Intervista a Daniele Capezzone segretario dei Radicali italiani
E ora non inventatevi un sarchiapone
Capezzone :"Firme da record, ma secondo round della battaglia sarà durissimo"
di Simona Maggiorelli
"Un risultato straordinario, storico: un milione di firme per abrogare la legge 40 e altre settecentomila su ognuno degli altri quattro quesiti parzialmente abrogativi", dice il segretario dei Radicali italiani, Daniele Capezzone, all’indomani della consegna delle firme, un’interminabile fila di scatoloni e scatoloni, in Cassazione. E dopo aver raggiunto il risultato di più di quattro milioni di firme? Be’ abbiamo vinto il primo tempo della partita, ma ora si prepara un secondo tempo durissimo: quattro o cinque mesi, in cui verrà messo in campo di tutto. Proveranno a cucinare una leggina truffa, a colpire il risultato alla Corte Costituzionale. Dobbiamo tenere alta l’attenzione dell’informazione. Perché se la gente sa, operazioni d’imbroglio non saranno possibili. Se cade il silenzio, ci sarà da aspettarsi di tutto. I tandem Bianconi-Tomassini per il centrodestra, e Giuliano Amato per il centrosinistra, si sono già mossi per tessiture parlamentari. In termini strettamente giuridici hanno poco da inventarsi. Tutte e cinque i quesiti sono validi, non so a che cosa possa aggrapparsi la Corte Costituzionale. E anche l’ipotesi di una leggina parlamentare, mi pare, abbia pochi spazi. Da cosa lo deduce? Basta scorrere i vari punti. Un milione di firme per l’abolizione totale: come fanno ad aggirarle? Dovrebbero fare una leggina che dice è abrogata la legge 40. E che questo parlamento faccia una cosa del genere, mi pare assai difficile. Altrettanto improbabile che accolga la fecondazione eterologa. E meno ancora che consenta la ricerca sulle cellule staminali embrionali o la cancellazione dell’articolo 1 che stabilisce i diritti dell’embrione. Al massimo possono cambiare le parti della legge che riguardano la salute della donna, cancellando l’obbligo d’impianto obbligatorio di embrioni malati. Sarebbe un punto su cinque. Dal punto di vista giuridico, il pesce della truffa naviga in poca acqua. Allora che rischio c’è? È soprattutto nel clima politico: se partono mobilitazioni del Polo, dell’Ulivo, di tutti, cani e gatti, diventa difficile. Da una parte l’ambiguità di alcuni leader del centrosinistra, con Prodi che dice “il referendum spaccherebbe il paese”. Dall’altra un centrodestra che blinda la discussione, con Giovanardi che invoca l’eugenetica e lancia anatemi verso chi fa ricerca. Come legge questa situazione? Il clima sembra quello del ‘73, ‘74, quando il Pci era terrorizzato dal referendum sul divorzio. Gli elettori, sia quelli di centrodestra che quelli di centrosinistra, sono entusiasti, mentre i leader sono terrorizzati. Secodno lei questa classe politica non rappresenta il paese? È certamente molto più indietro. Il paese è molto più maturo dei suoi rappresentanti. In trasmissioni come Porta a Porta saltano fuori esperti dell’ultimora, con tesi del tutto diverse da quelle accettate dalla comunità scientifica. In questi giorni ci si affanna a fare convegni per trovare mediazioni. Diano la parola ai cittadini. È una strana atmosfera: c’è chi si inventa di congelamenti di ootidi (l’ovocita fecondato allo stadio iniziale, ndr), c’è sempre un sarchiapone da inventarsi per tirar fuori dal cilindro chissà quale mediazione avventurosa. Facciano il piacere di dare la parola alla gente, che è matura e può decidere. Se fosse stato per questi politici e, anche per un certo tipo di “esperti”, non avremmo mai votato né sul divorzio, né sull’aborto, perché i cittadini sarebbero dei lunarelli da tenere sempre sotto tutela. La parola ai cittadini. Ma occorrerà monitorare anche il governo? Ci mancherebbe, occhi sempre aperti. Cosa sta facendo il ministro Sirchia? Abbiamo più volte denunciato i suoi comportamenti, le sue menzogne e le sue omissioni sulle possibilità di cura di malattie genetiche attraverso le tecniche di fecondazione assistita. Abbiamo denunciato il suo conflitto d’interessi quando ha assegnato fondi per la conservazione degli embrioni soprannumerari a un istituto a lui vicino. Altre novità vertamente verranno fuori. Prima o poi il ministro Sirchia dovrà risponderne. Abbiamo visto tanti ministri censurabili, ma come lui non se ne riportano. Questo milione di firme è anche una risposta a lui. Ma anche una risposta a chi non vuole uno Stato laico? Dai sondaggi Eurispes e Svg ma anche ai tavoli dove si raccoglievano le firme, è apparso evidente che con un minimo d’informazione, i cattolici firmano. Da quegli stessi sondaggi emergeva che quelli che vanno a messa almeno una volta a settimana, al 70 per cento sono favorevoli al referendum. Perché sanno distinguere fra l’opinione personale e una necessaria laicità delle leggi dello Stato. Del resto i cattolici italiani hanno votato anche per il divorzio. Finì 59 a 41. E sull’aborto, finì 80 a 20. Stavolta finirà 85 a 15, perché un conto è che il cattolico dica, io questa cosa personalmente non la farei, altra cosa è che impedisca ad altri di farla. Nel panorama internazionale della ricerca, l’Italia a che punto sta? Sta messa male, purtroppo. Alcune gravi perdite sono già avvenute nei mesi scorsi a causa dell’opera di Rocco Buttiglione: abbiamo già perso dei fondi europei che erano messi a disposizione degli stati che si impegnassero a fare ricerca sulle staminali. Buttiglione è un commissario contro la ricerca scientifica. L’Italia oggi è il fanalino di coda. Teniamo presente che sulla fecondazione assistita l’Italia era all’avanguardia con molti centri di eccellenza. Siamo già nella situazione in cui in Italia sono crollate le gravidanze; il 25 per cento delle coppie sterili, da quando c’è la legge 40 hanno provato ad andare all’estero dove gli vengono praticati prezzi maggiorati. I trattamenti che prima costavano duemila euro, ora agli italiani vengono messi seimila euro. Tutti gli altri paesi hanno leggi più civili della nostra. Inclusa la cattolicissima Spagna che prima con il centrodestra di Aznar e ora con il centrosinistra di Zapatero ha promosso leggi laiche. È nato un nuovo “turismo” dei diritti? Sì, e solo per chi può permetterselo. Senza contare che è anche difficile avere accesso alle informazioni, sapere dove andare a curarsi all’estero, dal momento che questa legge proibisce ai medici anche di dare consigli ai propri pazienti. Cose da medioevo. Cercasi nonne mamme Legge pasticcio, creerà situazioni assurde
una intervista a Cinzia Dato
di Simona Maggiorelli
"Un bel risultato. È importante che questo risveglio del paese si sia avuto nel caso di una legge così improponibile e che può essere sostenuta solo per una sorta di bendata codardia", dice la senatrice della Margherita Cinzia Dato del comitato promotore del Referendum. "Spero - aggiunge - che ora si apra un discorso vero e franco nel paese e che questo civilissimo movimento di massa della raccolta firme serva di lezione a una maggioranza che ha conculcato il dibattito, mortificato il ruolo del parlamento come confronto". Rischio di inciuci per evitare il referendum? Secondo la deputata ds Barbara Pollastrini "il paese dopo questo risultato non accetterebbe una mediazione al ribasso. A questo punto il referendum deve fare il suo percorso". "Anche perché - aggiunge Dato - fra i sostenitori di questa legge non ne trovi uno che non ammetta che va cambiata". Già, perché tutta la vicenda di questa brutta legge 40, nata paventando il cosiddetto far west delle nonne mamme (peraltro mai documentato) avrebbe davvero del grottesco se non fossero drammatiche le conseguenze per lo stop alla ricerca, per i diritti negati dei malati, e di chi, secondo Costituzione, chiede di poter fare figli sani. Una legge sghemba, una costruzione degna del più intricato Gadda, piena zeppa di contraddizioni, di assurdi. Basta passare in rassegna alcuni punti. Si dice che la legge serva ad arginare il supposto boom di nonne mamme. Bene, dal momento che ci sono più di 30mila embrioni congelati e la legge impone di restituirli se richiesti, cosa farebbe il ministro se, per esempio, tra 30 anni una signora settantacinquenne si presentasse da lui chiedendoli indietro? E poi: se si dice no alle nonne mamme, "per equità, allora, sterilizziamo tutti i signori che abbiano passato la sessantina perché non facciano più figli", propone ironicamente la senatrice Dato. E ancora: è proibita la fecondazione eterologa a chi è portatore di malattie genetiche? Non importa a questa maggioranza che con il ricorso alla eterologa si potrebbero debellare malattie genetiche? "Bene - provoca la senatrice della Margherita - allora se per essere genitori ci vuole la certezza della paternità biologica dovremmo sottoporci tutti quanti ai test per vedere se i nostri figli corrispondono davvero ai nostri mariti. Discorsi che non stanno né in cielo né il terra". E si potrebbe andare ancora avanti con la caccia all’assurdo. Basterebbe toccare il tema dell’aborto. Si dice che la legge 40 nasca come primo passo contro la 194. Così ammettono candidamente Sirchia e Andreotti. Del tutto incuranti delle opinioni del paese, ma anche senza contare che obbligando la donna a ricevere embrioni malati, nei fatti la spingono ad abortire. Racconta il ginecologo e docente dell’Università bolognese Carlo Flamigni: "Chiamato a consulto come componente del comitato di Bioteca, mi hanno spiegato che le linee guida promulgate a luglio non puniscono la donna che trasgredisce all’impianto. Secondo il ministro e la sua commissione sarebbe stato come dare un consiglio, fare una raccomandazione. Come se uno passasse col rosso e non gli venisse fatta una multa ma gli fosse solo detto di stare attento". Una storia, quella delle linee guida, tirata fuori dal ministro Sirchia per dare l’illusione di un’attenuazione dei divieti contenuti nella legge. E su cui resta ancora molto da raccontare, oltre alle clamorose dimissioni del presidente di commissione Cuccurullo, rettore dell’università di Chieti e ex consulente della Moratti di cui abbiamo detto nelle settimane scorse. "Il ministro Sirchia - racconta ancora Flamigni –ha chiamato nella commissione anche persone che poco o nulla avevano a che fare con la materia. Come due docenti di diritto romano: una signora che si fa vedere spesso al fianco del Papa nei suoi viaggi e un docente impegnato per la beatificazione dell’ex sindaco di Firenze, Giorgio La Pira. Ci domandavamo cosa stessero a fare in commissione - continua il professore - anche perché rallentavano il lavoro con continue obiezioni, spesso lo bloccavano".Come è andata a finire poi, è storia nota: le linee guida sono uscite con robusti rafforzativi ai divieti della legge ribadendo, il divieto di diagnosi genetiche preimpianto. " Uno dei punti più feroci e crudeli della legge", secondo Pollastrini. "perché colpisce il diritto alla salute dei cittadini che lo Stato avrebbe, invece, l’obbligo di difendere".
