venerdì 19 dicembre 2003

Pablo Picasso, a Parigi

La Stampa 19.12.03
IN MOSTRA A PARIGI GLI ARCHIVI DELL’ARTISTA: UN UOMO CHE NON GETTAVA NIENTE E CATALOGAVA TUTTO, ANCHE GLI INSULTI
Picasso, la vita in scatola
Conservava persino i biglietti del tram
di Marco Vallora


PARIGI. «PERCHÉ dovrei sentirmi impegnato a gettar via quello che mi ha fatto la grazia di giungere sino a me?». Ci può essere frase più gentile e rivelatrice di questa? Tante qualità si possono ascrivere al rude, diretto Picasso: forse non proprio la gentilezza: la «delicatesse». Eppure è con il viatico nella testa di quell'espressione magnifica, insieme d'accettazione metafisica, di passività regale e di cosmica disponibilità, soprattutto toccata da una grazia sublime, che possiamo accingerci a visitare questa geniale mostra, aperta sino al 19 gennaio, al Museo parigino di Picasso, che si chiama Les archives de Picasso.
Abitualmente il termine di «archivio» spande intorno a sé un po' di sentore polveroso e pedante: fiato pesante della filologia ed esattezza maniacale. Certo questo non poteva capitare con Picasso, che forse era sì maniacale nel conservare tutto («Pablo il conservatore» lo chiamavano gli amici, a contrasto col suo ruolo rivoluzionario d'artista) ma pure non rischierà mai il sospetto di catalogatore precisino e noioso. E così i curatori di questa mostra, Marie-Paule Arnauld e Gérard Régnier, che non è poi altri che Jean Clair, hanno pensato di vivacizzare e teatralizare questo viaggio tra le sue carte, con una sottile messa in scena ed un'arte di racconto del personaggio, che è tutta francese.
Biglietti d'augurio ammonticchiati come in un trompe-l'oeil ottocentesco. Finte carpette-colonne per costruire l'architettura inquieta di questa cattedrale labile del ricordo. E poi un'immensa quadreria di tele, dipinte spesso in stile costituzionalmente anti-picassiano, che bambini ed adulti gli spedivano, per celebrare il genetliaco del Maestro ed il Culto di Sé. Ma Picasso, generoso ed avido, non gettava via nulla, perché tutto gli sembrava degno di sopravvivere (e certo non solo perché sanciva il trionfo definitivo della propria imago pubblica). Come quando il suo segretario Sabartès tentava di lasciarlo lavorare in pace, chiudeva le porte agli intrusi, e lui s'imbufaliva. «Non posso proprio. Lo so che quando dipingo tutto viene dal mio mondo interiore. Ma se so che di là c'è qualcuno, sono tormentato dall'idea che ci potrebbe essere qualcosa che io devo sapere. Io ho bisogno degli altri, non soltanto per quel che mi apportano, ma per questa mia terribile curiosità, che io devo comunque soddisfare».
E' lo stesso sentimento di avidità nei confronti della vita (quasi un esorcismo della paura di morire) che gli faceva conservare tutto, dai disegni degli amici ai biglietti del tram o del cinema (e non soltanto per nutrire i suoi collages) lettere di devozione come di disprezzo, fotografie, ritagli di stampa, appunti. La mostra ha un sottotitolo rivelatore, rubata al consapevolissimo artista: «si è quello che si conserva». Che pare ridisegnata sul protagonista di Quarto Potere di Orson Welles, che anche lui ammassava, accumulava, tesaurizzava, per illudersi di essere. Picasso non aveva dubbi sul suo essere, ma voleva che le cose restassero accanto a lui, come dei vivi feticci di protezione. Per questo, quando si sposò ed entrò nel ruolo del buon borghese, in Rue de la Boétie, si costruì una doppia casa inquietante: sotto, quella benestante e pretenziosa; sopra, un simmetrico regno stregonesco, ove crescevano stalagmiti impressionanti di documenti e scarti preziosi, cui nessuno poteva aver accesso, men che meno le domestiche. Perché lui aveva un culto sacro e nutritivo della polvere, sorta di abito propiziatorio: e giovane, quasi aveva alzato le mani sulla madre, che si era permessa di spazzolargli un cappotto, benedetto dalla polvere nostalgica di Parigi.
Ecco poi, all'appello, una quantità impressionante di lettere, di scambi, di biglietti, con poeti, pittori, mercanti, amici. Revery si limita a disegnare una specie di calligramma incolonnato come un sonetto, in cui ammette la volontà di deporre la sua ammirazione e basta. «Mio caro Picasso / questo qui non è nulla / né una lettera né un poema / solo qualche parola / scritta con fervore per voi/ per la nostra amicizia / e la grande ammirazione / che merita il grande / l'unico artista / che siete». Magnifico, l'eccentrico musicista Satie, con cui Picasso ha condiviso la burrascosa battaglia di Parade, che bussa leggermente alla porta della sua attenzione, per mandare un timido ricordo, con la sua artificialissima calligrafia miniata e déco: «Sono io, mio caro amico. Satie». E nient'altro. Oppure: «Complimenti affettuosi a Perruchette, vi prego»: il pappagallo di casa, con cui probabilmente si sentiva assai più a suo agio.
Con Stravinsky nulla, perché o si vedono e discutono animatamente, altrimenti non son tipi da sprecare tempo nelle missive. Radiguet fa invece il finto perbenino, scusandosi per il lungo silenzio: non ha ancora ringraziato per il dono del ritratto, che nobiliterà la sua raccolta di poemi. E s'intuisce subito che alle spalle c'è il vecchio Cocteau («Jean è qui, malato, ecco perché non vi ha ancora scritto») che gli fa le rampogne e lo rimprovera per non aver ancora mandato due righe. Quanto a Cocteau, è tutto un piagnisteo: «non dimenticarti di me», «perché non m'hai ancora risposto?»: ma c'è un affiatamento quasi morboso. Che noiosino invece Magritte, che trova ogni scusa, per informarsi, una lagna, se ci sono sbocchi di mercato e mercanti da consigliare. Picasso ogni volta risponde, anche agli sconosciuti, e aggiunge (sulle missive d'omaggio o di questua) un appunto, per ricordarsi la propria reazione. Che pazienza impressionante! Anche quando ha la cattiva idea di rispondere ad un giornalista che «vorrebbe essere povero», ed allora è subissato di rabbie, di proteste, di richieste. E come si sarà divertito, quando un ragazzino replica: «Io invece amerei esser ricco. Dipende solo da voi». O quando riceve un busta con sopra la sua immagine ritagliata e sotto scritto solo: Cannes. Naturalmente gli arriva. Come quando il grande David imbustò per «Canova. Europa», e la missiva trovò naturalmente la sua via.

depressione e aggressività

www.Staibene.it
Venerdì 19 Dicembre 2003, 10:00
Bimbi più aggressivi se la mamma ha sofferto di depressione


Bambini aggressivi e violenti? Forse è colpa delle mamme che hanno sofferto di depressione dopo il parto. Lo studio è stato condotto da ricercatori della Cardiff University, su 112 famiglie londinesi, con ragazzi di 11 anni. I ricercatori hanno monitorato prima le donne in attesa e poi i bambini in tre diversi momenti della crescita, scoprendo così che risse, sospensioni e note in condotta vedono più spesso protagonisti i ragazzini le cui mamme sono state colpite da depressione tre mesi dopo il parto.
Decisamente poco tranquilli anche i figli di donne con ripetute crisi depressive. La maggioranza dei bambini coinvolti nello studio non era violenta, precisano i ricercatori, quanto piuttosto incline a cattivi comportamenti. Un problema soprattutto per i maschi, mentre le femmine sembrano risentire di meno dell'effetto della depressione materna.

storie dell'uomo:
nuove ipotesi su Atlantide

La Repubblica 19.12.03
IL SUCCESSO DEL LIBRO DI FRAU
SE ATLANTIDE ESCE DAL MITO E DIVENTA STORIA
di PAOLO MAURI


L'ultimo evento risale a pochi giorni fa: al Suor Orsola Benincasa si è tenuta una tavola rotonda con cinque antichisti per discutere la tesi avanzata da Sergio Frau nel suo libro-inchiesta sulle colonne d'Ercole, edito da Nur Neon. Come i lettori di Repubblica ricorderanno (il nostro giornale ha anticipato le parti salienti del libro) si tratta né più né meno di una vistosa correzione alla geografia in uso dal Medio Evo in qua. Dante pone infatti le Colonne a Gibilterra, ma questo comporta (sto riassumendo alla buona) una stupefacente lettura dei testi antichi: risultano infatti tutti sbagliati, con città e luoghi di cui non si trova alcuna traccia archeologica o almeno documentaria.
Frau ha spostato le Colonne al Canale di Sicilia e improvvisamente tutto il puzzle della geografia antica è tornato al suo posto: le città, gli dei, il problema della navigazione? Rileggendo Platone alla luce della tesi avanzata da Frau si risolve persino il problema di Atlantide. Altro non sarebbe che la Sardegna, passata attraverso autentici cataclismi. Ma all'autore non preme affatto mettersi nella lunga schiera dei cercatori di Atlantide, genere prediletto dai fantaarcheologi, molto di più gli preme la verifica di quanto ha scoperto. Nei pochi mesi che ci separano dall'uscita del libro, che è già alla sesta ristampa con circa ventimila copie vendute, non poche per un tomo di oltre seicento pagine e zeppo di citazioni, le conferme non sono mancate.
Per Luis Godart, che è un celebre archeologo, l'inchiesta di Frau «lancia una teoria rivoluzionaria, e costringe chiunque a ripensare molte delle certezze che riguardano gli studi in corso». Per il geologo del Cnr Mario Tozzi il libro è «per molti aspetti clamoroso».
È già clamoroso, aggiungiamo noi, che il lavoro di un giornalista sia stato preso così sul serio dall'Accademia in genere gelosa dei suoi territori, ma qui tutto è documentato e l'ipotesi viene appunto consegnata nelle mani di coloro che per mestiere si occupano di geografia e di storia antica perché dicano la loro.
La rivista Diogéne sta appunto per pubblicare nel suo numero 2004, un dossier sulle Colonne d'Ercole di Frau con contributi di Andrea Carandini, Luciano Canfora, Sergio F. Donadoni, Jean Bingen e Vittorio Castellani.
Castellani, che è un astrofisico della Normale di Pisa, aveva scritto anni fa un libro in cui collegava il discorso di Platone su Atlantide con l'innalzamento dei mari alla fine dell'ultima glaciazione che avrebbe provocato la sommersione di vasti territori popolati. Proprio quel libro aveva spinto Frau a condurre la propria inchiesta e oggi Castellani definisce il lavoro di Frau incredibile per i risultati raggiunti e per la mole di dati accumulati. Castellani aveva posto Atlantide nelle Isole Britanniche ma dopo aver letto Frau si è convinto di aver sbagliato. «Di colpo tutto si fa chiaro e in particolare si fa chiaro quanto Platone dice nel Timeo di Atlantide: "perché davanti a quella foce che viene chiamata come dite, le Colonne d'Eracle, c'era un'isola? e a coloro che procedevano da essa si offriva un passaggio alle altre isole, e dalle isole a tutto il continente che stava dalla parte opposta intorno a quello che è veramente mare". Passo che ha formato la croce di tutte le collocazioni di Atlantide, e che mal si attaglia, e con fatica, anche all'ipotesi delle isole britanniche. Tutto invece pare ora diventare chiaro. Al di là del canale di Sicilia c'è Atlantide-Sardegna, e al di là ancora altre isole sino ad arrivare al continente che, dall'Italia alla Spagna ed alle coste africane davvero circonda un mare: il Tirreno-Mediterraneo». Insomma, se tutto è vero, Atlantide esce dal mito e diventa storia, perché poi la Sardegna nella sua realtà archeologica è ancora poco studiata. L'inchiesta di Frau è stata alla base di due speciali televisivi e l'impressione è che più si procede negli studi e più se ne discuterà.


gli articoli precedenti

Senza titolo
Stargate: Fabio Tamburini sarà a Malta per indagare sulle Colonne d'Ercole. La memoria collettiva le ha sempre collocate a Gibilterra tra Mediterraneo e Atlantico. Il giornalista Sergio Frau rivoluziona tale tesi e le pone nel canale di Sicilia. Nella seconda parte si seguono le tracce di Atlantide. Secondo Frau, l'isola scomparsa era situata in Sardegna.


