mercoledì 19 novembre 2003

la registrazione audio ed anche video della discussione
della tesi di specializzazione
di Elena Pappagallo
tenutasi martedì 11 novembre 2003
nell'Aula Magna del Centro Didattico di Ateneo
dell'Università di Siena
- Policlinico "Le Scotte" -
può essere ascoltata su mawivideo.it


clicca QUI

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alla Libreria Amore e Psiche
è possibile vedere due nuovi video

la Libreria AMORE E PSICHE comunica:

Vi informiamo che dalle ore 13.00 [di domenica 16. Ndr] sarà possibile vedere in libreria sia la cassetta riguardante la specializzazione della Dottoressa Pappagallo che la registrazione dell'incontro di venerdi scorso con il prof. Villari e l'on. Diliberto.

Saluti
Amore e Psiche
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la registrazione audio e video
dell'INCONTRO IN LIBRERIA
di Venerdì 14.11

SUL SITO DI MAWIVIDEO.IT È DISPONIBILE LA REGISTRAZIONE DELLA SERATA DEGLI INCONTRI IN LIBRERIA
del 14 novembre


sul tema del Novecento sono stati ospiti della Libreria Amore e Psiche

il Prof. Lucio Villari
e l'On. Oliviero Diliberto.


è intervenuto Massimo Fagioli

(clicca QUI)

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L'OSCAR DEL CINEMA EUROPEO
A MARCO BELLOCCHIO!

(questa notizia diffusa già ieri sera dalle agenzie e da un TG RAI, appare questa mattina, 19 novembre, anche su molte testate nazionali, più o meno sempre con questi stessi contenuti)

L' European Film Academy premia Bellocchio
Premio Fipresci della critica per l'ultimo film «Buongiorno notte» ed per la acclamata filmografia del regista italiano. Gli Oscar europei del cinema, saranno ufficialmente assegnati nel corso della cerimonia di gala a Berlino il 6 dicembre

(fonti d'agenzia)

"Buongiorno, notte", il film di Marco Bellocchio sul caso Moro è il vincitore del premio della critica degli Oscar europei 2003. La European Film Academy ha annunciato oggi i primi due European Film Awards 2003: quello della critica Fipresci a Bellocchio e quello per il miglior documentario, assegnato in cooperazione con il canale culturale europeo ARTE.
Michel Cimenti, presidente della associazione dei critici Fipresci, sottolinea che «il premio a "Buongiorno, notte" non è soltanto riferito ad uno dei film migliori di Bellocchio ma anche a tutta l’acclamata filmografia dell’autore, che dal ’65 a oggi comprende più di 20 film». La giuria di quest’anno, composta dallo svizzero Alfredo Knuchel, dall’inglese Ben Lewis e dal tedesco Michael Muschner ha deciso di premiare un film dedicato al confronto inusuale tra vittime e carnefici del genocidio in Cambogia: S21, La Machine de la mort khmere rouge del francese Rithy Pahn.
Gli European Film Awards, gli Oscar del cinema europei, saranno ufficialmente assegnati nel corso della cerimonia di gala a Berlino il 6 dicembre.
Il film di Marco Bellocchio, uscito in 210 copie il 4 settembre in concomitanza con la presentazione al 60/mo concorso della Mostra del cinema di Venezia, ha incassato ad oggi oltre 3 milioni 300 mila euro ed è molto richiesto dalle scuole. All’estero si è già fatto notare, e premiare, ai festival di New York, Londra e Toronto.
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Furio Scarpelli su Repubblica
anche a proposito di Marco Bellocchio

La Repubblica 19.11.03
Incontro con il grande sceneggiatore di capolavori come "La grande guerra". Ci parla del cinema di oggi e di come nasce un film popolare
"Per raccontare belle storie tenete l'orecchio a terra"
"Nanni Moretti ha occhi e cuore aperti. Giordana, Bellocchio e Milani sono autori che guardano dalla finestra non allo specchio"
"La fiction tv? Montalbano mi piace, ma ci sono storie con poliziotti che sono fanciulle attraenti ma mancano di verità"

di PAOLO D'AGOSTINI


ROMA - «Non ci siamo incontrati per parlare di politica», si schermisce. Il cinema, lei insegna, nasce da ciò che ci accade intorno. E la novità italiana è la ritrovata passione nello stare vicini alla vita. «Chi comincia a scrivere per il cinema deve sapere che cosa lo deve animare. Non solo scrivere un testo che diventerà film: distaccato da ogni responsabilità. Vengono fuori solo frescacce. Gli spunti devono venire dalla società. La domanda da farsi non è che film potrebbe venir fuori dal tale testo, ma dove nasce quel testo che dovrebbe far venire fuori un film. Lo spirito che una volta ispirava il cinema era semplice, lo si poteva condensare in poche parole: l'osservazione del reale, un nuovo spirito ricostruttivo, l'ironia unita alla drammaticità. Un insieme che si è espresso in tanti modi: commedia, neorealismo, i filoni di genere».
Il Premio Solinas per la sceneggiatura è servito?
«I testi di quest´anno fanno pensare che chi scrive ha capito che il modo lo stile il tono sono fondamentali. La vicenda in sé si compra dal tabaccaio».
Sua la polemica contro il vizio del «cinemismo». Il cinema italiano è guarito?
«È una passione che i giovani continuano ad avere. Il giovane che vuole scrivere o diventare regista al quale domandi perché, risponde "perché mi piace il cinema". Ma si deve pretendere di più».
A partire da "Pane e tulipani" si è di nuovo consapevoli di cos'è un cinema popolare.
«È vero e noi vecchi siamo rimasti piacevolmente sorpresi dal rinascere di ispirazioni semplici, che attengono alla socialità, alla politica. E ci fa piacere che siano anche successi di pubblico. Lo sbandamento da egomania cinemistica sembra interrotto». Un processo che è stato colto dai senatori come lei. L'adesione di Risi a Muccino, o quella di Monicelli a "La stanza del figlio". La sensibilità del veterano sente al volo che qualcosa si muove.
«In più ognuno di noi ha il proprio strascico di penne di pavone. Molti provano una soddisfazione comprensibile: allora quando io facevo il mio cinema non sbagliavo. Condivido ma non esibisco. Non mi sento maestro nel misero ricordo di quel poco che si è fatto, non mi dispiace che non venga gettato nella monnezza».
Lei ha sempre sottolineato l'importanza del pensiero che deve essere a monte.
«Personale e collettivo».
Ma dà l'impressione di sminuire il grande cinema popolare di cui è stato protagonista.
«No. L'ispirazione si poteva dire in poche parole ed era eccessivamente concreta, ma al di là delle singole personalità dei registi cui si aggiungevano indegnamente quelle degli sceneggiatori si è creata un'identità d'insieme. Quando manca l'identificazione tra un certo numero d'autori, che siano pittori musicisti scrittori o registi, manca quello che lei chiama pensiero. E così ognuno si attacca al proprio tram o al proprio ego. Nanni Moretti: lui il cuore e gli occhi li ha sempre tenuti aperti».
Esempi di grandi film cui ha partecipato lei.
«Non so se ho partecipato a grandi film».
"La Grande guerra"?
«Intanto c'era un racconto di Maupassant che ci ha eccitati, me Age e Vincenzoni. Naturalmente c'era al di sopra Dino De Laurentiis che telefonava per dire "oh, guardate che gli attori sono questi". E poi: "oh, guardate che deve far ridere". Dimenticata la telefonata, leggevamo cose che non avevano niente a che fare col cinema, Emilio Lussu di "Un anno sull´altopiano", le copertine della Domenica del Corriere. Una grande regola: non pensare a come verrà cinematograficamente».
L'opposto delle enfasi tecnicistiche alimentate dalla fiction tv.
«Certo, si vogliono degli schiavi al remo che producano metraggio. Il punto di partenza deve essere qualcosa che ha valore in sé. Vediamo Giordana, Bellocchio, Il posto dell'anima di Riccardo Milani: distolgono l'autore dallo specchio a favore del guardare dalla finestra».

Ma la tv può essere una scuola?
«Qualsiasi cosa nasca per essere narrata, dalla favola della nonna alla barzelletta, se dentro c'è l'anima è materiale buono. Purché si sia capaci di mantenere la nostra componente infantile come Einstein o Mozart. Mi piace molto Montalbano. Ma vediamo delle storie dove il commissario può essere una fanciulla attraente, che mancano di verità. La forza della verità è impalpabile ma potentissima. Il successo di certe commedie che noi abbiamo fatto era questo: avevamo l´orecchio sul selciato, e lo spettatore lo sentiva. Anche se poi veniva tutto affidato all'immaginazione di Sordi. Ogni volta che torni a mettere l'orecchio sul selciato e senti il pulsare del cuore di quello che c'è dentro, è più difficile sbagliare. Ecco quattro cinque sei film delle ultime stagioni che si riferiscono al battito del cuore del mondo e non del proprio».
Sordi: che cosa c'era dietro tanta adesione popolare?
«Qualcosa di profondo e importante. Di piacevole e di brutto dell'animo del cittadino mondiale. Un film al quale io non ho partecipato che era "Un americano a Roma", in cui faceva un motociclista del Kansas City, dileggiava l'americanismo dei giovani. Cosa sacrosanta che oggi nessuno ha il coraggio di fare. Era la parodia di un personaggio drammatico americano che sarebbe stato fatto l'anno dopo: "Il selvaggio" con Brando. Come se un film serio si fosse ispirato alla presa per il culo di Sordi. Questa sensibilità è il cuore segreto che lo univa a tante persone».
La Roma di Sordi era la stessa di Pasolini e di "Poveri ma belli": una varietà e una ricchezza andati perduti. Che cosa è successo?
«Una divisione che non deve avvenire: fra dramma e ironia. Come se si potesse cuocere gli spaghetti separando il fuoco dall´acqua. Se levi l'ironia diventa falso, se levi la tragedia diventa barzelletta».
"La meglio gioventù"?
«Un bel tuffo nel reale. È un indizio. L'Italia passa per essere un paese di superficiali. Ma nel cinema non lo siamo mai stati. Non si può dire quello che si può dire dei governanti attuali: che sono degli scalzacani».
Era prevedibile l'esito del film?
«L'incitamento alla memoria è servito. È il film di un vero narratore».
"Buongiorno, notte" di Bellocchio, "I sognatori" di Bertolucci, "La meglio gioventù": raccontano la memoria ma proiettata sul presente.
«Quella del ricordo è una necessità attuale. Sapere che cosa è accaduto al Portico d'Ottavia o nel '68. Bellocchio poi lo amo proprio per come vede personalmente le cose e per una specie di santità infantile. Pretendere da lui un documento storico non si può. Non è Oliver Stone. E non sono d´accordo con Monicelli: lui quando mai si è preoccupato che all'estero non lo capissero?».

