martedì 20 aprile 2004

un saggio sul veltro dantesco di Lamberto Vaghetti

Lamberto Vaghetti ha scritto un breve ed importante saggio sulla profezia del veltro di Dante. È quella che dà inizio all'opera, il veltro che verrà sconfiggerà la lupa, la belva di fronte alla quale il sommo poeta indietreggia.

Il saggio è stato pubblicato in questi giorni su Nuova Antologia ma, chi è interessato a leggerlo, può trovarlo sul sito: "Progetto Dante Alighieri" alla pagina:

www.classicitaliani.it/critica_htm/vaghetti_veltro_dantesco.htm

il prof. Federico Masini intervistato da Annalina Ferrante nella ricorrenza della rivolta di Tienanmen

ricevo da Annalina Ferrante:

«ho realizzato una breve intervista a Federico Masini sui fatti di Piazza Tienanmen pubblicato sul sito:
www.radioscrigno.rai.it

Sarà visibile fino a domani sulla home page. Dopo sarà in archivio e ci si dovrà linkare, sempre sulla home page, alla voce "almanacco".
Annalina (18.4.04)»

Per ascoltare questa intervista (che è in formato Real Player) occorre dunque collegarsi al sito sopra indicato e poi cliccare sul link in basso, oppure si può scaricare quel file sul proprio computer cliccando direttamente sull'indirizzo seguente:

http://www.radio.rai.it/radioscrigno/audio/alm218.ram


18 aprile 2004
L'almanacco di Radioscrigno
Nel 1989 i moti e la tragica repressione di piazza Tienanmen


Il 18 aprile 1989, al suono degli slogan "Abbasso la rivoluzione, viva la democrazia, viva la Cina" un pugno di studenti, diventati migliaia nel corso delle settimane, occupava piazza Tienanmen (Porta della Pace Celeste) nel cuore di Pechino.
In questa piazza si svolsero raduni importanti durante la rivoluzione culturale, quando Mao, con la divisa delle Guardie Rosse, organizzava parate che riunivano fino a un milione di persone. Nel 1976 un altro milione di persone riempì la piazza per portargli l'estremo saluto. Nel 1989 fu il teatro di un'occupazione pacifica, tragicamente abbattuta sette settimane dopo, sostenuta da richieste precise da parte degli occupanti: lotta alla corruzione, risanamento dell'economia e più voce nelle scelte politiche future del paese.
Era morto da pochissimo Hu Yaobang, l'ex segretario del partito licenziato per aver appoggiato le proteste studentesche del 1987, e fu Zhao Zyang, l'allora segretario del partito, a farsi sostenitore della protesta studentesca.
Il 20 maggio viene introdotta la legge marziale, mentre il "paladino" Zhao Zyang veniva progressivamente allontanato dai vertici del partito.
In questa data gli studenti iniziano lo sciopero della fame chiedendo un dialogo che sembrava lontanissimo. Le proteste continuano con la costruzione provocatoria di una statua della libertà in polistirolo ma il 28 maggio gran parte della protesta studentesca era rientrata sfinita da una attesa lunghissima e sfidata dal silenzio duro e pervicace delle autorità.
I primi giorni di giugno, infatti, scorrono in una quiete sinistra e surreale tanto che, per esempio, sui quotidiani italiani dal 1 al 3 giugno le notizie sugli avvenimenti cinesi sono commentate da brevi corrispondenze nelle pagine interne.
Ma il silenzio minacciava una reazione che si rivelò tragica. Infatti, alle prime ore del 4 giugno l'esercito cinese interviene con i carri armati e le mitragliatrici pesanti sulla folla radunata nella piazza, mentre per tutto il giorno e fino a not te inoltrata i manifestanti si oppongono con tutti i mezzi possibili all'avanzare nei mezzi corazzati: lanci di pietre, barricate, bottiglie molotov.
La protesta viene soppressa in un bagno di sangue. Il ricordo di Tienanmen viene cancellato d'autorità dalla storia ma non dai protagonisti, dai familiari delle vittime, dai testimoni.
Quattordici anni dopo, va riconosciuto che la Cina è l'unico paese del blocco comunista dell'est a sopravvivere e rimanere saldo e compatto, sia politicamente che economicamente, tra le macerie del muro di Berlino e il collasso e la frantumazione dell'impero sovietico. Ed è una nazione all'avanguardia che ha voluto e saputo conciliare, a leggere i commentatori più attenti, comunismo e capitalismo. Un'alchimia davvero strana e incomprensibile agli occhi occidentali.
Oggi, allora, come possiamo leggere quegli avvenimenti? A che prezzo questo paese dalla cultura millenaria ha raggiunto la sua stabilità? Si può "dimenticare" una tragedia, come mille nella storia, per sopravvivere e costruire un paese nuovo?
Lo abbiamo chiesto ad un testimone d'eccellenza di quei giorni: il Prof. Federico Masini, preside della Facoltà di Studi Orientali dell'Università La Sapienza di Roma.

A cura di Annalina Ferrante

su Repubblica:
mutamenti della percezione, una ex allieva contro Jacques Lacan

Repubblica 20.4.04
Polemiche/ una ex allieva si scaglia contro il maestro
Che impostore quel Lacan
l'autrice ha trascritto per anni i seminari
di FABIO GAMBARO


PARIGI. Gli idoli, si sa, sono destinati prima o poi a finire nella polvere. Jacques Lacan, il famoso psicanalista scomparso nel 1981 non ha fatto eccezione. Venerato in vita come un dei maggiori intellettuali francesi, dopo la morte è stato a più riprese aspramente criticato, anche se continua ad avere moltissimi seguaci in tutto il mondo. L´uomo infatti non era certo un tipo facile, come ha raccontato nella sua biografia Elisabeth Roudinesco. E come hanno confermato le numerose testimonianze che in tutti questi anni ne hanno rivelato i comportamenti autoritari e stravaganti. A questo coro di voci critiche, si aggiungono ora i ricordi di Maria Pierrakos, la stenotipista che dal 1967 al 1979 lo ha seguito nei suoi celebri seminari per trascriverne fedelmente le parole. Diventata in seguito psicanalista, oggi pubblica un libro in cui racconta di quei dodici anni passati accanto al fondatore dell´Ecole freudienne, proponendone un ritratto al vetriolo che certo non farà piacere ai suoi eredi.
L´opera, che s´intitola La "tapeuse de Lacan" (l´Harmattan, pagg. 79), dice già tutto nel sottotitolo: «Ricordi di una stenotipista arrabbiata, riflessioni di una psicanalista desolata». Per Maria Pierrakos, infatti, Lacan, era un uomo arrogante e distante che in dodici anni, pur vedendola tutte le settimane, non le ha mai rivolto la parola. L´ex stenotipista lo dipinge come «un caposcuola divorato da un narcisismo assoluto», un uomo «intelligentissimo e manipolatore che ha soggiogato gli intellettuali del suo tempo». Un intellettuale che ha cinicamente trasformato la teoria in uno strumento di potere, grazie soprattutto a un linguaggio oscuro, fatto di «formule sibilline e misteriose», che però erano «adorate dai suoi interpreti». E´ nato così quello che l´autrice chiama oggi il parlacan, il linguaggio di Lacan che «nel corso degli anni è diventato sempre più complicato, lambiccato e contorto, proprio come i sigari che fumava negli ultimi tempi». Ma quel linguaggio fatto di «paradossi efficaci e irrefutabili, d´ingiunzioni paradossali e paralizzanti, di dimostrazioni sapienti», secondo l´autrice era in fondo lo strumento di una vera e propria «impostura». Un termine violentemente negativo che neppure i più acerrimi nemici di Lacan avevano mai osato utilizzare.
Certo, l´ex stenotipista riconosce che il lavoro teorico di Lacan «ha permesso di risvegliare la psicanalisi dalla sua letargia», ma i comportamenti del maître à penser che ha imposto ai suoi ossequiosi discepoli «un linguaggio segreto e riti settari» avrebbero poi prodotto «un´assemblea di cloni, di tanti piccoli Lacan che imitano i suoi sospiri, il suo modo di vestirsi, cercando di parlare e di comportarsi come lui». Tutti provando a riprodurre il portamento altero dell´«homo lacanus, che in una mano tiene il manganello del paradosso e nell´altra la lancia della derisione, ben protetto sempre dalla sua sfolgorante corazza teorica». Quella di Maria Pierrakos, dunque, è una condanna senz´appello, che non mancherà di far discutere dentro e fuori gli ambienti della psicanalisi. A vent´anni dalla sua scomparsa, Lacan continua a dividere il mondo intellettuale d´oltralpe.

di questi tempi
patetici tentativi di riabilitazione della figura del Padre

Repubblica 20.4.04
UN VOLUME DI TESTIMONIANZE SMENTISCE LA SUA TRUCE IMMAGINE
QUANTE BUGIE SUL PADRE DI KAFKA
di ANDREA TARQUINI


BERLINO. Franz Kafka tramandò un´immagine unilaterale e tendenziosa di suo padre. Ne esagerò la severità, la durezza, i lati negativi. Lo dipinse come un capofamiglia autoritario e senza cuore, causa della sua infelicità. Hermann Kafka invece non era poi così cattivo. Era un borghese tranquillo, capace di slanci generosi. Il nuovo, inedito scorcio su Kafka senior ci viene da una testimonianza sulla famiglia dello scrittore, opera di un ex apprendista nel negozio che il padre del grande scrittore gestiva a Praga.
L´autore della testimonianza si chiamava Frantisek Basik. Il suo resoconto correda la nuova edizione delle lettere al padre di Franz Kafka, pubblicato da Wagenbach. Tutto cominciò in una bella mattina di settembre del 1892, quando due signore si presentarono nella bottega di Kafka senior. Una delle due, Frau Munk, proprietaria di un ufficio di collocamento, era accompagnata da un ragazzo mingherlino, che presentò a Hermann Kafka proponendoglielo come apprendista. «Ma è così piccolo, sparirà dietro il bancone», rispose Kafka senior. «Ha solo 14 anni, crescerà, non ne sarà deluso», replicò Frau Munk. E Kafka senior ridendo bonario assunse Frantisek seduta stante.
«Il signor Kafka era severo, ma sapeva anche mostrarsi generoso con noi dipendenti», scrisse l´allora apprendista. La cui testimonianza è giudicata tanto più attendibile perché scritta prima che Franz pubblicasse le sue durissime lettere al padre. «Era un uomo calmo, gioviale. Non alzava la voce, e - cosa allora rarissima - non picchiava mai né i figli né noi apprendisti. A Franz pagò la migliore istruzione. E al termine degli studi gli regalò un costoso viaggio d´istruzione».
Hermann Kafka e sua moglie Julie quasi cominciarono a voler bene a Frantisek. Gli concessero un aumento di stipendio. E in cambio di piccoli premi lo convinsero ad aiutare ogni giorno Franz allora undicenne nel difficile studio della lingua cèca. Giunsero persino a invitarlo in vacanza. La speranza di Kafka senior, afferma Volker Weidermann sulla Frankfurter Allgemeine, era che l´amicizia di Frantisek facesse uscire Franz dal suo isolamento introverso. Il sodalizio finì quando Frantisek spiegò a Franz, quindicenne, che sposarsi e far figli era un momento centrale della vita. Hermann e sua moglie Julie non gradirono questo timido e non richiesto accenno all´educazione sessuale. La carriera di apprendista di Frantisek al negozio dei Kafka finì d´improvviso, ma senza drammi né sfuriate.