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
venerdì 8 ottobre 2004
continua il dibattito su "Liberazione"...
una segnalazione di Roberto Altamura
"Liberazione" 8 ottobre 2004
Le lettere
Cattolici e comunisti
premetto che non sono un settario, concordo sull'utilità di allearci con chiunque nella battaglia concreta contro le guerre imperialiste. Ma da questo a cominciare una più o meno sotterranea opera di "riabilitazione" (anche parziale) degli eredi dei carnefici non solo e non tanto dei vari Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Galileo Galilei, ma, per restare molto più vicino a noi, dei militanti antifascisti in Spagna nel '39, in Jugoslavia nel '41-'45, a Tall-al-Zaatar e in genere nel Libano tra gli anni '70 ed '80. Quindi, per favore, va bene non demonizzarli, ma nemmeno "santificarli", quali fossero "compagni di strada" nostri nella battaglia per un mondo più libero e giusto!
Due culture comunque diverse
Caro direttore,
nel dibattito in corso sul rapporto tra comunisti e cattolici un interrogativo di fondo cui cercare di rispondere è: il progresso umano, dalla metà dell'800 ad oggi ha smentito o confermato la critica marxiana della religione? A me pare che è proprio il progresso, inteso come aumento delle conoscenze e del livello di civilizzazione che, se non vogliamo usare assolutisticamente la parola "conferma", certo accredita seriamente tale critica:. Il primato della razionalità laica e scientifica è conquista di civiltà irrinunciabile ormai, insieme alla ridefinizione dell'umanesimo secondo concezioni introdotte proprio dal pensiero comunista: lo stesso stato italiano al suo livello più alto di stato di diritto si riconosce nei valori della laicità, della aconfessionalità, del pluralismo, della democrazia e può farlo perché a suo fondamento non pone soltanto la Costituzione, ma anche la revisione del Concordato con il Vaticano, correggendo quindi significativamente l'art. 7 della stessa Costituzione. Certo il dialogo con i settori validi del mondo cristiano va bene, ma come dialogo tra culture comunque diverse.
"Liberazione" 8 ottobre 2004
Le lettere
Cattolici e comunisti
Il Cristianesimo di Cristo e quello di Paolo, il burocrate
Ma quali compagni di strada Caro direttore,
premetto che non sono un settario, concordo sull'utilità di allearci con chiunque nella battaglia concreta contro le guerre imperialiste. Ma da questo a cominciare una più o meno sotterranea opera di "riabilitazione" (anche parziale) degli eredi dei carnefici non solo e non tanto dei vari Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Galileo Galilei, ma, per restare molto più vicino a noi, dei militanti antifascisti in Spagna nel '39, in Jugoslavia nel '41-'45, a Tall-al-Zaatar e in genere nel Libano tra gli anni '70 ed '80. Quindi, per favore, va bene non demonizzarli, ma nemmeno "santificarli", quali fossero "compagni di strada" nostri nella battaglia per un mondo più libero e giusto!
Flavio Guidi
Due culture comunque diverse
Caro direttore,
nel dibattito in corso sul rapporto tra comunisti e cattolici un interrogativo di fondo cui cercare di rispondere è: il progresso umano, dalla metà dell'800 ad oggi ha smentito o confermato la critica marxiana della religione? A me pare che è proprio il progresso, inteso come aumento delle conoscenze e del livello di civilizzazione che, se non vogliamo usare assolutisticamente la parola "conferma", certo accredita seriamente tale critica:. Il primato della razionalità laica e scientifica è conquista di civiltà irrinunciabile ormai, insieme alla ridefinizione dell'umanesimo secondo concezioni introdotte proprio dal pensiero comunista: lo stesso stato italiano al suo livello più alto di stato di diritto si riconosce nei valori della laicità, della aconfessionalità, del pluralismo, della democrazia e può farlo perché a suo fondamento non pone soltanto la Costituzione, ma anche la revisione del Concordato con il Vaticano, correggendo quindi significativamente l'art. 7 della stessa Costituzione. Certo il dialogo con i settori validi del mondo cristiano va bene, ma come dialogo tra culture comunque diverse.
Pasquale Vilardo
La fabbrica dei bisogni
segnalazione di Roberto Altamura
La fabbrica dei bisogni
Intervista a Pietro Barcellona, filosofo del diritto e ospite del seminario di "Alternative"(rivista bimestrale PRC )
di TONINO BUCCI
«Non possiamo nemmeno immaginare un diverso modello di produzione se non mettiamo in discussione le "necessità" indotte dalla società capitalistica»
Un'idea molto diffusa è che l'economia sia una scienza autosufficiente, fondata su se stessa e in grado di generare autonomamente l'intera formazione sociale. Che l'economico decida di tutto è un pregiudizio duro da smontare, lo dimostrano anni di studi e di pubblicazioni di Pietro Barcellona, filosofo del diritto e tra gli ospiti del seminario "La critica della politica oggi". Non tutta la società - si potrebbe sintetizzare - può essere ridotta a economia, a "ragione strumentale", a calcolo di mezzi: C'è un residuo di attività simbolica, culturale, politica che sfugge al "funzionalismo", al criterio dell'utile, alla volontà di dominio totale della natura, alla producibilità e manipolabilità di ogni cosa. E' un agire non-economico che istituisce valori e finalità, ciò che gli individui di una società possono o non possono fare.
Come può la politica riguadagnare terreno rispetto al primato dell'economia? Si è rovesciato il rapporto tra economia e società. La nostra formazione sociale si è spappolata in individui atomizzati. E' un sistema-mondo che ha abolito le mediazioni sociali, le culture, i radicamenti territoriali: l'economia ha prodotto una forma di società a propria immagine e somiglianza, abitata da individui che si autorappresentano come produttori e consumatori. La critica all'economia quindi oggi dovrebbe essere una critica antropologica, magari recuperando la riflessione del primo Marx. Il neoliberismo, oggi, ha prodotto un immaginario in cui ciascuno di noi si pensa, in fondo, come autarchico. La stessa, tanto celebrata, società della conoscenza e della globalizzazione, nella quale tutti dovrebbero connettersi con tutti attraverso Internet, è una società dove le relazioni sono precipitate. E se non c'è uno spazio sociale non ci può essere uno spazio politico. Il luogo dove si produce il "determinante" del sociale è ormai l'economico. Ma la critica dell'economia non si può fare più. Dovremmo avere almeno un'altra idea di economia, ma non possiamo averla se non abbiamo, a sua volta, un'idea di società.
Ma lo spazio simbolico in cui possiamo immaginarci una società diversa ha una sua autonomia dai processi economici? Non credo che regga più la vecchia idea della divisione tra struttura e sovrastruttura. Ho una visione più gramsciana: nella formazione sociale c'è sì una struttura materiale, ma questa compenetra anche la cultura e l'immaginario. Ridurre la materia vivente a fatto economico è stata un'operazione politica e culturale che da sempre ha bloccato qualsiasi progetto di cambiamento. Questo non significa ricadere nel vecchio spiritualismo, al contrario si tratta di riconoscere la rilevanza materiale della vita.
Come la mettiamo con la teoria secondo cui dalla società capitalistica si esce con una trasformazione nell'economico e nei rapporti sociali di produzione? E' un vecchio tema di discussione tra me e Riccardo Bellofiore. Ritengo quella teoria un residuo del determinismo, dell'evoluzionismo, in sintonia con la visione tecnico-produttiva dell'economia: Ma le cose non vanno così. Come diceva il vecchio Franco Rodano, troppo presto dimenticato, le transizioni storiche non sono evoluzioni, sono piuttosto dei salti, delle discontinuità. Avvengono quando le motivazioni - «causazioni ideali», le chiamava Rodano - che rendono possibile l'abitare in un certo mondo, non funzionano più. In questi vuoti di motivazioni non è inscritta alcuna necessità di transizione. Non era scritto da nessuna parte che dal feudalesimo si dovesse passare al capitalismo. Come non è scritto che dal capitalismo si passi necessariamente a un mondo migliore. Non possiamo sapere quello che verrà dopo.