E se Atlantide fosse davvero la Sardegna? Ercole voleva il numero chiuso contro i greci
di Roberta Mocco


Magari sarà per via di quella sardità già segnalata dal cognome: “Non sono io, sono gli antichi a dirlo: Platone, Erodoto, mica niente”. Eppure è proprio Sergio Frau, 54 anni, (nella foto), romano, inviato di Repubblica - redazione Cultura - di madre bergamasca e padre sardo (nato in “Casa Frau” di Pula), ad aver pensato l’impensabile: identificare la Sardegna con Atlantide. Un’isola dal nebuloso passato di cui resta visibile traccia solo nei nuraghi, e una terra - isola, continente? - impregnata di mito e leggenda, sparita o sprofondata da qualche parte e cercata dappertutto, posizionata dovunque da migliaia di libri e teorie. E sarebbero la stessa isola, secondo la ricerca di Frau “Le colonne d’Ercole: un’inchiesta”, pubblicata dalla casa editrice romana Nur Neon. Ponderoso volume, “un mattone” - scherza l’autore - di 672 pagine, dense di richiami e citazioni, di carte e mappe di ogni epoca, frutto di due anni di ricerca sistematica e maniacale su testi antichi e materiale specialistico.
Punto di partenza della teoria di Frau è una specie di Rivoluzione Copernicana della protogeografia: spostare le colonne d’Ercole, confine tradizionale del mondo antico oggi identificato con lo stretto di Gibilterra, nel Canale di Sicilia: il braccio di mare tra la Tunisia e la Sicilia, che un tempo era molto più angusto.
L’intuizione di Frau è scattata proprio dalle analisi geologiche di come era il Mediterraneo millenni fa, compiute da Vittorio Castellani, ordinario di Fisica stellare all’Università di Pisa. Nel libro “Quando il mare sommerse l’Europa” l’astrofisico spiega che nella protostoria (circa cinquemila anni fa) il livello del mare Mediterraneo era assai più basso di adesso. E illustra il tutto con dovizia di cartine. Ed è proprio sfogliando il libro di Castellani che Frau si trova di fronte la mappa dello stretto di Gibilterra e, nella pagina a fianco, quella del canale di Sicilia, dove allora i fondali erano più bassi di 200 metri. Praticamente due stretti, anziché uno, e tutti e due nel Mediterraneo. E che succede? Prima il panico di un giornalista che, per quanto di lunghissima esperienza, si sente sempre un po’ “ospite” negli ambienti accademici e specialistici. Scrive Frau nel suo libro: “Dàgli a ripetersi - per riprendersi- che, certo, quella era una sorpresa solo per ignoranti. Che era mica una cartina inedita, quella, e che chiunque va per mare la conosce, che non era certo uno scoop”. Ma, da buon sardo ostinato, Frau comincia la ricerca per capire chi per primo avesse accreditato la tradizionale collocazione a Gibilterra. Consulta i testi di viaggiatori e geografi antichi, li confronta con le interpretazioni teoriche date nei secoli dagli studiosi e scopre tutta una serie di incongruenze che vengono “aggiustate” con un lungo sforzo interpretativo, fino a separare nettamente ciò che gli antichi dicono e ciò che gli studiosi pensano.
Il primo geografo a piazzare chiaramente le colonne d’Ercole a Gibilterra fu Eratostene, per esigenze di “simmetria propagandistica”. Eratostene era al servizio di Alessandro Magno, “uno abbastanza fissato con la geografia - sentenzia Frau - tanto che in giro per le sue conquiste portava sempre con sé alcuni soldati addetti a misurare la distanza percorsa contando il numero di passi fatti”. Gli enormi spazi percorsi a Oriente dalle truppe di Alessandro smentivano la tradizione secondo cui la Grecia fosse il centro del mondo conosciuto: a meno che le colonne d’Ercole non venissero collocate a Gibilterra. Ed ecco nata la tradizione che, secondo Frau, non ha niente a che fare con quello che gli antichi greci pensavano dei veri confini del loro mondo. Nessuna distanza, nessun itinerario descritto dai viaggiatori della Grecia classica coincide con la mappa del mondo così come si delinea considerando l’intero Mediterraneo come “terra cognita” dagli antichi Greci.
Tutto invece va al posto suo se si limita questo spazio al Mediterraneo orientale. Anche la vera collocazione della zona di influenza della Grecia antica, che terminava dove cominciava la porzione di mare dove spadroneggiavano Fenici e Cartaginesi: cioè ad ovest della Sicilia, appunto. Le colonne d’Ercole verrebbero così a delimitare quella che il grande Sabatino Moscati, sui Quaderni dell’Accademia dei Lincei, ha chiamato la “cortina di ferro” dell’antichità.
E la Sardegna come diventa Atlantide? Ricollocando le colonne d’Ercole nel canale di Sicilia, traslocano all’interno del Mediterraneo tutti quei miti e luoghi leggendari estromessi nell’Oceano e lì lasciati in balìa alle ipotesi più peregrine. Lo stesso Frau, più che di Atlantide, preferisce parlare di Isola di Atlante, perché il nome Atlantide è stato usurato dagli “ufaroli”, come li chiama lui: tutti coloro che sulla leggenda dell’isola-continente sprofondata hanno sovrapposto di volta in volta gli extraterrestri, i Mu, l’Antartide e via delirando. Questa teoria dirada un po’ le nebbie affascinanti dei miti per mostrare un solido sostrato di prosaica verità. “I miti non erano favole e basta - dice Frau. - Non questi miti, che raccontavano di terre lontane ma spiegavano come raggiungerle e elencavano tutto quello che ci si trovava con pedanteria minuziosa, come fa Platone per Atlantide nel “Crizia”. I miti erano racconti e anche sistemi di mnemotecnica per costruire a mente una geografia del tempo antico”. Tutto coincide: l’isola di Atlante è descritta come terra dal clima mite, che dà più raccolti all’anno, ricca di metalli preziosi, regnante sui Tirrenici, ossia il “popolo delle torri”. Le torri sono i nuraghi, gli ottomila nuraghi che secondo gli studiosi affollavano l’isola a quel tempo.
Non solo: le descrizioni coincidono in maniera impressionante anche con quello che si diceva di un altro luogo del mito, la Tartesso terra ricca di messi e frutti, ma soprattutto terra dell’argento, di miniere ricchissime e famose. Quelle per cui il Gennargentu era davvero, nell’antichità, la “porta dell’argento”. Tartesso, identificata di volta in volta con terre d’oltreoceano, l’Andalusia, la Spagna, persino la Britannia. Un’altra prova dell’equazione Tartesso uguale Sardegna è la stele in pietra ritrovata a Nora, e che ora giace in un angolo un po’ trascurato del museo Archeologico di Cagliari. Lì è incisa la scritta fenicia con il nome di “Tarshish”.
Quello che più conforta la reinterpretazione fatta da Frau è che le distanze e i riferimenti geografici, che gli antichi fanno nel raccontare di queste due terre mitiche, risultano alla perfezione; cosa che non succede invece se si spostano le colonne d’Ercole a Gibilterra.
Qualche difficoltà di spiegazione viene dalle date che indica Platone per dare i tempi della storia gloriosa di Atlantide. Parla infatti di “novemila anni” nel passato rispetto alla sua epoca. Qui Frau si ritrova a fare l’ “aggiustamento” più rilevante sulle parole degli antichi, e lo fa seguendo ancora una volta una logica prosaica che allontana dalle suggestive leggende. Non è pensabile che un popolo che usava i metalli, conoscitore della scrittura, potesse esistere nel Diecimila prima di Cristo. E strano è misurare in anni il tempo, cosa che i Greci non facevano mai. Tutto torna, invece, se si interpreta come “mesi” ciò che per secoli è stato tradotto come “anni”. Un rammendo interpretativo visibile, ma motivato.
In questo modo, inoltre, coinciderebbero i tempi con lo sviluppo della civiltà nuragica, il popolo “venuto dal mare”, come lo chiama Platone, ossia gli Shardana, gli stessi che ritroviamo poi schiavi del faraone Ramsete. E la fantasmagorica “inondazione” che avrebbe colpito Atlantide? Colpì in effetti la Sardegna nuragica, trasformata in una palude, abbandonata da gran parte del suo popolo.
Al posto dei terreni fertili e verdeggianti restano gli acquitrini di quello che ora è il Campidano Ed ecco ricostruita la strada che li porta, vinti, in catene, alla corte di Ramsete. Una teoria complessa e affascinante- quella di Sergio Frau- che spiega tanti di quegli enigmi rimasti aperti sul passato del Mediterraneo antico. E che a noi sardi, sempre un po’ piagnoni, regalerebbe una patente inaspettata di civiltà grandiosa.

La parola agli archeologi veri

Sergio Frau, 54 anni, romano figlio di padre sardo e madre bergamasca, lavora nella redazione Cultura di Repubblica. Che cosa dicono di lui gli archeologi “veri”? Cosa pensano delle sue teorie?
Maria Giulia Adamasi Guzzo, docente di Epigrafia semitica all’Università “La Sapienza” di Roma: “Un brutto tiro a chi pensava che tutto ormai fosse assodato. I dati raccolti s’incastrano l’un l’altro. Si deve, dunque, ricominciare a fare i conti con le datazioni delle altre fonti classiche. Forse essere disposti a reinterpretarle, a capirle davvero”.
Lorenzo Braccesi, docente di Storia antica all’Università di Padova: “Quando i Greci, in età classica, divulgano il mito di Atlantide sono senz’altro convinti che si sia trovata al di là di Gibilterra. La tradizione a cui attingono, però, poteva benissimo averla ubicata in un remotissimo e non più storicizzabile passato, al di là di Colonne d’Eracle, situate originariamente sul Canale di Sicilia…”.
Sergio F. Donadoni, egittologo, accademico dei Lincei: “Ce ne sono talmente tante di Colonne d’Ercole in giro che le prime potrebbero essere state davvero lì, al Canale, e poi spostate man mano che il mondo si faceva più grande”. Sergio Ribichini, storico delle religioni e ricercatore all’Istituto di studi fenicio-punici del Cnr: “ Mentre leggevo ho preso appunti. Per dire no, che qui non sono d’accordo e neppure qui e nemmeno là; e ancora: boh, forse, chissà. Ma ho pure cominciato, lentamente, quasi con ritegno, a dirmi: sì, caspita, è vero, com’è che non ci avevo pensato, ma guarda, e io che non c’ero arrivato, ha ragione, anzi, però…”
Giovanni Lilliu, archeologo e accademico dei Lincei:”Di fronte a dati nuovi è un obbligo - in archeologia - rivedere le proprie convinzioni”.
Per i più curiosi ecco l’email di Sergio Frau: s.frau@repubblica.it

Atlantico, Cipro, Sahara: tre nuove spedizioni pronte a partire
Caccia ad Atlantide, città perduta sotto un mare d' acqua o di sabbia
L''antica civiltà raccontata da Platone torna al centro dell'attenzione e delle ricerche degli archeologi e degli esploratori Quel luogo fantastico prende forma sempre più concreta Non è soltanto letteratura La maggiore isola di un arcipelago, coperta dalle acque 11.000 anni fa fu inghiottita da un mare di sabbia: una tesi già accreditata nell' Ottocento
di CINZIA DAL MASO