Libertà 20.4.04
«Padri, dovete riprendere il potere»
Famoso pediatra avverte: madri troppo forti un pericolo per i figli
di Tullio Giannotti


Parigi - Le mamme hanno ormai tutto il potere in famiglia, gli uomini hanno perduto il loro vero ruolo e a soffrire di tutto questo sono i bambini, che non hanno più i punti di riferimento ideali. Preoccupato per i sempre più numerosi disturbi psichici dell'infanzia, Aldo Naouri, un pediatra caposcuola in Francia, pubblica un libro che fa subito discutere.
In ognuno dei 10 libri che in poco meno di 40 anni di carriera ha pubblicato, Aldo Naouri, punto di riferimento per tanti genitori francesi, ha lanciato almeno un sasso nello stagno. Stavolta il suo è un macigno, perchè inverte la tendenza degli ultimi decenni e lo espone al rischio di farsi sbranare dalle femministe. “Les Peres et les meres”, i padri e le madri, si intitola l'opera provocatoria che incita i genitori a non confondere più i ruoli. Va bene che lui lavi i piatti, ma poi deve essere uomo, capo, maschio, una figura completamente diversa da quella della donna. La situazione ideale, per Naouri, è che il bambino «scorga da sopra la spalla della mamma, un uomo. E che quest'uomo interessi terribilmente a sua madre». «Le madri sono potentissime oggi - spiega Naouri - la malattia più grave che possa colpire un essere umano, soprattutto maschio, è di essere straboccante di una madre del genere».
«Madri - lancia poi un appello - voi vi mettete al servizio dei vostri bambini, ma vi assicuro che in questo modo non rendete loro un buon servizio». In pratica, il pediatra e psicologo dell'infanzia ritiene che la tendenza della madre sia quella di controllare il figlio sempre di più, di farlo sentire al centro di ogni interesse della famiglia, in un ideale e insano proseguimento dell'allattamento: «Se stai attaccato a me hai la vita, se ti stacchi c'è la morte» è il messaggio subliminale che passa attraverso le moderni madri che tanto si preoccupano del benessere dei figli.
E i padri moderni, democratici, liberali? «Deve riprendersi il suo ruolo. Deve essere un individuo che si interpone fra la madre e il bambino. Non combatto lo strapotere delle madri - spiega - al contrario lo celebro. Ma a una condizione: che i padri non smettano di ricordare a queste madri che sono delle donne». Ricolmo di attenzioni il bambino cresce ignaro della realtà e dipendente dal piacere - spiega Naouri - «Sarà sempre tentato di prendere la strada più facile, mancherà di ambizione e di dinamismo». In sostanza, la madre deve avere a cuore il figlio ma deve soprattutto essere la donna del suo uomo. E il padre, consiglia Naouri, per il benessere del figlio può fare soprattutto una cosa: «Fare in modo che la madre dei suoi bambini sia per tutta la vita innamorata di lui». Fin dai primi mesi di vita, il consiglio è di allattare o dare pasti a ore fisse, così che insieme alla sazietà il piccolo sperimenti la frustrazione: «Così non avremo più bambini-tiranno o abominevoli adolescenti che non hanno risolto fin dall'infanzia un problema, quello che si possono vivere dei momenti senza piacere e non per questo si muore».

psicofarmaci ai bambini: un'inchiesta

ricevuto da Daniela Venanzi

Corriere della Sera 20.4.2004, pag. 18
PSICOFARMACI AI BIMBI, APERTA UN'INCHIESTA
Molti medici avrebbero ignorato l'indicazione di non prescriverli
Di Margherita De Bac


Il ministero della Salute quando deve raccomandare qualcosa di importante ai medici ricorre allo strumento della "Dear doctor letter". Il "caro dottore" viene aggiornato sulle ultime conoscenze nel mondo dei farmaci già in prontuario. Malgrado il tono amichevole la lettera ha caratteristiche vincolanti. Alla fine del 2003 il ministero ne ha scritta una sull'uso di uno psicofarmaco di largo consumo, la paroxetina, ricordando che non può essere dato ai bambini. Nuove indagini hanno infatti evidenziato che la sostanza può determinare l'aumento del rischio di suicidio.
I medici italiani però non si sono adeguati alla raccomandazione e hanno continuato a prescrivere. Almeno questo è il sospetto della Procura di Torino. E' stata aperta un'inchiesta sulla prescrizione di paroxetina (sei le specialità vendute nel nostro Paese) sotto i 18 anni. Il procuratore aggiunto, Raffaele Guariniello, ha chiesto alla Regione Piemonte l'elenco di tutte le ricette con antidepressivi rilasciate dai medici. Vuole accertarsi se tra i destinatari delle pillole della felicità ci sono anche bambini e adolescenti cui sono sconsigliate. L'ipotesi di accusa è "somministrazione di farmaci in modo pericoloso".
Guariniello ha inoltre scritto al ministero della Salute per sapere come intende regolarsi con altre molecole indicate per la cura della depressione, come citalopram, escitalopram, sertralina e fluvoxamina, che attualmente non sono sottoposte a nessun vincolo in Italia pur essendo specificata l'età minima di prescrizione sul foglietto illustrativo: superiore a 16 o 18 anni.
La decisione del nostro ministero sulla paroxetina è arrivata sulla scia di uguali provvedimenti in Usa e Gran Bretagna. Alcuni studi dimostrano un eccesso di effetti collaterali cosiddetti di "ostilità" e di rischio di suicidio. La quasi totalità degli antidepressivi non è stata sperimentata sui bambini, specialmente quelli di ultima generazione, come appunto gli SRRI, classe cui appartiene il farmaco nel mirino della procura.
"E' un'iniziativa opportuna, ma in queste situazioni è il ministero che dovrebbe muoversi attuando un monitoraggio continuo - osserva Maurizio Bonati, laboratorio materno infantile dell'Istituto Mario Negri -. Negli ultimi 4 anni l'uso e abuso di psicofarmaci è quintuplicato in adulti e minorenni. Ci si dimentica con facilità che sono sostanze da maneggiare con oculatezza. Invece molto spesso vengono dispensate in modo errato, senza indicazioni o per cicli troppo brevi". Secondo il Negri sono 25mila i bambini che prendono psicofarmaci. Nella popolazione generale, i suicidi dei minorenni sono 40, ma non si sa se qualche caso può esser ricollegato alle pillole sotto accusa.

La Stampa 20.4.04
SONO FARMACI A BASE DI PAROXETINA: POTREBBERO CAUSARE NEGLI ADOLESCENTI OSTILITA’ E TENDENZA AL SUICIDIO
«Antidepressivi pericolosi per i bambini»
La Procura indaga: vietato prescriverli ai minori di 18 anni
di Giorgio Ballario


Secondo uno studio inglese la loro somministrazione può provocare in bambini e adolescenti stati di ostilità, labilità emozionale e persino tendenza al suicidio. Sono i farmaci antidepressivi a base di Paroxetina, un principio attivo molto usato nei Paesi anglosassoni per curare patologie moderne come depressione, disturbi ossessivo-compulsivi, ansia e attacchi di panico. In farmacia si possono trovare dietro nomi commerciali come Seroxat Gsk, Eutimil Valda Lab Farm, Sereupin Abbott.
Ora questi particolari medicinali sono finiti nel mirino della Procura, che sta cercando di capire se negli ultimi mesi ci sia stato un abuso di prescrizioni e soprattutto se i prodotti a base di Paroxetina siano stati somministrati a pazienti con meno di 18 anni. Dall’estate dello scorso anno tali farmaci possono venir prescritti soltanto a pazienti maggiorenni: la Commissione Unica del Farmaco (Cuf) e il ministero della Salute hanno infatti stabilito che l’uso pediatrico della Paroxetina non dà ancora sufficienti garanzie, anzi in termini terapeutici il rapporto costi-benefici del suo uso sarebbe negativo.
«I risultati di “clinical trial” condotti su bambini e adolescenti per il trattamento della depressione in queste fasce d’età - si legge nella nota informativa del ministero indirizzata ai medici italiani - non hanno dimostrato l’efficacia della Paroxetina rispetto al placebo e hanno altresì evidenziato un maggior rischio di comportamenti autolesivi e di tentativi di suicidio».
Malgrado il provvedimento del ministero, però, sembra che l’uso di farmaci antidepressivi nella cura di bambini e ragazzini sia ancora troppo diffuso. Anche in Piemonte. Per questo motivo il procuratore aggiunto Raffaele Guariniello ha aperto un fascicolo per il reato di somministrazione di medicinali pericolosi per la salute pubblica e ha chiesto all’Assessorato regionale alla Sanità gli elenchi di tutte le prescrizioni di farmaci a base di Paroxetina. Per il momento l’inchiesta è ancora a carico di ignoti e non ci sono persone indagate.
Guariniello ha pure scritto al ministro della Salute Girolamo Sirchia per sapere che cosa si intenda fare con altri principi attivi della stessa famiglia (Citalopram, Escitalopram, Sertralina e Fluoxetina, quest’ultimo è il composto base del famoso Prozac), non ancora presi in considerazione dalle direttive ministeriali. Il Prozac, ad esempio, ha ottenuto dalla americana Food & Drug Administration l’autorizzazione anche per la cura dei pazienti minorenni, purché al di sopra dei 6 anni.
Secondo un recente studio dell’Istituto Mario Negri di Milano, pubblicato sul British Medical Journal, in Italia il ricorso ai farmaci antidepressivi da parte di adolescenti e persino di bambini è particolarmente cresciuto negli ultimi anni. Fra il 2000 e il 2002 è addirittura quintuplicato l’uso di medicinali inibitori della ricaptazione della serotonina (Ssri in gergo scientifico), vale a dire a base di Paroxetina, Fluoxetina e altri principi attivi dello stesso genere.
Se in Italia le statistiche sui bambini depressi non destano ancora troppo allarme (sarebbero intorno all’1-2 per mille), negli Stati Uniti il fenomeno dei ragazzi con problemi neuropsichiatrici rischia di diventare la nuova emergenza: per il Mental Health Institute soffrirebbero di forme depressive il 2,4 per cento dei bambini e l’8,3 per cento degli adolescenti. Fra il 1987 e il 1996 il ricorso ad antidepressivi per uso pediatrico è triplicato.

depressione in gravidanza

ricevuto da P. Cancellieri

Yahoo! Salute  lunedì 19 aprile 2004
Depressione in gravidanza: alta prevalenza
Il Pensiero Scientifico Editore


Il risultato della revisione di una serie di studi coinvolgenti più di 19000 donne suggerisce che la percentuale di depressioni durante la gravidanza è piuttosto alta, soprattutto tra il secondo e il terzo trimestre. È il risultato di uno studio dell’Università di Toronto di cui si parla su Obstetrics and Gynecology.
La percentuale di gestanti che soffre di depressione durante la gravidanza è intorno va dal 4 al 15 per cento: questa condizione aumenta il rischio della comparsa di una depressione post-natale. I disturbi dell’ansia e i sintomi di depressione (stanchezza, esagerata emotività, disturbi del sonno e cambiamenti d’appetito) si distinguono e si riconoscono con difficoltà dalla normale gamma d’esperienze e di adattamenti propri della gravidanza. Normalmente le donne provano ansia e a volte angoscia verso i normali disagi e fastidi di questo periodo, vivono con insicurezza l’esito della gravidanza e temono di non essere in grado di accudire il neonato. Solo un alto livello di preoccupazione può nuocere sia alla salute della madre che del bambino e causare gravi disturbi dell’umore e depressione post-natale. Un eccesso di stress può peggiorare condizioni psicologiche precedentemente difficili. E’ opportuno trattare adeguatamente i sintomi depressivi per evitare difficoltà di relazione con il partner , nel legame con il bambino e l’insorgenza di problemi psicologici a lungo termine.
Poichè mancano delle stime reali sulla prevalenza della depressione durante la gravidanza, il gruppo di ricerca ha preso in considerazione i risultati di 21 diversi studi sull’argomento per un totale di 19284 donne coinvolte. Dall’analisi dei dati è emerso che la depressione durante la gravidanza ha una prevalenza del 7,4 per cento nel primo trimestre, del 12,8 per cento nel secondo, del 12 per cento nel terzo. Come precisano gli stessi autori, il dato riguardante il primo trimestre dev’essere interpretato con cautela perchè molti studi riportano una difficoltà maggiore a diagnosticare la depressione in questo periodo piuttosto che in quelli successivi, cosa che potrebbe portare ad una sottostima del numero dei casi.
Alla luce di questi risultati, “sono necessari stime ancor più precise e studi più approfonditi non solo per valutare la conseguenze che la depressione può avere sul rapporto tra mamma e figlio”, precisa Thomas Einarson, coordinatore della ricerca, “ma anche sullo sviluppo di nuove strategie per affrontare il problema”.