Possiamo immaginare una prassi di diversa natura, un «fare creativo». E come può la politica entrare in rapporto con un agire "inutile"? Il fare creativo non è determinato dall'utile, ma è istitutivo del proprio sguardo sul mondo, del proprio modo di rappresentarsi la realtà. Amare, coltivare fiori, studiare musica sono esempi da fare creativo, persino un lavoro d'impresa può esserlo se sottratto alla logica quantitativa. Se io mi rappresento sempre in un certo modo, impedisco a me stesso di poter diventare altro, di cambiare attività, ruoli, destinazione. Bisognerebbe fare una fenomenologia della vita quotidiana, dovremmo criticare il modo di ascoltare la televisione, di usare il cellulare, come si va al cinema o al mare, come si gode del tempo libero. Se non si fa una critica del quotidiano per produrre nuovi significati, si entra in un circolo vizioso. Anche un partito come Rifondazione rischia di incappare nella contraddizione di tutelare, da un lato, il lavoro e di criticare, dall'altro, la politica economica del governo perché non produce abbastanza crescita. Ma se favoriamo l'economia, aumenta la produttività e quindi c'è meno lavoro. Bisogna avere il coraggio di affermare che il proprio modello di sviluppo non è l'industrialismo, la crescita quantitativa, la competizione. Non ostinarsi, per esempio a mantenere in vita un cadavere come la Fiat.
Sta dicendo che per costruire un diverso modo di produrre dobbiamo anzitutto criticare quelli che noi ci rappresentiamo come "bisogni" quotidiani? E magari dimostrare che sono bisogni indotti? Non ci sono bisogni umani naturali - contrariamente a quanto sostiene l'allieva di Lukacs, Agnes Heller. I bisogni sono sempre socialmente costruiti e dovrebbero perciò essere nelle mani della stessa società. Persino i bisogni una volta considerati essenziali, come il mangiare, hanno contorni variabili dipendentemente dalla cornice di società. E' essenziale, chiedo, che un americano mangi dieci volte di più di quanto occorra? Bulimia e anoressia si spiegano con la ricchezza e la povertà? E pensiamo che non si possa vivere senza cellulare? Il telefonino è uno strumento reazionario che realizza l'uomo flessibile in connessione con tutte le reti nelle quali vive. Così cade la barriera tra tempo di lavoro e tempo libero. Perciò sono convinto che ogni bisogno sia intessuto di significato culturale e sociale complesso.
La fabbrica dei bisogni
Intervista a Pietro Barcellona, filosofo del diritto e ospite del seminario di "Alternative"(rivista bimestrale PRC )
di TONINO BUCCI
«Non possiamo nemmeno immaginare un diverso modello di produzione se non mettiamo in discussione le "necessità" indotte dalla società capitalistica»
Un'idea molto diffusa è che l'economia sia una scienza autosufficiente, fondata su se stessa e in grado di generare autonomamente l'intera formazione sociale. Che l'economico decida di tutto è un pregiudizio duro da smontare, lo dimostrano anni di studi e di pubblicazioni di Pietro Barcellona, filosofo del diritto e tra gli ospiti del seminario "La critica della politica oggi". Non tutta la società - si potrebbe sintetizzare - può essere ridotta a economia, a "ragione strumentale", a calcolo di mezzi: C'è un residuo di attività simbolica, culturale, politica che sfugge al "funzionalismo", al criterio dell'utile, alla volontà di dominio totale della natura, alla producibilità e manipolabilità di ogni cosa. E' un agire non-economico che istituisce valori e finalità, ciò che gli individui di una società possono o non possono fare.
Come può la politica riguadagnare terreno rispetto al primato dell'economia? Si è rovesciato il rapporto tra economia e società. La nostra formazione sociale si è spappolata in individui atomizzati. E' un sistema-mondo che ha abolito le mediazioni sociali, le culture, i radicamenti territoriali: l'economia ha prodotto una forma di società a propria immagine e somiglianza, abitata da individui che si autorappresentano come produttori e consumatori. La critica all'economia quindi oggi dovrebbe essere una critica antropologica, magari recuperando la riflessione del primo Marx. Il neoliberismo, oggi, ha prodotto un immaginario in cui ciascuno di noi si pensa, in fondo, come autarchico. La stessa, tanto celebrata, società della conoscenza e della globalizzazione, nella quale tutti dovrebbero connettersi con tutti attraverso Internet, è una società dove le relazioni sono precipitate. E se non c'è uno spazio sociale non ci può essere uno spazio politico. Il luogo dove si produce il "determinante" del sociale è ormai l'economico. Ma la critica dell'economia non si può fare più. Dovremmo avere almeno un'altra idea di economia, ma non possiamo averla se non abbiamo, a sua volta, un'idea di società.
Ma lo spazio simbolico in cui possiamo immaginarci una società diversa ha una sua autonomia dai processi economici? Non credo che regga più la vecchia idea della divisione tra struttura e sovrastruttura. Ho una visione più gramsciana: nella formazione sociale c'è sì una struttura materiale, ma questa compenetra anche la cultura e l'immaginario. Ridurre la materia vivente a fatto economico è stata un'operazione politica e culturale che da sempre ha bloccato qualsiasi progetto di cambiamento. Questo non significa ricadere nel vecchio spiritualismo, al contrario si tratta di riconoscere la rilevanza materiale della vita.
Come la mettiamo con la teoria secondo cui dalla società capitalistica si esce con una trasformazione nell'economico e nei rapporti sociali di produzione? E' un vecchio tema di discussione tra me e Riccardo Bellofiore. Ritengo quella teoria un residuo del determinismo, dell'evoluzionismo, in sintonia con la visione tecnico-produttiva dell'economia: Ma le cose non vanno così. Come diceva il vecchio Franco Rodano, troppo presto dimenticato, le transizioni storiche non sono evoluzioni, sono piuttosto dei salti, delle discontinuità. Avvengono quando le motivazioni - «causazioni ideali», le chiamava Rodano - che rendono possibile l'abitare in un certo mondo, non funzionano più. In questi vuoti di motivazioni non è inscritta alcuna necessità di transizione. Non era scritto da nessuna parte che dal feudalesimo si dovesse passare al capitalismo. Come non è scritto che dal capitalismo si passi necessariamente a un mondo migliore. Non possiamo sapere quello che verrà dopo.
Possiamo immaginare una prassi di diversa natura, un «fare creativo». E come può la politica entrare in rapporto con un agire "inutile"? Il fare creativo non è determinato dall'utile, ma è istitutivo del proprio sguardo sul mondo, del proprio modo di rappresentarsi la realtà. Amare, coltivare fiori, studiare musica sono esempi da fare creativo, persino un lavoro d'impresa può esserlo se sottratto alla logica quantitativa. Se io mi rappresento sempre in un certo modo, impedisco a me stesso di poter diventare altro, di cambiare attività, ruoli, destinazione. Bisognerebbe fare una fenomenologia della vita quotidiana, dovremmo criticare il modo di ascoltare la televisione, di usare il cellulare, come si va al cinema o al mare, come si gode del tempo libero. Se non si fa una critica del quotidiano per produrre nuovi significati, si entra in un circolo vizioso. Anche un partito come Rifondazione rischia di incappare nella contraddizione di tutelare, da un lato, il lavoro e di criticare, dall'altro, la politica economica del governo perché non produce abbastanza crescita. Ma se favoriamo l'economia, aumenta la produttività e quindi c'è meno lavoro. Bisogna avere il coraggio di affermare che il proprio modello di sviluppo non è l'industrialismo, la crescita quantitativa, la competizione. Non ostinarsi, per esempio a mantenere in vita un cadavere come la Fiat.
Sta dicendo che per costruire un diverso modo di produrre dobbiamo anzitutto criticare quelli che noi ci rappresentiamo come "bisogni" quotidiani? E magari dimostrare che sono bisogni indotti? Non ci sono bisogni umani naturali - contrariamente a quanto sostiene l'allieva di Lukacs, Agnes Heller. I bisogni sono sempre socialmente costruiti e dovrebbero perciò essere nelle mani della stessa società. Persino i bisogni una volta considerati essenziali, come il mangiare, hanno contorni variabili dipendentemente dalla cornice di società. E' essenziale, chiedo, che un americano mangi dieci volte di più di quanto occorra? Bulimia e anoressia si spiegano con la ricchezza e la povertà? E pensiamo che non si possa vivere senza cellulare? Il telefonino è uno strumento reazionario che realizza l'uomo flessibile in connessione con tutte le reti nelle quali vive. Così cade la barriera tra tempo di lavoro e tempo libero. Perciò sono convinto che ogni bisogno sia intessuto di significato culturale e sociale complesso.
"stress" e malattia mentale
una segnalazione di Sergio Grom
Repubblica 7.10.04
"Danni da stress ai bambini già nella pancia della madre"
ROMA - Lo stress può provocare «danni devastanti» al cervello del nascituro mentre è ancora nel pancione, oltre che nei primi anni di vita. E´ il dato allarmante che emerge dagli ultimi studi che lo psichiatra Martin Teicher, della Harvard Medical School, ha presentato ieri a Roma in occasione del Congresso internazionale sul cervello umano. Le malattie mentali, ha sottolineato Teicher, «oggi affliggono il 20% dei bambini e adolescenti, ma nel 2020 si stima che colpiranno poco più della metà dei giovanissimi». Alla base di queste malattie, ha spiegato lo psichiatra, «c´è spesso lo stress, che si può verificare già in fase embrionale con conseguenze disastrose per il cervello».
