiltà della veglia. Siamo così fortemente abituati a pensare al sogno come espressione di una coscienza singola, a considerare i sogni un fatto privato che facciamo fatica a renderci conto del fatto che non solo il sogno di Penelope, ma innumerevoli altri sogni, in un passato non troppo lontano e all’interno di una straordinaria pluralità di culture, furono concepiti come racconti che contengono verità o attendibili previsioni di eventi futuri. I sogni, come è scritto nel settimo dell’Eneide consentono di entrare a colloquio con gli dèi e di interrogare Acheronte nel profondo Averno.
Giungiamo a percepire la incolmabile distanza che ci separa dal mondo antico se pensiamo alla pratica della incubazione che ha remotissime origini e si diffuse in Grecia a partire dalla fine del quinto secolo. Consisteva nel sottoporsi a pratiche di purificazione per poi addormentarsi in un recinto sacro destinato a questo scopo, nell’attesa di essere visitati in sogno dal dio o dall’essere sovrannaturale legato al luogo prescelto.
Platone pensa che nel sonno l’anima percepisce cose che non sapeva prima, sia nel passato e nel presente, sia nell’avvenire. Riconduce le immagini dei sogni ad apparenze prodotte dalla divinità, crede che i sogni abbiano valore profetico e divinatorio. Come lucidamente spiega Luciana Repici nella Introduzione, Aristotele adotta invece un modello meccanico di tipo democriteo e si distacca con forza da queste posizioni. C’è un passo, nel testo intitolato La divinazione durante il sonno del quale molti hanno sottolineato la “modernità”. Dato che anche gli animali sognano, scrive Aristotele, i sogni non possono essere inviati dalla divinità. Uomini del tutto semplici sono capaci di previsioni, non perché la divinità ha inviato loro dei sogni, ma perché tutti coloro che hanno natura ciarliera e melancolica hanno una grandissima quantità di visioni. Per questo, così come capita di imbroccarla a coloro che giocano a pari e dispari, hanno, ogni tanto, visioni che corrispondono agli eventi reali. I sogni non sono mandati da un dio, ma - afferma Aristotele in quelle stesse righe (e l’affermazione piacque molto a Freud) - «sono tuttavia demonici, perché la natura è demonica, non certo divina».
Repici ritiene che “demonici” significhi «dipendenti dal caso, ossia da cause accidentali e indeterminate». Se anche ai non specialisti è concesso di avanzare timide riserve, ho l’impressione che in questo caso si vogliano troppo rapidamente eliminare ambiguità. In uno dei testi qui contenuti Aristotele afferma che sugli specchi molto lucidi si produce una macchia rossastra quando vi gettano sopra lo sguardo donne nei giorni delle mestruazioni. Ma Repici conosce molto bene i testi e conclude una delle due preziose appendici con questa affermazione: «dalla tradizione emerge un Aristotele dai molteplici volti, che pone problemi non indifferenti a chi voglia tentare di ridurne le diverse immagini a unità». In questa edizione, che ha il testo a fronte, Luciana Repici ha accuratamente tradotto e ampiamente commentato altri due testi di Aristotele: Il sonno e la veglia, I sogni. Il tutto seguito da un’ottima bibliografia. Un’impresa meritoria.
Aristotele, Il sonno e i sogni, a cura di Luciana Repici, Venezia, Marsilio, pagg. 206, € 12,00.
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dallo stesso supplemento del Sole di oggi, di qualche interesse sono anche questi altri articoli (per la disponiblità dei quali ringrazio Paola D'Ettole):
Dalle riflessioni settecentesche alla psicologia cognitiva, un fenomeno centrale della percezione
Quelle ombre illuminano il pensiero
Importante saggio di Michael Baxandall
Roberto Casati
Michael Baxandall è uno storico dell'arte che fa dell'interdisciplinarità uno stile di lavoro rigoroso. I suoi contributi interessano non solo gli storici dell'arte, ma chiunque si occupi di immagini da un punto di vista scientifico. Nella sua ricerca ha tentato da un lato di situare la produzione delle immagini in contesti sociali ed economici ampi, in cui si dà il giusto peso alla nozione di abilità pittorica e di controllo da parte della committenza, e d'altro lato ha trattato dell'ascrizione di intenzioni al pittore (che cosa voleva dire dipingendo quel quadro in quel modo?) e del metodo in cui controlliamo questa ascrizione, ovvero di che cosa permette di dire che si è interpretato correttamente un quadro. In un certo senso Baxandall ha ripreso e approfondito la lezione di Gombrich, e come accadeva per quest'ultimo, i suoi testi contengono ricchissimi spunti di riflessione filosofica.
Ombre e lumi è la traduzione di un magnifico libro del 1995, "Shadows and Enlightenment". Completa una piccola collezione di opere oggi disponibili al lettore italiano sull'ombra nella pittura, una collezione che include "Ombre" di Gombrich (sempre da Einaudi) e "Breve storia dell'ombra" di Victor Stoichita (Il Saggiatore). Si distanzia da questi due contributi soprattutto per l'approfondimento del versante cognitivo della percezione dell'ombra; tanto di quella reale che di quella raffigurata nei quadri. In effetti le ombre e le loro raffigurazioni costituiscono un caso privilegiato per lo studio dei rapporti tra arte e scienze cognitive. Si tratta di fenomeni relativamente semplici dal punto di vista fisico e geometrico e relativamente ben studiati dal punto di vista psicologico (a differenza di fenomeni più complessi, come l'espressione delle emozioni) e per i quali esistono una ricca casistica e una altrettanto ricca trattatistica.
I pittori, almeno dal Rinascimento in poi, sono stati affascinati dalle ombre. Baxandall racconta questa fascinazione seguendone delle tracce relativamente tarde: le discussioni illuministiche sulla percezione visiva - se la percezione della forma sia innata o acquisita -, e in che modo le ombre vi contribuiscano; gli studi attuali di visione artificiale; e i percorsi figurativi e teorici di pittori come Piazzetta, Tiepolo, Chardin e Leonardo.