Bibliografia. Bennett H, Einarson A, Taddio A et al. Prevalence of depression during pregnancy: systematica review. Obstet.Gynecol.2004; 103:698-709.

prassi del basaglismo

GAZZETTA DI PARMA 20.4.04
SOLIDARIETA'—Un seminario sull'attività del centro «Pietro Corsini»
«Così riabilitiamo i malati psichici»


Un tempo Leon Eisemberg disse: «La salute mentale è possibile, la malattia mentale è trattabile». Come? Attraverso persone che creino legami e non più legamenti. E' il sunto del seminario di studio «Dall'assistenza psichiatrica alla riabilitazione psico-sociale», organizzato dalla cooperativa sociale Domus, che si è svolto al dipartimento di filosofia della Facoltà di Lettere in occasione dell'inaugurazione ufficiale del residence «Pietro Corsini» a Pellegrino Parmense. Si tratta di una struttura condominiale, attiva dal 2002, inserita in un Centro polifunzionale e articolata in sei mini-appartamenti che ospitano dodici coinquilini, ex-degenti dell'Ospedale psichiatrico di Colorno. Un appartamento esterno, inoltre, in locazione da privato, ospita altre due persone, seguite dall'équipe del Centro. «Il lavoro si svolge attraverso Progetti riabilitativi individualizzati insistendo su tre aree: habitat, lavoro, socialità relazione; e tramite alcune iniziative collettive come il laboratorio teatrale condotto da Lenz Rifrazioni di Parma (attivo dal 1999), l'inserimento scolastico per mezzo del Centro di formazione permanente della Scuola media statale (attivo dal 2000), gruppi di motricità e laboratori artigianali», spiega Roberta Lasagna, responsabile dell'area psichiatrica della Domus. L'esperienza di Pellegrino, la collaborazione solidale e affettuosa della sua gente, l'attivazione di sinergie tra le varie istanze sociali e culturali, i malati che possono vivere in una casa propria, ha proposto un momento di riflessione sulle politiche in psichiatria.
Dopo la ricostruzione della memoria del passaggio, dall'ospedale psichiatrico (manicomio di Colorno) alle comunità terapeutiche fino al residence «Corsini», presentata dalla ricercatrice in Scienze antropologiche Licia Gambarelli attraverso interviste narrative a persone che han vissuto quei momenti, c'è stato l'intervento di alcuni dei protagonisti stessi. Ora il manicomio, l'istituzione che segnava la differenza tra «follia» e «normalità», non esiste più, ma «quando sono arrivato io – ricorda Mario Tommasini -, nel 1965, all'ospedale psichiatrico di Colorno c'erano 1500 malati di cui 200 legati al letto con le camicie di forza, con soli 4 medici, invece di 30 e 170 infermieri, invece di 500». In una sorta di ritiro quasi autistico, i pazienti «vivevano» in gruppi di 50, internati in saloni spogli d'arredo, con i letti a 30 centimetri dal muro e camminavano attaccati alle pareti… per paura delle percosse.
Oggi i malati «respirano» nelle proprie case-libertà, stimolati a continui miglioramenti tesi a far riemergere quella persona alla quale per tutta la vita è stata negata la possibilità di «esserci»: grazie a una nuova formula che vuole più riabilitazione e meno psichiatria. Come? Anzitutto sono le istituzioni che bisogna riabilitare, solo poi, inizia l'intervento sul paziente: attraverso la conoscenza della sua storia personale pre e post-ospedaliera, programmi personalizzati, norme condivise che regolano la convivenza, reti di impegno civico, integrazione con l'ambiente circostante e quant'altro.

Storia, inediti
Chabod vs. Momigliano sull'interpretazione del rapporto fra fascismo e nazismo

Il Mattino 20.4.04
INEDITI/ Rovente carteggio tra il grande storico e Momigliano sull’interpretazione del rapporto tra nazismo e fascismo
di Titti Marrone


Questa è la storia del giallo di una busta di lettere a lungo cercata dagli studiosi e poi improvvisamente apparsa. Vi si racconta di un clamoroso litigio tra due grandi della storiografia italiana, Federico Chabod e Arnaldo Momigliano. Vi emerge una delle più virulente polemiche tra intellettuali del secolo scorso, di cui si conosceva l’eco ma non il reale contenuto, sull’interpretazione del rapporto tra fascismo e nazismo, sui tempi della «nazificazione» dell’Italia e sulla possibilità di decifrare il tutto con gli strumenti dell’idealismo.
La busta di lettere, su cui era stata vergata l’annotazione «affaire Chabod», è stata scovata dallo studioso Riccardo Di Donato in una borsa di pelle nella casa londinese del grande storico dell’antichità Arnaldo Momigliano. Non era destinata ad essere distrutta in mortem, cosa prescritta invece da Momigliano per molte sue carte, ma ad essere ritrovata a distanza di tempo e interpretata quando la tensione passionale fosse stata sufficientemente placata perché menti più sgombre riconsiderassero la materia del contendere. Ed è quanto avviene adesso, a ritrovamento compiuto: lo scambio di lettere tra Arnaldo Momigliano e uno dei maestri indiscussi della storiografia contemporanea, Federico Chabod, è stato oggetto di una sorta di «consulto» storico tra Di Donato e Gennaro Sasso, direttore dell’Istituto italiano per gli studi storici «Benedetto Croce», che le ha prese, per così dire, in custodia, le ha raccolte e commentate per «Il Mulino» nel volume Chabod-Momigliano, un carteggio del 1959 che sarà presentato giovedì alle 16 a palazzo Filomarino dallo stesso Sasso con Di Donato, Giuseppe Galasso e Andrea Giardina. Sasso racconta di aver faticato non poco per decifrare la grafia di Chabod, «perturbata come il suo animo mentre scriveva soprattutto la seconda epistola». Però aggiunge che ha potuto contare sull’aiuto di una vera esperta di grafie impossibili, Lidia Croce, che ha affinato la sua abilità sugli illeggibili manoscritti paterni.
Lo scambio epistolare tra Chabod e Momigliano del 1959 si svolse con veemenza tutt’altro che insolita tra intellettuali ma piuttosto rara nel pacato microcosmo racchiuso tra palazzo Filomarino, la «Rivista storica italiana», l’Enciclopedia Treccani e l’Accademia dei Lincei e fu stimolato da una richiesta nata all’interno di un rapporto di reciproca stima: la richiesta di Momigliano a Chabod, che conosceva dagli anni giovanili del comune lavoro alla Treccani, di un parere sul «necrologio» che aveva scritto in morte del filosofo Carlo Antoni. Momigliano aveva solo otto anni meno di Chabod, si rivolgeva al grande studioso in un rapporto percepito come alla pari e probabilmente non poteva immaginare quanto lo aspettava: una lettera di Chabod puntigliosissima, divisa in tre parti, che equivaleva a una vera e propria stroncatura del suo scritto, cui Momigliano rispose con veemenza quasi pari all’asprezza di Chabod. Il quale ribatté a sua volta, ancor più aspro.
In primo luogo, Chabod dissentiva da Momigliano per aver postulato un’influenza di Antoni su Croce e trovava fondamentalmente sminuito nel necrologio il ruolo di questi. «Però, in un certo senso, difendendo Antoni, Chabod difendeva se stesso e si sentiva attaccato dalle argomentazioni di Momigliano», dice Sasso. «All’epoca Chabod era infatti direttore del ”Croce”, dunque si sentiva custode di una tradizione umanistica che, a detta di Momigliano, non sarebbe stata sufficientemente avvertita nel cogliere la pericolosità di un certo momento storico».
Il dissenso più forte emerge dal tema adombrato dalle lettere che riportiamo qui accanto: Momigliano indicava già nel 1933-34 l’inizio di una «nazificazione dell’Italia», mentre per Chabod questo cominciò solo dopo le leggi razziali, nel 1938. La veemenza con cui Chabod criticò Momigliano definendo la sua interpretazione «uno sproposito» è così spiegata da Sasso: «Chabod non era mai stato fascista, ma aveva guardato con un blando interesse al primo periodo. Dunque, si sentì ferito nel vivo a quell’affermazione di Momigliano, peraltro complessivamente poco fondata sul piano storico, poiché non mi sembra si posa rintracciare un antisemitismo sistematico del fascismo prima delle leggi razziali».
L’eco della polemica giunse già allora a Sasso, Romeo, Arnaldi e De Caprariis, ma i suoi contenuti sono stati noti solo alla scoperta del carteggio. Sullo sfondo di essa, e al di sotto degli argomenti di Momigliano, si coglieva l’imminenza di una svolta: quella di un disagio di tipo illuminista nei confronti dell’idealismo crociano che presto si sarebbe manifestato, con più evidenza nel marxismo, in buona parte della cultura italiana.

Lettere sulla «nazificazione» dell’Italia

Lettera di Chabod a Momigliano del 5 novembre 1959:
«Caro Momigliano,
(fai) un errore di fatto: ”nel decennio che fu non solo di nazismo in Germania, ma di nazificazione dell’Italia”. Secondo te, dunque, ci sarebbe una nazificazione dell’Italia sin dal 1933 (...). Questo è uno sproposito, che altera tutta la storia italiana ed europea, salta a pié pari il primo periodo di ”urti” Mussolini-Hitler sino al ’35, e salta a pié pari le differenze, grosse assai, ancora degli anni ’35-’37 sino dopo la primavera del ’38.
Di nazificazione (per essere più precisi direi tentata nazificazione: è ingiusto infatti dimenticare che la politica razziale di Mussolini incontrò (...) ostilità quasi generale, di ciò si ebbe la prova concreta nei rapporti fra quasi tutti gli italiani non ebrei e gli ebrei».
Lettera di Momigliano a Chabod dell’11 novembre 1959:
«Caro Chabod,
la pressione da parte tedesca per permeare il fascismo di idee naziste cominciò nel 1933 o forse anche prima. Non so bene. Quando Ginzburg e compagni furono arrestati, già si accentuò la loro origine ebraica. L’ascesa di Interlandi-Tevere, Preziosi-Vita Italiana, l’alleanza Preziosi-Farinacci (Regime Fascista), l’uscita di Evola dalla «lunatic fringe», se ricordo bene, sono eventi anteriori al 1938. Soprattutto ricordo l’ansietà che tu, io, Cantimori etc. sentivamo per questa pressione. Avrei dovuto probabilmente scrivere ”progressiva” o ”tentata nazificazione”, ma in verità badavo al risultato del processo progressivo, e non temevo di essere frainteso».

beni culturali:
un'intervista di Simona Maggiorelli, parte di un suo dossier in edicola giovedì su Avvenimenti

Anticipiamo l'intervista al professor Salvatore Settis(*) che sarà pubblicata su Avvenimenti, sul numero in edicola da giovedì prossimo, ad apertura di un dossier che Simona Maggiorelli ha curato sul futuro dei beni culturali. Il 1 maggio infatti entrerà in vigore il nuovo codice Urbani che prevede molte innovazioni quanto meno assai discutibili.
L'intervista a Settis sarà seguita da alcune pagine che ricostruiranno l'inter della "Patrimonio spa" più uno zoom su palazzi anche importanti che pare si vogliano vendere a Roma e varie altre cose.


ALL'INCANTO
A maggio entra in vigore il nuovo codice dei beni culturali voluto da Urbani. Iniziano i saldi di fine Paese. Il nostro patrimonio ceduto al migliore, ma mica tanto, offerente
Salvatore Settis: "In 120 giorni le soprintendenze dovranno rispondere se un bene potrà essere venduto. Se tacciono è come se dicessero sì. Ma senza personale e con pochi fondi è difficile che riescano a fare il loro lavoro"
di Simona Maggiorelli


Il primo maggio entrerà in vigore il nuovo codice dei Beni culturali voluto dal ministro Urbani e tra pochi giorni inizieranno ad apparire sui giornali gli avvisi di vendita e di aste per la cessione di beni del patrimonio pubblico. In una previsione del Demanio, ancora approssimativa, si parla di oltre 15mila immobili. Le soprintendenze territoriali, già acciaccate da tagli e accorpamenti e, sotto organico, saranno intasate dal lavoro. Su di loro pende la spada di Damocle del silenzio-assenso. Ogni mancata risposta al Demanio verrà letta, così dice la legge, come un via libera alla vendita. Le associazioni ambientaliste, esperti e storici dell'arte denunciano, da più parti, il rischio di dismissioni selvagge. Qualche assaggio si è già avuto lo scorso dicembre con la cessione della Manifattura tabacchi di Firenze. L'ha decisa il ministro Tremonti per decreto, senza consultare il ministero dei Beni culturali. "Alla vigilia della sua entrata in vigore il nuovo codice destava parecchia preoccupazione - spiega Salvatore Settis, direttore della Normale di Pisa, uno dei cinque consulenti di Urbani per la tutela dei beni culturali e autore del polemico volume, Italia Spa - Assalto al patrimonio culturale -. Abbiamo temuto che per beni non si intendesse più " tutto ciò che ha un interesse culturale", ma soltanto ciò che ha "un interesse culturale particolarmente importante". Così si sarebbe potuto considerare importante il Colosseo e magari non una tomba sulla via Appia. Per fortuna il testo è stato corretto in più punti. Ma restano, ancora, diverse ombre".

