sabato 10 aprile 2004

il vero Zarathustra

La Stampa Tuttolibri 10.4.04
Così davvero parlò Zarathustra, profeta di pace e tolleranza
La prima edizione italiana integrale dell’«Avesta», inni e preghiere di una religione in cui la rivelazione non è un dono divino ma una conquista del pensiero umano
di Anacleto Verrecchia


ANCHE l’Italia, finalmente, ha un’edizione dell’Avesta, il libro sacro dell’antichissima religione annunciata dal profeta Zarathustra! L’intero corpus avestico che ci rimane è qui tradotto per la prima volta integralmente in italiano. Il tutto si deve al bravissimo Arnaldo Alberti, un privato studioso che non ama il proscenio e per questo merita un doppio applauso. La figura di Zarathustra, come spesso accade con i fondatori di grandi religioni, è avvolta nel mito. Lo hanno definito il primo saggio dell’umanità, ma nessuno saprebbe precisare l’epoca della sua esistenza. Per i greci, che ne mutuarono gli insegnamenti, Zoroastro, come essi lo chiamarono, sarebbe vissuto seimila anni prima di Platone. Si tratta, evidentemente, di una datazione fantastica. Tuttavia, sull’onda del mito, si è quasi tentati di dire, all’ottava alta e in forma poetica, così: quando il sole non aveva ancora squarciato le tenebre che ricoprivano le nostre lande, sull’altopiano iranico risuonava solenne la parola del magnanimo Zarathustra. Ex oriente lux! Bisogna averlo percorso, quell’altopiano, per sapere quanto esso parli una lingua antica. Per secoli l’Avesta, come del resto il Rigveda e altri testi dell’alta sapienza orientale, fu tramandato oralmente. Si presume che una prima stesura sia stata fatta nel X secolo avanti Cristo. In seguito e fino alle soglie dell’era islamica, il nucleo originario, ossia l’Avesta antico, si accrebbe di nuovi inni e di nuove disposizioni liturgiche, che costituiscono l’Avesta più recente. Di tutto quell’insieme, a noi è giunto appena un quarto o un quinto, che si suddivide in sezioni: Yasna (ufficio divino) è un libro fondamentalmente liturgico e contiene le Gatha, inni sacri attribuiti allo stesso Zarathustra. Seguono il Khordah Avesta (libro di preghiere), il Videvdat (libro dedicato alle leggi e forse la parte più bella) e il Visperad (libro liturgico). Infine abbiamo frammenti di varia ampiezza di altri libri. Zarathustra non si limita a raccogliere la parola del suo dio, che chiama Ahura Mazda, «signore che crea con il pensiero», ma lo interroga con ritmo incalzante sui misteri del mondo. Vuole sapere ed esige delle risposte: «Questo io ti chiedo, o Ahura, e tu rispondimi apertamente. Chi, dando inizio al creato, è stato fin dall’inizio il padre di Asha, il Vero? Chi ha stabilito il cammino del sole e delle stelle? Da chi proviene il crescere e lo scomparire della luna? Questo e altro ancora, o Mazda, desidero sapere». Oppure: «Questo io ti chiedo, Ahura: le cose che io rivelo sono veramente la verità?
... Con queste domande io ti aiuto, o Mazda, a farti conoscere come creatore di tutte le cose». Giustamente l’Alberti scrive che nell’Avesta è l’uomo a interrogare dio e che la rivelazione non è «un dono spontaneo delle divinità, ma la conquista del pensiero umano». Non per niente nel cosiddetto Libro del consiglio di Zarathustra, un testo scritto probabilmente dopo il crollo dell’impero sassanide e che non fa parte dell’Avesta, si legge: «Sii diligente nell’acquisizione del sapere, poiché il sapere è seme della conoscenza, e il suo frutto è la sapienza». Si legga, per contrasto, ciò che Celso scrive sull’ignoranza voluta e proclamata dai primi cristiani. Piena di slancio è l’invocazione di Zarathustra al sole: «Su, sorgi e prendi a fare il tuo giro, tu Sole dagli agili cavalli, sopra la cima del
monte Hara Berezaiti, e dona la tua luce al mondo». Questa squillante preghiera può fare il paio con quella che il Prometeo legato di Eschilo rivolge agli elementi della natura o con l’inno alla luce della Brünnhilde wagneriana. Ma la parte più bella dell’Avesta, almeno per me, è l’amore, continuamente ripetuto, per gli animali, in modo particolare per i cani. Ahura Mazda, per bocca di Zarathustra, raccomanda di preparare una morbida cuccia per la cagna incinta e di assisterla amorevolmente fino a quando «i giovani cuccioli non saranno in grado di difendersi e di alimentarsi da soli». Guai a far loro del male! Chi uccide un cane, ammonisce il dio avestico, «uccide la sua stessa anima per nove generazioni» e non troverà salvezza. Sì, l’amore per gli animali, che sono i più indifesi, è una via che conduce al cielo. Nella dotta introduzione, che a volte è fin troppo tecnica e puntigliosa, Alberti nega il carattere dualistico dello zarathustrismo, mentre altri, come ad esempio l’iranista Robert Charles Zaehner, lo ribadiscono. A me sembra che con il dualismo le cose quadrino meglio. Di fronte ad Ahura Mazda sta Arimane, che nell’Avesta viene chiamato Angra Maynu. Son tutti e due puri spiriti eterni, anche se antagonisti, in quanto l’uno è uno spirito positivo e l’altro uno spirito negativo. Lo spirito buono, ossia Ahura Mazda, è costretto a creare il mondo come arma per sconfiggere, in una lotta cosmica, Arimane. Insomma fa un po’ come il ragno che tesse la tela per acchiappare le mosche. A parte questo, occorre dire che le religioni più funeste e pericolose, come la storia insegna, sono proprio quelle monoteistiche. E se ne capisce facilmente il motivo: un dio unico è geloso del proprio potere e quindi non ama dividerlo con altri. Di qui le guerre di religione che hanno insanguinato il mondo. Al politeismo invece, come insegna Hume, è sempre stata estranea l’intolleranza. Nella Roma pagana non si conoscevano guerre di religione e gli dèi vivevano pacificamente l’uno accanto all’altro. Negli studiosi occidentali c’è una certa tendenza a vedere l’Avesta con occhi cristiani. Bisognerebbe invece vedere il cristianesimo attraverso l’Avesta. Allora ci si accorgerebbe di quanto il cristianesimo sia indebitato con la religione iranica, dove c’è già tutto, dal messia al redentore, dagli angeli ai demoni, dal paradiso all’inferno. Ancora una cosa. Il nome di Zarathustra, che suona più musicale del pedantesco Zarathushtra, è diventato universalmente noto attraverso l’opera principale di Nietzsche. Non si creda, però, che Così parlò Zarathustra abbia qualche addentellato con gli insegnamenti del vero Zarathustra. E’ anche da escludere che Nietzsche abbia mutuato il nome del profeta dall’iranista Carl Friedrich Andreas, marito, per sua disgrazia, di Lou Salomé. La prima volta che il nome di Zarathustra figura negli scritti di Nietzsche risale all’agosto del 1881, quando egli non conosceva neppure la Salomé. L’avrà orecchiato da qualche altra parte per poi ripeterlo in modo puramente formale e stereotipato. Tutto qui.

neohegelismo

Corriere della Sera
ELZEVIRO Le previsioni del filosofo
Kojève: silenzioso è il gioco del tiranno


Il discorso filosofico, diceva Alexandre Kojève in un’intervista del 1968, «si distingue da tutti gli altri nel senso che parla non solo di ciò di cui parla, ma anche del fatto che ne parla e che è esso stesso a parlarne». Proprio in quell’anno egli morì, lasciando una fama di acuto interprete di Hegel. Era però più di questo e lo si sapeva. Lo conferma ora il volume "Il silenzio della tirannide" (pp. 267, 29,50) , assai ben curato per Adelphi da Antonio Gnoli, cui si deve pure il titolo, felice nel coglierne il senso. Se ne ricava che, se vivesse nel mondo attuale, Kojève, pur avendone previsto molto, non si ritroverebbe facilmente a suo agio. Nel 1945 egli prevedeva, ad esempio, che l'unità politica dell’umanità era lontana, ma che «il periodo delle realtà politiche nazionali» era passato e che era ormai «il momento degli imperi, e cioè delle unità politiche transnazionali, ma formate da nazioni apparentate». Prevedeva pure che «l'impero anglosassone» (Usa e Inghilterra) era «la realtà politica efficace e concreta», di cui ormai far conto. Straordinaria è poi la previsione del dilagare delle scienze umane, tratta dall'idea hegeliana della «fine della storia» e, con essa, della filosofia. La fine della filosofia fa trionfare, peraltro, il «discorso infinito», che non conclude mai, perché «ogni frase può essere sempre seguita da un’altra frase», come fanno retori e sofisti (oggi, per Kojève, sociologi e storicisti). Muore così l'antica alternativa del discorso chiuso, il cui logico esito è però il silenzio, proprio anche della tirannide.
Il tiranno (il potere) sta fuori della sfera degli affetti; non vuole essere amato, ma riconosciuto, cioè accettato e obbedito come legittimo. Lo stesso vuole il filosofo che, saggio o utopista, vuole mutare il mondo. Ora, fra tutti i possibili principi, «il tiranno è senza dubbio il più adatto a recepire e ad applicare i consigli del filosofo», poiché ha bisogno di nobilitarsi e, con il suo potere illimitato, può tentare tutto. Se, dunque, non segue quei consigli, è per delle buone ragioni. La politica opera infatti nel presente e per il successo immediato. Il filosofo dovrebbe dare consigli realistici, per gli «affari correnti», dedicando a questi «affari» tutto il proprio tempo, come fanno i politici. Ma il filosofo non può farlo, se vuole mantenere la propria identità e influenza; ed è duro per lui che il tiranno, applicando i suoi consigli, possa accentuare la propria tirannide.
Di qui il «silenzio della tirannide», il suo applicarsi, al di là di ogni apparenza, a «una zona oscura, impalpabile, sfuggente», come dice Gnoli: la sfera di un potere che non vuole essere condiviso o controllato e opera tacendo anche a se stesso il suo vero essere.
Così, tutto diventa falso e infondato, e solo la storia potrà giudicare, «attraverso la "riuscita" o il "successo", le azioni degli uomini di Stato», che, «coscientemente o no», agiscono «in funzione delle idee dei filosofi, adattate alla pratica dagli intellettuali».
E’ un po' un coniglio che Kojève trae dal cappello a cilindro della sua capacità dialettica. Ma egli scriveva ancora col pathos drammatico ispirato dai totalitarismi degli anni Trenta e poteva credere che Hegel si fosse sbagliato nel giudicare Napoleone, che vedeva passare a cavallo sotto le sue finestre, l’autore della chiusura della storia, mentre autore ne era stato Stalin, un secolo e mezzo dopo. Questo, appunto, Kojève voleva annunciare (solo lo diceva, a differenza di Hegel, senza aver visto «passare Stalin a cavallo» sotto le sue finestre); e, con ciò, l'avvento del tempo in cui la dimensione ludica avrebbe dominato la prassi animale (ossia, il 99 per cento dell'uomo, secondo lui), ormai vagante, come spiega Gnoli, in un vuoto giuridico. E anche questa «dimensione ludica», come il «silenzio della tirannide» e i connessi rapporti tra filosofi, politici e intellettuali, è tra le intuizioni e idee di Kojève, che aiutano a capire, oltre i totalitarismi di ieri, anche il mondo di oggi, in tempi di libertà (sembra) facile, scontata, sicura.