Uno dei meriti non secondari del libro è di offrire una sintesi molto chiara di quanto è stato scritto in visione artificiale sul problema della ricostruzione di una scena visiva a partire da un semplice disegno al tratto. Il disegno al tratto di uno spigolo è ambiguo: lo spigolo potrebbe apparirci come visto indifferentemente dall'interno o dall'esterno: puntare verso di noi o aprirsi davanti ai nostri occhi. Aggiungere un'ombra e localizzare la fonte di luce risolve l'ambiguità, e per questo gli studiosi di visione artificiale hanno dedicato tanta importanza alle ombre e al loro potenziale di informazione. Baxandall mette a confronto questo tipo di studio dell'informazione con i primi incerti tentativi, da parte dei filosofi del Settecento, di render conto della complessità del contenuto visivo scomponendolo nei suoi ingredienti atomici. Come si fa a capire che una certa regione del quadro è un'ombra, se in fondo è solo una macchia di colore come ogni altra? In entrambi i casi Baxandall mostra in modo convincente come il terreno per questi studi sia stato dissodato dai pittori che hanno saputo analizzare la complessità della scena visiva riducendola a un gioco di modificazioni locali di luce. Il modello pittorico, potremmo dire, è ben presente nella mente del filosofo; con tutti i vantaggi e gli svantaggi che possono derivare dall'assimilazione della percezione visiva alla contemplazione di un'immagine.
Il capitolo più affascinante del libro è l'ultimo, che esplora l'aspetto paradossale delle ombre, da sempre condannate a un ruolo subalterno per l'attenzione visiva a dispetto del fatto che sembrano essere così importanti per la percezione della forma. In pratica il sistema visivo, una volta utilizzate le ombre per risolvere le ambiguità di forma, le abbandona a se stesse, e solo dirigendo l'attenzione su di esse riesce a farle affiorare alla coscienza. É anche qui che si mostrano i limiti dell'analisi di Baxandall, che peraltro sono solo i limiti temporali della sua ricerca. Negli ultimissimi anni gli psicologi della percezione hanno mostrato che, nonostante vi sia la possibilità di utilizzare le ombre per ricostruire le forme, non è questa la strada che il sistema visivo segue di preferenza; a volte percepisce le forme a dispetto di quanto suggerito dalle ombre. In questo senso l'insistenza sul modello della visione artificiale è fuorviante. Il sistema visivo umano non funziona come un sistema artificiale, e le soluzioni ottimali di un problema cognitivo dal punto di vista ingegneristico possono non trovar riscontro nel relativo disordine della macchina che abbiamo ereditato dai nostri antenati biologici.
Questo appunto non toglie nulla alla ricchezza del testo di Baxandall, che in alcuni passaggi, non solo quando descrive con maestria le opere d'arte, si fa latore di una tradizione di analisi fenomenologica oggi dimenticata, in cui la resa accurata di ogni dettaglio è un'arte prima ancora che un imperativo scientifico.
Michael Baxandall, «Ombre e lumi», traduzione di Michele Dantini, Einaudi, Torino 2003, pagg. 218, 28,00.
Evoluzionismi - Il saggio di uno dei maggiori esperti mondiali sulle origini degli esseri viventi sulla Terra
La vita (forse) è nata così
Il ritrovamento delle tracce di organismi cellulari microscopici antichi di più di 3 miliardi di anni permette di formulare nuove ipotesi affascinanti
di Gilberto Corbellini
Nell'edizione del 1859 dell'Origine delle specie, Charles Darwin riconosceva che la principale sfida alla sua teoria dell'evoluzione era rappresentata dal fatto che i resti fossili più antichi erano forme di vita marina già piuttosto complesse. Darwin non era in grado di spiegare l'assenza di fossili precedenti a questi organismi, ma aveva ben chiaro che quella non era la vita nelle sue forme originarie. Quali caratteristiche avesse la vita sulla terra durante il cosiddetto Precambriano, cioè negli oltre tre miliardi e mezzo di anni precedenti il Fanerozoico, l'età della vita animale visibile compresa negli ultimi 550 milioni di anni, è stato a lungo considerato un problema insolubile.
Ne La culla della vita Schopf racconta in modo coinvolgente i tre decenni di ricerche che hanno consentito a lui e ad altri ricercatori di risolvere il dilemma di Darwin e portare alla luce forme di vita risalenti a circa tre miliardi di anni fa. E fornisce un quadro davvero ricco e soprattutto facilmente comprensibile dell'evoluzione della vita sulla terra. Più che sulle origini della vita, di cui Schopf comunque presenta le principali teorie, il libro si concentra su come la vita è cambiata e ha cambiato la terra nel tempo. Per la maggior parte del primo 85% della sua storia la terra fu popolata da microbi del tipo delle schiume che si vedono sugli stagni (pond scum). I fossili di questi antichi batteri erano ovviamente presenti nelle rocce, ma non si potevano osservare con gli strumenti convenzionali. Schopf e altri hanno trovato le tracce di organismi cellulari microscopici antichi di circa 3,5 miliardi di anni, aprendo la strada a una nuova fase della ricerca, in grado di riempire i vuoti per quanto riguarda diversi aspetti del come la vita si è evoluta sulla terra. Nel marzo del 2002 Schopf ha ulteriormente confermato, utilizzando una tecnica combinata del tutto innovativa che consente mediante un particolare laser allo stesso di visualizzare e analizzare chimicamente il contenuto delle rocce, la natura biologica di questi fossili microscopici.
Professore di paleobiologia e direttore dell'Igpp (Institute of geophysics and planetary physics) Center for the Study of Evolution and the Origin of Life, Schopf è diventato un punto di riferimento internazionale per le ricerche sull'origine della vita. Le sue competenze spaziano tra l'altro dalla geologia alla microbiologia alla chimica alle paleontologia e ha accumulato una quantità impressionante di cariche, onorificenze e premi.