Repubblica 7.10.04
"Danni da stress ai bambini già nella pancia della madre"
ROMA - Lo stress può provocare «danni devastanti» al cervello del nascituro mentre è ancora nel pancione, oltre che nei primi anni di vita. E´ il dato allarmante che emerge dagli ultimi studi che lo psichiatra Martin Teicher, della Harvard Medical School, ha presentato ieri a Roma in occasione del Congresso internazionale sul cervello umano. Le malattie mentali, ha sottolineato Teicher, «oggi affliggono il 20% dei bambini e adolescenti, ma nel 2020 si stima che colpiranno poco più della metà dei giovanissimi». Alla base di queste malattie, ha spiegato lo psichiatra, «c´è spesso lo stress, che si può verificare già in fase embrionale con conseguenze disastrose per il cervello».
giovedì 7 ottobre 2004
il nuovo numero de
IL SOGNO DELLA FARFALLA
IL SOGNO DELLA FARFALLA
il n. 4/2004 de "Il sogno della farfalla"
è disponibile
presso la
Libreria Amore e Psiche
oltre che presso gli altri abituali punti vendita
Libreria Amore e Psiche
via s. caterina da siena, 61 roma
info:06/6783908
amorepsiche2003@libero.it
i nostri orari: lunedi 15-20
dal martedi alla domenica 10-20
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A Firenze
come sempre da STRATAGEMMA
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continua il dibattito su "Liberazione"...
una segnalazione di Roberto Altamura
“Liberazione” 7 ottobre 2004
Le lettere
CATTOLICI E COMUNISTI E l’uomo creò Dio per farsi dominare…
Caro direttore, leggendo alcuni articoli apparsi, nell’interessante e sempre più attuale dibattito su “Comunisti e Cattolici”, e a seguito dell’articolo apparso su “Liberazione” di sabato 2 ottobre, volevo sottolineare quanto segue: a proposito di alienazione, che cos’è l’alienazione nel “Capitale” di Marx? E’ il prodotto che domina il produttore. L’esempio classico di Marx è quello della religione (a torto o a ragione Marx la vede così): l’uomo crea Dio e si sente dominato da Dio, cioè ha prodotto qualcosa da cui si fa dominare. Questo esempio Marx lo trasporta poi in tutta la vita sociale: gli uomini hanno creato lo Stato poi si fanno dominare dal potere statuale così l’operaio produce merce e poi è dominato dal mercato, il luogo di vendita delle merci da lui prodotte. Nel “Capitale” Marx fa l’esempio nella differenza tra l’ape e l’architetto. L’architetto è anche libero di sbagliare, l’ape no. Allora questa libertà per i credenti è la stessa libertà dei figli di Dio. Certo la fede deve liberare e libera se non è costretta dalla struttura (vedi Vaticano per esempio). Come il partito o il socialismo “reale” insegnano nel campo dei movimenti socialisti o comunisti del Novecento. Allora la disumanizzazione o alienazione sono la stessa identica cosa: quando l’uomo non è liberato o non ha la coscienza del suo “fare”, diviene ingranaggio. Il problema di fondo è che spesso si confonde la fede con la religione. E’ come confondere Marx, Rosa Luxemburg, Che Guevara con, scegliete voi, tra Ceausescu, Enver Hoxa, Stalin, ecc. ecc. Rimando per una maggio comprensione al testo “Marxismo e Cristianesimo” (Cittadella editrice) del grande teologo della liberazione italiano Giulio Girardi.
“Liberazione” 7 ottobre 2004
Le lettere
CATTOLICI E COMUNISTI E l’uomo creò Dio per farsi dominare…
Caro direttore, leggendo alcuni articoli apparsi, nell’interessante e sempre più attuale dibattito su “Comunisti e Cattolici”, e a seguito dell’articolo apparso su “Liberazione” di sabato 2 ottobre, volevo sottolineare quanto segue: a proposito di alienazione, che cos’è l’alienazione nel “Capitale” di Marx? E’ il prodotto che domina il produttore. L’esempio classico di Marx è quello della religione (a torto o a ragione Marx la vede così): l’uomo crea Dio e si sente dominato da Dio, cioè ha prodotto qualcosa da cui si fa dominare. Questo esempio Marx lo trasporta poi in tutta la vita sociale: gli uomini hanno creato lo Stato poi si fanno dominare dal potere statuale così l’operaio produce merce e poi è dominato dal mercato, il luogo di vendita delle merci da lui prodotte. Nel “Capitale” Marx fa l’esempio nella differenza tra l’ape e l’architetto. L’architetto è anche libero di sbagliare, l’ape no. Allora questa libertà per i credenti è la stessa libertà dei figli di Dio. Certo la fede deve liberare e libera se non è costretta dalla struttura (vedi Vaticano per esempio). Come il partito o il socialismo “reale” insegnano nel campo dei movimenti socialisti o comunisti del Novecento. Allora la disumanizzazione o alienazione sono la stessa identica cosa: quando l’uomo non è liberato o non ha la coscienza del suo “fare”, diviene ingranaggio. Il problema di fondo è che spesso si confonde la fede con la religione. E’ come confondere Marx, Rosa Luxemburg, Che Guevara con, scegliete voi, tra Ceausescu, Enver Hoxa, Stalin, ecc. ecc. Rimando per una maggio comprensione al testo “Marxismo e Cristianesimo” (Cittadella editrice) del grande teologo della liberazione italiano Giulio Girardi.
Antonello Rustico
Punto Pace Bari, Pax Christi
Punto Pace Bari, Pax Christi
Umberto Galimberti e la "scuola" basagliana
Repubblicacronaca di Napoli
L´INCONTRO
Scuola di psicoterapia corsi per specialisti
A Napoli la prima scuola italiana di specializzazione in psicoterapia. Dell´iniziativa si discuterà durante un incontro che si terrà alle 15.30 di sabato nell´ex ospedale Frullone. Ospite e relatore, il giornalista e editorialista Umberto Galimberti che parteciperà con una lezione su "Psiche e Techne". Ma la peculiarità che caratterizza la "Scuola sperimentale per la formazione e la ricerca nelle scienze umane" va individuata in un apprendimento che deriva dal lavoro svolto nelle strutture pubbliche. Tutto questo grazie alla novità di una scuola istituita dalla Asl Napoli 1, quindi pubblica e portatrice delle esperienze degli psicoterapeuti che agiscono sul territorio. Esattamente il contrario di una sterile cultura didattica intesa come emanazione dottrinale di corsi di insegnamento organizzati da strutture private o, anche, da prestigiose scuole di specializzazione universitarie. Il filone scientifico nasce dall´impegno di Sergio Piro, lo psichiatra che sulla scia di Franco Basaglia è stato il più accanito difensore della legge 180 per la chiusura dei manicomi e che, insieme a dieci allievi, fondò la prima scuola "antropologico-trasformazionale". E non è un caso che idee e azioni continuino ad interagire nel simbolo della psichiatria napoletana, l´ex Frullone appunto. A dirigere la scuola è Carlo Pastore con Amalia Mele. «Rispetto al disagio umano», spiega Pastore, «l´intervento deve radicarsi in una riflessione che utilizzi la pluralità degli strumenti teorici e conoscitivi delle scienze umane. E solo una seria formazione può produrre risultati significativi».
(g.d.b.)
L´INCONTRO
Scuola di psicoterapia corsi per specialisti
A Napoli la prima scuola italiana di specializzazione in psicoterapia. Dell´iniziativa si discuterà durante un incontro che si terrà alle 15.30 di sabato nell´ex ospedale Frullone. Ospite e relatore, il giornalista e editorialista Umberto Galimberti che parteciperà con una lezione su "Psiche e Techne". Ma la peculiarità che caratterizza la "Scuola sperimentale per la formazione e la ricerca nelle scienze umane" va individuata in un apprendimento che deriva dal lavoro svolto nelle strutture pubbliche. Tutto questo grazie alla novità di una scuola istituita dalla Asl Napoli 1, quindi pubblica e portatrice delle esperienze degli psicoterapeuti che agiscono sul territorio. Esattamente il contrario di una sterile cultura didattica intesa come emanazione dottrinale di corsi di insegnamento organizzati da strutture private o, anche, da prestigiose scuole di specializzazione universitarie. Il filone scientifico nasce dall´impegno di Sergio Piro, lo psichiatra che sulla scia di Franco Basaglia è stato il più accanito difensore della legge 180 per la chiusura dei manicomi e che, insieme a dieci allievi, fondò la prima scuola "antropologico-trasformazionale". E non è un caso che idee e azioni continuino ad interagire nel simbolo della psichiatria napoletana, l´ex Frullone appunto. A dirigere la scuola è Carlo Pastore con Amalia Mele. «Rispetto al disagio umano», spiega Pastore, «l´intervento deve radicarsi in una riflessione che utilizzi la pluralità degli strumenti teorici e conoscitivi delle scienze umane. E solo una seria formazione può produrre risultati significativi».
(g.d.b.)