Per esempio?
Il confine incerto fra le competenze dello Stato e quelle delle Regioni. Si è adottata una via molto fumosa: allo Stato spetta la tutela e alle Regioni la valorizzazione. Una distinzione senza capo né coda. Che non ha luogo in nessun paese al mondo. Ma bisogna anche dire che molto si deve alla modifica del Titolo V della Costituzione, di cui la responsabilità politica va al precedente governo. Il presidente della Consulta ha ammesso, di recente, che la metà del lavoro della Corte riguarda l'interpretazione di questo titolo, il che vuol dire che la riforma è stata fatta veramente con i piedi.

Perché si è scagliato contro la norma sul silenzio-assenso? Eppure Urbani dice che con questo meccanismo aumenteranno le tutele.
"Ma no. Questo è un meccanismo molto negativo inserito il gennaio scorso su indicazione del ministro dell'economia Tremonti. Un modo per favorire le vendite. Alle soprintendenze spetterà dire se un bene che il Demanio vuole vendere abbia un valore culturale oppure no. Ma se la soprintendenza non risponderà entro 120 giorni, il silenzio verrà interpretato come un assenso alla vendita".

Il nuovo codice ridisegna le soprintendenze. Che ruolo avranno?
"Il codice, di fatto, non stabilisce nulla in materia. Ma dà alle soprintendenze tantissimi compiti. Per rispondere entro i tempi stabiliti alle richieste di valutazione ci vorrebbe un adeguato personale. Invece le soprintendenze, da 20 anni a questa parte, stanno perdendo dipendenti. Nei cinque anni del centrosinistra sono state assunte circa 300 persone, a fronte di 3000 dipendenti che, nel frattempo, sono andati in pensione. Di questo passo la situazione diventerà ingestibile. Il ministro Urbani sta approntando un decreto che riordina tutta la materia delle soprintendenze. Ma ci sono aspetti che io trovo molto criticabili. Si continua a moltiplicare il numero delle posizioni di vertice, mentre diminuisce quello delle soprintendenze territoriali. Le posizioni di vertice erano quattro nel 1998. Con il ministro Melandri, sono diventate nove. E adesso sono 15. La tutela si fa nelle soprintendenze territoriali, si fa sul luogo stesso, non a Roma nei corridoi dei ministeri. Le posizioni di vertice hanno stipendi elevati, così si depauperano le finanze del ministero, mentre sul territorio ci saranno sempre meno persone".

Un quadro abbastanza fosco quello delle soprintendenze locali, stipendi bassi, pochi addetti, ridotti quasi a far volontariato...
"È così. Gli stipendi di chi lavora in soprintendenza non sono per nulla competitivi. E spesso si tratta di persone molto preparate. Se lavorassero in un museo americano, con le stesse mansioni, sarebbero pagati almeno 7 o 8 volte di più."

Il sistema americano in Italia viene spesso citato astrattamente. Lei che è stato responsabile del Getty di Los Angeles che ne pensa? È davvero un modello da inseguire?
"Conosco il sistema americano, gli ho dedicato sei anni della mia vita. Per certe cose mi piace, per altre no. Apprezzo, ad esempio, il rapporto che gli americani hanno con la loro Costituzione: prima di metterci le mani ci pensano su parecchio. Da noi, invece, la Carta è diventata come una sorta di leggina che si può cambiare a piacimento. Per quanto riguarda i musei in senso stretto, non credo siano un modello esportabile in Italia. Le condizioni sono completamente diverse. Il Metropolitan Museum o il Getty non hanno nulla a che fare con il territorio circostante. Si va al Metropolitan per vedere un Tiziano, ma quando si esce per le strade di New York non c'è niente che gli corrisponda. Non è così a Venezia".

Dunque?
"Il rapporto museo territorio da noi è un nesso stringente. Non è stata una scelta felice quella del ministro Melandri di creare i cosiddetti poli museali svincolati dal territorio. Non è mai stato così nella nostra storia. E poi i musei americani sono quasi tutti privati. E in Italia, per ingenuità, ma credo anche per disinformazione, quando si parla di gestione privata si pensa subito che il museo funzioni come una azienda e faccia profitti. Non è così".

Il Getty o il Moma come si reggono?
"Il Getty spende ogni anno 200-250 milioni di dollari e ne incassa circa 1000. Certamente non è la biglietteria che lo fa andare avanti. Mister IL Getty ha circa 7 miliardi di dollari investiti in borsa. Con gli utili che producono viene tenuto in vita il museo. Quando sento dire facciamo degli Uffizi una specie di Getty mi viene da ridere, perché gli Uffizi sono grandi almeno 30 o 40 volte il Getty Museum e non hanno fondi investiti o investibili".

I giornali economici dicono che nel 2003, su cinque milioni di imprese italiane, solo 571 hanno usufruito della norma delle erogazioni per i beni culturali. Tutti ignoranti o non ci sono gli strumenti adeguati?
"Ecco, come si fa a pensare di poter trasformare gli Uffizi o altri musei italiani in musei privati o retti da privati? E poi bisogna studiare la storia. In Europa, e in particolare in Italia, i musei nascono dallo Stato, prima dai sovrani poi dalla Repubblica, ed è lo Stato che ne assicura la vita perché sono dei servizi. L'America è troppo giovane per avere questo tipo di passato, fino al 1900 non c'era nessun museo importante. Da quella data in poi grandi mecenati hanno cercato di creare una grande rete dei musei, sostituendosi allo Stato. Insomma il modello americano da noi è un'assoluta impossibilità istituzionale ed economica e stupisce vederlo citato anche da persone che dovrebbero essere informate".

Se dovesse pensare a come rilanciare i musei italiani da dove partirebbe?
"Innanzitutto dalla ricomposizione di quel nesso museo-territorio di cui dicevamo. Parlando degli Uffizi, è assurdo che facciano capo al polo museale fiorentino, mentre Palazzo Vecchio e le chiese cento metri più in là rispondano ad altri. Bisognerebbe creare più semplicemente una soprintendenza “città di Firenze”, una “città di Roma” e così via. E fare in modo che godano di larga autonomia. Bisognerebbe in primo luogo incrementare il finanziamento pubblico e al tempo stesso incoraggiare le donazioni private mediante un sistema di defiscalizzazione totale. Tentando un circolo virtuoso fra i due. Puntando non solo sul grosso personaggio che regala dieci quadri, ma anche sul singolo cittadino che dà cento o mille euro".

Incoraggiare le donazioni ma non le speculazioni private?
"Quando si pensa a delle imprese private che entrano in un museo per guadagnarci, bisogna anche considerare che chi ci guadagna non incrementa i finanziamenti del museo".

E con le attuali situazioni d'impasse? Per restare in tema il corridoio vasariano a Firenze, con tutto ciò che contiene, è chiuso al pubblico e probabilmente lo resterà ancora a lungo, nonostante i buoni propositi.
"Ovviamente bisogna cercare un maggiore dinamismo. Il corridoio vasariano che è una delle cose più belle, non solo di Firenze, ma al mondo, dovrebbe essere riaperto. So che c'è un progetto. Per realizzarlo occorre più personale e trovare una gestione che non tratti i musei in maniera polverosa.

In questo quadro qual è il ruolo delle fondazioni? La trasformazione del Museo Egizio in fondazione ha suscitato parecchie polemiche.
"Le fondazioni, io credo, vadano viste una per una. La situazione del museo egizio così come si presenta oggi, non mi piace. Quello è un caso in cui ci sono ben due fondazioni bancarie. L'esordio credo sia stato di 70 milioni di euro fra tutte e due. Il tipo di marchingegno che è stato creato fa sì che la fondazione inghiotta il museo. È inaccettabile che ci sia un consiglio di amministrazione composto da 9 persone di cui uno solo rappresenta la struttura delle soprintendenza. Lo Stato, che dà due o tre miliardi di euro con tutti gli oggetti del museo, dovrebbe avere la maggior parte del consiglio di amministrazione. Invece si mette in minoranza. Ora uno Stato che si mortifica, si genuflette per 70 milioni di euro, a me non piace. Io credo in uno Stato forte che negozia con i privati. Sono anche per un ruolo molto propositivo dei privati, ma non così".

Allora cosa pensa del condono e della sua proroga?
"Lo considero una sciagura nazionale. È uno degli atti contraddittori che questo governo ha fatto, oltretutto dopo un mese o due che il ministro Urbani ha varato una legge sulla qualità architettonica. Non si può proteggere la qualità architettonica e insieme condonare qualsiasi orrore. Sono due concezioni completamente opposte. Il condono, fra l'altro, pare abbia prodotto un gettito inferiore a un quarto di quanto si attendeva. Non ho verificato questa cifra, ma al di là del possibile incasso penso sia un modo assai sbagliato di affrontare i problemi. Ne esce un discorsetto di questo genere: esistono delle regole, ma non importano più nulla se serve a fare cassa. Quando Craxi, nell'84, varò il primo condono, si disse che era una tantum. Da allora si è concesso altre due volte. Ormai tutti hanno la quasi certezza che ogni 5 o 6 anni ci sarà un condono e questo incoraggia gli abusivi.

(*) SALVATORE SETTIS: professore ordinario di storia dell'arte e archeologia classica, è direttore della Scuola Normale di Pisa. Dal 1994, per sei anni, è stato direttore del Getty Center Research Institute a Los Angeles e, l'anno scorso, è stato fra i cinque saggi a cui il ministro Urbani ha chiesto una consulenza sui temi della tutela. Fra i suoi tanti scritti, i saggi su Giorgione, sulla colonna Traina e sull'evoluzione del canone della pittura, fra sfumato e disegno, fra '400 e '500. Nel 2002 ha pubblicato il pamphlet Italia Spa, assalto ai beni culturali e, sempre per Einaudi, è appena uscito il suo Futuro del classico.

lunedì 19 aprile 2004

LE LEZIONI DI VENERDÌ 16 E SABATO 17
ALL'UNIVERSITÀ DI CHIETI

sul sito di

MAWIVIDEO.IT

sono disponibili


Le lezioni di

Venerdì 16 aprile 2004

- prof. Andrea Masini
- prof.ssa Francesca Fagioli

e quelle di

Sabato 17 aprile 2004

- prof. Andrea Masini
- prof. Massimo Fagioli

quest'ultima soltanto NON scaricabile
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un commento di Franca Nardi su Repubblica

Repubblica 16.4.04
La voce inascoltata delle passioni atee
di Franca Nardi

franca.nardi@esteri.it


A proposito di noi atei, continuamente annullati dai media, banditi, resi inesistenti. Qual è il minimo di presenza per essere considerati? Il 4 per cento come per le elezioni? Anche se non urliamo né utilizziamo provocazioni volgari, nonostante le varie "passion" che fanno scalpore, le diatribe sul crocifisso o sul velo che movimentano province nazionali o internazionali, esiste un discreto numero di persone che è interessata ad avere un telegiornale laico e rifugge temi spacciati come culturali, vertenti su misteri trascendenti o extraterrestri.