La scoperta di queste prime forme organiche, per Schopf, dimostra che la vita non si è sempre evoluta come si è pensato e che l'evoluzione stessa è andata incontro a un'evoluzione. Il punto di svolta nell'evoluzione dell'evoluzione sarebbe stato l'arrivo del sesso, circa un miliardo e 100mila anni fa. Il primo organismo che intraprese un'attività sessuale era una cellula flottante di plancton che, diversamente dagli organismi che si riproducevano per divisione asessuale, come le cellule del nostro corpo, aveva un meccanismo in grado di rilasciare cellule sessuali nell'ambiente. I dati dei reperti fossili mostrano chiaramente che intorno allo stesso periodo comparvero nuovi generi e specie. Il sesso aumentò la variazione all'interno delle specie, la diversità tra le specie e rese più veloce l'evoluzione e la genesi di nuove specie, realizzando non solo l'emergere di organismi adattati in modo speciale a particolari contesti ma anche la prima apparizione di estinzioni di massa. Il mondo prima del sesso era più monotono, noioso e statico, secondo Schopf, mentre ogni organismo nato dalla riproduzione sessuale conteneva un mix che non era mai esistito prima.
La tesi che l'evoluzione sia stata estremamente più lenta nel Precambriano è in realtà un'ipotesi per nulla dimostrata e al momento non confutabile, dato che di quelle prime forme di vita restano solo tracce di forme e non siamo quindi in grado di misurarne il tasso di cambiamento evolutivo. Né possiamo assumere con troppa disinvoltura, come fa Schopf, alcune forme di vita esistenti e apparentemente primitive, come i cianobatteri, quali modelli di quelle più arcaiche. Cosa ci garantisce infatti che non esistessero organismi estinti e di cui non abbiamo tracce che evolvevano a ritmi simili a quelli del Fanerozoico?
Schopf cerca di mostrare anche il lato umano della scienza, dedicando in particolare due capitoli a due famose "stecche". Nel 1725 il medico e naturalista svizzero Johann Jacob Scheuchzer scopriva lo scheletro parziale di un grande animale vertebrato nella pietra calcarea, che secondo lui era la prova di un uomo affogato nel diluvio di Noè. La scoperta fu considerata la prova irrefutabile che la Bibbia aveva ragione fino a che, quasi un secolo dopo, ci si rese conto che si era scambiato per umano il fossile di una salamandra gigante. L'altra "bufala" riguarda la recente controversia, esplosa nel 1996, circa la pretesa prova dell'esistenza della vita su Marte in un meteorite caduto nell'Antartide 13mila anni fa. Schopf contribuì a smascherare il falso scoop.
Schopf ritorna spesso sul concetto che gli scienziati hanno le stesse debolezze di chiunque altro e le stesse capacità di fare errori. E nel libro lo dimostra in prima persona. Per esempio, quando giudica un fiasco la prima scoperta dei più antichi fossili che lui stesso effettuò in Australia nel 1983, insieme a due colleghi, per accreditare invece il suo articolo del 1993 come la vera scoperta. Sarebbe come affermare che la scoperta del Dna nel 1869 fu un fiasco perché solo nel 1944 si è potuto dimostrare a cosa serve! L'edizione italiana riproduce inoltre alcuni errori presenti nell'originale. Nella figura a pagina 63 la Nova Scotia e New Brunswick sono disegnate come se appartenessero agli Stati Uniti, mentre sono regioni canadesi. Inoltre, egli afferma che l'anidride carbonica funziona come i vetri di una serra, trattenendo il calore e immagazzinandolo nei legami chimici che saldano tra loro i suoi atomi: in realtà l'anidride carbonica assorbe la radiazione infrarossa e la converte in calore nell'atmosfera, mentre le finestre di una serra mantengono semplicemente l'aria calda all'interno.
J. William Schopf, «La culla della vita», Adelphi, Milano 2003, pagg. 500, 32,00.
Arti e scienze - Semir Zeki rilegge le principali correnti pittoriche alla luce degli studi sul cervello umano
Henri Matisse e altri neurologi
Vermeer, Leonardo, Michelangelo, i cubisti e i aiutano a capire i meccanismi attraverso cui la nostra mente conosce il mondo esterno isolandone i tratti essenziali
di Armando Massarenti
Quando Leonardo scriveva, nel suo "Trattato di pittura", che, tra tutti i colori, i più gradevoli sono quelli in contrasto tra loro, non sapeva di aver enunciato in questo modo una verità fisiologica. Egli, a dire il vero, non avrebbe saputo dire bene quali colori erano da considerarsi opposti tra loro. Ma l'intuizione era giusta. Nel 1956 infatti due studiosi (Svaetichin e Jonasson) scoprirono che le cellule cerebrali eccitate dal rosso sono inibite dal verde, quelle eccitate dal giallo sono inibite dal blu e quelle eccitate dal bianco sono inibite dal nero (e viceversa). Altre intuizioni generalissime, e condivise nella pratica dai pittori di ogni tempo, come quella per cui la percezione dei colori è influenzata dal contesto in cui si trovano, hanno avuto recentemente delle conferme empiriche. Così oggi è possibile vedere che le cellule sensibili ai colori modificano radicalmente le loro reazioni a seconda dello sfondo su cui è collocato un colore.
Un libro come quello di Semir Zeki sarebbe stato inconcepibile se negli ultimi decenni non si fosse assistito al moltiplicarsi degli esperimenti, molti dei quali condotti dallo stesso autore, volti alla scoperta dei meccanismi del cervello. Se fosse uscito vent'anni fa, La visione dell'interno, che si propone di abbozzare una neuroestetica, cioè una scienza dei rapporti tra arte e cervello, sarebbe stato salutato con un misto di sconcerto, di irrisione e di irritazione. Dato il clima "culturalista" e "relativista" di allora - ma che sopravvive ancora tra molti esponenti della cultura umanistica - l'idea di cercare delle vere e proprie leggi di natura capaci di spiegare su base biologica i meccanismi universali dell'apprezzamento estetico sarebbe stata vista come una folle ripresa di un positivismo ormai screditato da tempo. Ma, per fortuna, i tempi stanno cambiando.