Boncinelli sul tempo

Corriere della Sera
Un saggio di Barbour affronta il nodo della fisica moderna: coniugare la teoria della relatività con quella quantistica
Il tempo: somma di istanti che accadono in mondi paralleli
di EDOARDO BONCINELLI


«Sono convinto che il tempo non esista affatto e che il moto sia una pura illusione». Questa la singolare affermazione che si può incontrare all'inizio del libro di Julian Barbour "La fine del tempo". Su pochi temi si è detto e scritto tanto quanto sul tempo e pochi temi si presentano altrettanto sfuggenti. Sappiamo misurare il tempo con la precisione di miliardesimi di secondo, con orologi che perdono o guadagnano meno di un secondo ogni dieci milioni di anni, ma non sapremmo dire che cos'è il tempo, né, soprattutto, perché scorra, inesorabilmente, in una sola determinata direzione. La vera natura del tempo - lineare o circolare, contenitore vuoto o incarnazione della successione degli eventi, schermo inerte o nastro trasportatore - è stata da sempre oggetto di innumerevoli riflessioni. E la nostra epoca non è stata da meno: a tutte le indagini di natura essenzialmente filosofica del passato si sono aggiunte infatti quelle basate sulle recenti acquisizioni delle scienze fisiche. Le grandi rivoluzioni concettuali della fisica del XX secolo, la relatività di Einstein e la meccanica quantistica offrono in realtà due visioni piuttosto diverse e inconciliabili della natura del tempo e del suo scorrere. La relatività cementa il tempo e lo spazio in un unico blocco e offre la visione di un «tempo bloccato» dove la distinzione fra passato, presente e futuro «è solo un'illusione, per quanto dura a morire», come Einstein stesso ebbe a scrivere alla vedova di un caro amico; mentre il grande matematico Hermann Weyl andava dal canto suo affermando che: «Il mondo non accade, ma semplicemente è».
Nella visione della fisica quantistica, invece, ogni osservazione introduce un elemento d'irreversibilità nello stato del mondo, almeno quello microscopico, così che il procedere del tempo, ben lungi dall'essere bloccato o reversibile, assume l'aspetto di una continua serie di «scelte» e di biforcazioni, per definizione irreversibili. Il tempo scorre irreversibilmente quindi e il futuro è aperto.
È noto che ciò che i fisici di tutto il mondo sognano è una nuova grande teoria che possa comprendere tanto la relatività quanto la meccanica quantistica. Questo è appunto quanto si ripropone di fare il nostro autore, avanzando una nuova, sincretica visione del tempo: il tempo sarebbe allo stesso tempo congelato e aperto. Secondo questa visione, da lui chiamata interpretazione atemporale dei molti istanti, ci sarebbero un numero infinito di universi leggermente diversi l'uno dall'altro e a ogni evento si passerebbe da un universo a un altro. L'evoluzione nel tempo, insomma, non è un film ma un insieme di fotogrammi fissi e ciascuno di questi appartiene a un universo differente. «Il nostro passato è semplicemente in un altro mondo - dice Barbour e - ogni Adesso di cui facciamo esperienza è nuovo e distinto». In questa visione delle cose «i gatti non saltano. Esistono e basta»; e ancora: «L'istante non è nel tempo: è il tempo a essere nell'istante».
Non si può negare che l'autore abbia del coraggio e che non cosparga il suo libro, in effetti un'appassionata esposizione della sua visione, di belle frasi, come quando inneggia all'«atto sempre inaugurale dell'esistere» o quando afferma «anche se non siamo tanto saggi da rendercene conto, siamo già in paradiso». Sorprendente casomai il fatto che voglia appoggiare tutto questo alla fisica, e per giunta a quella più aggiornata. Certo, il prezzo pagato per l'esorcizzazione dello scorrere del tempo è piuttosto alto: non c'è un mondo ma un pulviscolo di mondi; il mio domani non è qui, ma in un altro mondo e in un altro mondo ancora ero ieri. Riuscirà a persuaderci? Può darsi, ma ci vorrà del tempo...
Per parte mia, di ben diverso calibro e stile trovo la riflessione del grande fisico Erwin Schrödinger sul destino del nostro io, quella «trama» personale che ci accompagna attraverso tutte le vicende della nostra vita. Per lui questa trama è intrinsecamente imperitura. «In nessun caso vi è una perdita di esistenza personale da deplorare. Né mai vi sarà».

Il libro: Julian Barbour, «La fine del tempo», Einaudi, pagine 354, 23

venerdì 9 aprile 2004

sul Corriere della Sera:
un articolo sulla libreria AMORE E PSICHE

Corriere della Sera 9.4.04
STORIE DI LIBRAI
«Amore e Psiche» qui, dove si sceglie
di PAOLO FALLAI


Chi l’ha detto che le soluzioni sono solo due? Che l’esperienza è bianca o nera? Che le librerie o sono supermercati spersonalizzati oppure piccole oasi volenterose, ma sfornite? A questi sapientoni che cercano di rifilarvi l’ultimo «aut aut» di una vita bicolore potete rispondere accompagnandoli in via Santa Caterina da Siena, al 61. Qui si respira insieme al «pulcin della Minerva», basta allungare una mano per toccare il Pantheon e se vi capita di cogliere un attimo di silenzio potete sentire il rumore di una delle grandi Feltrinelli. Eppure, entrando dentro «Amore e Psiche» si capisce che l’arcobaleno, oltre che sulla linea dell’orizzonte, certe volte abita in libreria. Qui vive e propaga benedetti bacilli di curiosità, un cenacolo di psichiatri, riunito intorno a Massimo Fagioli. È lui che ha ispirato la nascita di questa libreria, avvenuta il 12 aprile 1992, marcandone perfino le viscere e l’arredo: Caterina Calzini e Flavio Vitale si incaricarono di trovare linee e forme all’intuizione di un luogo di incontro, con «quattro passerelle a stella» un rincorrersi di archi e segni diagonali. Un centro che sfida la gravità, in tutti i sensi, offrendo una scelta accurata di volumi: dalla psichiatria all’arte, all’architettura, alla letteratura per ragazzi. Altro che «aut aut», altro che fiumi in piena dove bisogna avere una ciambella per non affogare tra i titoli. Qui si sceglie, eccome. Anzi i soci sono talmente attenti a questo aspetto che ogni mese si riuniscono, ognuno porta una proposta, ne legge una pagina, la argomenta e poi si vota. Aspetto tutt’altro che trascurabile per comprendere come certi titoli conquistano gli scaffali e altri non li troverete mai, neanche forzando la gentilezza di Lavinia, Stefania, Rosella e Ilaria che di «Amore e Psiche» si occupano. E solo qui, alla faccia dell’ordine alfabetico, si può trovare un pianoforte allestito con i libri sul sogno, con Freud, Calderon, Shakespeare e Tilde Giani Gallino: da Re Lear a «Quando ho imparato ad andare in bicicletta», tutto insieme, come nella vita.
pfallai@corriere.it


Libreria Amore e Psiche
via S.Caterina da Siena 61
tel. 06.6791580
Orario 10-20, chiusa lunedì mattina

Antonio Guidi:
«La legge Basaglia non si tocca»

Repubblica 9.4.04
Cernobbio, il sottosegretario difende la legge
Guidi: "La Basaglia non è in discussione"
"Pronto a dimettermi se si vuole cambiare"


CERNOBBIO - «La legge Basaglia non si tocca. Se venisse stravolta mi dimetterei. E chi nella maggioranza ha presentato progetti di cambiamento spacciandoli come disegni di legge del governo non s´illuda, non passeranno. Ci sono molte cose da fare: i manicomi criminali sono contro la Costituzione. Abbiamo elaborato le linee guida e ci confronteremo con le Regioni, per migliorare il sistema. A settembre apriremo un sportello al ministero dedicato a chi soffre di problemi psichiatrici». Così il sottosegretario alla Salute Antonio Guidi ha chiuso il Forum Sanità Futura a Cernobbio.
Nel 2002 è stato raggiunto l´obiettivo sognato nel '78 da Basaglia: negli ex ospedali psichiatrici i ricoverati sono passati dai 90 mila del 1963 a zero. Restano ancora 149 pazienti psichiatrici ospitati in 7 ospedali privati convenzionati. E nelle strutture residenziali vivono quasi 16mila persone che hanno vissuto la terribile esperienza dei manicomi. La tappa successiva è quella di potenziare i servizi sul territorio per le diagnosi precoci, gli interventi tempestivi per i disturbi mentali e recuperare i pazienti «dimenticati».