l'intervista ad Andrea Masini e l'articolo sulla legge Fini sulla droga
di Simona Maggiorelli

ricevuto da Alessio Ancillai

AVVENIMENTI PRIMOPIANO 6.11.03
Il nuovo diktat: punire anche chi usa le droghe leggere. Per le associazioni va in fumo il lavoro fatto in questi dieci anni
di Simona Maggiorelli


Spaccati di storie da Roma e Milano, due città dove, in controtendenza con il dato nazionale, si muore ancora molto, troppo, per droga. In un quadro di tagli alla sa ‘ nazionale, fra sbrigativi provvedimenti dei governi di centrodestra delle Regioni Lazio e Lombardia, dove il fenomeno di tossicodipendenze si fa sempre più complesso, stratificato, trasversale. Qui. come del resto in molte altre città italiane, non si tratta più soltanto del buco di “ero” di persone emarginate, disperate. Si parla di massicci consumi di cocaina, di uso e abuso di psicostimolanti e alcool da parte di persone socialmente inserite, i cosiddetti “normali”, all’inseguimento di ritmi di lavoro sempre più forsennati, affogati da precarietà, ansia da prestazione e miraggi di carriera. Ma anche - e la faccenda si fa in questo caso davvero delicata - di ragazzini sedotti a pensare di poter risolvere ogni problema per via chimica da facili promesse di spacciatori, dal prezzo in rapido calo di pasticche e polvere, ma anche dal tacito esempio di molti genitori che ricorrono agli psicofarmaci. Da diversi anni le illusioni e le solitudini dei paradisi artificiali vanno ben oltre la comune “canna dal blando effetto sedativo e che, senza avere gli effetti devastanti delle droghe sintetiche e pesanti. nel codice giovanile è al fondo simbolo di socializzazione, un invito a mollare gli ormeggi nel rapporto con l’altro.Una realtà complessa che la controriforma Fini sulla droga sembra del tutto ignorare calando l’asso demagogico di una sbrigativa equiparazione cannabis, coca, eroina: sbandierando una scientificamente infondata tesi che il fumo provocherebbe la schizofrenia: ricorrendo al pugno di ferro della sanzione, del carcere, non tanto e non solo per chi produce. importa o spaccia. ma anche per il singolo consumatore, magari giovanissimo e in difficoltà, per il quale il carcere non rappresenterebbe certo una buona terapia. Tanto per richiamare alcuni dati diffusi dal ministero degli Interni, il 30.4 per cento dei detenuti è tossicodipendente e su 208 istituti di pena. solo 98 permettono ai Sert di curare questi malati. contraddicendo il dettato costituzionale che garantisce a tutti i cittadini, liberi o detenuti, uguale diritto alle cure. Parola dell’ex ministro della Salute Umberto Veronesi. «Il vicepremier Fini punta il dito e criminalizza l’uso delle sostanze - dice Massimo Oldrini della Lila di Milano - ma il fatto è che non si fa nulla per prevenire, cercano perfino di smantellare le politiche di riduzione del danno che associazioni di volontariato e Sert praticano nei quartieri, nelle zone di periferia, nelle area a rischio». Un servizio di distribuzioni di sir di opuscoli informativi sui da ga, di preservativi e altro mater battere la diffusione dell’Hiv, tentativo, per quanto possibile. i ragazzi che “si fanno”, di tirarli dentro un rapporto, di avviarli verso percorsi di cura. Un lavoro capillare sul territorio, riconosciuto in sede Europea e che ha contribuito a far calare il rischio di infezione da Hiv fra i tossicodipendenti, dal 67,4 per cento del 1993, al 37,1 percento del dicembre 2002. «Si fa presto a dire abbattiamo Rozzano, si fa presto a additare e stigmatizzare le zone più degradate della città e dell’hinterland, quando non si fa nulla per migliorare la situazione, ma anzi si tagliano i finanziamenti alla prevenzione, si accorpano e si indeboliscono i Sert, prefigurando in sostituzione Sert privati, in un clima generale di gran de incertezza e di progressiva precarizzazione degli operatori pubblici del settore». denuncia un dipendente Asl di Milano, coordinatore di più unità mobili di strada nel milanese e che preferisce restare anonimo perché, come la gran parte dei dipendenti dei Sert, sarebbe soggetto a sanzioni per aver parlato senza ufficiale autorizzazione.

«È una realtà purtroppo macroscopica quel la dell’indebolimento dei servizi pubblici», commenta Don Gino Rigoldi di Comunità Nuova, fondata nel 1973 a Milano con un gruppo di volontari che si occupavano dei ragazzi in uscita dall’Istituto penale “Beccaria” e poi via, via sempre più impegnata ad ampio raggio in percorsi e comunità di recupero dalle tossicodipendenze. «Con la scusa che non ci sono soldi - spiega - si spingono medici e operatori verso situazioni di precariato, si tolgono finanziamenti, risorse a progetti di pronto intervento e alla messa a punto di nuove strategie. In questo modo chiunque ha buon gioco nell’attacca re i Seri, nel dire che non funzionano». «La criminalizzazione e I ‘avviamento coatto verso programmi di disintossicazione - aggiunge Oldrini - sono inutili. Per uscire dal le dipendenze, bisogna decidere di farlo e questa motivazione non la si può imporre per decreto». In questo quadro, la domanda viene spontanea: cosa significherebbe per Milano l’applicazione della legge Fini? «In tanto un effetto immediato - risponde Oldrini - vorrebbe dire alzare il livello di repressione, togliere sempre di più dalla vista ciò che è brutto con conseguenze disastrose. Lo si è visto già con la prostituzione. Costringere chi fa la vita verso l’hinterland, verso campi e zone disabitate ha provocato un aumento esponenziale di casi di violenza. Molte prostitute sono state trovate morte sul posto di lavoro. Potrebbe accadere lo stesso con i consumatori di eroina, difficile che qualcuno possa lanciare l’allarme in zone così isolate. » Diverso scenario, situazione non meno a rischio. Scendiamo nel Lazio, clic insieme al la Campania detiene un triste primato di de cessi per droga. Rispettivamente più 5,4 e più 6,3 per cento nel 2002. rispetto all’anno precedente. Una situazione di gravissima su cui il governo regionale di Storace ha pensato di intervenire con circolari e prescrizioni di restringi mento. Forse dettata da eccesso di zelo, l’iniziativa autonoma della direttrice del dipartimento sociale del Lazio, Elda Melaragno, che per via burocratica lo scorso giugno ha cercato di disciplinare l’uso del metadone. Non importa quali siano le prescrizioni mediche, il metadone nei Sert laziali potrà essere dato in do se giornaliera e non settimanale: i tossicodipendenti. non importa quali siano i loro impegni di lavoro, dovranno recarsi di persona al Seri. ogni giorno. «È una circolare illegittima. non è con note burocratiche estemporanee che si possono aggirare le leggi nazionali», commenta Massimo Barra, uomo del centrodestra, presidente della rete della Croce Rossa europea sull’Aids e storico fondatore di Villa Maraini, fondazione della Croce Rossa e unico istituto che dal ‘76 a Roma offre un servizio 24 ore su 24. «La circolare è stata contestata da un coro di vo ci di operatori (li schieramenti politici differenti - precisa Giulia Rodano responsabile Ds della sanità per il Lazio - ma nella regio ne sono ancora molte le zone di emergenza. In tutto il Lazio ci sono 70 progetti che non partono. molti servizi, sia pubblici che con la partecipazione dei privati, sono a rischio di chiusura e i Seri versano in una grave emergenza determinata dalla mancanza di organico, aggravata dal blocco totale delle assunzioni e dai contratti a tempo determinato». Alcune sedi storiche di Sert sono sotto sfratto, sospesi nell’attesa incerta di esse re accorpati ad altri servizi. In altri, come il Seri di Ostia, per ragioni di risparmio economico ma anche, si direbbe, per confusione mentale di chi li gestisce, funzionano da “punto dì riferimento” per un numero molto grande e diverso di soggetti con esigenze le più disparate: immigrati, drogati, poveri, handicappati, malati di mente. Il Governo evidentemente non distingue. Esemplare anche il caso del Sert di Roma E. in via Fornovo: «L’edificio è stato venduto per ripianare alcuni debiti della Asl - ci racconta un medico che ci lavora da vari anni e che accetta di parlare a patto di restare anonimo - Il trasferimento del Sert è certo ma non sappiamo dove siamo destinati. Il nostro di stretto di tossicodipendenze verrà probabilmente soppresso». Perché tanto accanimento? «Il nostro lavoro non è mai stato apprezzato: la nostra impostazione è soprattutto medica, ci occupiamo di extracomunitari, di controlli su malattie infettive, ma il via vai dì immigrati che entrano ed escono dal nostro Sert non è giudicato bello da vedere in questo quartiere “bene” di Roma. Altra specialità è la psichiatria, facciamo doppie dia gnosi, ci occupiamo dei tossicodipendenti anche dal punto di vista della concomitanza con malattie mentali E nel quartiere nessun caso di droga fra i residenti? «Molti, soprattutto legati alta cocaina, alla concomitanza fra eroina e cocaina, ma il fenomeno probabilmente è più esteso di quanto non appaia al nostro osservatorio. Non tutti vengono da noi». Come medici, psichiatri. operatori sanitari del Sert dove sarete ricollocati? «Sul piano personale è proprio questo il fatto più pesante, non lo sappiamo, nessuno finora si è preso la briga di avvertirci».
RISPARMI STUPEFACENTI
Meno investimenti in prevenzione e nella riduzione del danno. Nelle regioni di destra la “punizione”sta già producendo disastri