ROMA - Allacciate le cinture, si parte. Destinazione: Atlantide. Tre spedizioni sono pronte a "salpare" per dimostrare che il grande impero perduto è esistito davvero. Per sciogliere il millenario enigma con prove concrete, e usando i dialoghi di Platone come mappa del tesoro. Non si pongono neppure il dubbio che quello di Platone sia solo un mito, ambientato in un' isola inesistente oltre i limiti del mondo allora conosciuto, le Colonne d' Ercole (come diceva già Aristotele e, da ultimo, un libro in uscita in questi giorni in Francia, "Atlantide la solution oubliée" di Jacques Hébert, ed. Carnot). Per loro quel luogo è assolutamente reale. Anzi, secondo l'archeologo Jacques Collina-Girard dell'Università di Aix en Provence, è proprio lì dove lo descrive Platone, un'isola in Atlantico poco oltre le Colonne. Ora è nota come la piattaforma di Spartel, sommersa da oltre 100 metri d'acqua, ma durante l'ultima glaciazione era terra emersa. Un'isola, la maggiore di un arcipelago di sette isole, l'ultima a venire coperta dalle acque circa 11.000 anni fa, come racconta Platone. Questo Collina-Girard lo mise nero su bianco già nel 2001. E l'estate prossima partirà alla ricerca delle prove. Tracce di vita sulla piattaforma, indizi che rivelino che, prima di essere inghiottita dai flutti, quell' isola era abitata dall' uomo. Ha trovato i compagni giusti, gli esploratori di oceani Paul-Henri Nargeolet e George Tulloch, capifila delle molte spedizioni che hanno recuperato gli oggetti dal Titanic. Con un sommergibile indagheranno le grotte dell'isola sommersa così come hanno ispezionato le cabine del transatlantico. Alla ricerca di tesori non meno preziosi. La seconda spedizione vagherà invece le primavera prossima tra le sabbie del Sahara, capofila l' inglese Carla Sage. La tesi non è nuova, risale all' Ottocento. E ai primi del Novecento si fece romanzo grazie alla penna di Pierre Benoit. Atlantide era un grande impero continentale che commerciava con i popoli del Mediterraneo. Lo inghiottì un mare non d'acqua ma di sabbia. Del resto, i geologi sanno bene come l'innalzarsi delle temperature abbia trasformato la fertile pianura sahariana in deserto. Ora, Sage ne è convinta, l'high-tech scoverà anche l'antica metropoli sommersa dalle sabbie. Gli annunci delle due spedizioni sono stati preceduti dall'uscita negli Usa per Origin Press di un bel libro illustrato con tanto di mappe batimetriche e modelli 3D a dimostrare che Atlantide è al largo della costa di Cipro. L'autore, Robert Sarmast, ha individuato una piattaforma a circa 1.500 metri di profondità che, secondo lui, prima dell'ultimo scioglimento dei ghiacci era terra emersa e corrisponde punto per punto al racconto platonico. Conta anche lui di andare a indagare, convinto di trovare sotto il Mediterraneo mura, templi e palazzi. E intanto c'è chi la propria Atlantide sta già cominciando a scoprirla. Sono gli archeologi inglesi della Newcastle University che a settembre hanno trovato selci e altri oggetti preistorici al largo della foce del fiume Tyne. Per caso, durante un corso di subacquea. I geologi sanno da tempo che, nell'ultima glaciazione, il mare del Nord era una vasta pianura poi sommersa dalle acque. Ma gli archeologi hanno sempre giudicato difficile trovare tracce di vita così antica tra i flutti. Il caso ha dimostrato che invece si può. Così ora l'English Heritage ha deciso di mettere in campo le più aggiornate tecnologie per mappare il fondale del mare del Nord. E scovare ogni traccia possibile dei nostri antenati

L'archeologo Jacques Collina-Girard ha trovato la sua 'antica civiltà'
è un' isola di fronte a Gibilterra
l'intervista


ROMA - Archeologo e paleontologo, Jacques Collina-Girard si è imbattuto in Atlantide per caso. «Stavo facendo ricerche con dei colleghi in Marocco, studiavamo gli effetti dell' ultimo grande cambiamento climatico. Scoprimmo che tra le terre che vennero sommerse c'era un' isola di fronte a Gibilterra. Non ebbi dubbi, è l' Atlantide di Platone». La geologia corrisponde con il racconto del filosofo? «Tutto: la collocazione, la descrizione dell' isola, l'epoca della catastrofe». Platone dice che l'isola "era più grande della Libia e dell'Asia riunite", mentre la sua Atlantide misura circa 14 chilometri per 5. E Platone parla di un cataclisma improvviso, non di un lento alzarsi delle acque. «Sono invenzioni di Platone per "drammaticizzare" maggiormente l'evento. Come lo è anche l'idea di una civiltà progredita. Io non credo al mito di Atlantide, ma a un evento che gli uomini sperimentarono e poi tramandarono oralmente. Videro le acque impadronirsi delle terre al termine dell'ultima glaciazione e inventarono la storia di Atlantide così come quella del diluvio universale. Platone l'ha usata per un suo insegnamento, aggiungendoci la descrizione della società ideale». Chi erano gli uomini che vivevano sull' isola ora sommersa? «Cacciatori e raccoglitori del Paleolitico. Nessuna civiltà altamente progredita, gli "Atlantidei" non costruivano templi o palazzi favolosi». E cosa spera di trovare con le sue indagini dell'estate prossima? «Voglio esaminare da vicino l'antica linea di costa, cercare caverne o altri luoghi dove gli uomini del Paleolitico si possono essere insediati, trovare magari oggetti che possano rivelare se gli abitanti dell'isola venivano dall'Africa o dall'Europa». è importante? «Moltissimo. Platone dice che Atlantide invase altre terre, e credo che si riferisca a una colonizzazione del nord Africa da parte di genti europee durante il picco della glaciazione circa 20.000 anni fa. Spero di poterlo dimostrare». (c.d.m.)

un nuovo articolo su
“La Danza del Drago giallo”

una segnalazione di Mentore Riccio

Il Cittadino Oggi (di Siena) venerdì 19 dicembre 2003
In onda “La danza del drago giallo”
articolo di Rosa Franca Cigliano


Siena. Questa sera alle 17,40 [le date della messa in onda del film di Domenico Fargnoli sono cambiate: vedi il post specifico ndr] il Canale Civico manderà in onda la seconda proiezione del video “La Danza del Drago giallo”, realizzato dallo psichiatra Domenico Fargnoli in collaborazione con lo studio “Videodocumentazione” di Siena. Girato fra Siena e Firenze, il video si snoda come una narrazione poetica a più voci in cui prendono corpo diverse figure: lo psichiatra, l’artista ed un gruppo dall’iniziale fisionomia incerta (“umbratili presenze”). Sarà proprio la dialettica fra l’arte e una nuova immagine della psichiatria, entrambe legate alla realtà non consapevole dell’uomo, a determinare la fisionomia di questo gruppo composto da attori, protagonisti di una profonda trasformazione.

Una “nascita” storicamente mai prima realizzata che va al di là della particolarità delle storie individuali, per acquistare una risonanza collettiva e universale.

Il tema della trasformazione pervade d’altra parte anche lo stesso linguaggio cinematografico proposto dall’autore. Fatto di inquadrature, di fotografia in bianco e nero, dell’uso di una particolare modalità di ripresa che scompone le immagini in pennellate di luce dove si indovinano nuove forme in ciò che sembrava già noto. Tutto si alterna, creando un effetto dinamico, un movimento che si fonde con la forte carica emozionale che gli attori, non professionisti per scelta intenzionale del regista, riescono con intensità crescente a trasmettere allo spettatore. “La Danza del Drago giallo” sarà nuovamente in onda lunedì prossimo alle 14,40.

giovedì 18 dicembre 2003

da Iole Natoli

un "inoltro" da Tonino Scrimenti

Voglio ringraziare tutti i compagni che giovedì scorso al cinema Pasquino hanno sostenuto "a un millimetro dal cuore", GRAZIE!!!
Il mio cortometraggio non ha vinto il premio del pubblico (sembra per un voto!) ma gli organizzatori della manifestazione hanno deciso in via del tutto eccezionale, di assegnare un premio "speciale" anche al mio lavoro!! Non so cosa li abbia spinti a prendere questa decisione, non so se avessero già deciso chi dovesse vincere, io so soltanto che abbiamo preso tantissimi voti ed anche l'applauso più lungo e più coinvolgente di tutta la giornata! (e in sala non c'eravamo soltanto noi!)
Sono veramente molto contenta, perché questo premio non era assolutamente previsto e nemmeno pensato, hanno dovuto "inventarlo" e alla fine per me è piu importante e più bello che se avessi vinto il primo!!
Grazie a tutti
iole
una informazione da Tonino Scrienti e da Rita, da Francoforte

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a Francoforte si é chiuso domenica 14 il festival del cinema italiano "nord-sud" 5-14 dicembre (Filmmuseum).
Venerdí 12 dic. e domenica 14 dic. é stato  presentato anche
il  film di Bellocchio "L'ora di religione"
...e questa sera la sala  era completamente piena!!!
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Marco Bellocchio
e Francesca Pirani
al "Roma Film Festival"

Marco Bellocchio riceverà l'omaggio del Roma Film Festival

Una Festa del Cinema è prevista per il 19 dicembre al teatro 16 di Cinecittà.


Giovedì 18 - Cinema Nuovo Olimpia - Sala B

20.15 • La religione della storia
Marco Bellocchio
Italia, 1998, 50'

Sogni infranti
Marco Bellocchio
Italia, 1995, 53'


a seguire
l'incontro con Marco Bellocchio
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Venerdì 19 - Cinema Nuovo Olimpia - Sala B

21.00 • Una bellezza che non lascia scampo
Francesca Pirani
Italia, 2002, 87'


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Chirac sulla laicità

Corriere della Sera 18.12.03
«A scuola non si ostentano i simboli religiosi»
Chirac accoglie il rapporto dei «saggi» e annuncia la legge sulla laicità.
No alle feste ebraica e musulmana


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI - La laicità come strumento di eguaglianza e rispetto: anche della religione. Adeguando ai tempi uno dei valori della République, Jacques Chirac ha preso in modo netto e solenne la decisione più difficile: una legge che proibisca l'ostentazione di simboli religiosi nelle scuole pubbliche.
No quindi al velo islamico, alla kippah ebraica e a grandi croci, con l'avvertenza sostanziale che i simboli siano ostensibles, ovvero quelli che esprimono intenzioni propagandistiche e tradiscono la «neutralità» del servizio pubblico, in particolare l'educazione nazionale.
La regola non potrà tradursi in un attacco alla libertà religiosa e a convinzioni personali. Continueranno ad essere ammessi simboli di piccole dimensioni e privati, come la catenina con il crocefisso, la stella di David o la manina di Fatima.
La «laicità non è negoziabile», aveva detto il presidente aprendo il dibattito che ha lacerato la Francia. Ieri, in un discorso all'Eliseo, lo ha ribadito, con il conforto dei «saggi» della Repubblica, ai quali ha affidato il compito di radiografare il problema.
Chirac ha accolto le indicazioni culturali e etiche della «commissione Stasi» (dal nome del professor Bernard Stasi che l'ha presieduta) che si era pronunciata a favore di una «regola chiara» di comportamento che valesse per le scuole, ma anche per ospedali (nessuno può rifiutare le cure in base al sesso del personale) e luoghi di lavoro.
Il presidente ha anche lanciato la sfida della tolleranza e dell'integrazione, in un panorama sociale stravolto da immigrazione e pressioni religiose. In epoca di tensioni internazionali e scontro di civiltà, ha voluto ricordare le radici storiche della Francia, i principi costitutivi della Repubblica, la «missione di patria dei diritti umani».
L'Islam, nella Francia di oggi, ha diritto a rispetto e libero esercizio di culto, così come il «fatto religioso» deve diventare terreno di studio e comprensione nelle scuole.
D'altra parte, l'unità del Paese non può essere minacciata da derive comunitariste o confessionali e i principi della République - libertà, eguaglianza, fraternità - non possono essere solo enunciati, mentre sono evidenti disparità, discriminazioni, fenomeni di razzismo e antisemitismo.
Chirac ha avuto parole di comprensione per i giovani dei «ghetti», che devono veder rispettati i loro diritti di cittadini francesi, e di ferma condanna per ogni forma di antisemitismo. (Parole messe in pratica, proprio ieri, con l'espulsione di due allievi del liceo Montaigne, colpevoli di aggressione e minacce contro un coetaneo ebreo).
Nel concetto di eguaglianza, è compresa quella fra sessi. Chirac lo ha enfatizzato e tutti hanno capito che nella problematica del velo islamico si sono anche parità e emancipazione femminile.
Il presidente ha invece bocciato la proposte di introdurre due nuove festività nazionali, la ricorrenza ebraica dello Yom Kippur e quella islamica dell'Aid-el-Kebir: «Ce ne sono già troppe», ha detto, raccomandando tolleranza per assenze giustificate e in coincidenza di esami.
Nuove festività sarebbero suonate come un non senso, nel momento in cui il governo ha deciso di sopprimere la Pentecoste per finanziare l'assistenza sociale.
Prima di essere varata, forse l'anno prossimo, la legge già divide. La proposta incontra il consenso del mondo politico, suscita perplessità e dissenso nelle comunità religiose, opposizione fra categorie che dovrebbero applicarla: studenti e personale della scuola. Per questo, secondo la tradizione francese, i grandi principi troveranno applicazione all'insegna del buon senso: una sorta di «authority» avrà il compito della vigilanza permanente.
Con toni che gli sono congeniali quando vuole esaltare lo spirito dei tempi e il posto che la Francia vi occupa, Chirac ha tenuto d'occhio i fattori di preoccupazione politica e di conflittualità sociale: la crescita del Fronte nazionale di Jean-Marie Le Pen (in vista delle elezioni di primavera) e i rischi d'islamizzazione delle banlieues, le periferie, «territori perduti della Repubblica», per citare un saggio di successo.
Nella Francia in cerca d'identità, in fuga dalla politica e ripiegata sulla crisi economica, la bandiera della laicità e dei principi fondatori può essere ancora vincente. Comunque la migliore ricetta del consenso.