Rita Levi Montalcini: il cervello
Il Tempo 7.10.04
Levi Montalcini: Il nostro cervello è una scacchiera
LO STRESS, prima e dopo la nascita, provoca danni devastanti al cervello dei neonati. Si pensa che le malattie mentali che oggi affliggono un bambino su cinque tra poco colpiranno addirittura la metà dei più piccoli. Questo è uno dei dati allarmanti che emerso dagli ultimi studi presentati alla conferenza internazionale sul cervello organizzata dalla fondazione Santa Lucia di Roma. Il professor Teicher, in particolare, ha messo in risalto il fatto che lo stress oltre a danneggiare il cervello, influenza in maniera notevole lo sviluppo cerebrale. Il grande tema di fondo, però, é ancora una volta il grande tema della plasticità neuronale. Proprio grazie alla capacità del nostro cervello di rispondere in maniera plastica o diversificata ai vari stimoli è dovuto il grande sviluppo dell'umanità. Una partita a scacchi in cui i pedoni, considerati di solito elementi di secondaria importanza, hanno invece un ruolo fondamentale. Utilizza questa immagine il Premio Nobel Rita Levi Montalcini per descrivere il cervello umano. I pedoni sono i fattori di crescita e i fattori ormonali
G.C.
Levi Montalcini: Il nostro cervello è una scacchiera
LO STRESS, prima e dopo la nascita, provoca danni devastanti al cervello dei neonati. Si pensa che le malattie mentali che oggi affliggono un bambino su cinque tra poco colpiranno addirittura la metà dei più piccoli. Questo è uno dei dati allarmanti che emerso dagli ultimi studi presentati alla conferenza internazionale sul cervello organizzata dalla fondazione Santa Lucia di Roma. Il professor Teicher, in particolare, ha messo in risalto il fatto che lo stress oltre a danneggiare il cervello, influenza in maniera notevole lo sviluppo cerebrale. Il grande tema di fondo, però, é ancora una volta il grande tema della plasticità neuronale. Proprio grazie alla capacità del nostro cervello di rispondere in maniera plastica o diversificata ai vari stimoli è dovuto il grande sviluppo dell'umanità. Una partita a scacchi in cui i pedoni, considerati di solito elementi di secondaria importanza, hanno invece un ruolo fondamentale. Utilizza questa immagine il Premio Nobel Rita Levi Montalcini per descrivere il cervello umano. I pedoni sono i fattori di crescita e i fattori ormonali
G.C.
un libro
una segnalazione di Paola Franz
Venerdì 15 Ottobre, ore 21,00
Presentazione del libro “Le immagini della mente: per una psicoanalisi del cinema, dell’arte e della letteratura” di Luca Casadio, Franco Angeli Editore.
Intervengono:
Gianni Nebbiosi, psicoanalista, presidente isipSé Roma;
Serafino Murri, regista e critico cinematografico;
La descrizione dei più recenti modelli della mente applicati alla psicoanalisi dell’arte e allo studio delle immagini
La psicoanalisi dell’arte, di moda fino agli anni ’70, segna ora un profondo stallo. Perfino i contributi più recenti si rifanno sempre ai medesimi testi teorici ormai divenuti istituzionali, “sacri”. Ciò appare curioso se pensiamo che negli ultimi decenni la psicoanalisi clinica e teorica ha prodotto molti nuovi modelli della mente, nuovi approcci clinici centrati sulla comunicazione emozionale e sul ruolo delle immagini, e una schiera di “nuovi autori” innovativi e creativi, particolarmente interessanti.
“Le immagini della mente” si propone di aggiornare la psicoanalisi dell’arte, troppo lenta nel conoscere questi nuovi contributi, proponendo una descrizione epistemologica delle teorie attuali e delle possibili “applicazioni” all’arte.
Oltre gli studi “classici” di Freud, Jung e la Klein, nel volume sono discussi gli approcci più recenti come quelli di Bion, Matte Blanco, Bowlby, Langs, dei Baranger, Stern, Benedetti, Ferro, ed altri.
Il taglio epistemologico e multidisciplinare del volume permette di cogliere, superando ogni specialismo, le trame comuni alla psicoanalisi, al mondo dell’arte e alla comunicazione sociale, soprattutto nei suoi aspetti emotivi e relazionali.
Il libro appare così rivolto tanto a psicologi, psicoanalisti, antropologi, filosofi, che esperti d’arte. Per questo motivo il linguaggio usato è volto alla chiarificazione delle teorie, come al loro possibile “utilizzo” nel campo dell’arte. Il cinema, la letteratura, la pittura, le moderne performance rappresentano il regno elettivo della comunicazione emozionale e per immagini, fondamentale anche nel lavoro clinico considerato alla stregua di un “dialogo sociale”.
Le emozioni, tanto nel campo sociale come nel “setting clinico”, trasformano le nostre narrazioni, le immagini guida della nostra identità, e il nostro modo di costruire le rappresentazioni.
La “psicoanalisi moderna” e l’arte condividono così una sensibilità comune per le immagini, nate tanto nel rapporto terapeutico che nel campo dell’arte. Sia l’arte che la psicoanalisi sono considerate così nelle loro caratteristiche “costruttive” e sociali, per la loro capacità di ispirare nuovi significati, nuovi “mondi possibili” e nella loro capacità di trasformare e far evolvere emozioni, vissuti, immagini e narrazioni.
Venerdì 15 Ottobre, ore 21,00
Presentazione del libro “Le immagini della mente: per una psicoanalisi del cinema, dell’arte e della letteratura” di Luca Casadio, Franco Angeli Editore.
Intervengono:
Gianni Nebbiosi, psicoanalista, presidente isipSé Roma;
Serafino Murri, regista e critico cinematografico;
La descrizione dei più recenti modelli della mente applicati alla psicoanalisi dell’arte e allo studio delle immagini
La psicoanalisi dell’arte, di moda fino agli anni ’70, segna ora un profondo stallo. Perfino i contributi più recenti si rifanno sempre ai medesimi testi teorici ormai divenuti istituzionali, “sacri”. Ciò appare curioso se pensiamo che negli ultimi decenni la psicoanalisi clinica e teorica ha prodotto molti nuovi modelli della mente, nuovi approcci clinici centrati sulla comunicazione emozionale e sul ruolo delle immagini, e una schiera di “nuovi autori” innovativi e creativi, particolarmente interessanti.
“Le immagini della mente” si propone di aggiornare la psicoanalisi dell’arte, troppo lenta nel conoscere questi nuovi contributi, proponendo una descrizione epistemologica delle teorie attuali e delle possibili “applicazioni” all’arte.
Oltre gli studi “classici” di Freud, Jung e la Klein, nel volume sono discussi gli approcci più recenti come quelli di Bion, Matte Blanco, Bowlby, Langs, dei Baranger, Stern, Benedetti, Ferro, ed altri.
Il taglio epistemologico e multidisciplinare del volume permette di cogliere, superando ogni specialismo, le trame comuni alla psicoanalisi, al mondo dell’arte e alla comunicazione sociale, soprattutto nei suoi aspetti emotivi e relazionali.
Il libro appare così rivolto tanto a psicologi, psicoanalisti, antropologi, filosofi, che esperti d’arte. Per questo motivo il linguaggio usato è volto alla chiarificazione delle teorie, come al loro possibile “utilizzo” nel campo dell’arte. Il cinema, la letteratura, la pittura, le moderne performance rappresentano il regno elettivo della comunicazione emozionale e per immagini, fondamentale anche nel lavoro clinico considerato alla stregua di un “dialogo sociale”.
Le emozioni, tanto nel campo sociale come nel “setting clinico”, trasformano le nostre narrazioni, le immagini guida della nostra identità, e il nostro modo di costruire le rappresentazioni.
La “psicoanalisi moderna” e l’arte condividono così una sensibilità comune per le immagini, nate tanto nel rapporto terapeutico che nel campo dell’arte. Sia l’arte che la psicoanalisi sono considerate così nelle loro caratteristiche “costruttive” e sociali, per la loro capacità di ispirare nuovi significati, nuovi “mondi possibili” e nella loro capacità di trasformare e far evolvere emozioni, vissuti, immagini e narrazioni.
Centro Culturale Libreria Bibli
Via dei Fienaroli, 28 ROMA (Trastevere)
www.bibli.it
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mercoledì 6 ottobre 2004
alcolismo tra i giovani e gli adolescenti
Il Messaggero Martedì 5 Ottobre 2004
L’indagine dell’Osservatorio sugli alcolici tra gli under 25.
Ma negli altri paesi europei il livello di dipendenza è più alto che in Italia
Alcol e giovani, il 7% spesso beve fino a ubriacarsi
E quasi otto ragazzi su dieci confessano di consumarlo abitualmente. Gli eccessi durante il week end
di CARLA MASSI
ROMA - Prendiamo cento ragazzi tra i 15 e i 24 anni e versiamo del vino nei loro bicchieri. Solo poco meno di una ventina dicono «no grazie» e respingono l’offerta. Gli altri, soprattutto i giovanissimi, apprezzano e mandano giù. Poco importa quale sia l’etichetta della bottiglia. Importante è bere alcol. Per sette su cento è importante abusare di alcol. Una vecchia-nuova trasgressione che torna di moda. Sono proprio questi sette a confessare: ci ubriachiamo tre volte a settimana. Tante per chi si occupa di dipendenza giovanile, poche per chi paragona i nostri giovani a quelli del resto d’Europa. In Danimarca, per esempio, sono ben 36 su cento quelli che tornano a casa stravolti di alcol almeno tre notti ogni sette. Magra consolazione sapere, lo dicono i ricercatori dell’Osservatorio permanente su giovani e alcol che ha presentato il rapporto a Roma alla Fondazione Santa Lucia, che i ragazzi made in Italy «sono più responsabili dei loro coetanei inglesi, danesi o finlandesi».