LO PSICHIATRA
“Il carcere? Un delitto”

“L’assunzione di una sostanza stupefacente - spiega lo psichiatra Andrea Masini, primario del Centro diurno di Via Vaiano a Roma - non può in nessun caso causare una schizofrenia. Può accadere semmai evidenzi una patologia che c’era gi e che comunque sarebbe prima o poi venuta fuori”.
Nel Centro diurno vi occupate di pazienti psicotici. Capitano mai ragazzi che fumano spinelli?
È un fatto frequentissimo. I ragazzi schizofrenici spesso hanno avuto esperienze con il fumo. Come i ragazzi normali. Qua si tutti i giovani, oggi, hanno provato uno spinello.
Considera la cannabis tossica?
In un certo senso sì, perché modifica temporaneamente i processi mentali e di pensiero. La droga leggera lo fa in modo leggero. Ma insomma non mi sentirei di consigliarne l’uso.
Un’alterazione che provocano anche certi psicofarmaci...
Quando prescriviamo gli psicofarmaci facciamo la stessa operazione che fa un ragazzo che assume sostanze. Dietro c’è la cultura della droga. L’idea che un farmaco, un oggetto esterno, possa magicamente e rapidamente, senza alcuno sforzo, restituirci quello che abbiamo perduto in termini di affetti, di pensiero, di emozioni. E non esiste nessuna possibilità di restituire queste cose con dei farmaci.
Come deterrente alla droga serve il carcere?
Mandare un ragazzo giovane in carcere è un vero e proprio delitto. E criminalizzare le droghe leggere non fa altro che favorirne l’uso.

donne e uomini malati di mente
nell'Ottocento siciliano

La Repubblica edizione di Palermo 19.11.03
IL PRIMO PAZZO DELL'ISOLA
di AMELIA CRISANTINO


Era il 10 agosto del 1824 e il barone Pietro Pisani, appassionato musicofilo e archeologo per diletto, veniva nominato deputato alla Real casa dei matti di Palermo. Pisani era un originale, uno di quegli uomini che s'appassionano a quanto per gli altri è noioso dovere. Cosa fosse capace di fare s'era visto con l'archeologia, quando seguendo gli scavi che gli inglesi Harris e Angell facevano a Selinunte aveva bloccato l'emigrazione delle metope rinvenute.
Diventato deputato della Real casa dei matti il barone Pisani visitò l'antico lebbrosario dove emarginati d'ogni genere vivevano incatenati al muro e fra di loro, coperti di stracci e affamati. Ne restò sconvolto. Per prima cosa eliminò le catene e rifocillò i malati. Poi, reputando che la provvidenza gli avesse affidato il compito di «restituire la ragione ai poveri matterelli», organizzò i suoi domini come un'utopia realizzata dove i malati contribuivano col loro lavoro - soprattutto quello agricolo - a creare una società organizzata come un meccanismo di orologeria.
Il regolamento della Real casa dei matti possiamo leggerlo nell'antologia di testi inediti o rari pubblicata da Sciascia sotto il titolo "Delle cose di Sicilia" e davvero ci sentiamo di concordare con quanto scriveva Michele Palmeri nei suoi Souvenirs: «Nel Paese più arretrato d´Europa c'è il manicomio più avanzato d'Europa».
Nella Real casa dei matti di Palermo il barone Pisani mise in scena una rassicurante divisione dei compiti dove, a forza di rispettare i malati come forse mai lo erano stati da sani, si sperava di convincere la ragione a diventare un'ospite abituale. Del resto la normalità appariva quanto mai labile e spesso arbitraria a chi aveva abbracciato il compito di governare i matti con la speranza di far nascere la ragione.
Spesso il barone firmava le sue lettere «il primo pazzo della Sicilia» e di un paziente, che aveva ucciso uno dei custodi che voleva bastonarlo, aveva fatto dipingere un ritratto celebrativo. Ad ammonimento di quanti fra il personale potessero avere la tentazione di seguire l'esempio dell'impulsivo collega.
La Real casa dei matti ordinata dal barone Pisani era una comunità attiva, molto più armoniosa del mondo esterno. Al pari di altri filantropi che agli albori del XIX secolo organizzarono e separarono le "case dei matti", anche Pisani era convinto che la follia fosse causata dalla perturbazione dell'animo e dell'immaginazione, che si potesse guarire allontanando il paziente dal suo ambiente e inserendolo in un sistema ordinato e sereno. Era un dilettante, guidato solo dal suo appassionato buon senso.
Poi la follia viene inventata come nuova frontiera della medicina. Sulla genesi e la nascita della follia come malattia moderna, che per contrasto delimita i confini della normalità, abbiamo gli insuperati scavi di archeologia sociale di Foucault. Ma in Italia restano ampi continenti ancora inesplorati e il nuovo numero della "Genesis", la rivista della Società italiana delle storiche (n. 1, 2003), curato da Giovanna Fiume e intitolato "Manie" è in questi continenti che prova a inoltrarsi.
"Genesis" riunisce studiose che lavorano a ricerche di storia delle donne e storia di genere. Nei saggi qui raccolti spaziamo dall'indagine di Valeria Andò sulla follia femminile nella Grecia classica, sintomo transitorio che non implica la segregazione sociale, alle indagini di Augusta Molinari e di Anna Colella sull'internamento femminile nel corso dell'Ottocento e del Novecento quando il disagio delle donne diventa spia delle difficoltà di adattamento della famiglia italiana, con la creazione dello spazio domestico come luogo dove il lavoro di cura viene isolato e privato del supporto delle reti di solidarietà, mentre l'interesse verso l'infanzia si spinge sino a valorizzare i "non nati". La sfera domestica diventa allora una delle principali fonti del malessere femminile, alla sua esaltazione corrisponde l'esclusione delle donne dalla sfera pubblica.
Ai tempi del barone Pisani nella Real casa dei matti di Palermo veniva messo in scena il teatro della ragione borghese, dove l'unica divisione era fra i matti poveri e le «persone comode» a cui era però proibito mantenere domestici. Su "Genesis" Bell Pesce dedica il suo studio a storie cliniche e percorsi di ammissione al manicomio di Palermo dal 1890 al 1902 e scopriamo come i tempi dell'utopia razionalista del barone Pisani siano definitivamente tramontati.
Fra i ricoverati prevalgono le donne, le più fragili nella gerarchia sociale. Appartengono alle fasce sociali deboli, dall'analisi delle loro cartelle cliniche vengono fuori molti dati "oggettivi" in ossequio ai canoni della medicina positivista. L'osservazione delle donne appena ammesse in manicomio cominciava con la misurazione cranica. Poi, in assenza di evidenti caratteri degenerativi, lo sguardo medico si soffermava sui caratteri sessuali e sulle funzioni riproduttive e sotto la voce "malattie di altri organi" sono riportati i casi di denutrizione e malformazione, ma anche le gravidanze.
Nel primo decennio del Novecento psichiatri e ginecologi discutono animatamente della definizione giuridica della donna. Finiscono spesso per concordare che l'essere umano di genere femminile è periodicamente incapace di intendere e volere a causa del suo ciclo mestruale. Stadio intermedio tra il fanciullo e l'uomo, la donna è fondamentalmente immorale ma le difetta la coscienza. Non merita nemmeno d'essere dichiarata colpevole.

senti bene gli odori?
un lancio ANSA sulla schizofrenia

ANSA 18/11/2003 - 15:59
MEDICINA: DA DIFETTI OLFATTO DIAGNOSI PRECOCE SCHIZOFRENIA


(ANSA) - SYDNEY, 18 NOV - Un senso dell'olfatto difettoso può far prevedere il rischio di schizofrenia, mesi o anni prima dell'insorgere dei primi sintomi mentali. Il risultato è di una ricerca di neuropsicologi dell'università di Melbourne. "È la prima volta che si trova un 'marker' specifico per la schizofrenia", ha dichiarato Warwick Brewer, coautore dello studio. "Una diagnosi precoce è cruciale - ha aggiunto - perchè gli schizofrenici sottoposti a terapia tempestiva hanno probabilità di miglioramento".

scienza & web - Ansa

martedì 18 novembre 2003

Oliviero Diliberto: l'intervento alla Camera
citato nell'incontro sul Novecento
alla Libreria Amore e Psiche

STRAGE DI NASIRIYAH
L'intervento di Oliviero Diliberto alla Camera
Ufficio stampa
Roma, 12 novembre 2003


Signor Presidente, onorevoli colleghi, questo è un giorno tragico per l'Italia; è autenticamente un giorno di lutto nazionale. Siamo solidali con le Forze armate, ci inchiniamo di fronte alle vittime ed esprimiamo una solidarietà profonda e sincera alle famiglie, non solo alle famiglie di coloro che sono morti, ma anche a quelle degli altri militari italiani impegnati in Iraq, che da oggi vivranno in modo lacerante le ore ed i giorni.

Ma questa, signori del Governo, è l'unica cosa che ci accomuna. Perché questa grande angoscia, che è sicuramente di tutti, si accompagna ad una grande rabbia, ad una collera che non si placa.

Voi dovete rispondere al paese: in nome di che cosa sono morti i nostri soldati? Per quale motivo? Sotto quale bandiera? Perché erano lì, in un paese occupato, dopo una guerra illegittima dal punto di vista del diritto internazionale e in aperta violazione dell'articolo 11 della Costituzione?

Non è tempo di ipocrisie: sono stati mandati allo sbaraglio, dalla maggioranza e dal Governo. Da un Governo che gestisce la politica estera con una superficialità che fa davvero paura, una superficialità che mette tutto il Paese in pericolo.

Decenni di politica estera italiana, decenni di pace e di cooperazione nel bacino del Mediterraneo, nei confronti del mondo arabo, si sono dissolti! Pazienti tessiture di rapporti e di diplomazie, che avevano messo il nostro Paese al riparo dagli attentati e dal terrorismo, sono ormai solo un vago ricordo. I nostri soldati sono stati mandati allo sbaraglio, senza alcuna copertura politico-diplomatica, senza quell'indispensabile rete di intese e di rapporti necessari quando si sta in territorio di guerra.