Marisa Malagoli Togliatti, psichiatra:
gli omicidi in famiglia non sono malattia mentale

Repubblica 9.4.04
LA PSICHIATRA
"Sono violenti per la perdita del dominio"
Identità fragili, non malati di mente
di MARIA STELLA CONTE


ROMA - Marisa Malagoli Togliatti, aumentano i casi di uomini che dopo la separazione uccidono le ex mogli, quando non i loro stessi figli, per vendetta. Pazzia, instabilità mentale, raptus... Di che si tratta?
«No, in generale direi che non si può parlare di raptus. Semmai di identità fragili, questo sì; ma - attenzione - non di malattia mentale. Sarebbe troppo facile. La separazione è un lutto che deve essere elaborato, richiede un percorso psicologico lento e delicato che fortunatamente, nella maggioranza dei casi, si compie. Quando questo non accade, possono esserci esplosioni di violenza anche a distanza di anni».
Però, e lo dicono anche i dati Eurispes, sono soprattutto i mariti a trasformarsi in assassini.
«Infatti. Allora dobbiamo partire da una riflessione che ci riporta un po´ indietro nel tempo per capire quel che succede ora: quando in Italia entra in vigore il divorzio, quasi contemporaneamente viene introdotto il nuovo diritto di famiglia: la donna quindi si trova, almeno formalmente, su un improvviso piano di parità giuridica, psicologica ed economica con l´uomo. Prima c´era la patria potestà, prima c´era il capofamiglia, prima c´era una gerarchia familiare rispettata anche dai figli; prima l´uomo si trovava in un ruolo di dominanza...».
Prima c´erano meno omicidi...
«Sì, ma c´era, tra le mura domestiche, una violenza che non usciva mai allo scoperto; una sofferenza che non trovava vie di fuga; c´era, per moltissime donne, una non-vita: non essendoci il divorzio, le loro erano esistenze congelate in storie, talvolta terrificanti, nelle quali l´uomo ribadiva il proprio ruolo egemone di padre e marito, la propria identità di maschio dominante. Un´identità di ruolo che negli anni Settanta viene messa i discussione in base a leggi che, appunto, proponevano una situazione più paritaria. Ma i tempi della legge non necessariamente coincidono con quelli umani. Così, nel momento in cui oggi una donna ha consapevolezza della cattiva qualità del rapporto coniugale può decidere, e di fatto decide più spesso lei di lui, di interrompere il matrimonio. Il che viene vissuto, da alcuni, come un gravissimo atto di insubordinazione: è proprio nei momenti di difficoltà che ci rifà ai modelli tradizionali, quelli dei propri padri».
Un atto di insubordinazione tale da meritare la morte?
«Per alcuni - e insisto, solo per una minoranza - essere lasciati è una ferita narcisistica grave e dunque, perdita di autostima. Per ritrovare la quale si compie un gesto estremo di violenza che ribadisce la predominanza del ruolo. Non a caso, anche se certo non solo per questo, in generale sono gli uomini quelli che più frequentemente si risposano; a differenza delle donne che hanno un più forte senso di identità».

le scelte culturali di Repubblica
Sica: un "reichiano" e "bioenergetico"

Repubblica 9.4.04
I SEGRETI DEL CORPO
intervista a Alexander Lowen analista "bioenergetico"

Il terapeuta a suo modo fa le veci del genitore
ci vuole metà della vita per diventare degli esperti
Allievo di Wilhelm Reich, lo studioso ha oggi novantaquattro anni ma lavora sempre
"Se un paziente si presenta nel mio studio lo osservo, lo guardo negli occhi, lo tocco, la parola viene dopo"
di LUCIANA SICA


«Non aspettare di essere morto per lasciarti andare. Lasciati andare ora»: è una battuta di una qualche laica saggezza che ama ripetere Alexander Lowen, il fondatore dell´analisi bioenergetica, un signore nato a New York da una coppia di immigrati ebrei nel 1910. Oggi vive in una villa di campagna del Connecticut ed è stupefacente come continui a curare pazienti e a formare allievi, nonostante i suoi tanti anni: il prossimo dicembre ne avrà novantaquattro.
Bioenergetica s´intitola uno dei suoi libri di maggiore successo, uscito in America nel 1975 e da noi per la prima volta vent´anni fa, che ora Feltrinelli ripubblica in un´edizione economica (pagg. 320, euro 9). E´ un libro che ha già venduto ventimila copie, e del resto anche altri saggi di Lowen - da Il narcisismo a Il linguaggio del corpo, a Amore e orgasmo - hanno conquistato un pubblico di lettori ampio. Un interesse piuttosto insolito per una produzione saggistica, e non solo di natura intellettuale se intanto, anche sul versante clinico, si vanno sempre più diffondendo le tecniche terapeutiche che si rifanno, seppure in forme diverse, ai modelli teorici di Lowen.
Modelli molto distanti dal celebre divano freudiano, da un´impostazione che tradizionalmente privilegia la parola e la tendenza a mentalizzare i conflitti. Qui l´attenzione si sposta e si concentra nettamente sul corpo, sulle sue posture, le tensioni, le rigidità, fino a certi blocchi muscolari che spesso producono malattia. Un corpo che non è vuoto, un puro contenitore, ma un "luogo" capace di esprimere l´identità, anche quella più profonda, di manifestare i segni più vistosi dell´Io come le tracce più sottili dell´Inconscio, non solo la coscienza ma anche la memoria di un passato più o meno felice, più o meno doloroso, in ogni caso mai sepolto una volta per tutte.
Lowen è stato allievo di Wilhelm Reich, di un genio per molti versi, ma dalla personalità disturbata se nella parte finale della sua vita identificava sé stesso con un messia e l´energia sessuale con Dio. Quando Reich confidò a Einstein che molta gente lo considerava pazzo: «Davvero non esito a crederlo», fu la risposta raggelante del padre della relatività che gli voltò le spalle. Famoso e discusso, il pioniere della "rivoluzione sessuale", tra i discepoli (della seconda generazione) più brillanti di Freud, l´autore di Psicologia di massa del fascismo non meritava comunque di morire a sessant´anni in un carcere, dov´era finito dopo un´invenzione effettivamente pazzesca, la famosa scatola di legno che avrebbe dovuto funzionare come un accumulatore di vigore erotico, una specie di paradiso racchiuso in una cabina.
È nell´autunno del ?40 che Lowen s´iscrive a un corso tenuto da Reich sull´analisi del carattere, e più precisamente sul legame tra la tensione muscolare cronica - definita body armor, armatura corporea - e la personalità nevrotica. Sono teorie nuove, eterodosse rispetto all´impalcatura complessiva del pensiero freudiano, e Lowen ne è così affascinato da intraprendere una terapia con Reich che durerà tre anni, dal ?42 al ?45.
I rapporti tra i due, mai davvero stretti e mai apertamente conflittuali, non saranno comunque destinati a un lungo idillio intellettuale: mentre Reich si allontana dall´analisi del carattere, preso dai suoi esperimenti sull´"orgone", Lowen prende le distanze dal suo antico mentore, si laurea in medicina a Ginevra, continua la sua formazione personale e nel 1956 fonda l´International Institute for Bioenergetic Analysis di New York.
Signor Lowen, che cosa deve a Reich?
«Gli devo molto. E´ stato il mio maestro e il mio terapeuta. Non il solo, ma non sarei dove sono oggi, se non ci fosse stato lui? Alla fine della sua vita, non ci stava più tanto con la testa, su questo non c´è dubbio. Ma succede ai geni, e secondo me anche oggi ci vorrebbe un pazzo per vedere la follia della nostra cultura».
Direbbe che l´analisi bioenergetica sia stata il frutto del suo lavoro con Reich?
«Reich rimane il punto di partenza, ma fondamentalmente la mia terapia è stato un viaggio di autoscoperta: ho sviluppato l´analisi bioenergetica per applicarla a me stesso prima che ai miei pazienti. In fondo i problemi che avvertivo non erano così diversi da quelli di tanti altri?».
Problemi risolti?
«Mai del tutto, ma progressivamente mi sono sentito sempre più in pace con me stesso».
Un buon risultato. Ma, per lei, è questo che vuol dire stare bene?
«Non proprio, o almeno non solo? Per me, stare bene vuol dire soprattutto avere un senso di vitalità e di allegria nel corpo, sentirsi a proprio agio. Ma per ottenere un risultato del genere, occorre un lavoro molto lungo, e a volte non basta l´intera vita».
La clinica bioenergetica ha la caratteristica di non basarsi esclusivamente sulla parola, ma di coinvolgere il corpo. Lei come risponde ai critici che non considerano "etico" toccare il paziente?
«La nostra è una terapia che ha la componente analitica verbale e il lavoro corporeo, e tende ad armonizzarli. Il terapeuta, per certi aspetti, rappresenta il sostituto di un genitore. Si può essere dei bravi genitori se si ha paura di toccare i propri figli? Io non lo credo, ma si può essere pessimi genitori, estremamente distruttivi, se toccare i figli assume connotazioni sessuali? Ecco, il terapeuta che non sa controllare il modo in cui tocca un paziente non dovrebbe mai farlo. Se i pazienti possono fidarsi di te, allora il contatto fisico non è una violazione della fiducia, se invece non possono fidarsi di te, non li toccare!».
Secondo lei, i terapeuti che fanno bioenergetica sono tutti ben formati e qualificati?
«Sfortunatamente no, non è così. Uno dei motivi è che ci vuole metà della vita per imparare come si fa la bioenergetica: non sono consentite improvvisazioni. Servono diverse esperienze che si acquisiscono lentamente, innanzitutto con il lavoro davvero interminabile su sé stessi, sui propri problemi? In ogni caso, non potrei mai convincere i miei detrattori, perché in realtà nelle loro critiche proiettano un´ansia profonda, procurata dall´idea stessa del contatto fisico».
Magari non tutti si sentono votati a una teologia del corpo, non crede?
«No, credo ci sia soprattutto una resistenza alla dimensione della corporeità? Per quanto mi riguarda, è importante parlare poco, quanto basta per capirsi, e concentrare gli sforzi sugli esercizi fisici, a cominciare dal modo in cui il paziente respira. È fondamentale che lo faccia correttamente, per il rapporto strettissimo che esiste tra le inibizioni psichiche e l´insufficienza delle funzioni respiratorie? Un paziente può raccontarmi la sua storia per anni, parlare a lungo delle sue difficoltà emotive, ma non è detto che comprenda mai quali siano realmente queste sue difficoltà, né che sia io a comprenderle, questo è il punto?».
Qualcuno sta male e si presenta nel suo studio. Lei che fa?
«Certamente non gli chiedo qual è il suo problema, non subito ad ogni modo. Osservo il suo corpo per capirne l´assetto, se è sano o malato, se è vivo e vibrante oppure no. È questo che faccio, durante la prima seduta. Quando viene da me, il paziente parla, e intanto io lo studio. Cerco di localizzare i suoi problemi guardando i suoi occhi, il viso, le spalle, o anche i piedi, il modo in cui stabiliscono il legame col suolo, con la terra, quella che noi chiamiamo grounding che è la base stessa della vita, come le radici per l´albero».
Ma perché tutta questa diffidenza per la parola, per il Logos che non sarà forse alla base della vita, ma certamente della nostra cultura, e non è poco, non le pare?
«La nostra cultura non ci ha reso né più sani né più felici, e comunque se fosse possibile cambiare profondamente le persone con le parole, lo farei senz´altro, ma ho visto che le parole non bastano a trasformare le persone. Se stai male, puoi parlare quanto vuoi, ma è il tuo corpo che dovrà cambiare, con un lavoro che richiede molto, molto tempo. Solo se la tua energia corporea è più viva e forte, allora sì, è possibile un cambiamento».
L´ultima domanda è anche personale, ne faccia quindi l´uso che crede? Da qualche tempo lei ha perso Leslie, la donna che ha sposato a 32 anni, a cui ha dedicato molti dei suoi lavori. Siete sempre stati insieme. Le chiedo: cosa sorregge un essere umano di fronte a un lutto così grave? Insomma, che possiamo fare quando siamo davvero preda del dolore?
«Possiamo piangere. Anzi, dobbiamo farlo tutte le volte che avvertiamo un dolore, sia fisico che spirituale, perché altrimenti non ci liberiamo neanche un po´ dall´angoscia, e nulla potrà rendere meno acuto il dolore. L´unico modo immediato che abbiamo per superare gli eventi tragici della vita è piangere, esprimere il sentimento della sofferenza, liberare la tensione che è in noi, aumentando l´energia del nostro corpo? Ma non voglio sfuggire all´aspetto personale della sua domanda: è stato difficilissimo elaborare la perdita di mia moglie, capire che non le avevo dato abbastanza amore e sostegno durante il nostro matrimonio. Il dolore permane, ma nello stesso tempo oggi mi sento più consapevole e riesco a lavorare meglio su di me, sui miei sentimenti».