Il libro di Zeki comunque non è che un «abbozzo», un tentativo di ordinare tutto ciò che si sa sul rapporto tra arte e cervello all'interno di una teoria aggiornata dei meccanismi della visione. Negli ultimi anni è stato dimostrato che la visione è un processo attivo e dinamico. Come del resto aveva intuito Matisse, «vedere è già un'operazione creativa che richiede uno sforzo». Questo sforzo è volto a identificare le caratteristiche specifiche e stabili del mondo, che sono le uniche che vale la pena di conoscere. «Il cervello - scrive Zeki - è interessato solo alle proprietà costanti, immutabili, permanenti e specifiche degli oggetti e delle superfici del mondo esterno, perché sono queste proprietà che gli permettono di ordinare gli oggetti per categorie. Ma l'informazione che arriva dal mondo esterno non è mai costante, anzi è in continua fluttuazione. Vediamo oggetti e superfici da distanze e angoli diversi e in differenti condizioni di luce»: il verde di una foglia cambia continuamente a seconda che la vediamo di mattina di pomeriggio o di sera, quando c'è il sole o quando piove, eppure riconosciamo che si tratta sempre dello stesso verde. La visione è un processo neurale "attivo" che. Per tale processo è stata individuata una specifica area del cervello, espressamente deputata alla visione. Accanto a un'area visiva primaria ne esistono anche altre (specializzate nel riconoscimento di forme, colori, movimento ecc. ) il cui coinvolgimento è essenziale per una visione normale degli oggetti in condizioni di continua variabilità. Il che dimostra ulteriormente il carattere dinamico della visione. «Il cervello - scrive Zeki - nella sua ricerca di conoscenza del mondo visivo, opera una scelta tra tutti i dati disponibili, e confrontando l'informazione selezionata con i ricordi immagazzinati, genera l'immagine visiva, con un procedimento molto simile a quello messo in atto da un artista».
Il quale è un neurologo senza saperlo, come Zeki cerca di mostrare analizzando, con esperimenti ingegnosi, le reazioni delle cellule cerebrali a diversi episodi della storia dell'arte, spaziando dalle interpretazioni neurobiologiche di Vermeer e Michelangelo alla critica del cubismo, dalla «neurofisiologia della linee orientate» e «dei quadrati e dei rettangoli» in Mondrian e Malevic a distinzioni quali quella tra arte astratta e figurativa, passando per l'analisi della capacità di riconoscere i volti e di percepire correttamente i colori, e degli effetti dell'arte cinetica e dei rapporti tra forma e colore.
Gli artisti sono dei neurologi tendenzialmente "platonici, come secondo Zeki è di fatto il nostro stesso cervello, ma talvolta si impegnano in progetti in contrasto con i normali meccanismi della visione. Come nel caso dei fauves, che hanno cercato di «liberare» il colore dalla «schiavitù della forma». Nella vita quotidiana il nostro cervello è abituato a vedere associati in certi oggetti un certo colore e una certa forma. Quando vede un oggetto o una forma di un colore non usuale - una banana blu, per esempio - si attivano delle parti del cervello che segnalano una contraddizione (che poi viene interpretata e corretta). Non è difficile immaginare dunque cosa potrà capitare davanti a un quadro di Matisse. Il progetto di una neuroestetica in fondo è indistinguibile dallo studio dei modi in cui il nostro cervello ci aiuta a conoscere la realtà che ci circonda.
Semir Zeki, «La visione dall'interno. Arte e cervello», Bollati Boringhieri, Torino 2003, pagg. 270, 45,00.
(qui di seguito la lettera di Paolo Izzo al prof. Paolo Rossi pubblicata oggi, la risposta di quest'ultimo apparsa anch'essa oggi, e la recensione del 28.9 alla quale questo carteggio si riferisce)
la lettera pubblicata oggi:
Egregio Paolo Rossi,
dal momento che Lei accenna alle “timide riserve” concesse ai “non specialisti”, mi permetto di proporLe un punto di vista intorno al Suo commento del libro di Luciana Repici e non, come sarebbe più ovvio, intorno al libro stesso. Anzi, Le dirò di più: non leggerò il saggio in questione soprattutto perché è stato Lei, Suo malgrado(?), a sconsigliarmelo.
Innanzitutto per parlare di sogni non ha utilizzato mai la parola “inconscio”, ripiegando su un’anima… buona per tutte le stagioni! Delle due l’una: o questo semplice termine non è proprio presente nel testo di Repici oppure Lei non si è lasciato andare abbastanza, rimanendo su un piano tutto razionale (il che, per l’onirico, non va bene).
Secondo, non mi ha mai sedotto l’idea di Platone circa l’invio dei sogni da parte di un dio, né quella di Aristotele per cui sarebbero “demonici” gli influssi che inducono a sognare: le considerazioni a proposito degli animali essendo ancor più fuorvianti dal momento che nessun animale ha mai dichiarato di aver fatto un sogno! Non mi lascio ingannare dal Suo riferimento alla pratica dell’incubazione per colmare “la distanza che ci separa dal mondo antico”, né mi intimidisce l’accenno all’immancabile Freud e a come egli sia rimasto affascinato dall’affermazione di una sostanza demonica della natura: che cosa aspettarsi da uno che considerava il neonato come un perverso e l’inconscio come un mondo inconoscibile?
In ultimo, non riesco a concordare con chi alluda ai sogni come a qualcosa di dipendente dal caso, ossia da cause accidentali e indeterminate”, lasciando credere che causale è uguale a casuale…
Credo, piuttosto, che lo studio della psiche umana non abbia fatto e non faccia grandi passi proprio perché si porta dietro questi concetti vetusti e astrusi (che Freud in primis ha avallato e enfatizzato)!
Fino a quando si parlerà dei sogni come qualcosa che arriva dall’ultraterreno; fino a quando l’inconscio rimarrà uno strumento perverso nelle mani di una natura demonica, preda di visioni, divinazioni e cause accidentali; fino a quando si preferirà credere che i sogni siano buoni soltanto per giocare i numeri al lotto, allora la psichiatria rimarrà nelle sabbie mobili dell’impotenza.
Per contro, preferisco stare con chi considera i sogni come immagini che nascono nell’inconscio - prerogativa dell’essere umano - e che sono il frutto dei rapporti interumani.
Paolo Izzo
la risposta di oggi del prof. Paolo Rossi:
Egregio Paolo Izzo,
la ringrazio molto per il suo intervento e le dico subito che sono del tutto d’accordo con la preferenza che lei esprime al termine della sua lettera. La sua scelta finale è anche la mia. Tra la convinzione che i sogni arrivino dall’al di là e servano per giocare al lotto e, all’opposto, la convinzione che si tratti di immagini che nascono nell’inconscio, anch’io non ho dubbi e decisamente e senza tentennamenti “preferisco stare” con coloro che sostengono quest’ultima tesi. Sia detto fra parentesi: avrei qualche dubbio solo sull’espressione finale «e che sono il frutto dei rapporti interumani». Non credo infatti che allo stato attuale delle nostre conoscenze sui sogni si possa senz’altro affermare che quelle immagini siano sempre e comunque espressione o frutto di quei rapporti.