Ricordate la missione in Libano? Difficilissima: decenni di guerra civile! Ma l'Italia ne uscì a testa alta, con un accresciuto peso internazionale, compiendo una vera missione di pace, perché vi era quella rete di rapporti, di diplomazie.

Oggi, tutto è cambiato! Oggi, la politica estera di questo Governo è quella delle cene nelle ville della costa Smeralda, delle canzoni di Apicella, delle pacche sulle spalle, degli ammiccamenti e della totale subalternità all'Amministrazione americana, a Bush!

Il nostro ruolo internazionale è pari a zero.

Nell'Iraq vi è il caos più totale, con il rischio dell'estensione del conflitto ad altre zone, come dimostrano le sanzioni decise dagli Usa nei confronti della Siria. Tutto è sfuggito al controllo. Nel frattempo, in Palestina, non vi è stato alcun passo in avanti e, anzi, prosegue la costruzione del muro della vergogna.

È il fallimento completo di una politica estera fondata sulla guerra e sulla cancellazione del diritto internazionale.

Purtroppo si sono verificate, oggi, le più fosche previsioni! Avevamo chiesto, disperatamente chiesto, di non mandare alcun uomo italiano in Iraq, come hanno fatto altri Paesi che non sono certo nemici degli Stati Uniti, come la Francia e la Germania. Avevamo chiesto, ben prima dell'attentato, molto prima dell'attentato, che il nostro contingente venisse ritirato. Invece, addirittura ne è stato prolungato il mandato.

Oggi, indipendentemente dalla immane tragedia che si è consumata a Nassiriyah, voi avete un solo dovere: riportare subito i nostri soldati, sani e salvi, in Italia! Non perché c'è stato l'attentato, ma perché questa guerra è un orrore infinito, un orrore inutile, che anzi alimenta le ragioni dei terroristi.

Voi, signori del Governo, siete politicamente, moralmente responsabili. Se il vostro fosse un Governo degno di questo nome, vi sareste presentati dimissionari in Parlamento! Ma non lo siete, perché non rappresentate l'Italia e la sua ansia di pace, di convivenza tra i popoli, il suo largo e convinto desiderio di serenità.

Voi, signori del Governo, vi dovreste soltanto vergognare

l'assassina di Firenze

La Repubblica, edizione di Firenze 18.11.03
I TESTIMONI
"Usò una doppia voce nel momento dell'omicidio"


Le inquiline americane del piano di sotto, del palazzo di via della Scala, avevano sentito sabato 8 novembre, all´ora del delitto delle grida disumane, una donna che urlava «Aiuto, aiuto». Era la voce di Rossana D'Aniello appena di prima di essere uccisa. Poi più niente e dopo un po' un'altra voce, di scherno, che allo stesso modo diceva più piano: «aiuto eh, eh, aiuto». Questa seconda voce, sentita dalle ragazze americane, era a parere di chi indaga, la voce quella dell'assassina, cioè di Daniela Cecchin, 47 anni, il cui arresto è stato convalidato ieri dal gip. Anche i colleghi di lavoro hanno raccontato che l'impiegata comunale a volte si chiudeva nel bagno e parlava da sola con due voci differenti, uno sdoppiamento della personalità. Ieri mattina in questura è stato sentita un'amica dell'arrestata e suo marito: «Sono rimasta sconvolta per quello che è successo - ha detto la donna senza voler rivelare il nome - è da anni che non sentivo più Daniela. Eravamo vicine di casa, ero una sua amica». Al magistrato inquirente la Cecchin aveva detto "È stato il diavolo". Ieri è stato ascoltato anche uno degli psichiatri che ha avuto in cura Daniela Cecchin.

il Concordato preventivo: lo stato dell'arte
da clorofilla.it


clorofilla.it > articoli > economia e mercati
Concordato preventivo, dubbi accademici sulle modifiche. E' il caso, ma non solo, di talune prestazioni mediche, dove la necessità di subordinare la prestazione della cura alla disponibilità del paziente a essere identificato urta contro fondamentali principi di deontologia professionale. Il direttore del Dipartimento di Scienze economiche dell'università di Bari spiega perché l’eliminazione dell’obbligo di fatturare avrebbe consentito di affrontare finalmente alcuni gravi inconvenienti in alcuni settori delle professioni e dei servizi particolarmente sensibili
Il Fondo. "Curare" la Finanziaria è (ancora) possibile
di Ernesto Longobardi


(l'originale dell'articolo qui riprodotto si può raggiungere cliccando QUI


Roma - Il decretone, cioè il decreto legge 269/2003 che contiene gran parte della manovra finanziaria per il 2004, nell’originario testo, cioè quello pubblicato sulla GU – che fino alla conversione rimane in vigore - prevedeva per i soggetti che aderiranno al nuovo istituto del concordato fiscale preventivo, la sospensione dell’obbligo di “emissione dello scontrino fiscale e della ricevuta fiscale, …, nonché della fattura a favore di soggetti non esercenti attività di impresa o di lavoro autonomo” (art. 33, comma 2, lettera b, e comma 9).
Con il maxi-emendamento approvato al Senato, sul quale è stato posto il voto di fiducia, l’art.33, istitutivo del concordato preventivo, è stato integralmente sostituito. La disposizione che abbiamo richiamato viene modificata in due punti (art. 33, comma 3, lettera b e comma 13): la sospensione dell’obbligo di emissione viene limitata a scontrini e ricevute, escludendo le fatture emesse nei confronti di “privati” non soggetti IVA; viene mantenuto l’obbligo di emissione nel caso di richiesta da parte del cliente. Mentre su questo secondo aspetto non si può che concordare (e si ritiene che l’omissione di tale previsione nel testo originario sia da ascrivere a puro errore materiale), la seconda modifica ha destato notevoli perplessità, sia tra le organizzazioni di categoria sia a livello tecnico: si possono vedere, in particolare l’intervento di chi scrive apparso su Il Sole-24 ore del 1 novembre 2003 (pag. 19) e quello di Felicioni e Ripa su ItaliaOggi del 5 novembre 2003 (p. 28).
La modifica crea infatti una ingiustificabile frattura nella platea dei soggetti che effettuano operazioni nei confronti dei consumatori finali, che è quella cui in primis si rivolge il nuovo istituto del concordato: commercianti e artigiani da una parte, professionisti ed artisti dall’altra. Ma c’è molto di più. La sospensione dall’obbligo di emissione della fattura consentiva di affrontare finalmente, anche se limitatamente al mondo dei concordatari, alcuni gravi inconvenienti dell’attuale assetto della normativa sugli obblighi di certificazione: in primo luogo quelli che affliggono alcuni settori delle professioni e dei servizi particolarmente sensibili, dove l’obbligo di identificazione nominativa del destinatario della prestazione urta contro i diritti alla riservatezza garantiti dal nostro ordinamento.
In tale ambito, il caso delle prestazioni mediche presenta aspetti di particolare rilevanza e delicatezza. L’obbligo al segreto e alla riservatezza assurge in questo caso al rango di fondamentale principio deontologico, sancito, nel caso italiano, dagli articoli 9 e 10 del Codice. Ma si deve ricordare anche l’art. 3, “dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica…”: potrebbe il medico subordinare la cura alla disponibilità del paziente ad essere identificato per ottemperare ad un obbligo di natura fiscale?
Il paradosso, nel caso dei medici, è che l’obbligo di emissione della fattura non è neppure uno strumento di presidio del gettito IVA in quanto, come noto, “le prestazioni sanitarie di diagnosi, cura e riabilitazione rese alla persona nell’esercizio delle professioni e arti sanitarie” sono operazioni esenti (art. 10, n. 18, DPR 633/1972, che istituisce e disciplina l’imposta sul valore aggiunto). Tant’è che per la quasi totalità delle operazioni esenti è prevista (art. 36 bis del 633) la dispensa dall’obbligo di fatturazione, con l’unica condizione di una semplice comunicazione da parte del contribuente all’ufficio. Strano a dirsi, tuttavia, le prestazioni mediche sono escluse da tale possibilità (insieme alle cessioni di oro! L’accostamento può far piacere alla professione!).
Si è persa dunque, con l’emendamento al concordato, la possibilità di porre un rimedio ad una situazione del tutto irragionevole, consentendo al medico di non emettere fattura nel caso il paziente non la richieda. Si potrà forse rimediare nell’ambito degli aggiustamenti al concordato che dovrebbero essere approvati già con la legge finanziaria. Se così non sarà, si dovranno prendere iniziative decise per un provvedimento di modifica dell’attuale normativa sulla fatturazione (articoli 21, 22, 36 bis del DPR 633).
* Professore Ordinario di Scienza delle Finanze all'Università di Roma

ancora sul libro di Lidia Ravera su Erika

La Gazzetta del Sud martedì 18 novembre 2003
Lidia Ravera scrive ad Erika. Quando il sabato sera esaurisce tutto il futuro
di Candida Curzi