mercoledì 17 dicembre 2003

un comunicato
della Libreria AMORE E PSICHE


Vi informiamo che è possibile vedere in libreria la registrazione
dell’incontro con Marco Bellocchio di Mercoledì 10 dicembre
presso la facoltà di Filosofia dell’Università La Sapienza


Precisiamo che la registrazione sarà proiettata, come sempre, a richiesta e senza vincoli di orario ma, per il periodo natalizio, soltanto nei giorni dal lunedì al venerdì. Vi ricordiamo anche che fino al 6 gennaio siamo aperti anche lunedì mattina.
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è possibile anche vedere e scaricare sul proprio hard disk tale registrazione collegandosi al sito di MAWIVIDEO.IT

per farlo clicca
QUI
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inoltre
sempre da AMORE E PSICHE sono disponibili :

la videocassetta n.13
delle Lezioni di Chieti
del professor Massimo Fagioli


il nuovo Calendario per il 2004

le nuove locandine-invito delle Aule Magne 2003-2004

e la nuova edizione di "Amore senza bugie" di
Fulvia Cigala Fulgosi e Dorina Di Sabatino
edito dalle Nuove Edizioni Romane


Vi aspettiamo con le nostre proposte di Natale!

Saluti a tutti
Amore e Psiche


la videocassetta n° 13 e il Calendario 2004 sono disponibili anche a Firenze, come sempre da STRATAGEMMA
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disponibili su MAWIVIDEO.IT

tre interviste al professor Massimo Fagioli

Intervista di Radio Blu a Massimo Fagioli (02/02/1980), 0:36

Intervista di Luca Villoresi (per il Venerdì di Repubblica) a Massimo Fagioli (??/??/1991), 0:46

Intervista di Syhem Latrache a Massimo Fagioli (15/11/1990), 1:28:00

e

l'incontro con Marco Bellocchio a Filosofia del 10/12/2003
 


collegati al sito
http://www.mawivideo.it/

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storie dell'uomo
il giardino persiano, paradiso in terra

La Repubblica ed. di Palermo
LA METAFISICA È NEL GIARDINO
di Marcella Croce


Dal 6° secolo A.C. in poi, il giardino persiano come recinto, come microcosmo, come paradiso (da paradaiza che vuol dire appunto "spazio delimitato"), ha stabilito un modello imitato senza soluzione di continuità in tutto l'Islam, dagli estremi lembi occidentali del Marocco e di El-Andalus, fino ai lontani regni degli imperatori Moghul nel Rajastan indiano e di Tamerlano a Samarcanda, dove pare che la disposizione degli alberi tenesse conto perfino del colore e del profumo delle specie. Un principe o una coppia regale stanno comodamente seduti in un lussureggiante giardino, altre volte un giovane raccoglie frutta o fiori da un albero: immagini in apparenza mondane che in realtà nascondono profondi significati metafisici.
Su questi sfondi incantati fiorì un genere letterario specifico, la "poesia del giardino", il cui più illustre rappresentante, nel 13° secolo, fu Ibn Khafaya de Alzira, detto "il giardiniere". E non sono le uniche espressioni d'arte in cui l'Iran ha espresso il suo amore per i fiori: moltissimi tappeti persiani ne sono cosparsi e riproducono all´infinito un meraviglioso fiabesco giardino. Tuttora numerosissime sono le botteghe dei fiorai in ogni città iraniana, ciascuna in grado di confezionare in un batter d'occhio leggiadre composizioni floreali. Assecondando un profondo bisogno di organizzare la terra secondo un reticolo e di porre l'individuo al centro di quel cosmo concettuale, il giardino persiano chaharbagh (cioè il "tetragiardino") era solitamente diviso in quattro settori, ciascuno con un diverso albero da frutta, ed era previsto che il paesaggio circostante includesse luoghi appositamente rialzati per permettere sia il godimento temporale che la contemplazione mistica: i toponimi takht (trono) o suffe (sufisti) la dicono lunga in proposito. Come in eschimese esistono dozzine di termini per indicare i vari tipi di neve, e in arabo almeno altrettanti per i vari tipi di sabbia, allo stesso modo la lingua persiana si sforza e si sbizzarrisce a designare i vari tipi di giardino. Giardini con pianta a croce esistono sia nell'Alhambra di Granada che nell'Alcazar di Siviglia e a Madinat-al Zahra presso Cordoba e con certezza il chaharbagh non mancò di fare la sua comparsa anche nella Sicilia araba, e di ispirare poi i giardini siciliani di tutte le epoche successive.
Certamente erano circondati da giardini di questo tipo tutti i solatia normanni, la Zisa in particolare, nel Chiostro di Monreale ne esiste ancora uno, ne porta l'impronta perfino un giardino relativamente moderno come Villa Giulia a Palermo, nel quale ciascuno dei quattro quadrati è poi a sua volta tagliato trasversalmente. Se l'influenza più diretta per tutta questa accurata geometria è quella francese, non è però certo un caso che esattamente lo stesso elaborato disegno si possa osservare nelle antiche piante del giardino, non più esistente, di Bagh-i-Guldaste a Isfahan. Le quattro esedre centrali di Villa Giulia possono richiamare alla mente gli eiwan, uno dei più tipici elementi dell´architettura persiana, che qualcuno fa risalire alla cultura zoroastriana, mentre altri vi individuano ascendenze ellenistiche: non solo in natura, ma anche nelle culture umane, nulla si crea e nulla si distrugge.
A Palermo, nel grande parco reale del Genoard, come tutti i re della storia degni di questo nome, i normanni andavano a caccia: nei mosaici della stanza di re Ruggero al Palazzo Reale, e in quelli della creazione degli uccelli a Monreale, siamo ancora in grado di cogliere uno splendido barlume di quei paradisi. La chiesa della Martorana, per la grande abbondanza di elementi vegetali nella sua decorazione musiva, fu definita chiesa-giardino dal grande esperto di arte bizantina Ernst Kietsinger. Ma, certamente in misura molto maggiore degli edifici in pietra, i giardini vengono alterati e distrutti con stupefacente rapidità, e inoltre, nell´ultimo trentennio, proprio nell´area del Genoard sono stati costruiti gli edifici dell´Università di Palermo in viale delle Scienze; per strano parallelismo anche l'Università di Isfahan sorge oggi nella zona dove nel 17° secolo verdeggiavano i giardini dei re safavidi.

storie dell'uomo
i popoli del Libro

La Repubblica 17.12.03
Le fonti e l'attualità dell'ultimo libro di Pietro Citati
da dove vengono
LE SCINTILLE DI DIO
"Le notizie dei Profeti e dei Re" del teologo Muhammad at-Tabari risale a undici secoli fa
di SANDRO VIOLA