il commento è stato un poco tagliato dalla redazione di Repubblica. Il testo originale era il seguente:
Vorrei unirmi “con passione” alla voce di Michele Serra, per parlare di “noi” atei, della nostra esclusione, dell‘impossibile intervento su qualsiasi tema che non ci prevede, di un pubblico che seppur minoritario (ma bisognerebbe contarsi per saperlo!) viene continuamento annullato dai media, bandito, reso inesistente. Qual’è il minimo di presenza per essere considerati? E’ il 4% come per le elezioni dei partiti? Sono convinta che siamo superiori per numero a tale percentuale, anche se non urliamo né utilizziamo provocazioni volgari ed insolenti. Sarebbe interessante aprire un forum sulla questione: sono certa che nonostante le varie “passion” che fanno scalpore, le diatribe sul crocifisso o sul velo, che movimentano provincie nazionali o internazionali, esiste un discreto numero di persone che è interessata ad avere un telegiornale laico, che rifugge temi spacciati come culturali vertenti su misteri trascendenti o extraterrestri, che trova antidemocratica la regalia della sinistra di professori e soldi alla scuola cattolica, ecc. ecc.
Franca Nardi

il prof. Antonino Zichichi, una mail ricevuta

18.4.04, da Pietro Curto

«volevo segnalare delle affermazioni deliranti ascoltate stamattina in TV dall‘esimio scienziato Antonino Zichichi, il quale la domenica mattina, all‘interno del programma di intrattenimento di RAIDUE “In famiglia” condotto da Tiberio Timperi e Adriana Volpe, conduce uno spazio di circa un quarto d‘ora nel corso del quale risponde a domande poste da studenti sui più svariati argomenti scientifici (principalmente di fisica). Egli ha prima affermato che il cervello continua a lavorare anche durante il sonno, continuando a cercare di risolvere i problemi lasciati insoluti durante la veglia (riferendosi esclusivamente a problemi pratici, concreti, tipo lavorativi o scientifici), e ci riesce molto meglio che di giorno, tant’è che spesso, dopo essere andati a dormire con dei problemi in sospeso, il mattino dopo al risveglio, quasi magicamente : “Idea!”. Quindi, per questi motivi, non bisogna turbare assolutamente il sonno di una persona che è andata a dormire concentrata sulla risoluzione di un qualche grattacapo. Dopo tali importanti affermazioni scientifiche, una studentessa gli ha chiesto la sua opinione sui sogni: “I sogni sono solo delle inutili fantasie notturne, roba che non serve assolutamente a nulla”. A quel punto ... ho cambiato canale.»

attualità di Heidegger

Repubblica 19.4.04
HEIDEGGER E I "NEO-CON"
Nelle idee del filosofo singolari sintonie con tesi oggi di moda
l'eterno dibattito sull'adesione al nazismo
la tentazione di lasciare il segno in politica
di ANTONIO GNOLI


NAPOLI. La letteratura heideggeriana - quella potente macchina editoriale che si nutre di testi e pensieri di uno dei maestri più autorevoli (ma anche più discussi) del secolo scorso - non conosce pause né ripensamenti. Molto di quello che in un passato più o meno recente si immaginava avrebbe resistito all´usura del tempo è tramontato. Autori sui quali avremmo scommesso circa la loro capacità di sopravvivere sono inesorabilmente usciti di scena. Qualcuno ha ancora sentore di un Lukàcs, di un Marcuse, di un Sartre? Sarebbe difficile poterlo sostenere. E invece l´ometto dagli occhi arguti e baffi sottili è ancora qui: con la sua capanna, il suo gergo, i suoi libri, i suoi officianti.
È stato rilevato che Heidegger è il filosofo contemporaneo i cui libri hanno avuto e continuano ad avere la più ampia circolazione nel mondo. È anche quello a cui sono stati dedicati il più alto numero di convegni. L´ultimo inizierà stamane all´Università degli studi di Napoli "Federico II". Per tre giorni, nell´aula Altiero Spinelli della facoltà di Scienze politiche, studiosi provenienti da tutto il mondo si confronteranno sul suo pensiero e le prospettive in qualche modo insite nella sua filosofia. "Heidegger a Marburg", questo è il titolo del convegno, vedrà la presenza di specialisti italiani come Mazzarella, Vitiello, Esposito e stranieri quali Courtine, Strube, Kisiel, von Hermann. Il numero dei partecipanti è talmente alto che rinunciamo a elencarli tutti.
Il periodo passato a Marburg, come racconta Franco Volpi qui accanto, è stato per Heidegger filosoficamente straordinario. Se non altro per aver incubato e dato alla luce uno dei grandi capolavori della filosofia del Novecento: Essere e tempo. Anche i non heideggeriani riconoscono a quel testo virtù speculative non indifferenti. C´è l´annosa questione se Essere e tempo sia la prima parte di un discorso filosofico più ambizioso che Heidegger porterà a termine molti anni dopo. Problema di indubbia forza speculativa, ma che rischia di appassionare soprattutto gli specialisti.
C´è un aspetto invece che ha attratto un pubblico più vasto e sul quale gli studiosi si sono ferocemente divisi: si tratta della adesione del filosofo al nazismo. Un´infinità di parole sono state pronunciate per analizzare, capire, condannare o smussare il senso di quella scelta.
Qualcuno ricorderà. Era il 1933. Il nazismo va al potere. Heidegger, che non è insensibile al nuovo corso politico, decide, come rettore appena eletto all´Università di Heidelberg, di pronunciare il discorso su L´autoaffermazione dell´università tedesca (è un testo che oggi si può acquistare nelle edizioni Il Melangolo, con una nota molto puntuale di Carlo Angelino, che lo ha curato).
Provate a rileggerlo oggi. Fa una strana impressione. Dirò fra un momento perché. Prima però fermiamoci su questa enorme pantomima se Heidegger è stato e fino a che punto nazista. E se perfino la sua filosofia ne porti per così dire il segno. La questione, per le sue implicazioni anche drammatiche, ha diviso la comunità filosofica. E sarà difficile, riteniamo, giungere a un verdetto unanime. Gli estremi della vicenda, che coinvolge marcate ideologie e feroci totalitarismi, oscillano tra due modelli. Quello da un lato dello studioso cileno Victor Farias che in una documentata e faziosa ricostruzione ha messo sotto accusa il filosofo; e dall´altro François Fédier, l´interprete francese che ha letto lo Heidegger politico con esibita indulgenza. Dov´è la verità, direte. Non c´è verità che i testi non possano smentire o approvare. E qualunque sia l´esito di questa incerta contesa, rimane il fatto che Heidegger è il Novecento. È quell´immenso sortilegio filosofico che ha incantato, stregato, ipnotizzato le anime che lo hanno attraversato. Non tutte ovviamente si sono lasciate sedurre dal suo pensiero. Se guardassimo al modo in cui certi filosofi analitici hanno ridotto a fumoso gioco concettuale il suo linguaggio - come se Heidegger fosse davvero l´ultimo dei mistagoghi - avremmo più o meno chiara sotto gli occhi che quella che si è combattuta e si continua a combattere è una guerra tutt´altro che rituale.
Ci sono autori i cui pensieri producono effetti al di fuori del loro ristretto mondo speculativo in cui vengono formulati. A imporli su un territorio più vasto non è solo l´intelligenza, l´acume, l´innata capacità di essere concettualmente provocanti. Ma anche una sorta di curioso demone che hanno dentro e che li rende, loro malgrado, personaggi pubblici. Essi hanno parlato a una polis, a una città. Hanno aspirato ad andare oltre. Cercando in quell´oltre un rinnovato e ambizioso equilibrio tra filosofia e politica che la storia si è spesso incaricata di smentire.
Anche Heidegger ha avuto questa tentazione. La prolusione che lesse all´inizio dell´anno accademico 1933-34 è lì a mostraci quanto precaria fosse l´immagine del filosofo chiamato a giustificare i compiti della nuova politica. Ma se quel testo lo si sfronda dalle imbarazzanti affermazioni che parafrasano speranza ed entusiasmo per la politica del Führer, vi si può scorgere qualcosa di sorprendentemente vicino a certe tesi che oggi circolano.
L´autoaffermazione è forse il primo manifesto che a tratti ricorda l´analisi di un neo-conservatore. Certo un neocon sui generis, che matura le proprie idee politiche nella temperie illiberale degli anni Trenta, che ha una concezione del tramonto dell´Occidente diversa da quella che oggi viviamo. E tuttavia quell´appello alla potenza, il riferimento a Clausewitz, l´idea, tra le righe, che un conflitto sia esportabile qualora la propria identità è minacciata, ci suggeriscono un accostamento teorico che meriterebbe di essere approfondito.

Repubblica 19.4.04
Da oggi Un convegno a Napoli
Quegli anni straordinari a Marburgo
Il rapporto con il teologo Bultmann La tormentata relazione con Hannah Arendt
di FRANCO VOLPI


Marburgo, piccola città universitaria nel cuore della Germania, era agli inizi del Novecento la capitale del neokantismo. Vi insegnavano Hermann Cohen, Paul Natorp, poi Ernst Cassirer e Nicolai Hartmann. Nel 1923 vi giunse Heidegger, e la scena cambiò. Già a Friburgo il giovane assistente di Husserl si era conquistato la fama di astro nascente nel firmamento della filosofia tedesca. Benché da anni non avesse pubblicato più nulla, bastò il breve ma folgorante progetto di ricerca con cui si candidò a Marburgo, il cosiddetto Natorp-Bericht, perché la commissione lo preferisse agli altri candidati.
Heidegger rimase a Marburgo fino all´estate del 1928. Cinque intensi anni, che egli stesso definì «i più fecondi della mia vita». Oltre al dialogo con Natorp, alla rivalità con Hartmann, alle dispute sui Greci con l´antichista Paul Friedländer, il geniale filosofo attirò intorno a sé con le sue travolgenti lezioni un´impressionante schiera di allievi: Löwith, Gadamer, Hannah Arendt, Hans Jonas, e altri ancora. Ascoltarlo, ricordano unanimi, era come assistere a uno spettacolo della natura.
Ci fu poi la decisiva amicizia con il teologo protestante Rudolf Bultmann. Nell´esperienza protocristiana dell´esistenza Heidegger vedeva il paradigma per comprendere la vita umana nei suoi tratti genuini. L´incontro con Bultmann lo portò dare forma a tale programma nell´"analitica dell´esistenza" che si ritrova in Essere e tempo. Dal canto suo Bultmann, grazie all´incontro con Heidegger, concepì l´«interpretazione esistenziale» del Nuovo Testamento con cui ridiede vita all´esausta riflessione teologica del tempo.
Ci fu la torturante storia d´amore con Hannah Arendt. Una passione che irruppe nella vita di Heidegger scolvolgendolo nel profondo. Incontri clandestini di rara intensità («Hannah è l´unica che mi abbia veramente capito»), dolorose separazioni, ritrovamenti fugaci e laceranti si accavallarono senza che il filosofo della «decisione» e della «chiamata della coscienza» trovasse la forza per una scelta autentica. Il dramma si intuisce già nell´appassionante interpretazione del racconto biblico del peccato originale che egli presentò nel seminario di Bultmann in concomitanza con la relazione segreta.
C´è soprattutto l´impressionante serie di corsi universitari - in gran parte tradotti (Adelphi, Il melangolo, Mursia) - che consente di toccare con mano come attraverso un profondo scavo della tradizione occidentale, Aristotele e Kant su tutti, Heidegger giunse a concepire Essere e tempo, l´opera che cambiò non solo lo scenario marburghese, ma l´intera filosofia europea. Di questo fulminante capitolo nella storia della filosofia del Novecento discutono a Napoli da oggi al 21 i maggiori "heideggeristi", invitati dal Dipartimento di Filosofia dell´Università Federico II.

crisi del matrimonio, i dati

La Stampa 19.4.04
L’ISTITUZIONE MATRIMONIALE È IN CRISI NON SOLO IN OCCIDENTE, MA DIVORZIARE ALMENO NEL NOSTRO PAESE È UN’IMPRESA DAI COSTI PROIBITIVI
Ieri SPOSI
di Michele Ainis