Lidia Ravera Il freddo dentro Rizzoli pagine 175 - euro 13,50


Lidia Ravera, la ragazza degli anni '70, che firmò il manifesto degli adolescenti di allora, «Porci con le ali» , scrive a Erika, la ragazzina di Novi Ligure, che con il suo fidanzato Omar ha ammazzato mamma e fratellino a coltellate. Perché se oggi «Erika ha bisogno di silenzio, noi abbiamo bisogno di risposte, o almeno di continuare a porci delle domande, a riflettere, a pensare, perché Erika è un caso estremo, ma il freddo che è dentro di lei, potrebbe essersi insinuato anche in altri corpi giovani, in altre anime. Come una malattia. E la colpa potrebbe essere anche nostra». Il libro è una lunga lettera e insieme la cronaca di un'indagine appassionata per capire chi è Erika, chi erano i suoi familiari, gli amici, la scuola, il paese, il contesto, insomma, dove una ragazzina di 16 anni, è diventata un'assassina, feroce e inconsapevole allo stesso tempo. Come negli incubi peggiori. Lidia Ravera, che oltre che scrittrice è madre di due ragazzi ormai grandi, racconta a Erika che avrebbe voluto incontrarla, parlarle, almeno guardarla negli occhi. Ma «il silenzio attorno a te è diventato un progetto educativo», così si è dovuta accontentare di leggersi i tomi di perizie psichiatriche, interrogatori, intercettazioni, le cronache dei giornali, andare a parlare con il preside della scuola dove Erika studiava, la gente di Novi Ligure che conosceva la sua famiglia, il colonnello dei carabinieri del Ris che ha analizzato la scena del delitto. E, sfogliando carte e fotografie, raccontandole, interrogarsi su come era stata adolescente lei e i ragazzi degli anni '70, che sono i genitori degli adolescenti di oggi. Alla ricerca del guasto, del punto dove il meccanismo si è rotto. Gli indizi, disseminati nel racconto, sono stati. A cominciare dall'ostinata normalità di Erika e della sua famiglia, nella loro villetta a schiera con giardinetto, le giornate scandite da scuola e palestra, la mamma che sembra una sorella, l'estate al mare, l'inverno a sciare... fino al «Quiz show», guardato con papà prima che lui uscisse e Erika desse il via libera ad Omar per aiutarla a compiere la strage. Droga? Al Sert di Novi Ligure dicono che no, Erika e Omar non li avevano mai sentiti nominare, non erano consumatori abituali, «forse qualche spinello come quasi tutti, qualche tiro di coca». La scuola? Macché, anche lì «solo il 6, come molti» . Normale, anzi «impiegatizio». Anche il sesso: tutti i giorni, dalle 15.30 alle 19, Erika va a casa di Omar. «Studiate!» dice Susy Di Nardo alla figlia; la madre di Omar prepara la merenda; i due ragazzi, nella stanza di lui, fanno l'amore, a volte litigano e poi fanno la pace, e, da due mesi prima, cominciano a parlare di come fare per stare sempre insieme: se mamma e papà Di Nardo morissero, loro potrebbero vivere lì, al posto loro, nella villetta a schiera, magari adottare il fratellino. Si potrebbe mettere il veleno per topi nel minestrone... ma come si farebbe ad accusare del delitto due rapinatori albanesi? meglio i coltelli. Così parlano dell'amore e del futuro questi due ragazzi. Noi, ricorda Ravera, facevamo l'amore di nascosto e ce ne andavamo da casa a 18 anni; pensavamo di doverlo costruire il nostro futuro, volevamo addirittura cambiare il mondo. «Voi generazione di orecchie tappate dalle cuffiette stereofoniche, di tatuaggi nascosti, di ombelichi esposti, generazione di "per sempre" figli, di consumatori silenziosi, di tranquilli a casa, generazione di tolleranza mille e screzi zero, con mamme e papà sempre tesi a giustificarvi...» avete fretta, la volete subito l'eredità, la libertà. Il futuro è domani, sabato sera, le vacanze. «Senza futuro, mi dicono, si vive benissimo. Anzi meglio. Visto che in ogni progetto è contenuta almeno una bugia. D'accordo, ma senza futuro che fine fa la speranza?» si chiede la Ravera. E chiude il libro con una frase scritta da Erika in un tema poche ore prima del massacro: «La mia famiglia è magica e immensa». Lasciando spalancato il baratro di incomprensibilità.

lunedì 17 novembre 2003

Marco Bellocchio al Convegno dell'Agiscuola

news2000.libero.it Adnkronos e La Stampa VivereRoma

Roma, (Adnkronos/Mak) - Platea ricca di personaggi del mondo spettacolo quella dell'ottavo convegno dell'Agiscuola, che si terrà a Roma il 17 e 18 novembre, dedicato quest'anno a "Cinema, teatro, televisione, circo e scuola: insieme per promuovere l'autonomia culturale della mente". Tra gli interventi previsti ci saranno quelli di Leonardo Pieraccioni, Stefano Accorsi, Marco Bellocchio, Alessandro Haber, Florestano Vancini, Tiberio Timperi, Anna Proclemer, Carla Fracci, Raffaele Paganini, Massimo Wertmuller, Cosimo Cinieri e il senatore Livio Togni.

[...]
(Mak/Adnkronos)

INTERNI, la rivista dell'arredamento
su "Buongiorno, notte"

ricevo da Marco Bartoli:

«su INTERNI, la rivista dell'arredamento, numero di novembre 2003
si può leggere l'articolo "Il cinema e la storia" di Angelo Villa

Nell'articolo sono presentate diverse forme con cui il cinema ha trattato il rapporto cinema-storia tra cui il recente
"Buongiorno, notte" di Marco Bellocchio
(su questo argomento circa 160 parole e due foto tratte dal film)
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la Cina alla radio

La Stampa 17.11.03
Renata Pisu sul terzo canale alla guida di «La stirpe del drago»
storia e segreti di una nazione misteriosa
Immersi nelle acque della Cina


«CHI ha paura della Cina?». Se lo chiedono in molti, sui giornali e alla tivù; mercoledì prossimo andrà in onda sulla terza rete una puntata di «cominciamo bene» che tenterà di dare una risposta a questa domanda. Ma siamo sicuri di conoscere bene la Cina o meglio di avere informazioni sufficienti per formulare un giudizio sensato? A questo proposito giunge quanto mai tempestivo «La stirpe del drago» un ciclo di conversazioni di Renata Pisu in onda su Radio 3 Rai il sabato e la domenica dalle 10.50 alle 11.50, per la regia di Caterina Olivetti. La grande sinologa (in Italia gli studiosi della civiltà cinese sono tutte donne) non fa pesare i decenni di studio e la sua esperienza sul campo, ma offre amichevolmente all'ascoltatore i mezzi per farsi un'idea della Cina. Per esempio parlando dell'importanza dei fiumi per i cinesi, soprattutto lo Yangtze Kiang, sul quale si sta costruendo la diga delle Tre Gole, alta 185 metri e lunga due chilometri, che creerà un lago lungo 600 chilometri; l'acqua salendo di 139 metri sommergerà 4500 villaggi, seppellendo per sempre un paesaggio illustrato dai pittori e cantato dai poeti, compreso Mao Tse-Tung che, quando voleva ribadire il suo potere, faceva una nuotatina nel fiume, costringendo migliaia di seguaci a fare altrettanto.
Fin dall'antichità per far funzionare il controllo dei «benefici d'acque» sono state necessarie grandi opere idrauliche che solo un regime dispotico e centralizzato poteva realizzare. Parlando della filosofia e della religione in Cina, Renata Pisu offre una spiegazione plausibile della difficoltà di imporre un freno all'espansione demografica; per i cinesi «il culto degli antenati ha un'importanza enorme. Il dovere di un cinese è quello di fare figli. Ogni uomo incarna i suoi antenati e i suoi discendenti». La puntata era cominciata con un'esortazione: «Per capire la Cina eterna bisogna immergersi nel Tao». Una parola, però Renata Pisu ci prova ottenendo il risultato di incuriosire l'ascoltare e fargli venire voglia di provarci.
Ci sono capitoli della recente storia cinese che sgomentano, come l'annessione del Tibet, un territorio grande come l'Europa Occidentale e la sua violenta trasformazione in una provincia della Repubblica Popolare. O la frenesia di modernizzazione che coinvolge solo la fascia della popolazione che vive sulle coste ma che fa danni irrimediabili. «La Grande Muraglia rischia di franare sotto il peso delle orde di turisti, non solo stranieri poiché anche i cinesi cominciano a muoversi». Ci sono immagini che sintetizzano un momento storico, come quella che descrive Renata Pisu: un uomo col costume del primo imperatore che vendeva ai turisti T-shirt con il disegno della Grande Muraglia. Quanto manca all'arrivo dei primi turisti cinesi alla Cappella Sistina?

Canova in mostra a Bassano del Grappa
(ma senza l'Amore e Psiche del Louvre)

il Tempo domenica 16.11.03
di GABRIELE SIMONGINI


PER cinque mesi il genio di Antonio Canova (1757-1822), tramite molte sue opere, tornerà nei luoghi che l'hanno visto nascere e lavorare, affermandosi come uno dei massimi talenti di tutta la storia dell'arte. Sabato 22 novembre si inaugurerà, infatti, la più imponente e completa mostra antologica a lui dedicata nelle sale del Museo Civico di Bassano del Grappa e nella Gipsoteca di Possagno, paese natale dell'artista. La rassegna resterà aperta sino al 12 aprile. Il catalogo è a cura di Skira.
L'evento - curato da Sergej Androssov, Mario Guderzo e Giuseppe Pavanello - è veramente eccezionale,oltre che per la suggestione di cui si caricano le sedi stesse della mostra, anche per alcuni dati oggettivi. Saranno infatti esposte 400 opere tra marmi, gessi, terracotte, monocromi, dipinti, tempere, disegni e incisioni. L'Ermitage di San Pietroburgo, che accoglie la più importante collezione al mondo di marmi canoviani, presterà ben sette statue: tra gli altri, il «Genio funerario», «Amore e psiche stanti», l'«Amorino alato», la «Maddalena penitente», la «Danzatrice con le mani sui fianchi». Saranno esposte per la prima volta in Italia la «Pace» da Kiev, la «Venere» da Leeds, la «Polimnia» da Vienna e la «Ninfa dormiente» da Londra. Per la prima volta sarà anche presentata una mole significativa di lettere e manoscritti che rivelano la complessa e fervida statura intellettuale di Canova, ammirato in tutta Europa da sovrani e colleghi.
Fu veramente l'artista più internazionale e cosmopolita dell'epoca: furono suoi committenti, con una sorta di "par condicio ante litteram", Napoleone e l'Imperatore d'Austria, il Re d'Inghilterra e quello di Baviera, lo Zar di Russia e perfino i neonati Stati Uniti d'America. Senza dimenticare che Canova fu anche ispettore generale delle Belle Arti dello Stato Pontificio, diplomatico della Santa Sede e inviato a Parigi nel 1815 per far tornare in Italia i beni razziati da Napoleone. In questo senso è stato anche uno strenuo difensore del nostro patrimonio artistico, un coltissimo e agguerrito paladino di cui ci sarebbe bisogno anche oggi.
Per chi non l'abbia mai visitata prima d'ora costituirà poi una vera e propria scoperta, una sorta di miraggio metafisico, la sorprendente Gipsoteca di Possagno, con il suo abbacinante biancore di gessi e bozzetti canoviani. Solo visitandola insieme alla casa, allo studiolo sulla torretta dell'abitazione e al Museo Civico di Bassano del Grappa (che raccoglie quasi tutti i disegni di Canova, un ricco epistolario, la sua biblioteca personale e i suoi monocromi) sarà possibile capire la sua multiforme e carismatica personalità.
La mostra e il catalogo sfateranno anche alcuni luoghi comuni di cui si è troppo abusato. Ad esempio, nelle parti delle sue sculture che rappresentavano la pelle nuda Canova stendeva una cera rosata per dare l'illusione del colore dell'epidermide. Non si può quindi certo parlare, come molti hanno fatto, di glaciale accademismo del bianco. Inoltre Canova aveva concepito le sue sculture in modo tale che girassero a 360 gradi, poggiando su perni e assi metallici. Anche la «Paolina Borghese» ruotava e Canova consigliava di contemplarla quasi al buio, con la sola luce delle torce.