Suppongo che il seme da cui è cresciuto l'ultimo libro di Pietro Citati ("Israele e l'Islam - Le scintille di Dio", Mondadori, pagg. 273, euro 17), sia un altro libro: "Notizie dei Profeti e dei Re", scritto undici secoli fa da uno storico e teologo persiano, Muhammad at-Tabari. O per meglio dire, il sunto che il visir Bal'ami ricavò dai centoventi volumi che componevano l'opera monumentale di at-Tabari. La silloge Tabari-Bal'ami è infatti uno dei testi medioevali che meglio illustrano quanto furono spiritualmente vicini, nella costruzione teologica, nell'intarsio delle mistiche, e per il fascino che a lungo esercitarono l'uno sull´altro, ebraismo ed islamismo.
È vero che già sapevamo dal Corano d'una consaguineità religiosa tra i Popoli del Libro, provata con l'adozione da parte dell'Islam di molte figure dell'Antico Testamento, Adamo e Abramo, Giuseppe, Mosè e Salomone. Ma è leggendo at-Tabari, argomenta Citati, che comprendiamo meglio «come le due civiltà religiose che oggi si combattono miseramente, siano sorte l'una sull'altra, avviticchiate come due alberi che uniscano le loro radici».
Che Citati abbia un giorno preso a leggere l'opera d'un teologo sunnita del X secolo, questo non meraviglia certo. La sua diversità, nell´esigua pattuglia della nostra critica letteraria, sta proprio qui: nell'entusiasmo vorace con cui avvicina ogni genere di testi, nell'agio con cui si muove - per fare solo pochi nomi e titoli - da Omero al "Sogno della camera rossa", dall'"Asino d'oro" a Goethe, dai cabalisti a Manzoni e a Tolstoj, dagli autori dei pochi bei romanzi di questi anni (Banville, Sebald o Wescott), a Kafka e a Proust. Niente orti conclusi, dunque, o specializzazioni: niente che possa tarpare le ali della sua inesausta passione per la lettura.
C'è da chiedersi semmai se a spingerlo verso quest'ultima escursione in tempi e testi tanto antichi, sia stata una ragione per così dire contingente. E la risposta mi sembra che affiori già dalla frase riportata più sopra. Come se fosse stata la vista delle «due civiltà religiose che oggi si combattono miseramente» - l'ininterrotta ondata di violenze che scuote la Palestina, l'ossessivo conteggio dei morti che la radio e la televisione recano ogni giorno nelle nostre case, l'apparente irrimediabilità di tutto quel male -, a suscitargli il bisogno di calarsi nella storia dei rapporti tra Israele e l'Islam.
Oggi, scrive Citati, «i cristiani non sanno più niente dell´Islam e del giudaismo; gli ebrei non sanno più niente del cristianesimo e dell'Islam; e l'Islam, come diceva Maometto, vive "esule" nella storia». Scoppiano le bombe, e tra la Gente del Libro crescono il sospetto, l'avversione, l'estraneità. Ma quali furono, dopo la nascita dell'Islam, i rapporti fra i tre monoteismi? Come si videro e trattarono più tardi, per lunghi periodi del Medioevo e all'inizio dell'epoca moderna, ebrei, cristiani e musulmani?
Nel 1454, leggiamo in Israele e l'Islam, un rabbino d'origine francese scrisse una lettera ai suoi correligionari: in essa, dopo aver descritto i dolori che l'Europa cristiana, «il clero e i monaci, questi falsi sacerdoti», infliggevano «all'infelice popolo di Dio», il rabbino Isaak Zarfati esortava gli ebrei a migrare in Turchia. «La Turchia è un paese d'abbondanza dove troverete riposo. Di qui, la strada vi è aperta verso la Terra Santa. Non è meglio vivere sotto il dominio dei musulmani, piuttosto che sotto quello dei cristiani? Qui ogni uomo può vivere un'esistenza pacifica all'ombra della sua vigna e del suo fico... Oh,Israele! Perché dormi? Alzati e lascia finalmente questo paese maledetto!». La maledetta, dunque, Europa dei cristiani.
Di fatto, per molti secoli dopo l'Egira i rapporti tra ebrei e popoli islamici furono rapporti di comprensione e tolleranza. Di reciproca, anche se razionalmente confusa, attrazione. Nelle Notizie dei Profeti e dei Re, at-Tabari riscrive la Bibbia «con tocchi di lievissima grazia araba». La fonde con la lettera coranica, la adatta con «i colori della favola e della leggenda»: ma in sostanza l'assorbe con l'identica devozione che egli riserva alle parole del suo Profeta. E quando rievoca la figura di Salomone, racconta che se egli ha «il dominio dell'universo» è perché tale dominio «gli è garantito dal possesso d'un anello sul quale sta inciso il nome occulto di Allah».
Eccole quindi, avviticchiate come scrive Citati (se non già alla soglia d'un sincretismo), le radici delle due civiltà religiose. Ma questi slanci d'identificazione non vengono soltanto, come nel caso di at-Tabari, dal versante musulmano. Vengono anche dall'ebraismo. Alla fine del XII secolo, l'ebreo Binyamin da Tudela viaggia tra Costantinopoli, Gerusalemme e Baghdad. E se nella Costantinopoli cristiano-greca deve constatare che «gli ebrei vivono oppressi», nelle terre islamiche trova invece gran segni di rispetto per i propri correligionari.
Per prima cosa vede che «nessuno osava offendere i luoghi sacri ebraici»: i quali erano anzi, in molti casi, venerati. E a Bagdad, dove vivevano quarantamila israeliti, Binyamin da Tuleda scopre estasiato che il califfo «tiene il popolo d'Israele in grande favore e si avvale dei servizi di molti ebrei». Poi, come preso da un'infantile euforia, comincia ad esagerare. Inventa che il capo della comunità israelita veniva fatto accomodare dal califfo in trono, «mentre tutti i re musulmani rimanevano in piedi al suo cospetto». Fantasie che scaturivano, probabilmente, dall'aver visto sul Bosforo come i greci detestassero gli ebrei. Ma nelle sue esagerazioni, ecco poi un dettaglio che ci lascia affascinati. Così come nel racconto di at-Tabari Salomone porta infatti al dito un anello con inciso il nome di Allah, nella Baghdad narrata da Binyamin da Tudela il capo della comunità giudaica «indossava un turbante con un velo», e sul velo il sigillo di Maometto.
Fu forse nel Cairo medioevale - Cordoba e Granada a parte - che ebraismo e islamismo convissero con più frutto. Lì gli ebrei, scrive Citati, appartenevano alla «classe suprema: alti funzionari, agenti governativi, medici di corte, dell'esercito e della marina, uomini d'affari di rilievo "connessi al governo e ben noti ad esso"». Al punto che un poeta musulmano se ne irritò profondamente, e scrisse: «Mi raccomando, diventate ebrei, perché il Cielo stesso è diventato ebreo». Frase che mi riporta alla mente quel che sarebbe accaduto sei o sette secoli dopo, nella Budapest inizi Novecento: dove la morchia dell'antisemitismo cominciò a estendersi tra la piccola borghesia urbana e l'aristocrazia di campagna, proprio alla vista dei grandi successi finanziari e mondani degli ebrei ungheresi.
Ma torniamo al Cairo medioevale. L'intensa partecipazione alla vita economica e sociale della grande città egiziana, non impediva agli israeliti di conservare intatti l'identità e il fervore religioso. Come sarebbe stato nei secoli successivi a Kiev o a Norimberga, a Livorno e Ancona, a Parigi o a Salonicco, gli ebrei erano prima d'ogni cosa uomini di preghiera. I loro bambini «imparavano i testi sacri a memoria, perché, come dice lo stupendo passo talmudico: "il mondo esiste soltanto attraverso il fiato degli scolari"».
L'esistenza «sulle rive del Mediterraneo, sotto il dominio arabo, d'una grande civiltà monoteistica che proclamava di discendere da Abramo», il tempo in cui almeno due dei tre Popoli del Libro vissero nel reciproco rispetto, intersecando i loro costumi, devozioni e culture, stanno al centro di Israele e l'Islam. Ma nel libro di Citati c'è altro ancora da segnalare: la leggenda cabalistica, insieme poderosa e incantevole, delle «scintille di Dio», la vicenda - un romanzo - dell'ultimo Messia, e il racconto della caduta di Gerusalemme nel 72 dopo Cristo, che Citati ricava con pagine appassionanti da Giuseppe Flavio.
Dissoltasi l'antica armonia di quella «grande civiltà monoteistica che proclamava di discendere da Abramo», ecco irrompere il Rifiuto, gli odii, l'antisemitismo nelle sue forme contemporanee. L'emergere del fanatismo rivoluzionario wahabita, il suo diffondersi sulla spinta delle ricchezze saudite e nel torpore distratto dell'Occidente, il suo estremo approdo nelle carneficine orchestrate da Osama Bin Laden. Israele e l´Islam si chiude infatti con un capitolo sull´antisemitismo. Di cui Citati tratta con un equilibrio e una chiarezza che fanno dimenticare la confusione, gli eccessi retorici e polemici, la strumentalità in cui sembra avvolto, da qualche tempo, l'argomento.

La nascita del pensiero simbolico

Le Scienze, ed. italiana dello Scientific American 16.12.2003
La nascita del pensiero simbolico
Nuovi ritrovamenti archeologici indicano l'esistenza di antichi rituali funebri


Alcune ossa dipinte di rosso, scoperte in un sito archeologico in Israele, spingono i ricercatori a ipotizzare che il pensiero simbolico sia emerso molto prima di quanto si ritenesse finora. La capacità di rappresentare qualcosa con un'altra cosa ha costituito un gigantesco balzo in avanti nell'evoluzione dell'uomo: si tratta di un'abilità mentale che ha reso possibile un linguaggio sofisticato e l'uso della matematica.
La caverna di Qafzeh, in Israele, contiene molti scheletri di esseri umani vissuti quasi 100.000 anni fa. Nuovi scavi hanno rivelato che nella regione, molto prima di altri esempi di associazioni di colore, durante le sepolture veniva depositato sulle ossa un colore rossiccio fatto di ocra, una forma di ossido di ferro, che probabilmente simbolizzava la morte.
"Abbiamo trovato 71 frammenti di ocra - spiega Erella Hovers della Hebrew University di Gerusalemme - e individuato un chiaro legame fra la pittura e il processo di sepoltura: sembra che facesse parte del rituale". L'associazione del colore rosso con gli scheletri suggerisce l'esistenza di rituali funebri simbolici risalenti a quasi 100.000 anni fa, molto prima dei 50.000 anni che altri scienziati fissano come data della nascita del ragionamento simbolico. Per qualche ragione, tuttavia, sembra che la capacità sia poi stata perduta. Dopo le testimonianze iniziali di Qafzeh, il comportamento simbolico sembra scomparire per riemergere solamente circa 13.000 anni fa. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista "Current Anthropology" (http://www.journals.uchicago.edu/CA/).

© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A.

una risposta a Raboni sul tema della poesia

Corriere della Sera 17.12.03
Ma la poesia è più regola che sogno
di Cesare De Michelis


«Un sogno fatto in presenza della ragione»: Raboni fa sua (sul «Corriere» di domenica 14) la definizione della poesia di un illustre letterato del Settecento, il gesuita Tommaso Ceva, retrodatando di un paio di secoli la carica eversiva della teoria psicanalitica che separò irrimediabilmente la faticosa pratica della poesia (poiein vuole ben dire fare) dal senso che essa esprime e trasmette. Il Novecento poetico fu sin dall'inizio drammaticamente segnato dalla lacerazione sanguinante provocata dalla psicoanalisi, che mise in moto non solo la deriva surrealista, nella quale il senso rapidamente si smarrirà con grave pregiudizio della poesia stessa, come Raboni stesso lodevolmente riconosce, ma, dall'altra parte, anche l'ostinato inseguimento di un'ideale di purezza poetica - prescindendo, dunque, dalla storia e dall'esperienza - destinato anch'esso a produrre un altrettanto radicale smarrirsi del senso nell'astratta vaghezza dell'indistinto.
Eppure bastava segnalare la sostanziale estraneità del sogno nell'interpretazione del pensiero classico - da Aristotele a Cardano fino a Ceva - da ogni sorta di sogno psicoanalitico, l'uno frutto dell'estro, dell'ingegno e della memoria nel tempo liberato del sonno, l'altro vittima degli oscuri labirinti dell'inconscio, nei quali resistono, al di là di ogni volontà e responsabilità, le più segrete pulsioni dell'individuo, prudentemente rimosse dalla coscienza.
Più semplicemente la poesia consistette nei secoli della tradizione nel dire una cosa per l'altra, secondo le regole logiche della metonimia o piuttosto secondo quelle altre analogiche e imprevedibili della metafora, se non addirittura del mito; il che consente di non predeterminare ogni interpretazione possibile senza abbandonarsi all'irragionevole primato del lapsus. La poesia è davvero una questione di lingua e di forma, perché essa trova e per sempre (für ewig) i modi di dire quel che altrimenti non sapremmo, ed è quindi fare in coscienza, prescindendo rigorosamente dal rimosso.

Giorello, ancora il punto di vista illuministico

La Repubblica 17.12.03
Chi decide della nostra vita
Il corpo tra la scienza, lo stato e la chiesa

Riportare la scelta ai singoli individui
Vietato dire dio non lo vuole o dio lo vuole
Parla il filosofo della scienza Giulio Giorello Quali ragioni sono dietro al dibattito che ha animato la legge sulla procreazione assistita
La contrapposizione tra laici e cattolici, l'uso della tecnica, il ruolo della politica. Che cosa significa, nel mondo di oggi, essere responsabili
di Antonio Gnoli