Sul resto della sua lettera cercherò di esporre il mio punto di vista. In primo luogo mi dispiace di aver distolto qualcuno dalla lettura di Aristotele. Perché il libro di cui ho parlato sul Sole-24 Ore è stato scritto da Aristotele e non da Luciana Repici che lo ha tradotto, annotato e introdotto. Lei mi critica per non aver mai usato la parola inconscio e per aver «ripiegato» sul termine anima. Quando ho usato questa parola, l’ho fatto in un contesto che diceva: «Platone pensa che nel sonno l’anima percepisce cose che non sapeva prima eccetera». Perché mai avrei dovuto usare il termine inconscio per dire che cosa pensava Platone? La nozione di inconscio si affaccia nella storia della filosofia a partire da Leibniz e diventa esplicita con Schelling e i filosofi e gli scienziati del Romanticismo. Fra Platone e Leibniz intercorrono venti secoli ovvero duemila anni. Credo che molte delle sue impressioni negative nascano da un equivoco che dipende (sono senz’altro disposto a riconoscerlo) da insufficiente chiarezza da parte mia.
Debbo tuttavia correggere un punto: non ho mai parlato della pratica dell’incubazione «per colmare la distanza che ci separa dal mondo antico». Al contrario. Ho infatti scritto che, se pensiamo a quella pratica, «giungiamo a percepire la incolmabile distanza che ci separa dal mondo antico». Tutta la prima parte della mia recensione non parlava del testo curato da Luciana Repici, ma era precisamente diretta a chiarire questo punto. Voleva servire a dare a un lettore non specialista in psicologia o in storia antica, il senso di una distanza. Chiarivo che nel nostro passato (nonché in molte altre civiltà) i sogni sono stati interpretati non come fatti privati o espressioni di una coscienza singola, ma come racconti che contengono verità o previsioni. Per questo avevo accennato a Ernesto De Martino (un autore di cui Repici non parla) e alla sua definizione della nostra civiltà come una «civiltà della veglia». Tra i padri fondatori della civiltà della veglia va annoverato proprio Freud (sul quale, probabilmente, abbiamo idee molto diverse). Freud scrisse: «Il sogno è un prodotto psichico assolutamente asociale; non ha niente da comunicare ad altri; sorto all’interno di una persona come compromesso tra le forze psichiche che vi si combattono, resta incomprensibile anche a questa persona e pertanto è privo di qualsiasi interesse per gli altri».
Un conto è leggere un nostro contemporaneo e un altro conto è leggere un testo del passato. Quando leggiamo Platone o Aristotele o un altro classico dobbiamo sapere in anticipo che vi troveremo affermazioni molto distanti dal nostro modo di pensare e anche affermazioni che ci colpiranno per la loro inattesa attualità. La storia nasce dalla curiosità di sapere da dove vengono le cose che pensiamo e di capire che molte cose pensate sono state poi abbandonate. Serve a dare, insieme, il senso della distanza e della vicinanza. Come aveva capito molto bene René Descartes assomiglia molto al viaggiare in un Paese straniero. Ma viaggiare non è obbligatorio e si può egregiamente vivere anche senza aver mai letto un testo di Platone o di Aristotele.
Paolo Rossi
la recensione del 28.9 alla quale il carteggio precedente si riferisce:
STORIA DELLE IDEE / Quando i sogni erano veri
di Paolo Rossi
“Domenica” de Il Sole 24 Ore – 28 settembre 2003
Quando, nel sogno di Penelope, l’aquila (che è il simbolo di Ulisse) piomba sulle oche (che sono il simbolo dei Proci) e le stermina, è indubbio che né l’autore di quei versi, né il lettore facevano riferimento a processi soggettivi presenti nella mente di Penelope. La nostra, diceva Ernesto De Martino, è una civiltà della veglia. Siamo così fortemente abituati a pensare al sogno come espressione di una coscienza singola, a considerare i sogni un fatto privato che facciamo fatica a renderci conto del fatto che non solo il sogno di Penelope, ma innumerevoli altri sogni, in un passato non troppo lontano e all’interno di una straordinaria pluralità di culture, furono concepiti come racconti che contengono verità o attendibili previsioni di eventi futuri. I sogni, come è scritto nel settimo dell’Eneide consentono di entrare a colloquio con gli dèi e di interrogare Acheronte nel profondo Averno.
Giungiamo a percepire la incolmabile distanza che ci separa dal mondo antico se pensiamo alla pratica della incubazione che ha remotissime origini e si diffuse in Grecia a partire dalla fine del quinto secolo. Consisteva nel sottoporsi a pratiche di purificazione per poi addormentarsi in un recinto sacro destinato a questo scopo, nell’attesa di essere visitati in sogno dal dio o dall’essere sovrannaturale legato al luogo prescelto.
Platone pensa che nel sonno l’anima percepisce cose che non sapeva prima, sia nel passato e nel presente, sia nell’avvenire. Riconduce le immagini dei sogni ad apparenze prodotte dalla divinità, crede che i sogni abbiano valore profetico e divinatorio. Come lucidamente spiega Luciana Repici nella Introduzione, Aristotele adotta invece un modello meccanico di tipo democriteo e si distacca con forza da queste posizioni. C’è un passo, nel testo intitolato La divinazione durante il sonno del quale molti hanno sottolineato la “modernità”. Dato che anche gli animali sognano, scrive Aristotele, i sogni non possono essere inviati dalla divinità. Uomini del tutto semplici sono capaci di previsioni, non perché la divinità ha inviato loro dei sogni, ma perché tutti coloro che hanno natura ciarliera e melancolica hanno una grandissima quantità di visioni. Per questo, così come capita di imbroccarla a coloro che giocano a pari e dispari, hanno, ogni tanto, visioni che corrispondono agli eventi reali. I sogni non sono mandati da un dio, ma - afferma Aristotele in quelle stesse righe (e l’affermazione piacque molto a Freud) - «sono tuttavia demonici, perché la natura è demonica, non certo divina».