Informazioni sulla Mostra:
Bassano del Grappa , Museo Civico - Possagno , Gipsoteca
dal 22 novembre 2003 al 12 aprile 2004.
www.museocanova.it

Call Center numero verde: 800.685.644
Per informazioni relative alla sede di Possagno,
anche: 0423 544323 o tramite il sito www.museocanova.it
Prenotazioni e preacquisto biglietti per la sede di Bassano:
www.mostracanova.it
Call Center: n.verde: 800685644
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domenica 16 novembre 2003

il libro su Erika di Lidia Ravera

L'Unità 16.11.03
IL LIBRO
ERIKA E ME
di Beppe Sebaste


Dopo tre anni dal massacro di Novi Ligure Lidia Ravera scrive un libro-confessione in forma di lettera aperta all'assassina.
"Quella storia ha spostato le frontiere dell'orrore nella realtà e nell'imaginario"
"Ciò che mi colpisce è l'assenza di empatia, l'incapacità d mettersi al posto degli altri, di uscire dal proprio punto di vista... Mi interessava indagare quello che c'era dietro. La sociopatia giovanile è la punta estrema di qualcosa che bolle sotto"


Una volta scrive Lidia Ravera all'inizio di Il freddo dentro, «essere giovani era un lavoro, una sorta di artigianato esistenziale. Adolescenti si entrava a bottega. Da qualche anno la bottega è ferma». Il libro di cui stiamo parlando, che attraversa uno dei più drammatici fatti di cronaca accaduti in Italia, ci parla anche del vuoto esistenziale, della «sopravvivenza» che ha sostituito la vita, e che, se più evidente appare nei giovani, concerne anche molta dell'insensatezza dell'omologazione degli adulti .

Il 21 febbraio del 2001 la diciassettenne Erika, col suo ragazzo Ornar, massacrò a coltellate la madre e il fratellino a Novi Ligure. Il padre non fecero in tempo a sopprimerlo. Dopo quel crimine, in quella città e nel resto d'Italia, si levarono voci veementi contro una criminalità tanto più crudele quanto più estranea e venuta da fuori, come gli immigrati slavi o albanesi. Dopo il terribile svelamento della verità mi tornò in mente una delle frasi più geniali e agghiaccianti dei genere poliziesco a enigma (quello che si svolge in case isolate possibilmente inglesi). La donna in fuga nel maniero si rifugia nella stanza più alta, dove si chiude per sfuggire al pericolo, all'assassino. Ma una volta armata la serratura, nel buio della stanza ode risuonare una voce: «Quando chiudi la porta con la chiave, sai quel che che chiudi fuori, ma non sai quel che chiudi dentro». A Novi Ligure, come in tutti o quasi i delitti italiani, si trattava di una villetta, ma l'esito non cambia: il pericolo, come Alien, era ed è dentro la nostra normalità. Da gioiosa «pubblicità di un telefono cellulare», i due ragazzi diventarono mostri e alieni. Per qualche tempo la tv e i giornali perorarono solennemente il dovere della memoria e della riflessione sulla tragedia, ingaggiando qualche professionista televisivo di disagi giovanili. Finché su Erika De Nardo è sceso il silenzio («come un sudario», scrive Lidia Ravera) e l'oblio ha rassicurato la maggioranza.

Ecco, il libro di Lidia Ravera, a tre anni da quel fatto, rompe il silenzio per indagare e problematizzare quel dentro, quell'estraneità racchiusa nei nostri spazi domestici. Il freddo dentro analizza con indubbio rischio personale il mondo chiuso a chiave nei nostri interni sazi di cittadini, e consumatori rispettabili - quelli a cui uno spot dei governo fa dire «grazie» quando comprano merci. È un libro coraggioso e scomodo, come ogni opera che interrompe la presunta innocuità della letteratura per farvi irrompere la verità della vita - che è poi un sinonimo di rischio. Un libro che ripropone a suo modo il problema dell'autenticità della parola scritta mettendo in relazione letteratura e testimonianza. Ora, il connubio tra letteratura e testimonianza ha un nome antico, quella «confessione come genere letterario» che negli anni '40 Maria Zambrano sottraeva all'oblio, mostrando ad esempio cosa leghi le splendide Confessioni di Agostino alla modestia empirica di tutte quelle scritture, letterarie e filosofiche, che non nascondono o mistificano il ricorso al pronome «io» di chi scrive, o al «tu» di chi legge, a costo di dubitare e di procedere a tentoni. Ogni verità o visione è relativa, ed è solo sviscerando l'origine del proprio sguardo che si può aspirare alla sincerità, o autenticità. Il libro di Lidia Ravera, che come una lunga lettera aperta si vuole rivolto a Erika De Nardo - l'assassina -, riceve dall'iscrizione del destinatario nel discorso l'autorizzazione a scoprirsi, parlare di sé, mostrare l'origine delle proprie parole, delle proprie emozioni, del proprio turbamento. E nella spontaneità e imprevedibilità delle lettere che spesso accade l'autoanalisi più impietosa. La stessa parola «sincerità» («senza cera», senza sigillo), ha un'origine epistolare.

Mi trovo a parlare con Lidia Ravera del suo libro lo stesso giorno in cui, invece, su una certa stampa appaiono contro di lei articoli risentiti, ma soprattutto ignoranti della differenza tra egotismo e confessione, tra dedica e romanzo epistolare, e soprattutto tra furbizia commerciale e riflessione letteraria. È strano, le dico. Tu scrivi per sottrarre un evento a dei cliché giornalistici, interpretazioni scontate e rassicuranti, come la fabbricazione di un «mostro». E la reazione è riportare il tuo libro a un ulteriore cliché, ed esorcizzare superstiziosamente, come monstrum, proprio la tua riflessione sull'evento e sul linguaggio. Eppure scrivere vuol dire soprattutto non accontentarsi dei cliché, sovvertirli, o quanto meno problematizzarli, anche se in genere è una cosa mal vista. La risposta di Lidia Ravera è consapevole e misurata.

«Questo sulla furbizia - dice - è un dibattito davvero troppo meschino. Avere fatto un libro tre anni dopo l'evento è la massima prova a discarico di non avere voluto fare un'operazione commerciale. Il mondo editoriale italiano proietta la propria meschinità su chiunque. Si potrebbe proiettare la stessa accusa di furbizia verso Truman Capote, ma non ha senso. La verità è che nella nostra società ogni evento viene consumato con una voracità tremenda, consumistica. Si parla troppo subito, e poi, proprio perché il consumismo fagocita e rimuove, tutto perde interesse, e la fase di riflessione rischia di non esserci mai. Non mi interessava fare la storia o la cronaca della signorina De Nardo, quanto indagare, problematizzare quello che c'era sotto, o dietro. La sociopatia giovanile è la punta estrema di qualcosa che bolle sotto, a cui mi sono soltanto affacciata, senza essere specialista né di sociologia né di psicologia. Uno dei dati che mi colpiscono maggiormente è l'assenza di empatia, l'incapacità dei giovani di mettersi al posto degli altri, di uscire dal proprio punto di vista. Per esempio: eliminare una ragazza che non vuole più stare con te, significa vedere della ragazza solo ed esclusivamente la funzione che essa aveva aveva nella tua vita ... ».

«Questo libro nasce dalla mia profonda convinzione che i bambini cattivi non esistono - continua Lidia Ravera -. La mostrificazione non mi ha mai convinto, così come non mi convinceva all'inizio la fola degli albanesi, o slavi, né l'edificazione di, un monumento alla vittima perfetta, la "splendida giovanissima donna», come i media descrivevano Erika. Sì, perché una, perfetta vittima deve essere anche una vittima perfetta - bella, bionda, alta 1,75, brava a scuola (cosa falsa), insomma una specie di icona della figlia perfetta. Non ci credevo, così come dopo non ho creduto alla dark lady. Quel senso che suggerivi della parola mostro è importante: con Erika accade qualcosa per la prima volta, fuori dalle spiegazioni sociologiche e dalle categorie esistenti. Lei (come la sua famiglia) ha tutti gli elementi per vivere nella pubblicità del Mulino Bianco. Non è che nemmeno come Pietro Maso, colui che dieci anni prima ucciso in Veneto i propri genitori per avere e spenderne i soldi. Loro - Erika e il suo bragazzo - volevano semplicemente installarsi lì, nella casa, al posto dei genitori... Comunque sia, questa storia ha spostato le frontiere dell'orrore nella realtà e nell'immaginario, ed è dunque naturale che uno scrittore ne sia attratto e vi si misuri. Fa esattamente parte della loro funzione, anche se purtroppo gli scrittori italiani non amano molto sporcarsi le mani con la realtà».