Il filosofo della scienza Giulio Giorello trova riduttiva la contrapposizione che fra laici e cattolici si è instaurata a proposito di quella variante biopolitica che è la legge sulla procreazione assistita. Dice Giorello: «Ci sono laici che per le proprie paure si possono schierare su posizioni che appartengono alle gerarchie ecclesiastiche, e cattolici che su questi argomenti hanno sviluppato una indiscutibile sensibilità laica. Quanto all'idea che la vita sia sacra è un principio messo in questione dalla scienza molto tempo fa. E trovo particolarmente interessanti le parole di Christian de Duve - uno scienziato che ha studiato nella cattolicissima Lovanio - dove nel suo libro "La vita che evolve" (edito da Cortina) sostiene che proprio il rifiutarsi di intervenire là dove la scienza ci permette di farlo per superare i limiti dovuti alla cattiva sorte, sia un atto di irresponsabilità.
«Naturalmente la responsabilità non consiste nell´utilizzare il famoso principio di precauzione con il quale bloccare qualunque decisione in nome del fatto che questo principio prescrive che si possa intraprendere un intervento tecnologico solo quando si è sicuri che non ci sia rischio alcuno. Pensare che il rischio non si annidi nel nostro mondo, nella nostra vita è una pura e semplice pretesa metafisica. Ed è interessante che questa posizione metafisica la condividano tanto i "soloni" dei comitati bioetici quanto i più estremi leader della contestazione agli Ogm.
«Intendiamoci. Non dico che i timori non debbano essere presi sul serio, soprattutto quando sono timori biopolitici, ossia problemi che riguardano i nostri corpi, che coinvolgono direttamente le nostre vite. Ma mi sembra un errore madornale scolpire degli idoli o dei feticci dentro le nostre paure. Uno di questo feticci è che madre natura non va toccata, l'altro è che le biotecnologie non manipolino ciò che Dio ha voluto non manipolabile. Quest'ultima battuta è stata profferita da quel titano del pensiero che risponde al nome di Carlo d'Inghilterra.
«Certo, non penso che la scienza debba governare il mondo, ma d'altra parte non desidero che il mondo sia guidato da una élite di super esperti bioetici che stabiliscano le regole in base alle quali decidere che cosa è giusto o sbagliato in materia di interventi sul corpo umano. Ciò che ritengo basilare è la scelta che va ricondotta ai singoli individui, donne e uomini, sapendo bene che in molti casi si tratta davvero di scelte dolorose. Perciò la prima cosa che un bioeticista dovrebbe fare è rispettare la sofferenza reale delle persone. Si può davvero credere che una donna che ricorra alla fecondazione eterologa ci vada a cuor leggero? O che un uomo incapace di procreare sia contento del proprio stato? Sono scelte difficili, non lo metto in dubbio, ma in una società che si richiama ai principi liberali, quelle scelte ricadono sull´individuo, gli appartengono.
«Perciò invece di preoccuparsi dello stato psicologico dei nati in provetta - i quali peraltro mi dicono che non stanno né meglio né peggio di quelli nati dalle famiglie normali - perché non provare a capire i bisogni e i desideri che la gente ha e che non sono qualcosa di puramente trasgressivo, ma nascono spesso da una mancanza, da una sofferenza.
«C'è un rispetto dell'esistenza che non coincide con l'idea che la vita sia sacra. E nondimeno quel rispetto è ciò che conta perché nasce dalla libera scelta degli individui. Pur nel dolore e nell'incertezza quella libera scelta va salvaguardata. Ricorrere a forme proibizioniste è insensato. Fra l'altro non hanno mai funzionato. Il filosofo Habermas ha liquidato l'idea di "libera scelta" come qualcosa di riconducibile al liberalismo prima maniera, all'illuminismo settecentesco. A lui e ad altri che usano in maniera sprezzante l'etichetta "illuminismo" replico che ne siamo gli eredi. Eredi di una dottrina, di una visione del mondo, che ha fatto progredire l'Europa. Non possiamo rinunciare all'esortazione di Kant quando dice che occorre avere il coraggio di sapere, ma, aggiungo che bisogna avere anche il coraggio di fare. E ciò non significa l'esaltazione della ragione acritica, né il tentativo di instaurare il governo della scienza sulla città. Ma piuttosto il riconoscimento dei propri limiti per poterci poi lavorare dentro e non accettarli passivamente. Michel Foucault è stato tra i primi a capirlo: parlando dell'importanza del prendersi cura di se stessi e della biopolitica. A questo proposito non mi pare irrilevante ricordare una cosa ovvia, ma fondamentale: non può essere lo Stato a decidere che cosa sia naturale o artificiale. Come pure bisognerebbe fare giustizia delle battute tipo: "Dio lo vuole" o "non lo vuole". Se uno ha un filo diretto con una entità spiritualmente superiore e scambia il proprio autoritarismo per infallibilità, ogni possibilità di confronto o discussione si chiude in partenza. Se lasciamo cadere queste pretese e ridiamo il ruolo che spetta al cittadino, ossia a colui che solo può decidere in materia del suo corpo, allora c´è speranza per una civiltà fatta di individui reali e compiuti.
«Abbiamo imparato che la biopolitica ha due facce. Quella con cui lo Stato vuole prendersi cura a tutti i costi del mio corpo, della mia vita, e della mia morte. E lo trovo aberrante. Non sto parlando della sanità, degli ospedali, dell'assistenza, che sono servizi che ogni civiltà sviluppata deve avere, ma di un´entità astratta che entra nelle tue decisioni più intime e dolorose.
«Il lato positivo della biopolitica è che la scienza deve diventare un'alleata dell'individuo, non un avversaria da temere o da combattere.
«Si invocano i valori comuni. La morale codificata. I valori comuni creano uomini comuni. E la morale codificata la si usa fino a quando fa comodo. È un feticcio da esibire in alcune circostanze. Mi è stato chiesto se la bioetica è in qualche modo l'anticamera dello stato etico. Ho risposto che avendo la bioetica che si pratica in Italia perso i caratteri per cui era sorta, più che l'anticamera dello stato etico è la sua sala da pranzo».

un cattivo uso del binomio "razionale/irrazionale"

La Repubblica 17.12.03
Intervista al premio Nobel per la medicina David Hubel
Fermare la scienza sarebbe irrazionale

di PIERGIORGIO ODIFREDDI


Boston. La Harvard Medical School di Boston è un complesso di cinque enormi edifici disposti attorno a una piazza, e costituisce una cittadella di eccellenza della ricerca medica, al centro di una vera e propria città ospedaliera ultramoderna.
È in questo tempio del sapere clinico che dirige un laboratorio David Hubel, premio Nobel per la medicina nel 1981 per la scoperta dei meccanismi neurologici della visione, e autore del bel libro di divulgazione "Occhio, cervello e visione" (Zanichelli, 1989).
Siamo andati a trovarlo per parlare con lui dei problemi legati alla biotetica e alla biopolitica, umana e animale, prendendo spunto dall'approvazione della legge sulla procreazione assistita approvata dal Senato la settimana scorsa.
«Naturalmente, l'etica non è soggetta alla logica. Ma io non capisco, ad esempio, perché non si debbano usare embrioni di donatori esterni alla coppia. Una mia amica, che non poteva procreare in maniera naturale, ha usato l'ovulo della sorella e il seme di un donatore: ora ha due figli, ed è felice. Che male c'è? Il Cristianesimo è irrazionale, in queste cose».
E le restrizioni riguardano non solo le ricerche sull'uomo, ma anche quelle sugli animali.
«Lasciamo pure da parte i problemi della clonazione: sia quella umana, per la quale io non vedo ragioni logiche, sia quella animale, che non sembra aver prodotto buoni risultati. Ma la sperimentazione animale è utilissima: ad esempio, quella sui cani, per lo sviluppo di tecniche operatorie in cardiologia. Ora, in molti degli Stati Uniti si proibisce l'uso dei cani dei canili per la ricerca, nonostante essi vengano soppressi comunque, ed è di nuovo illogico».
Questa volta il problema è creato dagli animalisti.
«I quali, tra l'altro, si preoccupano quasi esclusivamente degli animali da casa, cioè cani e gatti. Non delle scimmie, ad esempio, che pure sono più simili all'uomo. Adesso i cani e i gatti che si vogliono usare in laboratorio devono essere allevati esplicitamente per questo scopo, e i loro costi sono saliti alle stelle».
E non si può proprio farne a meno, nella ricerca?
«Io credo di no, almeno per una buona parte della medicina. Quando parlo con un animalista, la prima cosa che gli chiedo è se ha vaccinato i suoi figli contro la polio: perchè lo sviluppo di quel vaccino ha richiesto l'uso di molte, molte scimmie! Senza saperlo, molti animalisti sono contrari a una ricerca di cui loro stessi si avvantaggiano. Il che non significa, naturalmente, che si possano liberamente infliggere sofferenze inutili agli animali».
Come si forma l'opinione pubblica, riguardo alla bioetica?
«Troppo spesso, purtroppo, il pubblico viene esposto a una propaganda unilaterale: religiosa, politica, ambientalista, animalista... In Massachussetts abbiamo un'Associazione per la Ricerca Medica, che cerca di smascherare le menzogne e le assurdità, ma i suoi fondi sono minimali rispetto a quelli degli avversari della ricerca. I quali, tra l'altro, hanno facile accesso alle scuole e ai bambini».
Che bisogna fare, per avere opinioni equilibrate?
«Chiedere cosa ne pensano i medici e gli esperti, ad esempio. I quali, però, spesso preferiscono tenere un profilo basso per evitare attacchi, che farebbero perdere loro pazienti e fondi. Io ho tentato di mobilitare la categoria, soprattutto per quanto riguarda la sperimentazione animale, cercando di convincere i medici a mettere opuscoli informativi nelle sale d´aspetto dei loro studi, invece di stupidi rotocalchi».
Quindi, come al solito, il problema è l'educazione scientifica.
«Sí, il riuscire a diffondere il punto di vista razionale a fianco di quello irrazionale, cosí che poi la gente possa decidere da sé. Spero che anche in Italia gli scienziati facciano sentire la loro voce contro quest'ultima legge».
La Montalcini ha immediatamente firmato un appello.
«Meno male. Lei è certamente la persona giusta per combattere questo genere di insensatezze».
E quale ruolo deve giocare la politica, in queste cose?
«Dovrebbe emanare leggi sulla base della ragione, e non della propaganda di gruppi che si prefiggono obiettivi senza senso».
Una "politica razionale" non è forse un ossimoro? Cosí come il fatto che il "diritto alla vita" sia spesso difeso da gente che è, allo stesso tempo, in favore della pena di morte?
«Sí, certo! E le limitazioni all'aborto sono un altro esempio di biopolitica dettata dalle motivazioni irrazionali della Chiesa cattolica e degli ultraconservatori: siamo da capo, cioè da dove eravamo partiti».

martedì 16 dicembre 2003

la legge sulla psichiatria

Vita 16.12.03
Legge 180: la proposta di riforma torna in pista a gennaio
di Benedetta Verrini
(b.verrini@vita.it)
Lo riferisce la cooperativa Itaca di Pordenone, a cui lo psichiatra Tonino Cantelmi ha confermato la notizia della redazione di un nuovo testo base


Un nuovo testo unificato di legge n.174 denominato "Norme per la prevenzione e tutela delle malattie mentali", noto ai più come "Burani Procaccini", sarà portato a breve all'attenzione della XII Commissione Affari sociali per la discussione.
Ne dà notizia, dal proprio sito www.itaca.coopsoc.it la cooperativa Itaca di Pordenone, in prima linea nel dibattito che in questi mesi ha accompagnato le proposte di riforma della psichiatria e nella difesa della famosa legge 180.

Secondo le fonti di Itaca, il testo unificato di legge che dispone la riforma legislativa in materia di salute mentale in Italia, sarà portato in Aula per la discussione presso la XII Commissione Affari sociali in tempi brevissimi.
La discussione del nuovo testo sarebbe, infatti, imminente e prevista per la prima metà di gennaio, immediatamente dopo la conclusione dei lavori per la Finanziaria e la pausa delle festività natalizie, ossia nella prima seduta utile della Commissione.

La proposta di legge "Burani Procaccini" è stata infatti nuovamente riformulata, tanto che il nuovo testo accorperà anche altre proposte presentate dalla sinistra e dalle Associazioni dei familiari. Predisposta nell'aprile 2003 (anche se il testo non è al momento ufficialmente disponibile), sarebbe stata firmata da più deputati, si parla di tre o quattro, anche di schieramenti politici differenti.

"Un nuovo testo che sarà frutto della messa in comune di una riflessione molto più profonda - ha confermato a Itaca Tonino Cantelmi-. Numerosi gli elementi innovativi, tra cui l'istituzione della figura del 'garante' per quanto concerne le fasi di ricovero".