Repici ritiene che “demonici” significhi «dipendenti dal caso, ossia da cause accidentali e indeterminate». Se anche ai non specialisti è concesso di avanzare timide riserve, ho l’impressione che in questo caso si vogliano troppo rapidamente eliminare ambiguità. In uno dei testi qui contenuti Aristotele afferma che sugli specchi molto lucidi si produce una macchia rossastra quando vi gettano sopra lo sguardo donne nei giorni delle mestruazioni. Ma Repici conosce molto bene i testi e conclude una delle due preziose appendici con questa affermazione: «dalla tradizione emerge un Aristotele dai molteplici volti, che pone problemi non indifferenti a chi voglia tentare di ridurne le diverse immagini a unità». In questa edizione, che ha il testo a fronte, Luciana Repici ha accuratamente tradotto e ampiamente commentato altri due testi di Aristotele: Il sonno e la veglia, I sogni. Il tutto seguito da un’ottima bibliografia. Un’impresa meritoria.
Aristotele, Il sonno e i sogni, a cura di Luciana Repici, Venezia, Marsilio, pagg. 206, € 12,00.
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dallo stesso supplemento del Sole di oggi, di qualche interesse sono anche questi altri articoli (per la disponiblità dei quali ringrazio Paola D'Ettole):
Dalle riflessioni settecentesche alla psicologia cognitiva, un fenomeno centrale della percezione
Quelle ombre illuminano il pensiero
Importante saggio di Michael Baxandall
Roberto Casati
Michael Baxandall è uno storico dell'arte che fa dell'interdisciplinarità uno stile di lavoro rigoroso. I suoi contributi interessano non solo gli storici dell'arte, ma chiunque si occupi di immagini da un punto di vista scientifico. Nella sua ricerca ha tentato da un lato di situare la produzione delle immagini in contesti sociali ed economici ampi, in cui si dà il giusto peso alla nozione di abilità pittorica e di controllo da parte della committenza, e d'altro lato ha trattato dell'ascrizione di intenzioni al pittore (che cosa voleva dire dipingendo quel quadro in quel modo?) e del metodo in cui controlliamo questa ascrizione, ovvero di che cosa permette di dire che si è interpretato correttamente un quadro. In un certo senso Baxandall ha ripreso e approfondito la lezione di Gombrich, e come accadeva per quest'ultimo, i suoi testi contengono ricchissimi spunti di riflessione filosofica.
Ombre e lumi è la traduzione di un magnifico libro del 1995, "Shadows and Enlightenment". Completa una piccola collezione di opere oggi disponibili al lettore italiano sull'ombra nella pittura, una collezione che include "Ombre" di Gombrich (sempre da Einaudi) e "Breve storia dell'ombra" di Victor Stoichita (Il Saggiatore). Si distanzia da questi due contributi soprattutto per l'approfondimento del versante cognitivo della percezione dell'ombra; tanto di quella reale che di quella raffigurata nei quadri. In effetti le ombre e le loro raffigurazioni costituiscono un caso privilegiato per lo studio dei rapporti tra arte e scienze cognitive. Si tratta di fenomeni relativamente semplici dal punto di vista fisico e geometrico e relativamente ben studiati dal punto di vista psicologico (a differenza di fenomeni più complessi, come l'espressione delle emozioni) e per i quali esistono una ricca casistica e una altrettanto ricca trattatistica.
I pittori, almeno dal Rinascimento in poi, sono stati affascinati dalle ombre. Baxandall racconta questa fascinazione seguendone delle tracce relativamente tarde: le discussioni illuministiche sulla percezione visiva - se la percezione della forma sia innata o acquisita -, e in che modo le ombre vi contribuiscano; gli studi attuali di visione artificiale; e i percorsi figurativi e teorici di pittori come Piazzetta, Tiepolo, Chardin e Leonardo.
Uno dei meriti non secondari del libro è di offrire una sintesi molto chiara di quanto è stato scritto in visione artificiale sul problema della ricostruzione di una scena visiva a partire da un semplice disegno al tratto. Il disegno al tratto di uno spigolo è ambiguo: lo spigolo potrebbe apparirci come visto indifferentemente dall'interno o dall'esterno: puntare verso di noi o aprirsi davanti ai nostri occhi. Aggiungere un'ombra e localizzare la fonte di luce risolve l'ambiguità, e per questo gli studiosi di visione artificiale hanno dedicato tanta importanza alle ombre e al loro potenziale di informazione. Baxandall mette a confronto questo tipo di studio dell'informazione con i primi incerti tentativi, da parte dei filosofi del Settecento, di render conto della complessità del contenuto visivo scomponendolo nei suoi ingredienti atomici. Come si fa a capire che una certa regione del quadro è un'ombra, se in fondo è solo una macchia di colore come ogni altra? In entrambi i casi Baxandall mostra in modo convincente come il terreno per questi studi sia stato dissodato dai pittori che hanno saputo analizzare la complessità della scena visiva riducendola a un gioco di modificazioni locali di luce. Il modello pittorico, potremmo dire, è ben presente nella mente del filosofo; con tutti i vantaggi e gli svantaggi che possono derivare dall'assimilazione della percezione visiva alla contemplazione di un'immagine.
Il capitolo più affascinante del libro è l'ultimo, che esplora l'aspetto paradossale delle ombre, da sempre condannate a un ruolo subalterno per l'attenzione visiva a dispetto del fatto che sembrano essere così importanti per la percezione della forma. In pratica il sistema visivo, una volta utilizzate le ombre per risolvere le ambiguità di forma, le abbandona a se stesse, e solo dirigendo l'attenzione su di esse riesce a farle affiorare alla coscienza. É anche qui che si mostrano i limiti dell'analisi di Baxandall, che peraltro sono solo i limiti temporali della sua ricerca. Negli ultimissimi anni gli psicologi della percezione hanno mostrato che, nonostante vi sia la possibilità di utilizzare le ombre per ricostruire le forme, non è questa la strada che il sistema visivo segue di preferenza; a volte percepisce le forme a dispetto di quanto suggerito dalle ombre. In questo senso l'insistenza sul modello della visione artificiale è fuorviante. Il sistema visivo umano non funziona come un sistema artificiale, e le soluzioni ottimali di un problema cognitivo dal punto di vista ingegneristico possono non trovar riscontro nel relativo disordine della macchina che abbiamo ereditato dai nostri antenati biologici.