I ragazzi, i più spericolati. Soprattutto nel week end. L’azzardo “pesante” con l’alcol inizia intorno ai 16-17 anni ma il picco, per quelli che si lasciano sedurre dal distorto fascino dell’ubriachezza, arriva intorno ai venti. Così viene disegnato l’identikit del giovane che, come gioco, eccede nelle dosi: è maschio, ha tra i 20 e i 25 anni, abita nel Nord Est ed è abituato a bere lontano dai pasti. Quindi, non in famiglia. Ma con gli amici, come prova di forza.
Novità: si parte con l’aperitivo. La maratona alcolica comincia con le patatine e le olive. Fra le bevande che hanno più successo tra i giovani, infatti, ci sono le cosiddette “bibite leggere” (alcolpop) e, a sorpresa, gli amari. Vecchi compagni di fine pasto di nonni e bisnonni. Vanno alla grande quelle bevande leggermente alcoliche, regolarmente vendute nei bar ai minorenni come fossero aranciate e gassose fra il 1998 e il 2002 il consumo è aumentato del 32,7%. Le ragazze preferiscono il vino, i ragazzi gli aperitivi e la birretta. «Fortunatamente in Italia esistono fattori culturali protettivi - commenta Enrico Tempesta, presidente del Comitato scientifico dell’Osservatorio permanente sui giovani e l’alcol -. Da noi i giovani e gli adolescenti ancora disapprovano e tendono ad escludere dal loro gruppo il coetaneo che eccede e si ubriaca»
All’incontro alla Fondazione Santa Lucia, organizzato insieme alle cattedre di Neurologia e Psichiatria dell’università di Roma Tor Vergata, anche Robert Cloninger, della Washington University dove, attraverso incroci di dati “identikit” e studi negli anni sono stati delineati due tipi di alcolismo: il primo caratterizzato dalla perdita di controllo nel bere e, generalmente, da un inizio tardivo, il secondo con avvio molto precoce, in età giovanile. Periodo in cui, alla ricerca compulsiva dell’alcol si associano comportamenti antisociali. «Questo giovane - spiega lo psicobiologo - è spinto dal desiderio di esplorare emozioni sempre nuove. Pensiamo alla velocità in auto, per esempio. Ha familiarità con la depressione e, la sua compulsività all’alcol inizia nei primi anni del liceo». Con segnali, gli psichiatri si rivolgono ai genitori, molto precisi: comportamenti contro il gruppo, “rivolta” in famiglia, passione smodata per la trasgressione.
L’indagine dell’Osservatorio sugli alcolici tra gli under 25.
Ma negli altri paesi europei il livello di dipendenza è più alto che in Italia
Alcol e giovani, il 7% spesso beve fino a ubriacarsi
E quasi otto ragazzi su dieci confessano di consumarlo abitualmente. Gli eccessi durante il week end
di CARLA MASSI
ROMA - Prendiamo cento ragazzi tra i 15 e i 24 anni e versiamo del vino nei loro bicchieri. Solo poco meno di una ventina dicono «no grazie» e respingono l’offerta. Gli altri, soprattutto i giovanissimi, apprezzano e mandano giù. Poco importa quale sia l’etichetta della bottiglia. Importante è bere alcol. Per sette su cento è importante abusare di alcol. Una vecchia-nuova trasgressione che torna di moda. Sono proprio questi sette a confessare: ci ubriachiamo tre volte a settimana. Tante per chi si occupa di dipendenza giovanile, poche per chi paragona i nostri giovani a quelli del resto d’Europa. In Danimarca, per esempio, sono ben 36 su cento quelli che tornano a casa stravolti di alcol almeno tre notti ogni sette. Magra consolazione sapere, lo dicono i ricercatori dell’Osservatorio permanente su giovani e alcol che ha presentato il rapporto a Roma alla Fondazione Santa Lucia, che i ragazzi made in Italy «sono più responsabili dei loro coetanei inglesi, danesi o finlandesi».
I ragazzi, i più spericolati. Soprattutto nel week end. L’azzardo “pesante” con l’alcol inizia intorno ai 16-17 anni ma il picco, per quelli che si lasciano sedurre dal distorto fascino dell’ubriachezza, arriva intorno ai venti. Così viene disegnato l’identikit del giovane che, come gioco, eccede nelle dosi: è maschio, ha tra i 20 e i 25 anni, abita nel Nord Est ed è abituato a bere lontano dai pasti. Quindi, non in famiglia. Ma con gli amici, come prova di forza.
Novità: si parte con l’aperitivo. La maratona alcolica comincia con le patatine e le olive. Fra le bevande che hanno più successo tra i giovani, infatti, ci sono le cosiddette “bibite leggere” (alcolpop) e, a sorpresa, gli amari. Vecchi compagni di fine pasto di nonni e bisnonni. Vanno alla grande quelle bevande leggermente alcoliche, regolarmente vendute nei bar ai minorenni come fossero aranciate e gassose fra il 1998 e il 2002 il consumo è aumentato del 32,7%. Le ragazze preferiscono il vino, i ragazzi gli aperitivi e la birretta. «Fortunatamente in Italia esistono fattori culturali protettivi - commenta Enrico Tempesta, presidente del Comitato scientifico dell’Osservatorio permanente sui giovani e l’alcol -. Da noi i giovani e gli adolescenti ancora disapprovano e tendono ad escludere dal loro gruppo il coetaneo che eccede e si ubriaca»
All’incontro alla Fondazione Santa Lucia, organizzato insieme alle cattedre di Neurologia e Psichiatria dell’università di Roma Tor Vergata, anche Robert Cloninger, della Washington University dove, attraverso incroci di dati “identikit” e studi negli anni sono stati delineati due tipi di alcolismo: il primo caratterizzato dalla perdita di controllo nel bere e, generalmente, da un inizio tardivo, il secondo con avvio molto precoce, in età giovanile. Periodo in cui, alla ricerca compulsiva dell’alcol si associano comportamenti antisociali. «Questo giovane - spiega lo psicobiologo - è spinto dal desiderio di esplorare emozioni sempre nuove. Pensiamo alla velocità in auto, per esempio. Ha familiarità con la depressione e, la sua compulsività all’alcol inizia nei primi anni del liceo». Con segnali, gli psichiatri si rivolgono ai genitori, molto precisi: comportamenti contro il gruppo, “rivolta” in famiglia, passione smodata per la trasgressione.
ricerca americana sulla schizofrenia:
cercate di evitare di nascere d'estate...
Yahoo! Notizie Martedì 5 Ottobre 2004, 17:39
Schizofrenia: i nati In Giugno e Luglio sono a rischio per le forme più gravi
Baltimora, 5 ott. (Adnkronos Salute) - Destino ancora piu' crudele per i malati di schizofrenia nati nei mesi di giugno e luglio. Per loro sono in 'agguato' forme della malattia considerate maggiormente complesse e gravi. I mesi caldi, secondo i ricercatori della Johns Hopkins University di Baltimora, sono legati a forme di schizofrenia in cui si riscontra incapacita' a provare piacere, comportamenti fortemente anti-sociali e problemi di linguaggio. E per chi nasce d'estate la malattia progredisce piu' velocemente e diventa piu' grave ''rispetto a chi nasce d'inverno, che invece soffre di forme caratterizzate da allucinazioni o pensieri incoerenti e pessimisti'', spiegano sugli Archives of General Psychiatry. La scoperta dell'insolito legame e' arrivata dall'analisi incrociata su 1.600 pazienti provenienti da sei differenti nazioni dell'emisfero settentrionale. ''Forse la 'colpa' e' in un mix di fattori - continuano gli scienziati - tra cui le variazioni degli agenti infettivi legate alle stagioni, l'esposizione alla luce solare e alla vitamina D e il cambiamento nella dieta. In ogni caso - conclude il coordinatore della ricerca, Erik Messias - non e' stato individuato ancora alcun legame diretto tra le forme piu' gravi e le 'caratteristiche' stagionali dell'estate''. (Sch/Adnkronos Salute)
Schizofrenia: i nati In Giugno e Luglio sono a rischio per le forme più gravi
Baltimora, 5 ott. (Adnkronos Salute) - Destino ancora piu' crudele per i malati di schizofrenia nati nei mesi di giugno e luglio. Per loro sono in 'agguato' forme della malattia considerate maggiormente complesse e gravi. I mesi caldi, secondo i ricercatori della Johns Hopkins University di Baltimora, sono legati a forme di schizofrenia in cui si riscontra incapacita' a provare piacere, comportamenti fortemente anti-sociali e problemi di linguaggio. E per chi nasce d'estate la malattia progredisce piu' velocemente e diventa piu' grave ''rispetto a chi nasce d'inverno, che invece soffre di forme caratterizzate da allucinazioni o pensieri incoerenti e pessimisti'', spiegano sugli Archives of General Psychiatry. La scoperta dell'insolito legame e' arrivata dall'analisi incrociata su 1.600 pazienti provenienti da sei differenti nazioni dell'emisfero settentrionale. ''Forse la 'colpa' e' in un mix di fattori - continuano gli scienziati - tra cui le variazioni degli agenti infettivi legate alle stagioni, l'esposizione alla luce solare e alla vitamina D e il cambiamento nella dieta. In ogni caso - conclude il coordinatore della ricerca, Erik Messias - non e' stato individuato ancora alcun legame diretto tra le forme piu' gravi e le 'caratteristiche' stagionali dell'estate''. (Sch/Adnkronos Salute)
Francis Crick
i Qualia, gli "atomi" della coscienza...