Come si ricorderà, il 27 novembre dell'anno scorso la XII Commissione, nel corso della sua ultima seduta, aveva deciso di congelare la deliberazione sull'adozione del testo base "Burani Procaccini" in attesa della legge sulla devolution, mettendo in stand-by così il processo di revisione della legge 180/1978, meglio nota come 'legge Basaglia'.
In quella sede, il relatore on. Maria Burani Procaccini aveva manifestato "la più ampia disponibilità nel valutare le proposte emendative -si legge nella verbalizzazione della seduta-, in vista della predisposizione di un testo il più ampiamente condivisibile".
Disponibilità che si è poi tradotta, concretamente, nella redazione di una nuova edizione del testo di legge che, tra pochi giorni, sarà portato all'attenzione dell'XII Commissione Affari sociali

il poeta Giovanni Raboni sulla poesia e il linguaggio

una segnalazione di Paolo Izzo

Corriere della Sera 14 dicembre, 2003
LETTERATURA LIBRI POESIA
I sogni della ragione dove nasce la poesia
Surrealismo e psicoanalisi: così il '900 rivoluzionò il modo di scrivere versi
RIME Il peso dell'inconscio nell'arte
IL CONNUBIO Pensiero notturno e leggi linguistiche
di Giovanni Raboni


Nella generale ripresa d'interesse per i fatti e i protagonisti della cultura (ripresa di cui tanto si è parlato, negli ultimi mesi, a partire dal successo di manifestazioni come il Festival della letteratura di Mantova o il Festival della filosofia di Modena) c'è spazio, a quanto pare, persino per la poesia. Gli incontri, le letture, i dibattiti ai quali mi capita di partecipare sono, in effetti, più affollati e animati che in passato; e quasi mai mancano, da parte del pubblico quelle domande «massimalistiche» del tipo, per intenderci, «Cos'è la poesia?» o «A cosa serve la poesia?» - alle quali è tanto difficile rispondere a caldo quanto, più tardi, non tornare ad arrovellarsi in privato. Dài e dài, mi è venuta un' idea: perché non provare a rispondere in anticipo, a freddo, organizzando in forma scritta e con la maggior chiarezza e semplicità possibile gli argomenti cui, di solito, si pensa solo dopo, troppo tardi, mentre si torna a casa o si aspetta d' addormentarsi? Ecco un primo abbozzo, o forse una prima parte, della mia risposta preventiva. «Fino a che punto il canto appartiene alla voce, e la poesia ai poeti?»: si può partire da qui, da una famosa domanda di Victor Hugo, e chiederci a nostra volta cosa intendesse dire, un secolo e mezzo fa, l'autore della Légende des siècles con questo interrogativo apparentemente sibillino. Le interpretazioni possibili sono, a mio avviso, sostanzialmente due. La prima - la più compatibile con l'ideologia romantica allora imperante - è questa: il singolo poeta è il portatore di emozioni collettive, dei sentimenti di un intero popolo: non lui - o, almeno, non lui soltanto - è dunque il «titolare» di ciò cui dà forma e voce. La seconda interpretazione, storicamente meno fondata, è in compenso più utile a metterci sulle tracce del «cos'è», dell'essenza del fenomeno: la poesia non appartiene soltanto al poeta perché non è lui a deciderne il senso, perché il poeta sa soltanto in parte, a volte in minima parte, ciò che la poesia finirà col dire. A questo punto possiamo abbandonare il vecchio Hugo e proseguire per conto nostro. La questione della relativa autonomia del testo poetico rispetto alle intenzioni del poeta è una questione che attraversa l'intera cultura moderna; e per quanto riguarda, in particolare, il '900, è impossibile affrontare l'argomento senza imbattersi in due dei maggiori avvenimenti culturali del secolo: la psicoanalisi e il surrealismo. La psicoanalisi introduce la nozione di inconscio; il surrealismo si appropria di tale nozione e la mette al centro della teoria e della pratica della letteratura e, più in generale, dell'arte. In che senso? Nel senso che compito specifico e caratterizzante della letteratura (e dell'arte) è, per i surrealisti, quello di dare forma, appunto, a una (presunta) «creatività dell'inconscio» liberandola dalle inibizioni e censure della ragione. Di qui, in arte, l'uso generalizzato di accostamenti oggettuali sorprendenti, inspiegabili, scioccanti; di qui, in letteratura e più particolarmente in poesia, l'uso di un libero flusso di immagini che nascono l'una dall' altra obbedendo solo a processi associativi non volontari e non razionali. È la famosa «scrittura automatica»; sin troppo famosa, verrebbe voglia di dire pensando ai risultati estetici ottenuti. Ma le teorie valgono, il più delle volte, soprattutto per la loro carica di sollecitazione, di scatenamento: e se è vero che l'applicazione dell' idea di scrittura automatica ha dato, al momento, esiti modesti, tutt'altro discorso si deve fare per l'onda d'urto provocata, per gli effetti fatti registrare nel tempo: basti pensare al dilagare, in tutto il '900, del «flusso di coscienza» e del «monologo interiore».
Una cosa, comunque, è certa: dopo la psicoanalisi, dopo il surrealismo, non è più lecito dubitare del ruolo che l'attività dell' inconscio svolge nella costituzione, nel concreto farsi dell'oggetto poetico. Quale ruolo? Molto sinteticamente, renderla comunicazione di cui l'oggetto poetico è la fonte (o, se si preferisce, il veicolo) più ricca, più completa, più impressionante nella misura in cui nasce o sgorga non solo dall' intelligenza e dalla volontà dell'autore, ma dalla totalità del suo essere nel senso anche biologico del termine; in altre parole, non solo dal pensiero della veglia, ma anche dal pensiero del sogno, dal pensiero notturno. E basta un altro passo (un passo quasi obbligato) per arrivare a dire che l'essenza della poesia consiste nel far confluire e intrecciare fra loro in un unico accadimento verbale due diverse logiche, due diversi linguaggi, due diversi ordini o categorie di contenuti; e che il suo «scopo» è dar vita a un'immagine intera, non parziale, non dimidiata tanto di colui che parla quanto (per contagio) di colui che ascolta e (per generalizzazione) dell' intero genere umano.
Ma attenzione: se il contributo del pensiero notturno è indispensabile (e, al tempo stesso, spiega) perché la comunicazione poetica abbia queste caratteristiche e svolga questa funzione, altrettanto indispensabile per fissarla, per depurarla di ogni arbitrarietà o futilità, per renderla, insomma, davvero fruibile, è il contributo della ragione. La scarsa significatività degli esempi di scrittura automatica «grezza», lasciata, per così dire, a se stessa, ne sono - in negativo - la prova più evidente. Ed ecco, allora, imporsi come insuperabilmente perfetta la definizione di poesia data tre secoli fa da un trattatista italiano, il gesuita Tommaso Ceva: «un sogno fatto in presenza della ragione». Un sogno, sì, ma controllato e sanzionato dall' intelligenza; uno spazio concesso al pensiero notturno ma garantito, sorvegliato, reso frequentabile dal rigore del pensiero diurno...
Resta da dire - ma è impossibile dirlo se non in presenza di effettivi esempi testuali - come funzioni, come avvenga in concreto questo fondersi, questo fatale e fecondo ibridarsi di due pensieri, di due logiche, di due tipi di messaggio. Mi limito ad annotare, a futura memoria, due punti essenziali. Primo: contenitore-trasmettitore del processo è, ovviamente, la lingua; e ogni testo poetico è di fatto innervato da una rete di microeventi linguistici involontari e spesso subliminali (lapsus, anagrammi spontanei, simmetrie e rimandi occulti ecc.) che oltre a convogliare le incursioni e gli apporti del pensiero notturno dentro il pensiero della veglia contribuiscono ad assicurare alla superficie testuale compattezza, coerenza, continuità sonora, insomma «bellezza». Secondo: essenziale è la funzione dalla forma o, per essere più precisi, dal sistema di regole che danno evidenza sensibile alla forma ideale del testo. A prima vista si direbbe che dover rispettare, per esempio, un numero di sillabe date, o essere costretti a far coincidere in luoghi fissi l'esito di una parola con quello di altre parole, limiti la libertà dell'espressione. In realtà, è vero il contrario: è proprio grazie alla ricerca di un suono che combini con un altro suono, di una parola che abbia quella durata e quell'accento, è proprio grazie a questo sforzo dell'intelligenza e, perché no? del mestiere che scattano «automaticamente» associazioni, collegamenti, richiami altrimenti inattivi o irraggiungibili. Se è vero che il pensiero notturno non diventa esteticamente credibile se non passa attraverso il filtro della ragione è altrettanto vero che in poesia la massima libertà si ottiene, spesso, attraverso un massimo controllo e di rigore se non addirittura (la parola non sembri eccessiva) di repressione formale.
Quattro autori intorno a una domanda "Che cos' è la poesia?" Oltre a quella di Tommaso Ceva, ecco le definizioni di altri tre autori: «Un delirio che sgombra le pazzie», Gian Vincenzo Gravina (1664-1718) «L'amore realizzato del desiderio rimasto desiderio», René Char (1907-1988) «I poeti e gli schizofrenici tendono a includere molte cose - al limite: l'universo - anche quando parlano di piccoli oggetti ben circoscritti», Ignacio Matte Blanco (1907-1995).

Vitaletti sul concordato preventivo
da clorofilla.it

clorofilla.it 15.12.03
(l'originale dell'articolo, con le immagini, è disponibile QUI)

«E’ stato finalmente raggiunto un assetto soddisfacente salvo una macchia, eliminabile con facilità». Parola di consigliere economico del ministero dell’Economia e delle Finanze, Giuseppe Vitaletti che commenta così la Manovra che nelle ultime ore ha modificato in profondità il Concordato. Con alcune importanti discrasie che penalizzano soprattutto gli artisti. Ma anche quei medici considerati "sensibili" per la privacy che dovrebbero poter garantire durante l'esercizio delle loro funzioni
Finanziaria, non sparate sul pianista
di ns



Roma - «E' stata raggiunta una configurazione ottimale». Non ha dubbi il prof. Giuseppe Vitaletti, consulente di Tremonti. La soddisfazione riguarda il dato dei vincoli per l’adesione nel 2003 e nel 2004, per tutte le attività interessate, quelle cioè con fatturato a meno di 10 miliardi di vecchie lire.

Nei due anni il reddito imponibile deve crescere rispetto al 2001 almeno come l’evoluzione media del Pil da tale data, con piena possibilità di adeguamento in dichiarazione. I ricavi devono attestarsi su un minimo un po’ superiore a detta evoluzione, in particolare circa due punti e mezzo in più nel 2004.

Tuttavia, «rispetto alla versione del decreto legge, la maggior dinamica dei ricavi è stata ridotta - spiega il consulente su Italia oggi in edicola domani (martedì) - di oltre mezzo punto; il baricentro della variazione è stato spostato sul 2004, anno per cui gli operatori possono agire sulle vendite con politiche attive; nel 2004 il calcolo è stato impostato sui ricavi 2003 concordati e non (come si indicava nella precedente stesura evidenziata criticamente a più riprese da Clorofilla.it) su quelli effettivi; per il 2004, infine, è stata raddoppiata la percentuale di piccolo adeguamento in dichiarazione, con una sanzione del tutto ragionevole».

«In definitiva - aggiunge - sul fronte dei vincoli il provvedimento ha forse trovato appeal sia per i contribuenti che possono attingere a “riserve” di evasione, sia per quelli che evadono ma vogliono beneficiare ugualmente dei vantaggi che essa offre. Sul lato dei suddetti vantaggi il discorso può essere meglio condotto facendo riferimento separatamente alle tre grandi platee cui il concordato si rivolge: i piccoli imprenditori, i professionisti, gli artisti».

Ma se per i primi il provvedimento, stando al parere dell’economista, risulta qualitativamente pari almeno all’Ires, la riforma relativa alle imprese più grandi che diviene operativa nella stessa data del concordato, ovvero il primo gennaio 2004, per quanto riguarda professionisti e artisti, secondo Vitaletti, il concordato presenta forti discrasie sul fronte degli obblighi di documentazione: «Permane infatti – spiega – per i professioni l’obbligo di documentare le prestazioni verso i privati cittadini, specificamente mediante fatturazione, indipendentemente dalla richiesta di questi: non viene ciò ripresa l’indicazione coerente con la Fiera delle tasse, nonostante che molte attività professionali siano altamente sensibili dal punto di vista della privacy».

E’ per queste ragioni si è levata nei giorni scorsi la voce indignata di Giuseppe Del Barone presidente dell’Ordine nazionale dei medici che auspica una correzione del testo in modo da consentire a quelle categorie più sensibili (come ginecologi e psicoanalisti e psichiatri) di operare nel rispetto della loro specifica deontologia professionale che impone di “curare” sempre e comunque chiunque, anche tutelando l’anonimato qualora fosse richiesto.

«Tale discrasia – si difende Giuseppe Vitaletti – non era presente né nella versione originale del decreto che ha introdotto il concordato né nella formulazione iniziale dell’emendamento governativo (e di alcuni parlamentari d’opposizione ndr), che è stato addirittura votato e approvato dalla Camera in Commissione referente. Per ben due volte – aggiunge il consulente del Ministro - essa è stata introdotta dal governo in sede di richiesta della fiducia».

Il Parlamento può, però, secondo Vitaletti rimediare, nelle ultime votazioni della Finanziaria. «Un’altra fonte di ripristino dell’equiparazione – avverte l’economista - tra trattamento dei professionisti e delle piccole imprese potrebbe essere la Corte Costituzionale».