LA SUA SCUOLA IN ITALIA
A META´ degli anni Settanta, Alexander Lowen ha fondato a Roma la Società italiana di analisi bioenergetica (Siab), che oggi conta su oltre 200 terapeuti, ha corsi di formazione nelle principali città, e dal ´98 è presieduta da Patrizia Moselli. La Società è stata riconosciuta come scuola di specializzazione post-laurea.

giovedì 8 aprile 2004

un bell'articolo su "a un millimetro dal cuore" di Iole Natoli

Zefiro n.4 del 7/04/04
A UN MILLIMETRO DAL CUORE
di Iole Natoli, con Giulia Mombelli, Alice Marchitelli, Diego Ribon e Marco Bellocchio
ITA 2002
di Antonio Montellanico


Un movimento lento tra le coperte del letto, i seni nudi, un delicato bacio al risveglio.

Una storia d'amore tra due sconosciuti. L'incontro inaspettato tra un uomo ed una donna, sfuggente e quasi intraducibile, che muove altrove verso le dinamiche più profonde del desiderio, dove due corpi si inseguono, si amano, si mostrano come un plusvalore visibile che vuole portare dentro di sé ciò che è dentro l'altro; sostanza interna di un essere straordinariamente presente.

Animato da una fluidità emotiva di grande impatto, il cortometraggio di Iole Natoli è un'esperienza filmica semplicemente incantevole: un discorso sull'amore nella dimensione opposta dell' amor fou, la fissazione tutta psicoanalitica per «l'oggetto unico» che tanta fortuna ha avuto nel cinema e che troppo spesso ha parlato di passionalità corrosiva e violenta, bramosia e dipendenza.

Il film della Natoli in questo senso è invece la delicata dimensione di un amore ideale che richiama i sussulti del sogno, che vive e che pulsa nella sfera delle attese impreviste suscitate dalle emozioni, dai momenti, dagli scarti tra la realtà e le sue forme non materiali.

La figurazione perfetta di quella differenza sostanziale tra l'uomo e la donna, che spinge l'uno verso l'altro, alla ricerca di uno scambio continuo, di un dolce incastro tra le parti che sia nutrimento, intesa, contenuto per contenuto. Il movimento sinuoso della seduzione, dell'attrazione che non ha necessità di coprire, arginare i vuoti della parola, ma che anzi nell'assenza quasi totale del linguaggio brucia orgogliosa della propria forza.

Ogni movimento della macchina da presa è accompagnato da tensioni emozionali di sconcertante sincerità, che svelano di volta in volta la significazione più intima ed autentica dei due protagonisti; e pur non essendoci immagine filmica di quanto accaduto - come quando la donna ripensa all'incontro con "lo sconosciuto", e nel raccontarlo all'amica, vive una nuova percezione - riusciamo a vedere, ad intuire. Ad intenderci con quei volti, quegli sguardi presi nel loro mostrarsi, nel loro farsi certezza affettiva. Un lavoro sull'esperienza cinematografica che procede per sottrazione, nell'assenza dell'immagine fattuale che richiede perciò un investimento percettivo continuo, un sentire forte dello spettatore. Il cortometraggio di Iole Natoli è un taglio nello spazio e nel tempo, un esserci nel mondo che forse non cerca nessuna filiazione con il cinema italiano contemporaneo ed è per questo un'esperienza ancor più preziosa. Raramente il cinema è riuscito ad esprimersi in forme così libere ed emozionanti. A Un Millimetro dal Cuore inizia come un viaggio in una stanza, in un letto, per farci ritrovare poi a palpitare all'unisono per un desiderio ed un amore che è diventato in soli venticinque minuti, anche il nostro

mercoledì 7 aprile 2004


Dopo essere stato incluso nella selezione ufficiale del 2004 NEW YORK SHORT FILM FESTIVAL

La rosa più bella del nostro giardino

il film-documentario di

Massimo Domenico D'orzi

prodotto da
La cooperativa Il Gigante

è entrato nel Palmarès 2004 del FESTIVAL DU FILM DE STRASBOURG con il premio per la
"direzione artistica".

Vedi al sito
www.strasbourg.festivalinfo.info

tradizioni cattoliche e islamiche

Repubblica ed. di Palermo 7.4.04
Le tradizioni dell'Isola a confronto con i pellegrinaggi nei luoghi sacri musulmani
I Sepolcri tra Sicilia e Islam
di MARCELLA CROCE


La vita oltre la morte: dal tempo dei greci in poi, senza soluzione di continuità, in Sicilia si preparano i lavureddi per i sepolcri del Giovedì Santo, e sono in tutto simili ai semi e fave che in Iran germogliano sulle tombe dei venerabili sciiti. Sul sancta sanctorum di Mashhad i pellegrini fanno a gara per toccare e baciare il sepolcro del terzo imam Reza; colpisce il numero di nastri verdi annodati alle grate e persino di catenacci chiusi.
Ogni nodo, ogni catenaccio rappresenta un problema, e tanta gente non si muove da lì perché con tante chiavi diverse in mano cerca di aprirne uno e risolvere così un´incognita della vita.
I sepolcri e le reliquie dei santi cattolici sono divenuti oggetto di travolgente culto e meta di pellegrinaggi epocali (basti pensare alla gola e al mento di San Antonio a Padova), allo stesso modo gli sciiti hanno creato una fitta rete di vie sacre. Un numero impressionante di pellegrini sciiti iracheni viene regolarmente in Iran a visitare il mausoleo di Reza a Mashhad, di suo fratello Sayyed Mir Ahmad a Shiraz, e di sua sorella Fatemé a Qom, i luoghi più sacri dell´Iran. Un numero ancora maggiore di iraniani visita i luoghi ove perì l´imam Huseyn nella città sacra di Kerbala in Iraq, di recente devastata da sanguinosi attentati. Ultimamente il numero dei pellegrini iraniani si era almeno decuplicato: da quando gli americani sono in Iraq ogni persona deve pagare solo 100 dollari (Saddam Hussein ne pretendeva ben 600) e non è detto che questa mossa non valga in futuro agli americani il consenso in qualche battaglia diplomatica.
«Osservammo uomini che baciavano la sua tomba, la circondavano, ci si gettavano sopra accarezzandola con le mani, una crescente folla si raccoglieva lì intorno, gridando invocazioni, piangendo e implorando Dio di benedire le sacre ceneri, e offrendo umili suppliche che avrebbero potuto sciogliere e spezzare il cuore più duro. Era uno spettacolo solenne e sconvolgente» (Ibn Giubair, 1183). A nove secoli di distanza, uno spettacolo altrettanto «solenne e sconvolgente» attende chi si rechi a visitare i sepolcri sacri. Ognuno dei dodici imam, discendente in linea diretta da Alì, cugino e genero del Profeta, e, secondo gli sciiti, suo unico legittimo erede, è venerato con fervore; l´importanza dei diritti ereditari in linea maschile, è una delle chiavi fondamentali per comprendere lo sciismo e contraddistingueva fino a non molto tempo fa anche il nostro tipo di società, anche se da noi non ha mai investito la sfera religiosa: basti pensare ai diritti del primogenito (maggiorascato), difesi fino all´estremo, nell´ambito delle famiglie nobili, pur di mantenere intatto il patrimonio; basti considerare il costume, ancora molto diffuso, di chiamare il primo figlio maschio con lo stesso nome del nonno paterno.
Il cronista Ibn Giubair è una nostra vecchia conoscenza per averci lasciato anche accurati reportage sulla Sicilia, il luogo descritto era il mausoleo del Cairo (Al-Qahira) dove era stata seppellita la testa del veneratissimo terzo imam Huseyn, che Giubair visitò trent´anni dopo la sua costruzione. E non era l´unica truce reliquia nelle vicinanze, anche la testa di Zayd, fratello di Ali, era stata recisa, poi ritrovata e risseppellita e "riceveva visite" nel suo bravo mausoleo. Al-Qahira era stata fondata nel 969; nel periodo fatimida della sua storia, la cittadella era accessibile solo dal califfo sciita e dalla sua famiglia, mentre la vicina Fustat era la "città del popolo". Al Muizz vi entrò nel 972 e vi portò i corpi del padre al-Mansur e del nonno al Qahim e di al Mahdi fondatore della dinastia, poi vi fu seppellito anche lui e otto dei suoi successori con relative famiglie. Di questo grande mausoleo, detto Turbat al-zafaran (tomba di zafferano), a quanto pare perché questa sostanza veniva adoperata per odorare la cappella, non è rimasto nulla. E´ rimasta invece un´intera serie di mausolei di persone imparentate con la famiglia di Alì, una vera e propria "Città dei morti" (anche la parola ?necropoli´ etimologicamente significa precisamente questo) che era stata costruita dai califfi fatimidi per legare la popolazione alla loro dinastia, inculcando entusiasmo di massa. La visita alle tombe (ziharat al-qubur) era stata da loro fortemente incoraggiata, era una pratica molto cara soprattutto alle donne che per l´occasione potevano uscire e partecipare alla vita sociale, ed era anche un perfetto instrumentum regni di cui si avvalsero in seguito anche i califfi sunniti che successero loro al potere.
Divenne un onore essere sepolti tra gli ahl - al-bayt (compagni del Profeta e amici di Dio) e partecipare così alla grazia (baraka), la forza benefica di origine divina che emana dagli individui durante la loro vita e anche dopo la loro morte. Questo culto dei sepolcri caratterizza ancora lo sciismo, e tuttora è grande onore (e costa anche molti soldi) essere seppelliti vicino all´imam Reza a Mashhad, o almeno "visitare" anche da morti il santuario prima di essere portati al cimitero fuori città.
Come in tutti i pellegrinaggi degni di questo nome, si è creata intorno a tutti questi luoghi, che rivestono anche un notevole interesse storico e artistico, un´imponente serie di infrastrutture. In alcuni casi i non musulmani non possono accedere ad alcune parti interne del santuario, ma anche rimanendo nel cortile non è difficile assistere a scene davvero impressionanti: nel santuario di Ghadamgah presso Neishabur, dove l´imam Reza, come Sant´Agata a Catania, lasciò l´impronta del suo piede, non esitano addirittura a strappare pezzi di corteccia dagli alberi del giardino, e a sradicare fiori e foglie, pur di portarsi via qualcosa dal sacro luogo.