La Stampa TuttoScienze 6.10.04
GLI STUDI DEL NOBEL FRANCIS CRICK PER SUPERARE IL DUALISMO TRA MENTE E CORPO
A caccia degli atomi della coscienza
SI CHIAMANO «QUALIA» E COSTITUISCONO LE ENTITA’ PRIVATE, LE ESPERIENZE SOGGETTIVE DELLA VITA CONSAPEVOLE.
DAL DNA AI SEGRETI DEL PENSIERO
IL CAMPO DI STUDIO PRESCELTO E’ STATO QUELLO DELLA VISTA NEI PRIMATI, CON UN SISTEMA NEURALE PROFONDAMENTE CONOSCIUTO.
I LAVORI SVOLTI CON IL BIOFISICO TEDESCO KOCH
di Silvio Ferraresi
IL nome di Francis Crick, scomparso lo scorso 28 luglio a 88 anni e già ricordato su «Tuttoscienze», rimarrà scolpito nella storia della scienza del Novecento per la scoperta, avvenuta nel 1953, della struttura a doppia elica del DNA, condivisa con James Watson, Maurice Wilkins e Rosalind Franklin. La scoperta fu il primo fondamentale tassello nella comprensione dei meccanismi dell'eredità e della vita. Di lì a dieci anni sarebbero stati chiariti i meccanismi essenziali che - in virtù del codice genetico - traducono in proteine le informazioni depositate nei geni, e senza ricorrere a leggi chimiche o fisiche esoteriche: quelle della chimica organica e della biochimica erano bastate. Il vitalismo era stato spazzato via forse per sempre.
Diventata la biologia molecolare una scienza matura e solida, nella seconda metà degli Anni Settanta Crick si dedicò "al più grande enigma che la scienza dovesse ancora risolvere", la natura fisica della coscienza. Se l'essenza della vita era stata spiegata a partire da elementi semplici come i nucleotidi, i geni e la sequenza delle proteine, allora per una mente indagatrice e rigorosamente sperimentale come la sua la natura della coscienza si poteva spiegare con le conoscenze molecolari, cellulari e anatomiche dell'organo dove si presume essa abbia sede, il cervello. Crick voleva ora smitizzare il dualismo mente-corpo, la coscienza intesa come entità a sé.
La sua seconda "folle caccia" coincise con il trasloco, avvenuto nel 1976, dall'Inghilterra agli Stati Uniti, al Salk Institute di San Diego, in California su invito dell'amico Leslie Orgel. Dagli antichi e austeri edifici in stile gotico di Cambridge, Crick si era ritrovato a lavorare in uno scenario architettettonico profondamente americano, con i suoi due edifici che definiscono nelle intenzioni del progettista un cortile aperto alle due estremità, che incorniciano oceano e terra, a simboleggiare la fine della vecchia frontiera e l'inizio di quella nuova.
Crick era un fisico di formazione, ma, com'era nella sua indole, non ebbe paura a varcare i confini tra discipline. Fu così che a un'età in cui molti uomini di scienza appendono le scarpe al chiodo egli si risedette sui banchi di scuola, come ricorda il neuroscienziato William Stryker, che a metà degli anni settanta se lo ritrovò a Cold Spring Harbor studente tra gli studenti a prendere appunti dalle sue lezioni.
La convinzione anche solo di affrontare scientificamente l'"arduo problema" della coscienza era in quegli anni perlomeno visionaria ed anticonformista, tant'è che ancora nel decennio successivo gli psicologi cognitivi, che pure per mestiere si occupano della mente, consideravano la coscienza un oggetto di studio non rispettabile, a differenza per esempio della percezione e della memoria.
Negli Anni Novanta la coscienza avrebbe acquisito sempre più dignità accademica, disponendo di proprie riviste, come il Journal of Consciousness Studies oppure Psyche, e vedendo nascere centri universitari dove essa è diventata oggetto di studio.
Crick sapeva sempre qual è la persona giusta con cui affrontare i problemi", diceva di lui il collega di Cambridge Horace Barlow. Se per la scoperta della doppia elica la persona giusta fu James Watson, per i correlati neurali della coscienza essa si incarnò in Christof Koch, giovane biofisico di origine tedesca.
Crick, di concerto con Koch, non intendeva derogare dal metodo così vincente nel caso dei geni, e dunque si mise alla ricerca degli elementi più semplici sia della coscienza sia della elaborazione neurale; delle unità minime da cui costruire dal basso verso l'alto l'intero edificio di una scienza della coscienza, nello spirito di un metodo riduzionista puro; e di un metodo materialista, per cui soltanto aprendo la "scatola nera" e studiando i neuroni e le loro interazioni si poteva acquisire - così egli riteneva - la conoscenza per creare modelli scientifici della coscienza.
La filosofia della mente contempla gli atomi della coscienza: si chiamano «qualia» (al singolare «quale»). Essi indicano le entità squisitamente private, le esperienze soggettive della nostra vita cosciente. La sensazione del rosso che noi proviamo durante la percezione di una mela rossa è per esempio un quale. Se Crick, o chi per lui, avesse stabilito la correlazione tra un quale e la parte minima del cervello che lo genera, si sarebbe identificata una prima base biologica della coscienza.
Di dettagli molecolari, cellulari e anatomici le neuroscienze ne mettevano a disposizione a montagne: dagli squitti di singoli neuroni alla illuminazione di intere aree cerebrali durante lo svolgimento di un compito cognitivo. Dove andare a cercare la coscienza? Innanzitutto Crick e Koch scelsero di delimitarla, escludendo a priori forme più complesse, di non occuparsi dell’emozione oppure della coscienza di sé, ma di limitarsi all'attività neurale che produce ciascun aspetto particolare di coscienza, come la percezione di un colore oppure di una forma specifici. La scelta cadde sul sistema visivo dei primati perché in esso "l'immagine interna del mondo esterno è molto precisa e vivace" ed è il sistema neurale che conosciamo meglio: dalla psicologia della visione giù fino alle molecole che trasformano i fotoni di luce in impulsi nervosi, passando per l'architettura delle oltre trenta aree cerebrali coinvolte nella percezione visiva.
Molti scienziati ritenevano che la coscienza fosse un fenomeno globale del cervello, mentre Crick riteneva che solo pochi neuroni ne fossero responsabili in un determinato istante; che fosse un fenomeno locale. E infatti buona parte dell'attività del cervello non è associata con i «qualia», come dimostrano esperimenti elettrofisiologici in cui una furiosa attività neurale non è accompagnata da sensazione cosciente.
Gli esperimenti indicano che l'attività neurale coincidente con un «quale» deve essere mantenuta quanto meno per diverse centinaia di millisecondi ed è di tipo tutto o nulla, cioè a dire che la percezione cosciente di un attributo percettivo la sperimentiamo oppure non la sperimentiamo. Nel sistema visivo per esempio, i neuroni di un'area visiva sottocorticale, il corpo genicolato laterale, oppure dell'area V1 nella corteccia visiva, l'attività di migliaia di questi neuroni non sembra contribuire al percetto del soggetto, a differenza dei neuroni di un'altra area della corteccia specializzata nella visione, l'area IT, oppure del lobo mediale temporale negli esseri umani, che scaricano solo quando lo stimolo viene visto coscientemente.
Questi dati sono solo un primo piccolo passo nella definizione scientifica della coscienza, ma la cosa importante - ha scritto John Horgan - "è che Crick aveva raggiunto un obiettivo in apparenza impossibile: aver trasformato la coscienza da mistero filosofico a problema empirico".
GLI STUDI DEL NOBEL FRANCIS CRICK PER SUPERARE IL DUALISMO TRA MENTE E CORPO
A caccia degli atomi della coscienza
SI CHIAMANO «QUALIA» E COSTITUISCONO LE ENTITA’ PRIVATE, LE ESPERIENZE SOGGETTIVE DELLA VITA CONSAPEVOLE.
DAL DNA AI SEGRETI DEL PENSIERO
IL CAMPO DI STUDIO PRESCELTO E’ STATO QUELLO DELLA VISTA NEI PRIMATI, CON UN SISTEMA NEURALE PROFONDAMENTE CONOSCIUTO.
I LAVORI SVOLTI CON IL BIOFISICO TEDESCO KOCH
di Silvio Ferraresi
IL nome di Francis Crick, scomparso lo scorso 28 luglio a 88 anni e già ricordato su «Tuttoscienze», rimarrà scolpito nella storia della scienza del Novecento per la scoperta, avvenuta nel 1953, della struttura a doppia elica del DNA, condivisa con James Watson, Maurice Wilkins e Rosalind Franklin. La scoperta fu il primo fondamentale tassello nella comprensione dei meccanismi dell'eredità e della vita. Di lì a dieci anni sarebbero stati chiariti i meccanismi essenziali che - in virtù del codice genetico - traducono in proteine le informazioni depositate nei geni, e senza ricorrere a leggi chimiche o fisiche esoteriche: quelle della chimica organica e della biochimica erano bastate. Il vitalismo era stato spazzato via forse per sempre.
Diventata la biologia molecolare una scienza matura e solida, nella seconda metà degli Anni Settanta Crick si dedicò "al più grande enigma che la scienza dovesse ancora risolvere", la natura fisica della coscienza. Se l'essenza della vita era stata spiegata a partire da elementi semplici come i nucleotidi, i geni e la sequenza delle proteine, allora per una mente indagatrice e rigorosamente sperimentale come la sua la natura della coscienza si poteva spiegare con le conoscenze molecolari, cellulari e anatomiche dell'organo dove si presume essa abbia sede, il cervello. Crick voleva ora smitizzare il dualismo mente-corpo, la coscienza intesa come entità a sé.