Questo appunto non toglie nulla alla ricchezza del testo di Baxandall, che in alcuni passaggi, non solo quando descrive con maestria le opere d'arte, si fa latore di una tradizione di analisi fenomenologica oggi dimenticata, in cui la resa accurata di ogni dettaglio è un'arte prima ancora che un imperativo scientifico.
Michael Baxandall, «Ombre e lumi», traduzione di Michele Dantini, Einaudi, Torino 2003, pagg. 218, 28,00.
Evoluzionismi - Il saggio di uno dei maggiori esperti mondiali sulle origini degli esseri viventi sulla Terra
La vita (forse) è nata così
Il ritrovamento delle tracce di organismi cellulari microscopici antichi di più di 3 miliardi di anni permette di formulare nuove ipotesi affascinanti
di Gilberto Corbellini
Nell'edizione del 1859 dell'Origine delle specie, Charles Darwin riconosceva che la principale sfida alla sua teoria dell'evoluzione era rappresentata dal fatto che i resti fossili più antichi erano forme di vita marina già piuttosto complesse. Darwin non era in grado di spiegare l'assenza di fossili precedenti a questi organismi, ma aveva ben chiaro che quella non era la vita nelle sue forme originarie. Quali caratteristiche avesse la vita sulla terra durante il cosiddetto Precambriano, cioè negli oltre tre miliardi e mezzo di anni precedenti il Fanerozoico, l'età della vita animale visibile compresa negli ultimi 550 milioni di anni, è stato a lungo considerato un problema insolubile.
Ne La culla della vita Schopf racconta in modo coinvolgente i tre decenni di ricerche che hanno consentito a lui e ad altri ricercatori di risolvere il dilemma di Darwin e portare alla luce forme di vita risalenti a circa tre miliardi di anni fa. E fornisce un quadro davvero ricco e soprattutto facilmente comprensibile dell'evoluzione della vita sulla terra. Più che sulle origini della vita, di cui Schopf comunque presenta le principali teorie, il libro si concentra su come la vita è cambiata e ha cambiato la terra nel tempo. Per la maggior parte del primo 85% della sua storia la terra fu popolata da microbi del tipo delle schiume che si vedono sugli stagni (pond scum). I fossili di questi antichi batteri erano ovviamente presenti nelle rocce, ma non si potevano osservare con gli strumenti convenzionali. Schopf e altri hanno trovato le tracce di organismi cellulari microscopici antichi di circa 3,5 miliardi di anni, aprendo la strada a una nuova fase della ricerca, in grado di riempire i vuoti per quanto riguarda diversi aspetti del come la vita si è evoluta sulla terra. Nel marzo del 2002 Schopf ha ulteriormente confermato, utilizzando una tecnica combinata del tutto innovativa che consente mediante un particolare laser allo stesso di visualizzare e analizzare chimicamente il contenuto delle rocce, la natura biologica di questi fossili microscopici.
Professore di paleobiologia e direttore dell'Igpp (Institute of geophysics and planetary physics) Center for the Study of Evolution and the Origin of Life, Schopf è diventato un punto di riferimento internazionale per le ricerche sull'origine della vita. Le sue competenze spaziano tra l'altro dalla geologia alla microbiologia alla chimica alle paleontologia e ha accumulato una quantità impressionante di cariche, onorificenze e premi.
La scoperta di queste prime forme organiche, per Schopf, dimostra che la vita non si è sempre evoluta come si è pensato e che l'evoluzione stessa è andata incontro a un'evoluzione. Il punto di svolta nell'evoluzione dell'evoluzione sarebbe stato l'arrivo del sesso, circa un miliardo e 100mila anni fa. Il primo organismo che intraprese un'attività sessuale era una cellula flottante di plancton che, diversamente dagli organismi che si riproducevano per divisione asessuale, come le cellule del nostro corpo, aveva un meccanismo in grado di rilasciare cellule sessuali nell'ambiente. I dati dei reperti fossili mostrano chiaramente che intorno allo stesso periodo comparvero nuovi generi e specie. Il sesso aumentò la variazione all'interno delle specie, la diversità tra le specie e rese più veloce l'evoluzione e la genesi di nuove specie, realizzando non solo l'emergere di organismi adattati in modo speciale a particolari contesti ma anche la prima apparizione di estinzioni di massa. Il mondo prima del sesso era più monotono, noioso e statico, secondo Schopf, mentre ogni organismo nato dalla riproduzione sessuale conteneva un mix che non era mai esistito prima.
La tesi che l'evoluzione sia stata estremamente più lenta nel Precambriano è in realtà un'ipotesi per nulla dimostrata e al momento non confutabile, dato che di quelle prime forme di vita restano solo tracce di forme e non siamo quindi in grado di misurarne il tasso di cambiamento evolutivo. Né possiamo assumere con troppa disinvoltura, come fa Schopf, alcune forme di vita esistenti e apparentemente primitive, come i cianobatteri, quali modelli di quelle più arcaiche. Cosa ci garantisce infatti che non esistessero organismi estinti e di cui non abbiamo tracce che evolvevano a ritmi simili a quelli del Fanerozoico?
Schopf cerca di mostrare anche il lato umano della scienza, dedicando in particolare due capitoli a due famose "stecche". Nel 1725 il medico e naturalista svizzero Johann Jacob Scheuchzer scopriva lo scheletro parziale di un grande animale vertebrato nella pietra calcarea, che secondo lui era la prova di un uomo affogato nel diluvio di Noè. La scoperta fu considerata la prova irrefutabile che la Bibbia aveva ragione fino a che, quasi un secolo dopo, ci si rese conto che si era scambiato per umano il fossile di una salamandra gigante. L'altra "bufala" riguarda la recente controversia, esplosa nel 1996, circa la pretesa prova dell'esistenza della vita su Marte in un meteorite caduto nell'Antartide 13mila anni fa. Schopf contribuì a smascherare il falso scoop.