un caso
depressione e farmaci

Corriere della Sera 7.4.04
Pochi giorni prima di morire, il racconto di un calvario lungo 29 anni: dall’angoscia della solitudine ai tentativi di suicidio
«Io, in bilico tra amore e depressione»
L’ultima intervista di Gabriella Ferri a «Oggi». «Tutto cominciò con micidiali cocktail di farmaci»
«Mi chiudevo a chiave in camera, nulla mi apparteneva più, il mio corpo stesso mi era diventato estraneo»


La depressione e l’amore, i farmaci stordenti e la speranza, la solitudine e la voglia di vivere. Nell’ultima intervista concessa pochi giorni fa a Oggi - pubblicata nel numero in edicola -, Gabriella Ferri aveva ricostruito tutta la sua lotta per vivere, descrivendo un lungo calvario di terapie e di sogni. Partendo dal legame con il marito Seva, «senza il quale non avrei mai risalito la china». «Per un certo periodo - ricorda la cantante morta sabato precipitando dal balcone della sua abitazione nel Viterbese -, quando ancora abitavo a Campo de' Fiori, più di dieci anni fa, subivo ogni giorno la visita di un neurologo che mi prescriveva cocktail micidiali, fatti anche di dieci farmaci tutti insieme. Bombe, per il mio corpo che continuava a perdere forza, ammucchiando grasso inutile e polverizzando il mio amor proprio. Davanti allo specchio, ogni volta, mi ritrovavo un'immagine sempre più debordante e avvilente. Come un animale braccato, mi chiudevo a chiave con la doppia mandata, dentro la mia camera da letto, che trasformavo nella cella di una prigione. Tenevo le persiane sigillate, in pieno giorno. Dormivo? Nemmeno. Al buio, con gli occhi sbarrati, rimanevo immobile sotto le coperte, per una quantità di ore infinita, di cui non avevo più nozione. Mi sentivo una lattuga lessa dentro il letto, non mi lavavo. Aiutato dalla donna di servizio, ogni tanto mio marito mi ficcava dentro la vasca da bagno e mi insaponava, poi mi risciacquava col getto gelato della doccia. Ma non reagivo nemmeno a quel freddo. Osservavo la mia pelle d'oca, come non fosse la mia. Nulla mi apparteneva più, il mio corpo stesso mi era diventato estraneo».
E’ una descrizione spietata, un lungo viaggio nell’angoscia. «La prima crisi grave l'ho avuta nel 1975, quando mio padre Vittorio è morto, ucciso da un cancro ai polmoni, dopo una lunga degenza all'ospedale San Camillo, dove lo avevano isolato nel reparto dei condannati. Ma lui non si rassegnava a morire e mi gridava: "Gabriella, salvami! Gabriella, comprami la vita, tu che puoi!". Quelle parole avevano su di me un effetto spaventoso. Mi caricavo di una responsabilità disumana. Dovevo salvare mio padre, con ogni mezzo. Perché potesse essere operato in una costosa clinica privata, mi massacravo con le tournée, racimolando i soldi necessari all'intervento, che fu inutile».
Ed ecco il primo tentativo di uccidersi: «Nel giugno del 1975, ero già sposata da cinque anni e mamma di Seva junior, da due. Questo, in un momento di sconforto, non m'impedì di tentare il suicidio, tagliandomi le vene. Persi cinque litri di sangue, ero in pieno choc emorragico, quando mio marito mi salvò, portandomi di corsa all'ospedale, dove diedero fondo a tutto il sangue che avevano, facendomi due tempestive trasfusioni. Lo stesso mio marito che, dieci anni fa, mi salvò anche dal John Hopkins Institute di Baltimora, la clinica specializzata nella cura delle malattie nervose. Lì, infermieri più crudeli di aguzzini, mi rifiutavano le pillole per dormire. Esasperata da quell'insonnia prolungata, presi a pugni una caposala, prima che Seva mi portasse via. Ma quella fuga non servì. Ci furono altri ricoveri, altre fughe, altri inutili tentativi di capire il perché di questo mio male... Sono stata spesso in condizioni gravi, fino a un paio di anni fa, quando ho conosciuto uno psichiatra che, anziché prescrivermi nuovi medicinali, mi ha fatto parlare per tre ore di seguito, senza mai interrompermi».
Il racconto di Gabriella a Oggi si chiude con un sorriso, quello della sua nipotina. E il terrore di non riuscire a farcela davanti alla prossima crisi: «Lo vedo ancora, una volta alla settimana. Quel medico mi trasmette tanta calma. Anche se, per vincere l'ansia, qualche goccia la prendo ancora, appena sveglia. Quello è il momento più duro. Mi capita di pensare che non ce la farò, che ricadrò nell'inferno da cui sono uscita. Mi aiutano lo sguardo di mio marito, il pensiero dei miei quattro nipotini. L'ultima, Xenia, bionda come la sua nonna, ha un anno e mezzo e ride con le fossette, bella come un angelo».

ipocondria

Corriere della Sera 7.4.04 pagg. 1 e 18
Studio americano: ai malati immaginari non concedete troppe visite e analisi
Curare gli ipocondriaci? Meglio rieducare i medici
di GIUSEPPE REMUZZI


Si sta male (certe volte malissimo) anche se qualcuno ci ride sopra. Il bello - o il brutto - è che non si è ammalati. O forse sì. È «quell’agente patogeno, mille volte più virulento di tutti i microbi: l'idea di essere malati» del racconto di Marcel Proust (I Guermantes: Alla ricerca del tempo perduto ). Ne soffre Woody Allen, ma ne hanno sofferto prima di lui Charles Darwin, lo stesso Proust e milioni di uomini fin dall'antichità. I greci, 2.500 anni fa, l'hanno chiamata ipocondria (ancora oggi i medici chiamano così i malati immaginari). Ipocondria perché c’è tante volte un senso di sconforto digestivo e malinconia che i greci antichi attribuivano alla milza. Su venti persone che vanno dal medico, almeno una soffre di ipocondria.
Intendiamoci, chiunque di noi ogni tanto ha dei disturbi che non si spiegano bene, e magari pensa che possa essere qualcosa di grave, ma l’ipocondria, quella vera, è pensare di essere ammalati, sempre, cercare continuamente dei medici, voler continuamente fare esami. Di tutti i soldi che si spendono per la salute, poco meno del 20% se ne va per i malati immaginari. Sono quelli che se hanno un livido, pensano di avere una leucemia. Se hanno il mal di testa pensano di avere un tumore al cervello (e questo fa peggiorare il mal di testa). A furia di pensare sempre e solo alle malattie, qualcuno arriva a non avere più una vita sociale, a non dormire più. E questo immiserisce anche la vita di chi gli sta vicino. Curare gli ipocondriaci è difficile. Ci si sente frustrati, non si sa più cosa fare, tanto più che una cura vera non c’è, non c’è mai stata, e di quel poco che si è fatto finora nessuno è mai riuscito a dimostrare l’efficacia in studi controllati.
Ma adesso, forse, c’è una svolta. Un lavoro, pubblicato proprio in questi giorni sul Jama (il giornale dell’associazione dei medici americani), potrebbe dare agli ipocondriaci una speranza. Di guarire? Qualche volta, o comunque, almeno, di poter stare meglio. Lo studio è stato fatto a Boston dal dottor Barsky dell’Ospedale Brigham. Centodue persone si sono sottoposte ad una psicoterapia cognitiva (fatta per capire le ragioni di un certo comportamento). Ottanta persone invece sono state curate come si fa di solito (buon senso, e qualche farmaco senza sapere se servirà davvero). Si è visto che più del 50% dei pazienti curati con la psicoterapia migliorava e quasi sempre tornava ad avere qualche forma di vita sociale. Per la verità, anche qualcuno di quelli curati con le solite cure migliorava, ma erano molto meno. L’ipocondria colpisce uomini e donne allo stesso modo: ma gli introversi, chi è troppo critico con se stesso, i narcisisti, sono ancora più vulnerabili. Anche quelli che soffrono di ansia e depressione tante volte diventano ipocondriaci. In questo caso servono i farmaci: quelli che agiscono sulla serotonina, certi antidepressivi, le benzodiazepine. Per anni i medici hanno cercato di aiutare i malati immaginari spiegandogli candidamente che i loro disturbi non corrispondevano a nessuna malattia, dovevano far finta che non ci fossero. Non funziona. Se uno i disturbi li sente, per lui ci sono, proprio come se fosse ammalato. La cura dei ricercatori di Boston invece prevede che psicologi ed infermieri sappiano convincere gli ipocondriaci ad abbandonare piano piano le loro fissazioni (attaccarsi ad Internet per trovare sempre nuove informazioni sui loro malanni, cercare sempre nuovi medici). Ma non basta, a detta dei ricercatori di Boston, per aiutare sul serio gli ipocondriaci bisogna educare i loro medici. I malati immaginari vanno visti, certo, ad intervalli regolari, ma non gli si deve dare un appuntamento tutte le volte che lo chiedono e nemmeno prescrivergli troppi esami e troppi farmaci. Quella del dottor Barsky e dei suoi collaboratori non sarà la soluzione di tutti i problemi dei malati immaginari, e si è già visto che non sempre gli ipocondriaci - specialmente quelli che soffrono di forme davvero gravi - si avvantaggiano della sua cura.
Ci sarà sempre qualcuno ha detto Barsky in un’intervista rilasciata qualche giorno fa al New York Times che mi verrà a dire «ho proprio bisogno di trovare un medico che mi faccia una biopsia del fegato».
Queste persone, ahimè, non guariranno mai, ma possono essere aiutate: in fondo il terrore di essere ammalato non ha impedito a Charles Darwin di formulare una teoria che ha cambiato dalle fondamenta le nostre idee sulla natura e sullo sviluppo della vita.