Un’altra categoria che pare non godere di particolare attenzioni da parte del legislatore (o di chi per lui si occupa della materia) è quella degli artisti. La situazione in quel caso, sostiene Vitaletti, non solo è simile a quella dei professionisti, ma assume maggior rilievo lo squilibrio sul lato dei contributi previdenziali, dato che molte attività degli artisti non sono previdenzialmente coperte, senza contare anche questo caso la discrasia sul piano della fatturazione: «Un musicista – spiega Vitaletti – al termine dell’esecuzione, un pittore dopo aver illustrato dipinti, un poeta dopo una recitazione, ove scelgano di chiedere al pubblico compensi su base volontaria e anonima, continuano ad essere costretti, per essere in regola con il fisco, a chiedere il nome ai paganti, emettere fattura, registrare nome ed importi in apposito registro.

Si tratta di casi quantitativamente poco rilevanti (e per questo forse non interessano ai politici ndr) - sottolinea l’esperto di scienze tributarie – ma con una qualità enorme. Viene infatti per essi in rilievo quel mix tra logica individuale e logica collettiva, che i grandi cultori della Scienza delle finanze italiane, De Viti De Marco ed Einaudi su tutti, pensavano dovesse essere il segno caratteristico della fiscalità».

Il docente universitario conclude prevedendo esiti nefasti qualora il legislatore continuasse a operare in sfregio di quelle impostazioni teoriche. Ma Vitaletti si dice, comunque, infine anche ottimista e soddisfatto che la correzione al testo non sia stata fatta alla «chetichella», ma che – si augura - possa essere introdotta «come si merita, ovvero con il massimo dell’attenzione».

Leggi anche il punto di vista dell'Onorevole Vincenzo Visco

Aby Warburg, uno studioso delle immagini a Kreuzlingen

una segnalazione di Sergio Grom

La Repubbica 16.12.03
WARBURG LA NINFA E IL SERPENTE
il ritorno del mito

Anche il Ghirlandaio aveva ritratto una fanciulla che veniva da un mondo remoto eppure era assai viva al punto da far invaghire André Jolles
Il grande studioso avvertì la presenza dell'antichità pagana nel gesto e nei capelli scompigliati di una figura femminile dipinta da Botticelli
Sulla Ninfa dipinta dal Ghirlandaio tra Warburg e Jolles ci fu una corrispondenza fittizia rimasta praticamente inedita
di ROBERTO CALASSO



Anticipiamo parte dell'intervento di sul tema "Origini dell´Occidente: l'eterno ritorno del mito" con cui si chiude oggi a Brescia un ciclo di conferenze presso l'Auditorium di San Barnaba.
Intorno al 1890, a Firenze, il giovane Aby Warburg studia Botticelli, in rapporto a quella che allora si chiamava "sopravvivenza" (Nachleben) dell'antichità. E presto arrivò a una conclusione che si sarebbe poi rivelata il perno di tutta la sua opera. Nel tardo Quattrocento fiorentino l'antichità riaffiorava. Ma non già come «nobile semplicità» e «quieta grandezza», secondo la formula di Winckelmann, ancora dominante. Al contrario: Warburg avvertì la presenza dell'antichità pagana nell'improvviso intensificarsi del gesto in una figura femminile - e soprattutto, come se il gesto in sé fosse qualcosa di troppo brusco e avesse bisogno di defluire attorno, nell'improvviso movimento del drappeggio e dei capelli di quella figura, scompigliati da un soffio. Questo Warburg riconobbe in Botticelli. Era il «gesto vivo» dell'antichità che riappariva. Da quel momento la scena sarebbe mutata per sempre. Con l'acume di chi sa trovare «il buon Dio nel dettaglio» Warburg attribuì quella scoperta ai suggerimenti di Poliziano, che nella sua Giostra aveva ricalcato l'inno omerico ad Afrodite, ma aggiungendo alcuni elementi che si riferiscono «quasi esclusivamente alla raffigurazione dei particolari e degli accessori (Beiwerk)»: i capelli sciolti e serpentini, una veste gonfiata dal vento, un tremito dell'aria. Questa - e soltanto questa - è l'antichità che sommuove il teatro mentale della civiltà fiorentina. È una «brise imaginaire», come Warburg dirà commentando un disegno botticelliano di Chantilly. E quella locuzione francese sembra avere nel suo testo la stessa funzione della grisaille per il Ghirlandaio e in Mantegna: «essa confina gli influssi dei revenants nel lontano e umbratile regno della metafora esplicita». Così si crea una distanza tra «formula del páthos» e raffigurazione: distanza che è contrassegno della memoria, della presenza fantomatica di ciò che riemerge.
Pochi anni dopo, sempre a Firenze, Warburg inventò quello che Edgar Wind ha definito «un jeu d'esprit» con un amico, lo scrittore olandese André Jolles. Si trattava di uno scambio di lettere fondato su una donnée: l'innamoramento di Jolles per una figura femminile che appare nell'affresco del Ghirlandaio "Visita alla camera della puerpera" in S. Maria Novella. I due corrispondenti chiamarono questa figura «la Ninfa». Nella stanza della puerpera Ghirlandaio mostra, sulla destra, quattro figure che avanzano: tre dal portamento severo, la prima - che sembra una fanciulla fiorentina dell'epoca - vestita con una stoffa pesante e preziosa, che forma pieghe perpendicolari. Dietro di loro, come sospinta da un soffio (ma non si capisce da dove possa provenire) incede una fanciulla di grande bellezza, dalle vesti ondeggianti e dal passo lieve, fluente e fremente. Dietro le sue spalle la veste s'inarca come in una vela. È la Ninfa. Nella sua figura ritroviamo tutti i tratti che Poliziano aveva aggiunto all'inno omerico e trasmesso a Botticelli. Con lei mette piede nell'austero interno fiorentino un essere che ha traversato indenne i secoli e ora insuffla in quel nuovo mondo la sua brise imaginaire. È una «pagana procellaria», scrive Warburg, che irrompe «in questa lenta rispettabilità, in questo controllato cristianesimo». Nella solenne partizione dell'affresco quella figura è come una tarsia che appartiene a un altro strato della realtà, insieme alieno e pervasivo. «Ho perso la ragione», annota Jolles, ma è la voce di Warburg che parla in lui.
La corrispondenza fittizia Warburg-Jolles sulla Ninfa è ancora inedita. Solo alcuni frammenti ne sono stati pubblicati nella monografia dedicata a Warburg da Ernst Gombrich, priva di qualsiasi congenialità con il soggetto. Ma tanto basta per farci capire che la Ninfa svelata in Botticelli continuava ad agire in lui come immagine-fonte di quella demoniaca esaltazione del «gesto vivo» con cui gli antichi simulacri tornavano a manifestare la loro potenza. Così non meraviglia che nel progetto più ambizioso di Warburg, "Mnemosyne", questo atlante dei simulacri che dovevano parlare quasi da soli, come le citazioni ammassate da Benjamin in quell'altra immensa opera incompiuta che doveva essere il libro sui passages parigini, un intero pannello fosse dedicato alla Ninfa - e lì puntualmente ritroviamo la fanciulla del Ghirlandaio. Ma, con gli anni, l'«onda mnemica» aveva fatto affiorare in Warburg un altro aspetto di quella incantevole figura, che ne mostrava la variante sinistra e terrorizzante: quella che Warburg chiamava la «cacciatrice di teste», la Giuditta, la Salomè, la Menade. Sarebbe sviante attribuire questo a una tarda manifestazione del culto che ebbe la grande décadence per le dark ladies. Come scrisse Edgar Wind, con delicatezza e penetrazione, per Warburg «ogni scossa che egli subiva su se stesso e superava attraverso la riflessione diventava organo della sua conoscenza storica». La minaccia delle «cacciatrici di teste» era per lui un evento mentale che si riferiva alla potenza delle immagini in genere, quale gli si era dischiusa nel fremito delle vesti della Ninfa. Warburg sapeva che la sua testa poteva essere da un momento all'altro rapita dalle Ninfe e rimanere prigioniera della follia.
L'equilibrio psichico di Warburg, sempre precario, sembrò spezzarsi nel 1918. Fra il 1920 e il 1924 visse a Kreuzlingen, nella clinica di Binswanger, luogo storico della schizofrenia. Aveva l'impressione, come un giorno confessò a Cassirer, che «i demoni, il cui imperio nella storia dell'umanità aveva tentato di esplorare, si fossero vendicati catturandolo». Nel 1923, moderno nymphóleptos, Warburg escogitò un katharmós per se stesso: scrisse a Kreuzlingen la Lecture on serpent ritual e comunicò agli psichiatri che sarebbe stato un passo importante per la sua guarigione se fosse riuscito a leggere quel testo davanti agli altri pazienti. Così avvenne. Quando, nel 1939, a dieci anni dalla morte di Warburg, il Journal of the Warburg Institute pubblicò la Lecture, si poteva leggere alla fine una nota in calce: «letto per la prima volta davanti a una unprofessional audience». Parole che dovremmo ascoltare in risonanza con altre che Warburg lasciò scritte in un appunto sulla Lecture: «Queste sono le confessioni di uno schizoide (incurabile), depositate negli archivi degli psichiatri».
Dopo aver sperimentato per anni la potenza dei simulacri sulla vita mentale, Warburg volle dedicare quella conferenza al serpente, il simbolo che più di ogni altro serve, secondo la formula di Saxl, a «circoscrivere un terrore informe». Così la Ninfa e il serpente, Telfusa e Pitone, ancora una volta agirono insieme, l'una sigillando l'inizio, l'altro la fine della ricerca di Warburg. Tornò con la memoria a un viaggio in New Mexico di quasi trent'anni prima, la sua unica esperienza primitiva. Allora aveva visto, in atto, che cosa può essere la conoscenza metamorfica. Guardando la danza rituale in cui gli indiani Pueblo imitano le antilopi, l'aveva intesa come un «atto cultuale della più devota perdita di se stessi nella trasformazione in un altro essere». Ma c'era un altro rituale su cui ora rifletteva: la danza in cui gli indiani Moki danzano con serpenti a sonagli fino a prenderli in bocca per evocare la pioggia salvatrice. Nella danza il serpente viene trattato, scrive Warburg, come «un novizio che si inizia ai misteri». Così diventa un «messaggero» che deve raggiungere le anime dei morti e lì suscitare la folgore. Così il serpente, la più immediata immagine del male, diventa il salvatore. E qui Warburg fa scoccare la scintilla della connessione decisiva, accostando questo rituale all'episodio biblico di Mosè che, per guarire gli Ebrei torturati nel deserto dai «serpenti ardenti», su ordine di Iahvè innalzò un serpente di bronzo su un'asta di legno. Si legge nel libro dei Numeri: «Ora, se uno dei serpenti mordeva un uomo e questi guardava verso il serpente di bronzo, viveva». Questo passo misterioso contraddice brutalmente la condanna biblica, sempre reiterata, degli idoli, degli eídola. Ma è proprio questo il passo che Warburg, tormentato dagli eídola, scelse per salvarsi. O trósas iásetai, «colui che ha ferito guarirà»: l'antico proverbio greco tornava anch'esso ad agire. Ciò che avveniva nella sala della clinica di Kreuzlingen non era nell'essenza diverso da ciò che un giorno era avvenuto sulle rive dell'Ilisso, sotto un alto platano, quando Socrate, rapito dalle Ninfe, aveva parlato a Fedro di come, attraverso il «giusto delirare», si possa raggiungere la «liberazione» dai mali. E a un tratto aveva detto, con la rapidità di chi scocca la freccia ultima, che «la manía è più bella della sophrosyne», di quel sapiente controllo di sé, di quell'intensità media, protetta dalle temibili punte, che i Greci si erano conquistati con immensa fatica e che poi, per un immenso malinteso storico, sarebbe stata identificata da tanti con la Grecia stessa. Ma perché la manía è più bella? Socrate aggiunge: «perché la manía nasce dal dio», mentre la sophrosyne «nasce presso gli uomini».