DICEVA Oscar Wilde: «Il Libro della Vita inizia con l'immagine di un uomo e una donna in un giardino. Termina con l'Apocalisse». Sarà per questo che - secondo una ricerca Eurispes del 2003 - il matrimonio è il tipo di relazione sociale più esposta al delitto. Sarà per questo che in Francia 6 donne al mese vengono uccise dai mariti, che nel Regno Unito circa la metà delle donne assassinate cade per mano del suo partner, che in Giappone la violenza domestica costituisce la seconda causa di divorzio.
Ecco, il divorzio. Offre senza dubbio un'alternativa meno drammatica e cruenta rispetto alle pallottole, però purtroppo costa, e costa caro: tanto che ormai soltanto i ricchi se lo possono permettere. Quantomeno in Occidente, dato che in Cina si celebrano perfino divorzi per incompatibilità «metereologica» (è accaduto nel settembre 2003: la donna non sopportava il clima troppo caldo di Shanghai). Mentre in Kuwait o negli Emirati Arabi un uomo può rompere le nozze inviando alla moglie un Sms dove ripete per tre volte la formula prescritta nella Shari'a («io ti ripudio»), senza scomodare giudici e avvocati, e soprattutto senza pagarne la parcella. Non è un risparmio da poco: per fare un esempio, in Italia la tariffa per un divorzio giudiziale, quando i beni da dividere variano dai 105.000 ai 258.000 euro, viaggia da un minimo di 8.000 euro a un massimo di 17.000. Senza dire dei tribunali ecclesiastici, cui si rivolgono i fedeli per ottenere la dichiarazione di nullità del sacramento del matrimonio: qui le spese legali sono così alte che nel 2003, durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario, il vicario ha solennemente rampognato gli avvocati. Sarà per questo che aumentano i separati in casa, tanto che nel 2000 persino la Corte di cassazione ha dovuto arrendersi al fenomeno, estendendo a tali coppie lo status di quelle separate legalmente. D'altra parte un divorzio significa il raddoppio dell'affitto da pagare, doppie bollette, doppie spese domestiche, doppio arredamento per la casa; per il 55% delle coppie in crisi è un costo troppo alto, e allora tanto vale chiudere gli occhi, tirando avanti in stanze separate. Inoltre per l'uomo rompere il matrimonio equivale quasi sempre a rinunciare ai figli, nonché a una buona parte di quattrini: sempre in Italia, secondo un'indagine Istat del 2000, nell'86% dei casi i figli minorenni sono affidati esclusivamente alla madre, e 95 donne su 100 ricevono l'assegno alimentare dal proprio ex marito. Ma anche negli Usa l'84,1% dei bambini che vivono con un solo genitore sta in casa della madre, e lo stesso accade un po' in tutto il mondo occidentale.
Dove peraltro l'istituto coniugale è logorato da una crisi che parrebbe irreversibile. A Parigi naufraga un matrimonio su 2. Alla data del 2001, in Germania il numero di single aveva quasi raggiunto quello dei maritati. Del pari, negli Stati Uniti i single erano il 17,1% della popolazione nel 1980, sono diventati il 21,1% nel 2000. E perfino tra i settantenni esplodono i divorzi: il 10% delle coppie si lascia infatti dopo 40 o 50 anni di matrimonio. Per agevolare questa pratica, da ultimo vanno sviluppandosi i divorzi online, che in California vengono gestiti dai tribunali dello Stato, e possono costare 50 dollari appena. Contemporaneamente i fiori d'arancio diventano una festa sempre più rara (e più cara: in media 9.400 euro solo per il ricevimento). In Inghilterra nel 2000 sono stati celebrati 267.961 matrimoni, a fronte dei 331.150 avvenuti nel 1990. Anche in Italia nel 2001 i matrimoni hanno toccato il loro minimo storico: 260.904, ossia 20 mila in meno rispetto all'anno precedente; e in media un matrimonio su 3 entra in crisi già nel primo anno. Colpa d'una società che brucia in un attimo gli eventi non meno degli affetti, ma anche colpa di politiche assai poco sensibili alle necessità di chi ha famiglia, benché i cattolici siano largamente rappresentati in ogni schieramento. Tanto che aumentano le separazioni fittizie, stipulate al solo scopo di guadagnare punti in graduatoria per l'assegnazione di una casa popolare, o il posto negli asili pubblici, dove viene preferito chi ha il reddito più basso, e dunque i single, quando marito e moglie lavorano ambedue.
E a proposito di separazioni. Fino al 2002 in Italia hanno divorziato 764.698 coppie, da quando nel 1971 è stato introdotto l'istituto; ma quasi altrettante (562.855) si sono fermate al primo stadio, non hanno mai tradotto la loro separazione in un divorzio. E oltretutto la tendenza è in crescita. Le ragioni? Tante: per esempio la fede, o magari qualcuno sarà rimasto vedovo. Tuttavia la componente economica è forse quella principale: non tutti possono permettersi un secondo giro d'avvocati, dopo quelli già pagati per la separazione; molti temono un ritocco in su degli alimenti; con il divorzio inoltre viene meno il diritto alla pensione di reversibilità, quella che l'Inps versa al coniuge sopravvissuto. E oltretutto le regole non sono affatto chiare, sicché ogni ufficio giudiziario fa a suo modo, come risulta da un'inchiesta diffusa nel 2003 dall'Associazione nazionale magistrati. E così per esempio non c'è un sistema certo per provare la capacità patrimoniale del coniuge tenuto al versamento dell'assegno alimentare: il 48% dei tribunali si limita ad acquisire la dichiarazione dei redditi, ma il 93% se ne discosta allegramente. Anche sulla casa la confusione impera: il 72% degli uffici giudiziari la assegna al coniuge cui restano affidati i figli, ma c'è una minoranza neppure troppo piccola (il 28%) che la pensa all'opposto. Infine c'è la lotteria dei tempi, dato che il procedimento oscilla da 40 giorni a 4 anni, a seconda della città nella quale ha sede il tribunale. Quanto basta per rifarsi una vita e una famiglia, senza attendere la benedizione dello Stato.
Ecco perché in questo contesto (meno matrimoni, più separazioni, più divorzi) anche in Italia sono aumentate le unioni libere: nel 1998 l'Istat le ha stimate in 342.000 unità, ma in tre lustri (dal 1985 al 1999) gli italiani che hanno convissuto almeno una volta sono stati 3 milioni. Tuttavia a loro volta i conviventi hanno più doveri che diritti. Il 20 febbraio 1998 Rosa Gini, insegnante di matematica, e Maurizio Parton, ricercatore universitario, hanno costituito la prima coppia italiana iscritta nel registro delle unioni civili: nella fattispecie a Pisa, che al pari di Bologna, Firenze, Ferrara, nel 1997 aveva varato questa forma di riconoscimento per le coppie di fatto. Ma hanno subito scoperto a proprie spese quanto evanescente fosse la loro condizione: i registri non garantiscono la pensione di reversibilità, non danno titolo per fruire degli aiuti di Stato alle famiglie, non valgono per la successione ereditaria, non danno neppure il diritto d'assistere il compagno se ricoverato in ospedale. Per tutto questo, ci vuole il matrimonio; e tanto peggio per chi canta fuori dal coro. A meno che non abbia la ventura di vivere in Francia, dove una legge del 1999 ha varato il Pacs, il «patto civile di solidarietà»; senza però trovare troppi emuli in giro per il mondo.
E c'è poi il capitolo delle adozioni, senza dubbio quello più dolente. Chi vi ha a che fare sperimenta infatti la stessa sensazione che ciascuno prova dinanzi alle bancarelle d'un mercato, con l'unica differenza che nella fattispecie si commercia in carne umana. E naturalmente ogni bancarella pratica i suoi prezzi, al punto che la Commissione per le adozioni internazionali è stata costretta a fissare dei tetti massimi. Così, se per adottare un bambino dal Marocco si spendono 3.493 euro, un albanese ne costa 5.276, e 9.200 un minore proveniente dall'Honduras. Il paese più caro è tuttavia la Russia, dove il livello di spesa massimo è stato fissato in 9.500 euro; il più a buon mercato la Bielorussia, solo 1.900 euro. Anche i tempi per l'adozione non sono affatto brevi, dato che le liste d'attesa possono raggiungere i 3-4 anni. E di contro la richiesta aumenta. Se nel 1994 le domande di adozione nazionale erano state 7.669 e 6.007 quelle di adozione internazionale, nel 1999 le richieste sono divenute rispettivamente 10.102 e 7.352. Ma solo una minima parte viene poi in concreto soddisfatta: sempre nel 1999, il 10,2% in sede nazionale, il 29,6% all'estero. Inoltre la legge italiana (n. 149 del 2001) non è affatto generosa con le aspirazioni delle coppie di fatto; in compenso essa ha innalzato la differenza di età tra adottante e adottato, con la conseguenza che aspiranti genitori già nonni hanno fatto richiesta d'adozione.
Quale soluzione resta allora alle coppie che vogliono adottare un bambino e però non ci riescono? Se non è quasi mai possibile adottare un minore, ci si può sempre «far adottare». È infatti questa la trasformazione che ha subito il progetto Adopted di una artista tedesca, che da iniziativa artistica è diventata una vera e propria agenzia per le adozioni, da quando a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, sono state esposte le immagini di europei tristi e pallidi, nei loro appartamenti o in città. Da allora, circa 100 europei che soffrono di mancanza di legami familiari si sono fatti registrare, e 30 sono partiti per l'Africa. Sarà forse questo l'estremo rimedio per chi ha nostalgia di una famiglia?
micheleainis@tin.it

farmacologia in casi di depressione

PsichiatriaOnline.net Domenica 18 Aprile 2004, 19:17
Depressione resistente al trattamento farmacologico


L’efficacia della Mirtazapina un antidepressivo NaSSA (Noradrenergic and Specific Serotoninergic Antidepressant) è stata valutata nei pazienti con depressione che non rispondeva ad altri trattamenti farmacologici.
I Ricercatori della Division of Mood Disorder della University of British Columbia in Canada hanno analizzato le cartelle cliniche di 24 pazienti con disturbi depressivi maggiori.
Dopo trattamento con Mirtazapina (in media 36,7 mg/die) per 14,1 mesi il 38% (9/24) dei pazienti ha presentato un miglioramento dei sintomi.
Il 21% (5/24) ha sospeso l’assunzione della Mirtazapina a causa del presentarsi di effetti indesiderati, quali senso di stanchezza, aumento di peso e nausea.
Il 21% (5/24) ha assunto un altro antidepressivo oltre alla Mirtazapina.
Questo studio indica che un sottogruppo di pazienti con depressione resistente alla terapia può trarre beneficio dal trattamento con l’antidepressivo Mirtazapina.

domenica 18 aprile 2004

sfide tra giganti:
Emanuele Severino vs. Massimo Cacciari...

Corriere della Sera 18.4.04
ELZEVIRO Una risposta a Cacciari
Interrogativi aperti sull’orizzonte ultimo
di EMANUELE SEVERINO