la religione americana

Repubblica 7.4.04
"Passion" di Mel Gibson non è l'unica espressione della destra cristiana. L'ultimo libro di due predicatori è un best-seller
Usa, la bibbia degli integralisti horror, fantascienza e profezie
Quattro americani su dieci si definiscono "cristiani rinati" Come il presidente Bush E non tutti sono moderati

Da un dialogo tra predicatori in tv: "Dio ci ha tolto la sua protezione e ha lasciato che i nemici colpissero l'America. L'abbiamo meritato"
DAL NOSTRO INVIATO
FEDERICO RAMPINI


San Francisco - L´Anticristo si incarna nel segretario generale delle Nazioni Unite. Crea un governo unico mondiale, con una sola religione, e stabilisce la sua capitale globale nella biblica Babilonia (Bagdad). Sono i segni che l´Apocalisse è vicina e infatti il vero Cristo torna in terra: non il Gesù torturato di Mel Gibson ma un guerriero furioso che scatena la sua violenza sacra uccidendo e sventrando gli atei, i miscredenti e i seguaci di altre religioni. «Uomini donne e soldati sembrano esplodere d´un tratto... le parole del Signore fanno scoppiare il sangue dalle loro vene, la loro carne si squaglia, gli occhi liquefatti e le lingue disintegrate». È il finale di «Gloriosa Apparizione», il romanzo-thriller della destra fondamentalista cristiana che polverizza i record d´incasso in America. La più grande catena di supermercati, Wal-Mart, ne ha promosso il lancio distribuendo gratis milioni di anticipazioni del primo capitolo. Solo per far fronte alla richiesta del pubblico nella prima settimana di vendite, i librai ne hanno prenotato oltre due milioni di copie, più di quanto abbiano venduto le memorie di Hillary Clinton in sei mesi.
Non è John Grisham il re dei best-seller, né sono le avventure di Harry Potter la serie di maggior successo. Le loro vendite impallidiscono di fronte a un genere nuovo, esploso in un crescendo negli ultimi nove anni: la fantascienza-horror cristiana ispirata dalle profezie bibliche. Una coppia di autori, Tim LaHaye e Jerry B. Jenkins, domina questa produzione con la serie Left Behind (Abbandonàti). I primi undici romanzi hanno venduto più di 40 milioni di copie, il dodicesimo è «Gloriosa Apparizione» che invade le librerie in questi giorni. Questo fenomeno di società ha preceduto il caso della «Passione di Cristo» di Mel Gibson, e ne supera l´importanza: per le dimensioni di massa, per la durata, e per l´estremismo dei messaggi. I sociologi si interrogano sul significato di questa attrazione popolare. Vi hanno individuato un risorgere di antiche superstizioni al passaggio del millennio; una lettura apocalittica dell´11 settembre; ma anche un sintomo che lo «scontro di civiltà» non nasce necessariamente alla periferia dell´impero, perché le guerre di religione hanno i loro fautori nel cuore della società americana: la serie Left Behind andava a ruba già prima dell´attacco alle Torri gemelle.
Sulla stampa liberal questo filone narrativo di serie B è criticato per i suoi contenuti intolleranti, razzisti, antisemiti e per la crudele violenza delle trame. In quelle storie non c´è scampo per gli ebrei né per gli atei, condannati allo sterminio da un Dio assetato di sangue nel giorno del giudizio. Molti teologi denunciano una pericolosa distorsione delle sacre scritture. Il primo della serie Left Behind si apre con una descrizione drammatica del Rapimento: è il momento nel quale i «cristiani rinati» saranno improvvisamente trasportati in Paradiso. Con un´allusione all´aborto, anche un embrione viene prelevato dal ventre materno per ascendere in cielo. Joseph Hough, presidente dello Union Theological Seminary di New York, ha condannato l´insistenza ossessiva sulle sofferenze che saranno inflitte ai non-credenti, e accusa gli autori di stravolgere la Rivelazione per dipingere un universo manicheo dove c´è spazio solo per Dio e il demonio. «È la stessa visione - ha detto il teologo - che appartiene ad alcuni recenti presidenti degli Stati Uniti, secondo cui c´è il mondo del bene e il mondo del male. I nemici dell´America diventano i nemici di Dio. È molto pericoloso perché giustifica comportamenti ispirati all´idea che chi non sta con te rappresenta le forze del male».
LaHaye, 77 anni, faceva il pastore evangelista in California 40 anni fa quando si unì al predicatore Jerry Falwell e al suo movimento conservatore della Moral Majority. L´idea di trasformare le profezie bibliche in romanzi popolari, nello stile di thriller futuristici, lo ha proiettato verso la fama e la ricchezza. Negli Stati Usa del Sud, lungo quella fascia geografica che viene chiamata la Bible Belt (la «cintura della Bibbia») 20mila volontari hanno creato dei club di fan dei suoi libri per promuoverne la lettura collettiva tra parenti e amici.
Dietro il fenomeno letterario c´è una tendenza profonda: la ri-evangelizzazione degli Stati Uniti. Mentre nella vecchia Europa la pratica religiosa è in declino, l´80% degli americani afferma di credere in Dio e il 39% si autodefiniscono born-again Christians cioè cristiani rinati. Il termine riunisce chiese protestanti che hanno un punto in comune: i fedeli sono convinti di essere rinati al cristianesimo perché in età adulta hanno «accettato consapevolmente Gesù Cristo come il loro Signore e il loro personale Salvatore». L´America ha una lunga tradizione di predicatori evangelici e nella sua storia ha conosciuto già tre periodi di potente risveglio della religiosità collettiva. L´ascesa dei cristiani rinati è considerata come il quarto grande risveglio religioso dopo quelli che avvennero alla fine del periodo coloniale, poi nel 1820, e ancora agli albori del Novecento. Il sintomo più noto è il seguito popolare di alcuni tele-evangelisti dalla personalità carismatica, che sfruttano la potenza dei mass media - attraverso le prediche televisive - per mobilitare milioni di persone. La semplificazione dei messaggi, il ricorso a tecniche manipolative per l´indottrinamento delle folle, o infine il fatto che alcuni di questi predicatori siano stati protagonisti di truffe finanziarie o scandali sessuali: tutto ciò induce spesso a liquidare il loro successo come una prova dell´ingenuità americana. La condanna degli intellettuali laici coincide con l´ostilità delle chiese tradizionali: preoccupate dalla concorrenza degli evangelizzatori, le gerarchie ecclesiali cattoliche o protestanti sono severe contro il fanatismo. Però gli evangelici sono riusciti dove il vecchio establishment clericale è fallito, hanno invertito la tendenza alla secolarizzazione e all´abbandono della pratica religiosa nella società più moderna, opulenta e consumista della storia. Al passaggio fra il secondo e il terzo millennio il nuovo fondamentalismo cristiano è riuscito a contrastare perfino il dominio della scienza, come dimostrano le campagne per sradicare l´insegnamento della teoria evoluzionista nelle scuole.
Più volte queste chiese hanno unito i loro sforzi per dar vita a una vera e propria forza politica: nel 1979 nacque la Moral Majority che sostenne Reagan, nel 1989 si formò la Christian Coalition. Bush padre, repubblicano laico e moderato, perse le elezioni del 1992 anche perché le truppe religiose del movimento antiabortista disertarono in massa le urne; suo figlio si è ripromesso di non commettere più lo stesso errore, e cavalca la radicalizzazione a destra di queste chiese. Lui stesso ha più volte raccontato di essersi liberato dall´alcolismo a trent´anni grazie alla «conversione», e molti dei suoi collaboratori (tra cui il ministro della Giustizia John Ashcroft) sono dei cristiani rinati come lui.
L´11 settembre 2001 ha aperto una nuova fase di visibilità di questi movimenti, in nome della difesa di un´America cristiana contro l´attacco del fondamentalismo musulmano. Il predicatore Franklin Graham ha definito l´Islam «una religione malvagia». Il leader della coalizione delle chiese battiste degli Stati del Sud ha bollato Maometto come «un pedofilo posseduto dal demonio». I più estremisti hanno visto nella strage delle Twin Towers un presagio apocalittico, il castigo divino contro un´America degradata dall´immoralità della sinistra, dal permissivismo ateista degli anni di Clinton. Un paranoico pamphlet dal titolo «Persecution», di David Limbaugh, sostiene che in America i cristiani sarebbero secondo lui «messi al margine della vita pubblica, privati dei diritti civili, discriminati a causa del loro credo» mentre i film di Hollywood e la scuola pubblica in mano alla sinistra «incoraggiano la diffusione della promiscuità e di una sessualità deviante». Il predicatore Jerry Falwell in un dialogo televisivo con l´altro leader carismatico Pat Robertson, trasmesso dalla rete tv Christian Broadcasting Network, ha dichiarato: «Dio ci ha tolto la sua protezione e ha lasciato che i nemici dell´America ci colpissero perché lo abbiamo meritato. L´American Civil Liberties Union ha grandi responsabilità, così come i giudici che hanno cacciato Dio dai luoghi pubblici. Gli abortisti sono tra i colpevoli perché Dio non si lascia insultare. Quando uccidiamo 40 milioni di innocenti nascituri, facciamo infuriare Dio. I pagani, gli abortisti, le femministe, i gay e le lesbiche, tutti coloro che hanno cercato di secolarizzare l´America, io li accuso: quel che è accaduto l´11 settembre è anche colpa vostra»