Schopf ritorna spesso sul concetto che gli scienziati hanno le stesse debolezze di chiunque altro e le stesse capacità di fare errori. E nel libro lo dimostra in prima persona. Per esempio, quando giudica un fiasco la prima scoperta dei più antichi fossili che lui stesso effettuò in Australia nel 1983, insieme a due colleghi, per accreditare invece il suo articolo del 1993 come la vera scoperta. Sarebbe come affermare che la scoperta del Dna nel 1869 fu un fiasco perché solo nel 1944 si è potuto dimostrare a cosa serve! L'edizione italiana riproduce inoltre alcuni errori presenti nell'originale. Nella figura a pagina 63 la Nova Scotia e New Brunswick sono disegnate come se appartenessero agli Stati Uniti, mentre sono regioni canadesi. Inoltre, egli afferma che l'anidride carbonica funziona come i vetri di una serra, trattenendo il calore e immagazzinandolo nei legami chimici che saldano tra loro i suoi atomi: in realtà l'anidride carbonica assorbe la radiazione infrarossa e la converte in calore nell'atmosfera, mentre le finestre di una serra mantengono semplicemente l'aria calda all'interno.
J. William Schopf, «La culla della vita», Adelphi, Milano 2003, pagg. 500, 32,00.
Arti e scienze - Semir Zeki rilegge le principali correnti pittoriche alla luce degli studi sul cervello umano
Henri Matisse e altri neurologi
Vermeer, Leonardo, Michelangelo, i cubisti e i
di Armando Massarenti
Quando Leonardo scriveva, nel suo "Trattato di pittura", che, tra tutti i colori, i più gradevoli sono quelli in contrasto tra loro, non sapeva di aver enunciato in questo modo una verità fisiologica. Egli, a dire il vero, non avrebbe saputo dire bene quali colori erano da considerarsi opposti tra loro. Ma l'intuizione era giusta. Nel 1956 infatti due studiosi (Svaetichin e Jonasson) scoprirono che le cellule cerebrali eccitate dal rosso sono inibite dal verde, quelle eccitate dal giallo sono inibite dal blu e quelle eccitate dal bianco sono inibite dal nero (e viceversa). Altre intuizioni generalissime, e condivise nella pratica dai pittori di ogni tempo, come quella per cui la percezione dei colori è influenzata dal contesto in cui si trovano, hanno avuto recentemente delle conferme empiriche. Così oggi è possibile vedere che le cellule sensibili ai colori modificano radicalmente le loro reazioni a seconda dello sfondo su cui è collocato un colore.
Un libro come quello di Semir Zeki sarebbe stato inconcepibile se negli ultimi decenni non si fosse assistito al moltiplicarsi degli esperimenti, molti dei quali condotti dallo stesso autore, volti alla scoperta dei meccanismi del cervello. Se fosse uscito vent'anni fa, La visione dell'interno, che si propone di abbozzare una neuroestetica, cioè una scienza dei rapporti tra arte e cervello, sarebbe stato salutato con un misto di sconcerto, di irrisione e di irritazione. Dato il clima "culturalista" e "relativista" di allora - ma che sopravvive ancora tra molti esponenti della cultura umanistica - l'idea di cercare delle vere e proprie leggi di natura capaci di spiegare su base biologica i meccanismi universali dell'apprezzamento estetico sarebbe stata vista come una folle ripresa di un positivismo ormai screditato da tempo. Ma, per fortuna, i tempi stanno cambiando.
Il libro di Zeki comunque non è che un «abbozzo», un tentativo di ordinare tutto ciò che si sa sul rapporto tra arte e cervello all'interno di una teoria aggiornata dei meccanismi della visione. Negli ultimi anni è stato dimostrato che la visione è un processo attivo e dinamico. Come del resto aveva intuito Matisse, «vedere è già un'operazione creativa che richiede uno sforzo». Questo sforzo è volto a identificare le caratteristiche specifiche e stabili del mondo, che sono le uniche che vale la pena di conoscere. «Il cervello - scrive Zeki - è interessato solo alle proprietà costanti, immutabili, permanenti e specifiche degli oggetti e delle superfici del mondo esterno, perché sono queste proprietà che gli permettono di ordinare gli oggetti per categorie. Ma l'informazione che arriva dal mondo esterno non è mai costante, anzi è in continua fluttuazione. Vediamo oggetti e superfici da distanze e angoli diversi e in differenti condizioni di luce»: il verde di una foglia cambia continuamente a seconda che la vediamo di mattina di pomeriggio o di sera, quando c'è il sole o quando piove, eppure riconosciamo che si tratta sempre dello stesso verde. La visione è un processo neurale "attivo" che
Il quale è un neurologo senza saperlo, come Zeki cerca di mostrare analizzando, con esperimenti ingegnosi, le reazioni delle cellule cerebrali a diversi episodi della storia dell'arte, spaziando dalle interpretazioni neurobiologiche di Vermeer e Michelangelo alla critica del cubismo, dalla «neurofisiologia della linee orientate» e «dei quadrati e dei rettangoli» in Mondrian e Malevic a distinzioni quali quella tra arte astratta e figurativa, passando per l'analisi della capacità di riconoscere i volti e di percepire correttamente i colori, e degli effetti dell'arte cinetica e dei rapporti tra forma e colore.
Gli artisti sono dei neurologi tendenzialmente "platonici, come secondo Zeki è di fatto il nostro stesso cervello, ma talvolta si impegnano in progetti in contrasto con i normali meccanismi della visione. Come nel caso dei fauves, che hanno cercato di «liberare» il colore dalla «schiavitù della forma». Nella vita quotidiana il nostro cervello è abituato a vedere associati in certi oggetti un certo colore e una certa forma. Quando vede un oggetto o una forma di un colore non usuale - una banana blu, per esempio - si attivano delle parti del cervello che segnalano una contraddizione (che poi viene interpretata e corretta). Non è difficile immaginare dunque cosa potrà capitare davanti a un quadro di Matisse. Il progetto di una neuroestetica in fondo è indistinguibile dallo studio dei modi in cui il nostro cervello ci aiuta a conoscere la realtà che ci circonda.
Semir Zeki, «La visione dall'interno. Arte e cervello», Bollati Boringhieri, Torino 2003, pagg. 270, 45,00.
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