Solo un pensatore di primo piano nella filosofia contemporanea, qual è Massimo Cacciari, può scrivere Della cosa ultima (pp. 554, 45), appena pubblicato da Adelphi. Un potente itinerarium mentis : non «soltanto» in Deum, ma anche e soprattutto ultra Deum - al di là di Dio, secondo la grande tradizione neoplatonica. Cacciari la mobilita e la rinnova con una lettura dove anche Anassimandro, Aristotele, Tommaso, Dante, Leopardi, Gentile si trovano uniti a Platone, Plotino, Proclo, Agostino, Eckhart, Cusano, Bruno, Schelling, Barth, Heidegger. Quasi seicento pagine di scrittura tersa e intensa, anche per l’andamento dialogico-epistolare, dove Cacciari riprende e approfondisce i temi del suo precedente saggio Dell’inizio e dove alla filosofia vien dato ciò che le spetta. Per me questo libro è mirabile indipendentemente dall’accordo-disaccordo col mio discorso filosofico. Nell’ultima frase dell’ultima pagina Cacciari scrive, riferendosi a me: «Il confronto ultimo di questo libro è con lui». Lo ringrazio veramente, sapendo che cosa stia dietro questa affermazione; ma insieme al piacere, quasi mi spiace che l’abbia scritta, perché qualcuno potrebbe pensare che la mia ammirazione per questo libro sia interessata. Per spingere ancora più lontano il sospetto, qui di seguito accennerò soltanto - inevitabilmente semplificando - ad alcuni degli interrogativi che queste pagine lasciano aperti rispetto al mio discorso filosofico e dei quali lo stesso Cacciari è peraltro ben consapevole.
Il gran principio del neoplatonismo dice che al di là della totalità degli enti, dunque al di là di Dio e della sua potenza creatrice, c’è l’Uno, il Semplice, l’In-finito, l’Inizio, la «cosa ultima». In questa direzione Heidegger afferma la «differenza ontologica» tra l’«Essere» (il Semplice) e l’«Ente». Ma, con il neoplatonismo, Cacciari continua a ribadire che l’Inizio non è il nihil absolutum , non è l’assolutamente nullo. E anche Heidegger nega decisamente che l’«Essere» sia il puro nulla.
Anni fa, discutendo con Gadamer a tavola, davanti a quello splendore di ente che è il Duomo Vecchio di Brescia, gli obiettai quanto segue. Lei, con il suo maestro Heidegger, esclude che l’«Essere» sia il puro nulla. D’altra parte lei esclude anche (con Heidegger e tutti gli altri) che un ente sia un puro nulla. Ma, allora, sia l’«Essere» sia l’«Ente» hanno questo in comune: di non essere un nulla assoluto. Il che vuol dire che l’«Ente» al di là del quale c’è l’«Essere», è Ente in senso ridotto, limitato: giacché Ente in senso pieno e autentico è tutto ciò che non è un nulla assoluto e che pertanto è l’orizzonte che include sia l’«Essere», sia l’«Ente».
Questa stessa obiezione ora rivolgo a Cacciari, a proposito dell’Inizio di cui egli parla, e a sua volta pretende stare al di là della totalità dell’Ente, escludendo nel contempo di essere un niente assoluto. L’orizzonte ultimo, dico, non è l’Inizio, ma è la dimensione che include sia quei non-niente che sono gli enti visibili e invisibili, sia quel non-niente che è l’«Inizio» - qualora lo si debba affermare.
Si tratta di vedere che cosa spinge ad affermarlo. E qui il discorso è arduo, perché, mi sembra, per Cacciari la verità contiene in sé l’innegabile, ma anche ciò che non è l’innegabile e che peraltro mostra qualcosa di più profondo. Ciò che nella verità eccede l’innegabile ed è il più profondo, cioè l’Inizio, è dunque negabile. Cacciari scrive che «si rivela, si palesa» «con necessità» e tuttavia «non è ulteriormente fondabile», «rimane "oscuro"». Egli intende dire che è il «Possibile», «ciò che in Dio non è Dio stesso», secondo l’espressione eckhartiana di Cusano.
Mi sembra (può darsi che m’inganni) che in questo libro ci sia la «volontà » di tener fermo il centro del mio discorso, cioè l’eternità di ogni ente, tuttavia oltrepassandola proprio per salvarla. Se così fosse, l’approdo al «Possibile» sarebbe la fine di ogni eternità - e Cacciari finirebbe forse, contro le proprie intenzioni, col ricondurre il neoplatonismo al tema centrale della filosofia contemporanea, cioè alla precarietà e contingenza di ogni cosa.
Se infatti l’Inizio non è un nulla assoluto, tuttavia per Cacciari, al seguito di Schelling, l’Inizio è il puro Possibile, perché innanzitutto sarebbe potuto rimanere un assoluto nulla. In questo modo - rilevo - ogni «eternità» garantita dal Possibile sarebbe sospesa sul baratro del nulla, sulla possibilità di essere rimasta un nulla. Ma che gli essenti siano nulla o possano esser nulla o sarebbero potuti rimanere nulla, questo è ciò che chiamo «essenza del nichilismo», «follia essenziale», «fede nella morte». Quest’ombra minaccia le splendide pagine di Cacciari sulla libertà, sul male, e quelle, ancora più ruggenti, sul «Paradiso».
Mi sembra che egli sia d’accordo con me quando parla della «morte della morte». Ma la «morte» che fa morire la morte non può essere l’annientamento di qualcosa, nemmeno della fede nella morte - della fede soltanto al cui interno vive la morte. Nemmeno «i cieli nuovi e la terra nuova» dell’Apocalisse possono essere la morte di quelli vecchi, cioè dei nostri, in cui noi qui ora viviamo.

libri:
Goethe e il Cenacolo di Leonardo

Corriere dlla Sera 18.4.04
Tradotto per la prima volta in italiano lo studio del sommo letterato che rese famosa in Europa l’opera di Leonardo
Goethe a Milano, «turista» stregato dal Cenacolo


Correva il 1788. Dopo aver assistito al carnevale romano, alle funzioni della Settimana Santa e aver visto all’Accademia di San Luca il cranio di Raffaello, il 23 aprile Goethe lascia la città eterna. Riparte verso Weimar, sostando a Firenze, Modena, Parma e Milano. Se ci fermassimo con lui per ascoltare i giudizi dati alla città, ne resteremmo delusi. Milano, in altre parole, non gli piacque. Il Duomo, ad esempio, lo giudicò «un’autentica assurdità», o meglio «una meschinità tutt’altro che finita». Per carità di patria non continuiamo, ma ci fu un’opera che lo stregò: il Cenacolo di Leonardo alle Grazie. Il sommo letterato ne scrisse a Carlo Augusto di Sassonia, sovrano e amico: «È una vera chiave di volta nei miei concetti artistici. È unico nel suo genere, non vi è nulla con il quale possa essere paragonato». E tali parole vanno aggiunte all’ammirazione per il «Trattato della pittura» del maestro di Vinci, che Goethe lesse avidamente nei precedenti mesi romani.
Tornato in Germania, ricordava a memoria i dettagli del Cenacolo. Il destino gli andò incontro nell’estate del 1817, allorché proprio Carlo Augusto di Sassonia si recò nel Lombardo-Veneto per una visita di Stato. Tra un inchino e un auspicio, Sua Altezza pensò di fare acquisti d’arte: come consulente fu prescelto il direttore del gabinetto numismatico di Brera, Gaetano Cattaneo, nativo di Busto Arsizio e zio del celebre Carlo. Egli consigliò al sovrano l’acquisto di parte dell’eredità di Giuseppe Bossi, segretario dell’Accademia di Brera (anche lui di Busto Arsizio), spentosi due anni prima. Fu ascoltato.
E qui c’è il nocciolo della storia. Bossi aveva ricevuto nel 1807, dal viceré Eugenio di Beauharnais, l’incarico di eseguire una copia del Cenacolo, destinata a far da modello a un mosaico che avrebbe tramandato il già compromesso capolavoro. Affinò le ricerche per la bisogna, raccogliendo tutte le fonti documentarie e cercando di ricostruire l’immagine originale della «Cena». Dall’affresco e dalle copie trasse immenso materiale, tra cui un’opera dedicata al dipinto, che apparve nel 1810 con il titolo «Del Cenacolo di Leonardo da Vinci Libri Quattro».
Con tale indicazione inizia appunto lo studio di Goethe dedicato a «Il Cenacolo di Leonardo», che ora finalmente vede la luce nella prima traduzione italiana di Claudio Groff. Il volumetto è pubblicato da Abscondita con un puntuale scritto di Marco Carminati (costa 11 euro). Goethe potè avere il tesoro di Bossi per rimeditare sull’adorato affresco e farlo conoscere a tutta Europa.
Carminati oggi può scrivere che i quattro libri di Bossi sono «costosissimi». Ha ragione. Aggiungiamo che il vizio della bibliofilia è pernicioso per le proprie tasche più del gioco e di (talune) donne. Non a caso Goethe li fece acquistare - già allora - da un capo di Stato.

libri:
«il più perfetto romanzo russo dopo Dostoevskij»

Corriere della Sera 18.4.04
RILEGGERE I CLASSICI
«Il demone meschino» è stato definito il più perfetto romanzo russo dopo Dostoevskij. Ecco i motivi della sua originalità
Sologùb seppe rappresentare in modo geniale una società senza grandezza