Tina Modotti

La Provincia di Como 7.4.04
mostre
Modotti e la sintesi tra l'arte e la vita
di Silvia Bernasconi


per vedere alcune delle più belle immagini di Tina Modotti e sapere di più della sua vita, clicca QUI

Sulla sua tomba, nel Pantheon de Dolores di Città del Messico, sono scolpiti versi di Pablo Neruda, il suo volto compare nei murales di Diego Rivera. La sua figura di donna passionale e coraggiosa ha stimolato il proliferare di biografie romanzate - ieri è stato presentato «Tina Modotti. Verità e leggenda» di Christiane Barckhausen - e scoop giornalistici, com'è accaduto all'amica pittrice Frida Khalo. La mostra «Tina Modotti. Fotografie, vita, arte e libertà», a San Donato Milanese fino al 20 aprile, intende celebrare una delle fotografe più significative del XX secolo, troppo a lungo trascurata dalla critica. «Metto troppa arte nella mia vita», ha scritto Tina nel 1925. E per rendere questa sintesi di arte e vita la rassegna comprende non soltanto fotografie, ma anche, lettere, poesie e filmati. Nel Messico post-rivoluzionario, dove si è trasferita nel 1923, la Modotti ha utilizzato l'obiettivo fotografico come strumento di indagine e denuncia sociale, schierandosi in difesa degli oppressi e delle libertà politiche. Simboli del lavoro, mani di operai, ritratti di donne e bambini, manifestazioni sindacali: le sue immagini non possono prescindere dal passato di povertà in Friuli, dove è nata nel 1896, dall'esperienza di emigrante e di operaia a San Francisco, né dalla condizione costante di perseguitata politica.

«Tina Modotti. Fotografie, vita, arte, libertà», Cascina Roma, San Donato Milanese, 7 marzo - 20 aprile 2004. Ingresso libero.
Orari: lun-sab 9.30-12.30 / 14.30-19; dom 10-12.30 / 16.30-19 Info: 0255603159

Max Weber

Corriere della Sera 7.4.04
MAX WEBER E L'ANIMA DEL CAPITALE
Intervista a Guido Rossi

In contrasto con Marx pensava che in economia pesassero anche le credenze spirituali
Un secolo fa usciva un'opera che coniugava l'accumulo di danaro con l'etica protestante
La dottrina religiosa della predestinazione spingeva i calvinisti a cercare nel successo un segno divino
Sombart dimostrò però che nello sviluppo dell'Europa centrale gli ebrei avevano avuto un ruolo essenziale
Una forte etica del lavoro, tipica per esempio del caso giapponese, ha favorito lo sviluppo economico
Adam Smith era anche lui un filosofo morale prima di essere un economista e usava metafore poetiche
di FEDERICO RAMPINI


MILANO. Nell´èra dei crac Enron e Parmalat, la "questione morale" è tornata al centro delle analisi sulla nostra economia di mercato. La grave crisi attuale è una sorta di omaggio postumo all´importanza di un´opera originalissima, che esattamente cento anni fa stabiliva per la prima volta un nesso forte tra i valori morali condivisi da una società, e la sua capacità di sviluppo economico: L´etica protestante e lo spirito del capitalismo del tedesco Max Weber, uno dei fondatori della sociologia moderna.
Weber faceva risalire il successo dell´economia capitalista in America (concentrata inizialmente a Boston e negli Stati del New England) al ruolo del calvinismo. La dottrina religiosa della predestinazione spingeva i suoi seguaci a cercare nel successo economico i segni terreni del favore divino e della futura salvezza. D´altra parte il rigore puritano vietava all´imprenditore di godersi i suoi profitti spendendoli in lussi e capricci mondani. L´etica del lavoro calvinista innescava un circolo virtuoso di abnegazione, parsimonia e reinvestimento dei profitti nell´impresa. Uno scenario molto diverso da quello a cui assistiamo con gli scandali finanziari di oggi, e non a caso l´America è la prima a chiedersi dove sia finita l´etica protestante nella sua attuale classe dirigente. Una riflessione sull´opera di Weber un secolo dopo diventa obbligata, anche per chiedersi se una efficiente economia di mercato possa davvero sopravvivere senza valori. Ne parliamo in questa intervista con Guido Rossi, giurista e docente di filosofia del diritto.

Professor Rossi, L´etica protestante nasce anzitutto con un´ambizione di analisi storica. Weber quando ne pubblica i primi capitoli nel 1904 cerca di individuare quali siano le circostanze favorevoli allo sviluppo originario del capitalismo, e ritiene di individuarle nel sistema di valori e regole di comportamento di alcune comunità protestanti, in particolare quelle che si richiamano a Calvino. Proprio questo approccio storico, però, è quello che dalla prima pubblicazione di quell´opera ha suscitato più critiche, e sembra decisamente invecchiato.
«In effetti non ha resistito alla lettura critica di altri autori come Werner Sombart e Fernand Braudel. Sombart dimostrò che nello sviluppo capitalistico dell´Europa centrale un ruolo essenziale lo avevano svolto gli ebrei. Braudel fece giustamente risalire le prime forme di economia capitalista alle città mercantili dell´Italia pre-rinascimentale, come Genova e Firenze dove nacque la moderna attività bancaria: dunque all´interno di una cultura cattolica, non protestante».

Un altro francese, lo storico Jacques Le Goff, nel suo celebre saggio sul Purgatorio ha dimostrato che la Chiesa cattolica sul finire del Medioevo adottò un atteggiamento più duttile verso l´usura, quindi verso il profitto. Fino al commercio delle indulgenze e alla invenzione teologica del Purgatorio che, in un certo senso, monetizzando il perdono dei peccati, creano un incentivo al guadagno e una legittimazione dell´attività imprenditoriale...
«Oggi quindi dal punto di vista storico la tesi di Weber è defunta. Il capitalismo europeo nacque in casa nostra, sulle rive del Mediterraneo, non in Olanda o nel New England come credeva Weber. Inoltre la sua era una visione viziata inizialmente dall´eurocentrismo. Ai nostri occhi contemporanei, l´insistenza sul ruolo del calvinismo non regge di fronte a fenomeni storici come lo sviluppo capitalistico nel Giappone dei samurai, o nella Cina confuciana. Evidentemente altre fedi religiose, altri sistemi di valori possono creare un terreno egualmente fertile e favorevole all´attività d´impresa».

C´è un altro aspetto del saggio di Weber che ha resistito meglio alla prova del tempo, e che merita ancora oggi attenzione. L´etica protestante infatti nasce anche come confutazione del materialismo. Rifiuta cioè l´idea di Karl Marx che la religione e la cultura siano una "sovrastruttura" ideologica storicamente determinata dalle ragioni dell´economia, dai rapporti di classe, dallo stadio di sviluppo del capitale. Anzi, Weber inverte la relazione. Afferma la tesi che un certo sistema di valori (pre-capitalistico, come la religione) ha creato un habitat favorevole allo sviluppo del capitalismo.
«Questo rimane l´insegnamento più interessante di Weber: l´idea della centralità del sistema di credenze. Questo vale, tra l´altro, non solo per l´etica protestante ma anche per quella del samurai o del confucianesimo. C´è una base comune nelle società che si sono mostrate più adatte alla fioritura del capitalismo, ed è appunto l´esistenza di una forte etica del lavoro, un insieme di regole collettive accettate e rispettate che agevolano il meccanismo di accumulazione della ricchezza. Questo rappresenta uno stacco rispetto a sistemi precedenti, come il feudalesimo, che si erano dimostrati inadatti a creare sviluppo. Questo concetto di Weber ci interpella ancora oggi: l´importanza del ruolo dell´etica nell´economia di mercato».

L´etica protestante e lo spirito del capitalismo nello sfidare la visione marxista contiene anche un interessante paradosso: per prosperare, l´economia di mercato ha bisogno di conservare in vita un sistema di valori che ha origini pre-capitalistiche, cioè la religione. Anche Adam Smith, il primo vero teorico del capitalismo, era un filosofo morale prima di essere un economista. Dipinse il mercato come una "mano invisibile" che usa gli egoismi e le avidità individuali per finalizzarli a un bene comune; ma aveva anche in mente una società regolata dal senso morale.
«Smith era un conoscitore di Shakespeare e prese in prestito l´immagine della mano invisibile dal Macbeth: prima dell´uccisione di Banco, Lady Macbeth si appella alla notte con la sua mano "sanguinosa e invisibile". Smith, che aveva un forte senso dell´ironia, usò quella metafora per smontare l´egocentrismo e la mania di grandezza degli imprenditori. I capitalisti non devono illudersi di essere i protagonisti dell´economia, in realtà sono solo piccoli ingranaggi di un meccanismo molto più grande di loro: questo era uno dei significati della sua mano invisibile. L´altro significato è comune a Smith, De Mandeville, Montesquieu, Machiavelli: il vizio privato diventa pubblica virtù, la cupidigia del singolo può servire ad arricchire la società. Basta ricordare la Favola delle Api di De Mandeville. Montesquieu ne aveva dato una traduzione nella sfera politica quando aveva sostenuto che in una monarchia l´amore della gloria personale, il desiderio dell´onore, fa muovere tutto il corpo sociale, sicché ognuno credendo di perseguire i suoi interessi opera in realtà per il bene comune. Lo stesso Keynes diceva: grazie alla possibilità del guadagno, alcune pericolose tendenze degli uomini possono essere incanalate verso risultati più innocui. E aggiungeva: è meglio che un uomo eserciti, sfoghi la sua tirannia e crudeltà sul proprio conto in banca piuttosto che su suoi concittadini. Ma in questo senso la visione weberiana che esalta l´origine "mistica" del capitalismo finanziario oggi non riesce più a descrivere la realtà sociale che abbiamo sotto gli occhi. Le cronache degli scandali finanziari di questi giorni ci offrono uno spettacolo ben diverso dalla frugale etica calvinista degli imprenditori che Weber aveva davanti agli occhi. La cupidigia individuale, senza un´etica per disciplinarla, non è più una virtù ma un peccato disgregante e distruttivo. Nel dilagare del conflitto d´interessi si spezza l´equivalenza tra vizio privato e virtù sociale».