«I libri di Capote erano dei romanzi - continua Lidia -, Ho molto apprezzato il suo misurarsi con fatti di cronaca, ma io non ho scritto un romanzo. Ho solo aperto una finestra postuma su un fatto, ho guardato da vicino quella storia. Ho inevitabilmente usato una parola letteraria, perché è la mia, non è un libro a tesi, c'è sospensione del giudizio. Non è una lettera vera, una lettera spedita. È però l'apertura di un rapporto a due. Non solo nel senso in cui lo è ogni opera letteraria, ogni scrittura, me perché nel marcare il «tu» si sceglie un interlocutore privilegiato, lo si estrae dal collettivo anonimo dei lettori, e si traduce in una marca di autenticità nel tono. Una modestia empirica, come tu dici. Rivolgermi a Erika col tu significa porsi sullo stesso piano, senza presunzioni di innocenza da parte mia né di superiorità, da essere umano fallibile a essere umano fallibile. L'unica superiorità che mi riconosco, nel libro, è quella anagrafica, senza per questo alzare il calice sulla mia generazione, anzi: non faccio mistero di ritenerla uno dei responsabili della deriva della cosiddetta me generation, dell'autoreferenzialità e narcisismo dei più giovani. Non si scrive con una parte di sé, ma con sé tutta intera, e quindi nel mio caso anche come madre, se avere figli fa parte della mia identità ... ».

Leggendo il tuo libro, le dico, cui sono dedicate molte pagine al narcisismo, inteso come incapacità di provare empatia, di dialogare, di relazionarsi, il lettore si accorge poco a poco che la scrittura, il fatto stesso di scrivere, può essere una pratica terapeutica. il tuo libro è allora il tentativo di praticare l'antidoto al narcisismo scrivendo...

«Sì. Ma chi non ha relazione con la letteratura pensa sempre che uno scrittore faccia delle scelte fredde e razionali, a tavolino. Ma mettersi in gioco è un altra cosa. Mettersi profondamente in relazione per capire perché si sia stati feriti o urtati nel profondo da un particolare evento, mette in moto qualcosa che non puoi forcludere. Non dico che questo rapporto con lo scrivere sia meglio di altri, ma uno scrittore è uno che fa questo, non sceglie i libri che scrive in un'ipotetica antologia di temi che si comprano al mercato, ma ascolta le proprie urgenze interiori. Parlo mette in moto un rapporto coi propri fantasmi, coi propri vissuti, che è l'essenza del fare letteratura. Non potevo zittire questa voce. Una delle cose che mi hanno più profondamente turbata è che appena sentii la notizia in tv, come tutti, con l'accusa a presunti rapinatori slavi o albanesi, con quella ragazza sfuggita al massacro, pensai immediatamente con un brivido che fosse stata lei, ma non osavo dirlo. Era una ferita che palpitava, e ho cercato di capire perché mi turbasse tanto. Ho cominciato a scrivere per me, sui quaderni. Mi colpiva l'essere stata così colpita, e profondamente, eppure non sono una che sanguina per qualsiasi cosa. Il guaio è quando vai a scavare dentro di te qualcosa trovi sempre, l'umano trova assonanze con qualsiasi orrore. È un rischio. La gente cosiddetta adulta non prende rischi. Forse per questo mi sono così simpatici gli adolescenti (...) Imparare a scrivere è imparare a pensare. Uno dei fondamentali problemi di Erika (e degli erilkoformi, come i tanti che le hanno scritto lettere di approvazione) è che non sanno pensare. Imparare a scrivere è l'unica cosa che mi viene in mente per curare questa loro deficienza: imparare a stabilire delle relazioni. Se uno legge romanzi è come ancorato a riconoscere l'umanità dell'altro. Nei grandi romanzi i personaggi sono persone. Ti aiutano a identificare e riconoscere delle persone. Per aiutare queste generazioni che non leggono né scrivono io mi sono proposta alla responsabile degli istituti minorili per dare gratis lezioni di scrittura ai detenuti. Come Erika».

Il freddo dentro, di Lidia Ravera, Rizzoli - pagg.174, €13,50

Macaluso, un libro sulla storia del PCI

La Stampa 16.11.03
MACALUSO PUBBLICA «50 ANNI NEL PCI». RITRATTI, CONFESSIONI, INGANNI, LA POLITICA MISCHIATA CON GLI AFFETTI
Comunisti a cuore aperto
Fra i ricordi il suicidio della donna amata
di Pierluigi Battista


SI chiede Emanuele Macaluso nel Prologo che apre il suo 50 anni nel Pci , ora in libreria per la casa editrice Rubbettino (con uno scambio epistolare con Paolo Franchi): «Si può parlare della storia del Pci senza parlare di chi in quel partito ha militato, e delle ragioni per cui, nonostante tutto, lo faceva con disinteresse e passione?». Per Macaluso, evidentemente non si può. E per un dirigente storico del Pci, esponente di lungo corso di quella corrente «migliorista» che con più decisione (ma per la verità non sempre, come dimostrano i casi di Giorgio Amendola e Paolo Bufalini) ha rivendicato ancor prima della «svolta» di Occhetto la resa dei conti con l’Urss e l’attenzione verso i modelli della socialdemocrazia e del riformismo, questa convinzione si traduce nell’esigenza di scrivere non tanto la storia del comunismo, ma quella dei comunisti. Dei comunisti italiani, per l’esattezza. Dei loro volti, delle loro azioni, delle loro debolezze: crollato il comunismo, resta ancora molto da scrivere e da riflettere sul tragitto umano e intellettuale di chi ha scelto il Partito comunista italiano.
Il punto di vista di Macaluso risulta così «continuista» rispetto all’esperienza storica dei comunisti italiani. Quanto più radicale appare la rottura teorica e culturale con l’universo del comunismo, tanto più accorata è la rivendicazione della buona fede dei comunisti, come si diceva una volta, «in carne ed ossa». Anche Palmiro Togliatti, il monumento della «doppiezza» comunista italiana (infrangibile fedeltà al legame di ferro con l’Urss ma anche sottolineatura della via peculiarmente «italiana» al socialismo), ne esce assolto. Sempre che sia lecito usare una categoria dal sapore più giudiziario che politico e storiografico come l’«assoluzione».
Ma è certamente qualcosa di più di un commosso ricordo, il percorso nella memoria dei comunisti italiani che Macaluso compie, a partire dal suo primo avvicinamento ai comunisti nella natìa Caltanissetta, agli inizi degli Anni Quaranta. E’ una galleria di ritratti, di letture, di tensioni e di scontri. Om questa galleria, si stagliano le icone di Girolamo Li Causi e delle sue battaglie contro la mafia. Di Eugenio Reale, il comunista che abbandonò il partito nel ’56 e che venne spietatamente ostracizzato dai suoi ex compagni («Mi salutò cordialmente, io gli risposi con imbarazzo. Avrei voluto fermarlo e dirgli qualcosa, ma non lo feci: e questo è uno dei miei atti di viltà che non ho dimenticato», confessa con giustificato pathos Macaluso). Di Giuseppe Di Vittorio, il «sindacalista unitario e volto riformista». Di Paolo Bufalini, «gran testa politica». Di Giancarlo Pajetta, «l’intelligenza e la nevrosi». Di Giorgio Amendola e delle sue contraddizioni. Di Enrico Berlinguer, anzi dei «due» Berlinguer, quello della «solidarietà nazionale» e quello degli ultimi anni aggrappato al mito della superiorità morale dei comunisti. Di Achille Occhetto, raffigurato sia nella veste di leader del partito in Sicilia negli Anni Settanta, sia come protagonista della svolta che porterà alla fine del Pci, sul quale Macaluso non offre una definizione altrettanto icastica, presentandolo come prigioniero di un interrogativo: «Liquidatore o salvatore?».
Ma Macaluso, cui l’esperienza giornalistica ha certamente smussato e sciolto molte rigidezze tipiche di un funzionario di partito a tempo pieno, aprendo la sua curiosità a fatti e stati d’animo non riconducibili nelle categorie fisse della politica professionale, si dimostra molto attento ad esplorare gli incroci tra politica, costume e mentalità dentro e fuori il partito, mettendo apertamente in gioco, con coraggiosa franchezza, anche il proprio privato e raccontando episodi dolorosi, talvolta atrocemente dolorosi, in cui la dimensione affettiva ha riverberato i suoi effetti anche sulla politica. E’ così quando Macaluso, nel 1960, viene accusato di aver falsificato documenti perché aveva iscritto i figli all’anagrafe senza dare il nome della madre giacché, «sulla base delle leggi dell’epoca, se la mia compagna, separata legalmente, avesse dichiarato di aver avuto un figlio, questi avrebbe dovuto avere per padre “legale” l’ex marito, che lei non vedeva da anni». Racconta Macaluso: «Informai Li Causi e assieme a lui ne parlai con l’avvocato Nino Sorgi, nostro comune amico: restò sbalordito per l’iniziativa ma ci disse pure che avrebbero potuto arrestarmi».
In un’altra occasione affetti e politica si mischiano nella vita di Macaluso. Accade che la figlia della sua compagna Ninni, Fiora Pirri Ardizzone, viene arrestata con l’accusa di terrorismo. Dopo sette anni di carcere, nel 1985, il presidente Pertini fa capire a Macaluso, al tempo direttore dell’ Unità , che era possibile coinvolgere Fiora in un provvedimento di grazia per i carcerati «che si fossero dissociati e non avessero commesso reati di sangue». Ma «Pertini di fronte alle proteste di Galante Garrone fece marcia indietro e, mentendo, dichiarò che il Segretario generale del Quirinale, Antonio Maccanico, l’aveva ingannato, facendogli firmare un documento di cui non conosceva bene il contenuto». L’operazione saltò, ma Maccanico dovette rassegnare le dimissioni, poi rientrate per insistenza dello stesso Pertini.
Ma l’episodio più doloroso («È la prima volta che racconto pubblicamente questa storia, e il ricordo mi ferisce ancora») è quello che Macaluso ha vissuto quasi trentacinque anni fa: «Nel 1964 incontrai Erminia Peggio, sorella di Eugenio, mio amico ed economista del Pci, e quasi subito allacciammo una relazione amorosa molto intensa. Nel 1966 Erminia mi chiese di metterci insieme; io, per viltà, non ero in grado di rompere tutti i ponti con la mia famiglia e le dissi di no». Ma «Erminia si offese del mio no, si amareggiò. Era una donna molto fragile: dopo alcuni mesi si suicidò». E ancora: «A darmi la notizia del suicidio fu Natta: mi telefonò a Firenze dove avevo tenuto una riunione in preparazione dell’XI congresso. Mi parve che mi cadesse il mondo addosso. Non credo di avere mai sentito un’emozione e un dolore così lancinanti».
Il fatto privato, dolorosamente privato, che piomba su Macaluso, ha anche degli imprevisti risvolti politici nel partito: a Peggio «Amendola aveva chiesto di formalizzare un’accusa di “scorrettezza morale” nei miei confronti attraverso un colloquio con Mauro Scoccimarro, presidente della Commissione di Controllo. E Peggio lo fece, anche se poi la cosa non ebbe un seguito. Non ho capito se Amendola agì per eccesso moralistico (era nel suo carattere) o perché utilizzò quell’episodio - come si faceva nelle “famiglie” della Terza Internazionale - dato che in quel periodo avevamo contrasti politici». In un caso o nell’altro, l’atteggiamento di Amendola è spia di un clima psicologico e culturale anch’esso determinante per capire la vicenda storica e umana del comunismo. E anche dei comunisti. Dei comunisti italiani.