Il personaggio più inquietante creato da Kafka è forse Odradek, strana e repellente figura che non si capisce bene se sia un essere vivente o un marchingegno meccanico e aggrovigliato, che nella sua ambiguità contagia la vita stessa e la fa assomigliare a qualcosa di sordido e artificiale. Odradek ha un grande predecessore letterario, Nedotykonka, l’Inafferrabile, il mostriciattolo che divora e sconvolge come un roditore insinuatosi nel cervello, la mente e la fantasia di Peredònov, il protagonista del Demone meschino il capolavoro di Fëdor Sologùb uscito nel 1905 e verosimilmente ignoto a Kafka. Nato a Pietroburgo nel 1863 e formatosi nell’atmosfera culturale simbolista di quella straordinaria città, vicino alla rivoluzione del 1905 ma sostanzialmente estraneo alla realtà sovietica sorta dopo il 1917, Sologùb ha scritto altri romanzi e racconti, ma appartiene alla letteratura universale per un solo libro, Il demone meschino , in cui il suo artiglio satirico, il suo doloroso e talora anche perverso senso del male e la sua eccezionale capacità di fondere indissolubilmente precisione realistica e delirio visionario generano un’opera magistrale, definita da Mirskij «il più perfetto romanzo russo dopo Dostoevskij».
A differenza dalla brevissima parabola kafkiana, il libro di Sologùb è un romanzo che raffigura numerosi personaggi e ritrae genialmente una torpida e cupa provincia russa, quel mondo della vecchia Russia sonnolento e arretrato (anche se meno di quanto si creda) da cui è nata una grandissima letteratura, che ha interpretato come forse nessun’altra le sconvolgenti trasformazioni della storia contemporanea e dell’uomo, quella crepa, fra il modo di essere dei secoli o millenni precedenti e il nostro, che si è aperta tra fine Ottocento e primo Novecento e sta ancora allargandosi, attraversando come una grande e slabbrata ferita la mente e il cuore dell’individuo, dividendolo da se stesso.
Se Odradek è la figura di una realtà indecifrabile e minacciosa, l’Inafferrabile - nel romanzo grottesco ma anche realista di Sologùb - può essere visto anzitutto come una allucinazione di Peredònov, la proiezione della sua dilagante follia, che lo porta a ossessioni paranoiche e infine al più insensato delitto. La grandezza del «Demone meschino» non consiste tuttavia soltanto nella mirabile narrazione del delirio, prima contenuto e poi prorompente, che stravolge a poco a poco tutta la realtà e perfino la natura e che viene raccontato attraverso questa deformazione delle cose, che il lettore vede alterarsi sotto i suoi occhi, come se anch’egli le guardasse e le vivesse nel delirio.
La letteratura universale conosce molte altre grandiose rappresentazioni della follia e della sua incontenibile distorsione del mondo. Ma Perodònov non è Aiace né re Lear o la Clarisse di Musil; non è una creatura la cui umanità sia travolta e disgregata dalla follia, continuando a palpitare dolorosamente pure nella propria disgregazione anche violenta o criminosa. L’anima che, nel romanzo di Sologùb, precipita nel vortice della paranoia, è un’anima radicalmente priva di umanità; una personalità che sembra costituita soltanto da meschinità, malignità, bassezza. Anche l’Inafferrabile che tormenta e incalza il protagonista non ha alcuna grandezza infera di dèmone né la dignità sia pur straziata e sfigurata della pazzia; assomiglia più a un lurido e guizzante animale del sottosuolo che a un principe del male o del dolore. Come Odradek ha qualcosa di ributtante.
Nel Demone meschino Sologùb affronta - e supera magistralmente - una delle più grandi difficoltà dell’arte, la rappresentazione dell’assoluta negatività, di un buio radicale e di una raggelante crudeltà della vita. Apparentemente, la letteratura pullula di raffigurazioni o celebrazioni del male; non si contano i libri che narrano e talora esaltano la trasgressione, la violenza, l’assassinio, l’orgia di sangue e di sesso, Jack lo Squartatore, le più svariate perversioni sadiche. Molto spesso si tratta, malgrado le intenzioni magari luciferine degli autori, di pagine sentimentali ed edificanti: nel gesto più malvagio lo scrittore fa balenare una nobile ancorché sviata ansia di redenzione, nella trasgressione più efferata una sete di libertà, nella violenza una paradossale ricerca d’amore o quanto meno un’espressione di dolore o una rivendicazione di giustizia. Molti che si credono o si atteggiano ad apologeti del male sono invece predicatori del bene; nel delinquente di cui magari magnificano il delitto c’è, iniquamente violentata e spinta al crimine, la trepida e indifesa innocenza degli orfanelli perseguitati in tanti romanzi strappalacrime ottocenteschi.
Sologùb si confronta con una miseria più radicale, con una cattiveria oggettiva della vita che sembra aver prosciugato dall’anima ogni linfa di umanità. Peredònov è un insegnante di ginnasio, che persegue minime e irreali promozioni sociali, perseguita i suoi allievi, si sente perseguitato da tutti e in parte lo è realmente, tra le insidie della gretta società cittadina, i raggiri della sua donna per farsi sposare, le beffe malvagie di cui è vittima; a sua volta egli si invischia in un delirio di persecuzioni che lo induce a pensieri e atti sempre più folli. Intorno a lui si muove, ritratto mirabilmente, un universo provinciale e rancoroso di indimenticabili personaggi - burocrati, ragazze vedove smaniose di sposarsi, direttori didattici, studenti, artigiani - che non patiscono l’angoscia degli incubi di Peredònov, ma ne condividono la meschinità.
Sologùb non si compiace di rappresentare spietatamente la crudeltà, una crudeltà che si annida nei gesti, nei dettagli e nei sentimenti quotidiani. Il mondo, per lui, è il regno del male, in cui gli uomini sono, come Peredònov, vittime e persecutori. Con intuizione di grande poeta e di grande moralista, Sologùb sa che il male non ha alcuna grandezza. Si possono ammirare alcune qualità torbidamente intrecciate al male, ma di per sé buone, come ad esempio il coraggio di lady Macbeth, ma non la malvagità di lady Macbeth. Il male, nel suo romanzo, è la meschinità, la volgarità che sfuma nella brutalità, un’indegna acredine. Impalpabile e irresistibile, il male s’infiltra nella personalità e ne diviene un elemento costitutivo, quasi fisico, come lo sporco sotto le unghie o un inquinamento respirato con l’aria.
Pur alterata da un crescente grottesco, la vicenda conserva una sua sinistra normalità, sicché il lettore si chiede, a un certo punto, se quella piccina abiezione non sia il volto della vita stessa; se anche ognuno di noi non stravolga, senza avvedersene, la realtà in un analogo, opaco delirio. Ci si accorge, con ripugnanza, che, in misure diverse, la miseria morale di Peredònov può abitare pure nel nostro cuore mediocre, ma la mente ricoperta da convenzioni decorose, come la veste di Varvàra - l’amante e poi, con l’inganno, moglie di Peredònov - copre il suo corpo sensuale e non irreprensibilmente pulito.
Sologùb non è un cinico indifferente. Appartiene a quella letteratura russa che Thomas Mann definiva «santa» perché protesa alle cose ultime, scandalizzata della sofferenza, pervasa da un’ansia di redenzione, volta a cogliere, nell’arte ma al di là dell’arte, il senso della vita. Pure Sologùb cerca la salvezza, anche se non la trova. La cerca nella bellezza, forse memore che il principe Myskin, l’idiota di Dostoevskij che è pure una figura del Cristo, aveva detto, nel romanzo, che la bellezza avrebbe salvato il mondo, anche se, quando gli avevano chiesto di specificare quale bellezza poteva essere redentrice, era rimasto in silenzio, come Gesù quando Pilato gli domanda cosa sia la verità. Pure Sologùb ama la bellezza dei gigli dei campi, che il Vangelo dice più splendida della gloria di Salomone; in pagine o passaggi di incantevole poesia egli evoca con struggente nostalgia la grazia e la giovinezza, la seduzione femminile, l’abbandono al fluire della vita. L'idillio fra la capricciosa e passionale Ljudmìla e il giovanissimo e immaturo Sàša è una storia affascinante, percorsa da una sensualità insieme fresca e torbida, acerba e già esperta di malizie, innocente e già segnata dalla crudeltà; una storia in cui anche la ricorrente ossessione erotica di Sologùb per il piede nudo femminile diventa un motivo di possente poesia. Questa bellezza e questa sensualità sono l’immagine di una armonia amorosa con la vita, come quella appassionatamente evocata, in una scena indimenticabile del romanzo, nel canto di Ljudmìla e delle sue sorelle, ma questa nostalgia si tramuta, nella stessa canzone, in una fitta di dolore per l’assenza e l’impossibilità della vita vera.
Siamo abituati ad amare i personaggi dei grandi romanzi. Nel Demone meschino si possono amare Sàša e Ljudmìla e qualche altra figura, ma è possibile amare Peredònov e altri come lui, che vilipendono ogni dignità e affetto, è possibile amare Odradek? Sologùb mette il lettore faccia a faccia con una negatività radicale, dinanzi alla quale ogni umanesimo, ogni fede nella dignitas hominis si ritraggono con disgusto. Certo, se dobbiamo avere compassione - e dunque un sentimento di partecipazione affettiva - per chi è mutilato da un grave handicap, dovremmo provarlo ancora di più per chi ha il cuore morto e abietto, perché non poter amare è ancora più doloroso che non poter vedere o camminare. Delle qualità umane, Peredònov ne ha una sola: la sofferenza. Lancinante e indecorosa, come è spesso la sofferenza quando travolge il controllo e le frontiere del povero Io. Forse solo le religioni - esperte di dolore anche scandaloso e indecente e povere di dignità umanistica - possono fare i conti con i demoni meschini, con queste tenebre tanto più dolorose quanto più squallide

psicoanalisi? meglio la "cooking therapy"!

La Gazzetta del Mezzogiorno 18.4.04
COOKING THERAPY / Passione prediletta dal 61%
Psicanalista addio, il manager
ora cura lo stress con la cucina


MILANO  Chi ha detto che la cucina di casa è il regno incontrastato della donna? Forse un tempo, ma oggi sono sempre di più gli uomini che si scoprono amanti dei fornelli. Questa passione fa proseliti soprattutto tra imprenditori, manager e professionisti in carriera. Per molti è una passione, ma per tantissimi la cucina è anche una vera terapia: il 61% degli interpellati in un sondaggio dice che stare ai fornelli aiuta a combattere ansia e stress, quasi meglio del lettino dell'analista. In America la chiamano «cooking therapy».
E' quanto emerge dallo studio condotto per il mensile Gentleman da Eta Meta Research su 110 uomini tra imprenditori, top manager e dirigenti di grandi aziende. Alla domanda «le capita mai di cimentarsi tra pentole e fornelli?», solo l'11% sostiene di non occuparsi mai della preparazione dei cibi, mentre ben il 46% dichiara che in occasioni particolari non disdegna affatto indossare il grembiule e darsi da fare in cucina.
Ma tra gli intervistati c'è anche chi (23%) sostiene che la cucina rappresenta un appuntamento fisso. Per quale motivo questi vip del mondo imprenditoriale si sono ritrovati la prima volta davanti al fornello? Un intervistato su tre non ha dubbi: il motivo principale va ricercato nella vera passione per il cucinare (31%). Quasi un intervistato su due (47%) quando è ai fornelli preferisce essere solo, mentre l'altra metà si divide fra chi considera il cucinare un momento da condividere con gli amici (19%), la famiglia (13%) e la partner (9%). La cucina? Un vero mix tra passione e terapia. Cimentarsi in prodezze culinarie è per moltissimi un vero divertimento (68%), ma non solo. Si può infatti parlare di una vera e propria cooking therapy, una tendenza già in atto negli Stati Uniti, dove alcuni chef organizzano dei corsi esclusivamente per manager sotto stress.

psicoanalisi? molto meglio la "psicoaromaterapia"

Il Mattino 18.4.04
Questione di naso Un profumo ti cambia la vita
di SANTA DI SALVO


Due gocce dietro l’orecchio, sui polsi, sulle caviglie. Nella nostra società preventivamente deodorata, il profumo è un rito personalissimo. Anzi lo era. La rivoluzione degli odori è cominciata da tempo e sta invadendo tutti i luoghi della vita pubblica e privata, un eroico furore aromatico che rimette al centro della nostra esistenza il senso più antico e in apparenza meno frequentato. È la rivincita del naso e dei suoi poteri immaginifici, quasi un ritorno alle epoche in cui ci si riconosceva e ci si identificava socialmente soprattutto attraverso le narici. Le sperimentazioni in corso sono davvero affascinanti, perchè partono dall’assunto (ovvio sì ma neanche tanto) che gli odori sono un linguaggio potentemente evocativo, visto che le nostre prime sensazioni nel grembo materno sono legate appunto a questo senso. Perciò gli odori possono farci sentire meglio o peggio, felici o depressi. E hanno su di noi un potere che neanche sappiamo riconoscere.
Un semplice esperimento condotto in uno studio dentistico ha dimostrato che le sedie cosparse di androsterone, sostanza che caratterizza il feromone maschile, sono state preferite dalle donne e accuratamente evitate dagli uomini. All’università di Milano si studiano, sui tracciati elettro-encefalografici, le variazioni delle onde cerebrali generate da profumi diversi. È a partire da queste ricerche che oggi si stanno sperimentando siti web profumati, come il dispositivo chiamato ISmell, che trasformerà le informazioni digitali in odori e li immetterà in pagine profumate i cui file olfattivi verranno scaricati sui computer con una procedura detta «ScentStream». I tecnici californiani che vi stanno lavorando parlano di una nuova industria e di una nuova forma d’arte.E sono già in corso proiezioni di film «aromatici», spettacoli teatrali come quelli tenutisi a Parigi in occasione di «Odorama», la rassegna multimediale organizzata dalla Fondazione Cartier, in cui danzatori «vestiti» di diversi aromi interagivano con gli spettatori per regalare loro emozioni diverse. Del resto, è ormai prassi comune «aromatizzare» luoghi pubblici come alcuni ambienti museali, i cinema, le hall degli alberghi di tendenza. A Roma l’Hotel Barocco sperimenta agrumi e lavande naturali nei suoi vari locali, create appositamente dal maestro profumiere Dubranà. Agli ospiti viene presentato addirittura il menu delle fragranze che possono essere diffuse a scelta nelle stanze. E ancora a Padova, in occasione del recente Salone dell’ambiente, l’azienda Gentilinidue ha realizzato con gli architetti Sergio Los e Natasha Pulitzer l’ufficio multisensoriale, dove giocano un ruolo fondamentale la cromoterapia e gli odori. Un sistema chiamato «Solid Fragrance Release» modula nel tempo il rilascio di sostanze. L’olfatto, stimolato dal profumo, diventa una specie di interruttore per gli altri sensi. Risultato: prestazioni migliori in creatività e in impegno.
Insomma, l’olfatto è diventato oggetto di business. Infatti si moltiplicano corsi e master universitari per chimici e «annusatori», mentre la psicoaromaterapia diventa una componente più complessa della scienza degli odori. Naturalmente, marcia ancora a fianco di queste nuove professioni quella classica di profumiere, con corsi old style che si tengono a Grasse, capitale mondiale dei profumi. E si spera che riesca ancora a lungo a convivere con le nuove tecnologie del «naso elettronico» inventato dall’università di Pisa, la macchina che analizza gli odori con dei sensori e serve anche a smascherare le frodi alimentari. Oggi un «naso» umano che valuta i cibi o sa creare nuove fragranze (una rarità di natura, professionisti strapagati dalle multinazionali cosmetiche) può specializzarsi con master di analisi sensoriale e con brevetti internazionali (all’Ispica di Parigi o all’Istituto Hassan al Cairo).E l’odore del corpo? Che sia un afrodisiaco è ormai accertato, e viceversa: attrazione e repulsione sono stati d’animo fortemente condizionati dal naso. Ma oltre ai feromoni, gli ormoni esterni al corpo che guidano accoppiamenti di uomini e animali, è molto meno noto l’effetto che hanno alcuni odori su chi ci sta vicino. A Chicago il neurologo Alan Hirsch ha scoperto che in una stanza chiusa un individuo che odora di lavanda attrae di più che un’altro inodore. E che - incredibile a dirsi - «indossare» alcune miscele di aromi e di spezie non solo ci rende più seducenti ma ci fa apparire più magri.A riprova del rinnovato interesse per gli odori, è copiosa la recente bibliografia sulla materia. Imperdibile il saggio dell’antropologa Annick Le Guérer I poteri dell’odore (Bollati Boringhieri); densi di informazioni quelli dello psicologo sperimentale Pietr Vroon Il seduttore segreto. Psicologia dell’olfatto (Editori Riuniti) e di Alessandro Gusman Antropologia dell’olfatto (Laterza). È ormai un classico Le officine dei sensi di Piero Camporesi (Garzanti).