Nelle sue opere successive all´Etica protestante, per esempio nella sua Storia generale dell´economia, Weber è andato oltre nell´analisi delle pre-condizioni necessarie al buon funzionamento del capitalismo. Oltre alla morale, ha indicato tra gli ingredienti essenziali lo Stato di diritto, cioè un sistema di leggi certe e affidabili, una burocrazia statale efficiente per applicarle. Ha scritto che un sano capitalismo non può fiorire in società dove c´è troppa differenza tra "insider" e "outsider". Ha finito per rivedere perfino il ruolo esclusivo del protestantesimo. Nelle sue opere più tarde Weber insisteva meno sull´originalità calvinista, mentre sottolineava soprattutto l´importanza di una religione universalistica come origine della nozione della cittadinanza universale, quindi dell´eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Etica e senso delle regole, certezza del diritto e controllo sociale da parte di una magistratura forte: sono ricette che non hanno perso rilevanza.
«Il pensiero di Max Weber nell´Etica Protestante, è stato molto semplificato e poi divulgato come una formuletta vincente. È vero che le posizioni di Weber furono poi molto più articolate. Ritengo che gettarono le premesse verso un sistema dove il peso si sposta completamente sulla teoria della giustizia, che poi fa parte della morale. Fu, infatti, lo stesso Weber a sottolineare le asimmetrie informative del capitalismo e a chiarire che "appare ancor oggi all´osservatore spregiudicato che un basso salario ed un alto profitto stanno in correlazione e che tutto ciò che si paga di più per salario deve significare una corrispondente diminuzione del profitto". Questa frase sembra a me anticipare il principio di differenza, uno dei fondamenti della teoria della giustizia di John Rawls. L´abbandono dello Stato di diritto e delle sue istituzioni, a favore di un´autoregolamentazione che crede solo nelle virtù del mercato ed è scettica sulle regole favorisce, com´è stato ampiamente provato, anche il crimine organizzato che è appunto il lato oscuro dell´ordinamento del mercato creato solo dai privati. Ed è allora che la giustizia diventa la più pubblica e la più giuridica delle virtù. Fu lo stesso Max Weber infine a sottolineare che per un nuovo ordine mondiale è indispensabile un´etica della responsabilità. Lo fece in una conferenza agli studenti tenuta non molto prima di morire, a Monaco, nel cruento inverno del 1918-1919. Concludeva allora che l´etica della convinzione e l´etica della responabilità "si completano a vicenda e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la vocazione della politica". La tesi finale di Weber era che il capitalismo fosse un modo per evitare la totale rovina della società, rovina che allora era sempre incombente per lo sconquassato assetto interno e internazionale. Ma al capitalismo finanziario attuale si rimprovera, in una illuminante contraddizione, di essere invece egli stesso la causa della rovina della società».

martedì 6 aprile 2004


dalla Libreria Amore e Psiche

sono disponibili in libreria

la videocassetta n.16
delle
LEZIONI DI CHIETI 2002
del prof. MASSIMO FAGIOLI


(l’ultima del 2002)

e


il n. 2/2004 de
"IL SOGNO DELLA FARFALLA"

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a FIRENZE da
STRATAGEMMA


MAWIVIDEO DA CHIETI

su
MAWIVIDEO.IT

è disponibile la registrazione audio/video della 4ª lezione


del Prof. MASSIMO FAGIOLI

dall'Università di Chieti


il DVD di "a un millimetro dal cuore"
di Iole Natoli

è in vendita a Roma presso la
LIBRERIA AMORE E PSICHE

e a Firenze da
STRATAGEMMA


La cooperativa Il Gigante annuncia:
il DVD del film "A UN MILLIMETRO DAL CUORE"
di IOLE NATOLI
è in vendita anche da
MEL BOOKSTORE LIBRERIA

via Nazionale 252 / 255 Roma

questa libreria ha esposto un bel cartello con su scritto, MEL BOOKS CONSIGLIA, la copertina del dvd, la poesia, la sinossi del film e la recensione di Donatella Coccoli. E tutto ciò senza nessuna sollecitazione ma solo perchè alla direttrice è piaciuto maltissimo il corto, e addirittura pensa di organizzare anche una serata con proiezione

l'Occidente al saccheggio dei tesori di Bagdad

una segnalazione di P. Cancellieri

Il Messaggero Martedì 6 Aprile 2004
Iraq, il saccheggio dell'Occidente

Disastro archeologico
Per fermare le ruberie su commissione
chiesto l'embargo sulle acquisizioni
Gli archeologi contro saccheggio e commercio dei tesori iracheni
di PAOLO MATTHIAE


«GLI OGGETTI sottratti nel saccheggio del Museo di Bagdad sono stati circa 14.000, ma questa cifra è superata da quanto, ogni giorno, viene trafugato negli scavi clandestini nella sola Babilonia, tra Bagdad e Bassora, da circa un anno». Questa agghiacciante affermazione è stata pronunciata da uno dei più autorevoli archeologi americani, McGuire Gibson, professore ordinario di Archeologia del Vicino Oriente antico nel prestigioso Istituto Orientale dell’Università di Chicago, davanti ad un’attonita platea di colleghi di tutto il mondo all’Università Libera di Berlino, dove si è appena concluso il IV Congresso internazionale di archeologia del Vicino Oriente antico.
La sconvolgente comunicazione è stata accompagnata da una non meno impressionante documentazione fotografica aerea, compiuta per mezzo di elicotteri militari americani, in cui comparivano decine e decine di importanti centri archeologici della Babilonia, sforacchiati impietosamente per estensioni vastissime e senza pause: tra questi siti sono città antichissime e famosissime del mondo sumerico ed accadico, come Lagash, Umma, Badtibira, Zabalam, Isin. Come già era stato annunciato in maniera più frammentaria e meno sistematica da giornalisti americani ed inglesi che avevano fatto fotografie mentre decine di scavatori clandestini infuriavano sui luoghi più importanti dell’archeologia mesopotamica, centinaia di persone - è stato affermato con chiarezza - sono impegnate, su commissione di potenti organizzazioni, in questa sistematica devastazione e in questo inaudito saccheggio di un territorio vastissimo e ricchissimo di reperti storici di straordinario valore.
Se questa situazione dipende certo dalla pressoché totale mancanza di controllo del territorio da parte delle forze militari di occupazione anglo-americane, fatta eccezione per alcuni settori di pochi centri urbani maggiori, altre notizie ed altre immagini non sono state meno sconvolgenti. Così la desolante fotografia della sala del trono del palazzo di Sennacherib a Ninive, alla periferia di Mossul, con i resti dei celebri rilievi assiri, in parte ancora in posto, fatti a pezzi e sparsi sul pavimento; così la sconcertante notizia che un quartiere di comando delle forze britanniche si è installato sulle colline che ricoprono l’antica Kish, la città sede di ben quattro dinastie antichissime da cui sorse l’astro di Sargon di Accad; così anche l’immagine, incredibile, della facciata del Museo di Bagdad centrata, sopra il portale d’ingresso al centro del prospetto che rievoca una tipica architettura assira, da una cannonata di quegli stessi carri armati americani che non si mossero a protezione dei tesori del museo.
E’ stato difficile seguire i lavori di un congresso, peraltro fruttuosissimo, con oltre 500 partecipanti da più di 35 paesi, con la mente rivolta alle splendide scoperte siro-tedesche sulla cittadella di Aleppo e iraniane nella regione di Jiroft e con il cuore gonfio di angoscia per lo strazio senza limiti e senza fine del patrimonio storico della Mesopotamia. La tenacia degli archeologi di tutto il mondo per riscoprire, studiare e conservare, comunque, il patrimonio culturale della più antica umanità urbanizzata e l’esecrazione per lo scempio inimmaginabile della culla della civiltà nella terra dei due fiumi hanno fatto sì che, alla fine del Congresso, sia stata resa pubblica una “Dichiarazione di Berlino”.
In essa sono state riaffermate con vigore la necessaria e insostituibile autonomia delle autorità culturali di ogni Paese nella protezione del patrimonio culturale del proprio territorio secondo la legalità internazionale; l’improcrastinabile necessità della presenza dell’Unesco nel coordinare aiuti e collaborazioni urgenti, efficaci e consistenti che facciano fronte alle devastazioni in corso; la piena responsabilità delle potenze d’occupazione nella tutela e nella salvaguardia dei beni del patrimonio culturale nei territori di un Paese occupato secondo le convenzioni e le dichiarazioni dello stesso Unesco. Nel documento compare anche un forte appello affinché tutti i Paesi aderenti all’Onu, attraverso opportuni provvedimenti legislativi e operazioni di polizia, si impegnino non solo a bloccare l’entrata e l’acquisizione di qualunque oggetto di interesse archeologico e storico proveniente dal territorio iracheno, ma anche a restituirlo immediatamente e senza condizioni alla Repubblica dell’Iraq. Di fronte ad una situazione di una gravità senza precedenti per l’ampiezza, la sistematicità e l’intensità del fenomeno degli scavi clandestini e del saccheggio del patrimonio archeologico dell’umanità, che peraltro ha riscontri diffusi in molte regioni del pianeta a livelli comunque forti pur se di minore drammaticità, anche ciò che è sempre stato considerato un’irrealizzabile utopia appare oggi come una realistica, anche se difficilissima, necessità: il divieto formale, promulgato e sancito dalle organizzazioni internazionali, del commercio degli oggetti archeologici.
Se è vero, infatti, che l’umanità non può più tollerare, per interessi di mercato e cioè di profitto individuale, che beni di straordinaria importanza per la collettività universale siano dilapidati come fogli spietatamente strappati di un libro, che è il libro stesso della storia dell’umanità, questo scempio non può che essere arrestato attraverso una proibizione responsabile, esplicita ed unanime. E’ stata questa la proposta, tanto audace quanto temeraria, ma forse ormai assai meno utopistica di quanto possa parere, che ha avanzato con coraggio un archeologo tedesco, M. Mueller-Karpe, nel congresso berlinese, alla fine dei lavori. E’ certo un’utopia, ma, se non è già troppo tardi, forse il tempo è venuto che, come per l’ambiente naturale del pianeta, così per il patrimonio culturale, siano prese decisioni drastiche.