un'altra guerra:
ad esempio, Mirafiori Nord

La Repubblica, ed. di Torino 16.11.03
L'allarme da una ricerca condotta a Mirafiori Nord
Violenze quotidiane tra le mura di casa
di VERA SCHIAVAZZI


Trentotto casi di violenza sessuale da maggio ad oggi contro i 40 in un intero anno del 2002: il dato, allarmante, è stato ricordato ieri dall'assessore Paola Pozzi, in margine alla presentazione di una ricerca sulla violenza a Mirafiori Nord, nel quartiere del progetto "Urban". Su 1.300 interviste, tuttavia, nessuno ha fatto cenno ad episodi di questo genere. Sono emerse invece molestie, ma anche e soprattutto maltrattamenti fisici e violenze psicologiche. Con, ancora una volta, il partner al primo posto tra i colpevoli, seguito dai colleghi e dal datore di lavoro.
Un'inchiesta basata su 1.300 interviste telefoniche e 72 colloqui con gli "addetti ai lavori" (ovvero gli assistenti sociali, i poliziotti, gli addetti al Sert e gli altri operatori del quartiere) nella zona interessata dal programma "Urban", Mirafiori Nord, ha dato per ora questi risultati. Ma il lavoro continuerà con 20 colloqui "in profondità" tra l'équipe diretta dalla sociologa Franca Balsamo: le intervistate, questa volta, sono donne che hanno accettato di raccontare la propria storia di vita dopo aver ammesso, nella prima telefonata, di essere state vittime di maltrattamenti.
"La ricerca - ha spiegato Balsamo - si inserisce all'interno della "Rete nazionale antiviolenza" ed è una ricerca-intervento: l'obiettivo non è soltanto acquisire dati, ma anche migliorare le tecniche di intervento, ad esempio attraverso la formazione degli operatori. Sappiamo che in alcuni ospedali, tra i quali il "Sant'Anna", sono nati centri specializzati che sanno rispondere molto bene alle esigenze delle donne vittime di violenza, mentre altrove, in particolare nelle sedi delle forze dell'ordine, a volte manca il personale esperto".
Le 1.300 telefonate, indirizzate ad un campione di 1.000 donne e 300 uomini, intendevano "misurare" non solo gli episodi avvenuti, ma anche la percezione degli intervistati rispetto al livello di violenza diffuso nel quartiere dove vivono, dalle mura domestiche ai compagni di lavoro. Il risultato: "A Torino gli stereotipi assai diffusi, soprattutto quando si parla di violenza maschile contro le donne, sembrerebbero meno forti che altrove - dice Franca Balsamo - Qui infatti non si sono raccolte risposte del tipo «gli uomini sono violenti per natura» oppure «alzano le mani quando bevono» come altrove, ma si è riscontrato in generale un atteggiamento più critico, capace di distinguere i fenomeni generali dalle responsabilità dei singoli".
Quel 12% di intervistati che ha comunque dichiarato di aver subito negli ultimi due anni un atto violento (maltrattamenti nel 3% dei casi, molestie sessuali nel 2,8%, violenza psicologica nel 6,2%) ha individuato nel coniuge (34%) il principale colpevole tra le mura domestiche, mentre all'esterno i responsabili più frequenti sono i colleghi (7,8%) e i datori di lavoro (5,8%). Si conferma così, anche a Mirafiori Nord, una linea di tendenza diffusa in tutta Europa: la sensazione di insicurezza e il timore di essere vittima di aggressioni fisiche e verbali nasce innanzi tutto da tensioni e soprusi commessi da persone che si conoscono bene e si frequentano ogni giorno. "Torino - ha detto Paola Pozzi, assessore alla Pari Opportunità - è da tempo impegnata sul terreno della lotta alla violenza e sostiene iniziative come il Coordinamento tra tutte le associazioni che se ne occupano. Ma proprio perché il fenomeno della violenza è molto esteso occorre un rinnovamento culturale profondo. Per questo lavoriamo nelle scuole promuovendo la non-violenza".

sabato 15 novembre 2003

Cancrini sul caso dell'assassina di Firenze

Il Messaggero Sabato 15 Novembre 2003
E’ Daniela Cecchin, ...
di LUIGI CANCRINI


E’ Daniela Cecchin, 47 anni, la donna che ha ucciso - rea confessa - sabato scorso a Firenze Rossana D’Aniello, 47 anni, bancaria e moglie di un farmacista. Ha suonato alla porta della sua vittima e l’ha quasi decapitata con un colpo di coltello: «L’ho fatto per invidia, perché lei era felice e io no».
La cosa che più mi colpisce, di fronte all’omicidio, è sempre il divario forte che c’è fra la debolezza delle motivazioni proposte da chi lo ha commesso e l’enormità irrimediabile del fatto che si è verificato. Invidia, dice oggi la donna fino a ieri normale o apparentemente normale che ha ucciso un’altra donna a Firenze solo una settimana fa. Vendetta, suggeriva questa estate lo psichiatra radiato dall’Ordine dei medici che aveva ucciso il collega che non era riuscito a curarlo. Incapaci ambedue di dar conto con parole appropriate, nel momento in cui lo hanno davvero commesso, nel momento in cui non è più possibile liberarsi dell’enormità del loro atto, del fluire tumultuoso di emozioni, vissuti e passioni che hanno reso il delitto in qualche modo naturale solo poche ore prima.
Sto cercando di studiare con particolare attenzione in questi ultimi anni, con l’aiuto degli psichiatri e degli altri operatori che lavorano in un ospedale psichiatrico giudiziario a Montelupo Fiorentino, quello che accade nella mente di tanti omicidi nelle ore, nei giorni, nei mesi che precedono il loro gesto. Perché, a volte, il delitto sembra emergere all’improvviso, dal nulla di un pensiero che non c’era. Perché, altre volte, il delitto si presenta come un comportamento naturale all’interno di quello che viene descritto come uno stato sognante, un incubo sognato ad occhi aperti del tipo di quello immaginato dal regista del film dedicato al Truman show: l’uomo che pensava di aver capito che il mondo intorno a lui era una rappresentazione, un incredibile spettacolo teatrale recitato solo per filmare le sue reazioni. Perché, più spesso, il delitto è lo sbocco di un pensiero inseguito a lungo, combattuto e accarezzato a lungo, legato a situazioni o ad eventi avvenuti molto tempo prima, a lungo rimasticati nell’inconscio e nella coscienza della persona, dall’interno di un vissuto febbrile, sempre, gonfio di risentimenti e di paure, di rabbia e di sentimenti di umiliazione in cui l’idea dell’omicidio è apparsa dopo un certo tempo, ed è scomparsa e si è ripresentata definendo una condizione tormentosa di insicurezza progressivamente più difficile da sostenere. Come magistralmente descritto da Dostoevskij nel Raskolnikov di Delitto e castigo. Come probabilmente vissuto, in questi ultimi mesi o giorni, dalla Daniela Cecchin delle cronache di oggi.
Se questo è il punto da cui si può partire in un tentativo di capire, tuttavia, il problema che ci troviamo ad affrontare è un problema che rischia di sembrare semplice dal punto di vista teorico ma che assai complicato si presenta comunque dal punto di vista pratico. Il giudizio da dare sul funzionamento della mente di un uomo che uccide un altro uomo, infatti, diventa inequivocabilmente e regolarmente un giudizio di anormalità, di patologia franca del suo vissuto e del suo comportamento. La scelta operativa da fare nei suoi confronti, tuttavia, non è per niente semplice.
Quello che mi viene da proporre, assai sommariamente e assai sommessamente, è che dovremmo essere capaci di preparare, di immaginare, di studiare in tutte queste situazioni un progetto di cura. Centrata sulla pena e sulla reclusione per un tempo sufficientemente lungo, certamente, perché quello che la persona che uccide deve comunque accettare è il principio di realtà e perché il riconoscimento della gravità di ciò che ha fatto è alla base di questa accettazione. Ma centrato anche, nello stesso tempo, sulla capacità di ascoltare chi ha ucciso un’altra persona per aiutarlo a capire quello che gli è davvero successo, le origini lontane del disturbo di personalità che ha reso possibile questa sua assurda e speciale reazione. Sapendo sempre che, per quanto ciò sia difficile nell’immediata vicinanza del fatto, quella cui ci si trova sempre di fronte è una patologia che ha determinato, molto tempo prima del fatto per cui la persona ora è giudicata, una sua sostanziale e drammatica incapacità di vivere, che ha avuto un’importanza decisiva nel determinarsi del suo gesto folle e di cui lui o lei hanno comunque il diritto di essere curati.

Il Messaggero Sabato 15 Novembre 2003
Lo psicologo: un caso di stalking


Un omicidio che rappresenta «l’estrema conseguenza di precedenti e ossessivi comportamenti persecutori riconducibili ad una sindrome definita stalking» spiega Massimo Lattanzi, psicologo clinico dell’Osservatorio nazionale stalking. «Lo stalking prevede un diversificato campionario comportamentale che include telefonate, invio di sms, e-mail, pedinamenti, danneggiamenti e atti vandalici nei confronti della vittima prescelta e dei suoi familiari fino ad arrivare ad aggressioni e violenze fisiche. Si differenzia da altre molestie per frequenza, esiti psicologici e durata». Per l’Osservatorio circa il 22% degli italiani monitorati, sono state vittime di atti di stalking.