La sua seconda "folle caccia" coincise con il trasloco, avvenuto nel 1976, dall'Inghilterra agli Stati Uniti, al Salk Institute di San Diego, in California su invito dell'amico Leslie Orgel. Dagli antichi e austeri edifici in stile gotico di Cambridge, Crick si era ritrovato a lavorare in uno scenario architettettonico profondamente americano, con i suoi due edifici che definiscono nelle intenzioni del progettista un cortile aperto alle due estremità, che incorniciano oceano e terra, a simboleggiare la fine della vecchia frontiera e l'inizio di quella nuova.
Crick era un fisico di formazione, ma, com'era nella sua indole, non ebbe paura a varcare i confini tra discipline. Fu così che a un'età in cui molti uomini di scienza appendono le scarpe al chiodo egli si risedette sui banchi di scuola, come ricorda il neuroscienziato William Stryker, che a metà degli anni settanta se lo ritrovò a Cold Spring Harbor studente tra gli studenti a prendere appunti dalle sue lezioni.
La convinzione anche solo di affrontare scientificamente l'"arduo problema" della coscienza era in quegli anni perlomeno visionaria ed anticonformista, tant'è che ancora nel decennio successivo gli psicologi cognitivi, che pure per mestiere si occupano della mente, consideravano la coscienza un oggetto di studio non rispettabile, a differenza per esempio della percezione e della memoria.
Negli Anni Novanta la coscienza avrebbe acquisito sempre più dignità accademica, disponendo di proprie riviste, come il Journal of Consciousness Studies oppure Psyche, e vedendo nascere centri universitari dove essa è diventata oggetto di studio.
Crick sapeva sempre qual è la persona giusta con cui affrontare i problemi", diceva di lui il collega di Cambridge Horace Barlow. Se per la scoperta della doppia elica la persona giusta fu James Watson, per i correlati neurali della coscienza essa si incarnò in Christof Koch, giovane biofisico di origine tedesca.
Crick, di concerto con Koch, non intendeva derogare dal metodo così vincente nel caso dei geni, e dunque si mise alla ricerca degli elementi più semplici sia della coscienza sia della elaborazione neurale; delle unità minime da cui costruire dal basso verso l'alto l'intero edificio di una scienza della coscienza, nello spirito di un metodo riduzionista puro; e di un metodo materialista, per cui soltanto aprendo la "scatola nera" e studiando i neuroni e le loro interazioni si poteva acquisire - così egli riteneva - la conoscenza per creare modelli scientifici della coscienza.
La filosofia della mente contempla gli atomi della coscienza: si chiamano «qualia» (al singolare «quale»). Essi indicano le entità squisitamente private, le esperienze soggettive della nostra vita cosciente. La sensazione del rosso che noi proviamo durante la percezione di una mela rossa è per esempio un quale. Se Crick, o chi per lui, avesse stabilito la correlazione tra un quale e la parte minima del cervello che lo genera, si sarebbe identificata una prima base biologica della coscienza.
Di dettagli molecolari, cellulari e anatomici le neuroscienze ne mettevano a disposizione a montagne: dagli squitti di singoli neuroni alla illuminazione di intere aree cerebrali durante lo svolgimento di un compito cognitivo. Dove andare a cercare la coscienza? Innanzitutto Crick e Koch scelsero di delimitarla, escludendo a priori forme più complesse, di non occuparsi dell’emozione oppure della coscienza di sé, ma di limitarsi all'attività neurale che produce ciascun aspetto particolare di coscienza, come la percezione di un colore oppure di una forma specifici. La scelta cadde sul sistema visivo dei primati perché in esso "l'immagine interna del mondo esterno è molto precisa e vivace" ed è il sistema neurale che conosciamo meglio: dalla psicologia della visione giù fino alle molecole che trasformano i fotoni di luce in impulsi nervosi, passando per l'architettura delle oltre trenta aree cerebrali coinvolte nella percezione visiva.
Molti scienziati ritenevano che la coscienza fosse un fenomeno globale del cervello, mentre Crick riteneva che solo pochi neuroni ne fossero responsabili in un determinato istante; che fosse un fenomeno locale. E infatti buona parte dell'attività del cervello non è associata con i «qualia», come dimostrano esperimenti elettrofisiologici in cui una furiosa attività neurale non è accompagnata da sensazione cosciente.
Gli esperimenti indicano che l'attività neurale coincidente con un «quale» deve essere mantenuta quanto meno per diverse centinaia di millisecondi ed è di tipo tutto o nulla, cioè a dire che la percezione cosciente di un attributo percettivo la sperimentiamo oppure non la sperimentiamo. Nel sistema visivo per esempio, i neuroni di un'area visiva sottocorticale, il corpo genicolato laterale, oppure dell'area V1 nella corteccia visiva, l'attività di migliaia di questi neuroni non sembra contribuire al percetto del soggetto, a differenza dei neuroni di un'altra area della corteccia specializzata nella visione, l'area IT, oppure del lobo mediale temporale negli esseri umani, che scaricano solo quando lo stimolo viene visto coscientemente.
Questi dati sono solo un primo piccolo passo nella definizione scientifica della coscienza, ma la cosa importante - ha scritto John Horgan - "è che Crick aveva raggiunto un obiettivo in apparenza impossibile: aver trasformato la coscienza da mistero filosofico a problema empirico".
Scientific American
la voce e la sessualità
Le Scienze, edizione italiana dello Scientific American 05.10.2004
Una voce attraente
Esiste un rapporto fra la bellezza della voce e l'attività sessuale
Una ricerca suggerisce che il suono della voce di una persona può determinare il suo livello di attività sessuale. Gli uomini e le donne la cui voce viene considerata più attraente, hanno in effetti un numero maggiore di partner sessuali ed erano più giovani al momento del primo rapporto, rispetto a coloro le cui voci vengono considerate meno attraenti.
"Il suono della voce di un individuo - conferma Susan M. Hughes del Vassar College di Poughkeepsie , autrice dello studio - può rivelare informazioni importanti ai potenziali compagni".
Nello studio, 149 uomini e donne hanno ascoltato voci registrate di individui anonimi, e le hanno valutate su una scala di cinque punti, da "molto sgradevole" a "molto attraente". In media, ogni voce è stata votata da sei uomini e da sei donne.
Quando i ricercatori hanno confrontato i voti con la storia sessuale dei partecipanti allo studio, hanno scoperto che gli uomini e le donne le cui voci erano state considerate più attraenti dal sesso opposto avevano avuto i primi rapporti a un'età minore, avevano più partner e più relazioni rispetto a quelli con voci meno attraenti.
Per quanto riguarda le donne, la voce sembrerebbe più attraente delle misure anatomiche. In un articolo pubblicato sul numero di settembre della rivista "Evolution and Human Behavior", Hugues e colleghi scrivono infatti che l'attrattività della voce consente di predire un alto livello di attività sessuale meglio del rapporto fra vita e fianchi.
Una voce attraente
Esiste un rapporto fra la bellezza della voce e l'attività sessuale
Una ricerca suggerisce che il suono della voce di una persona può determinare il suo livello di attività sessuale. Gli uomini e le donne la cui voce viene considerata più attraente, hanno in effetti un numero maggiore di partner sessuali ed erano più giovani al momento del primo rapporto, rispetto a coloro le cui voci vengono considerate meno attraenti.
"Il suono della voce di un individuo - conferma Susan M. Hughes del Vassar College di Poughkeepsie , autrice dello studio - può rivelare informazioni importanti ai potenziali compagni".
Nello studio, 149 uomini e donne hanno ascoltato voci registrate di individui anonimi, e le hanno valutate su una scala di cinque punti, da "molto sgradevole" a "molto attraente". In media, ogni voce è stata votata da sei uomini e da sei donne.
Quando i ricercatori hanno confrontato i voti con la storia sessuale dei partecipanti allo studio, hanno scoperto che gli uomini e le donne le cui voci erano state considerate più attraenti dal sesso opposto avevano avuto i primi rapporti a un'età minore, avevano più partner e più relazioni rispetto a quelli con voci meno attraenti.
Per quanto riguarda le donne, la voce sembrerebbe più attraente delle misure anatomiche. In un articolo pubblicato sul numero di settembre della rivista "Evolution and Human Behavior", Hugues e colleghi scrivono infatti che l'attrattività della voce consente di predire un alto livello di attività sessuale meglio del rapporto fra vita e fianchi.
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Cogne
La Stampa 6.10.04
COGNE, PARLA IL «SOSPETTO» INDICATO DAI LEGALI DELLA FRANZONI
«Io, assassino virtuale del piccolo Samuele»
E’ un uomo sulla quarantina, gentile e col sorriso triste, si dice allibito
«Mi hanno preso le impronte, mi fa pena chi mi ha tirato in mezzo»
«Perché mi hanno scelto? Sono solo, per loro ero un soggetto adatto»
E’ il sorriso più dolente che si possa incontrare. È il sorriso di una persona stanca, esasperata, stupefatta e che si sforza a ogni costo di essere gentile. Quest'uomo sulla quarantina è uno degli «assassini virtuali» di Samuele Lorenzi.
«Assassini virtuali» perché i loro nomi sono entrati in un troncone nuovo di inchiesta dopo che l'avvocato Carlo Taormina ha consegnato alla magistratura il suo dossier di investigazioni alternative a quelle dei giudici aostani. Una sera l'hanno avvertito: «Domani deve essere in caserma per le impronte digitali e palmari». Lui e altri tre o quattro in mezzo a 25 nomi che comprendono le persone più diverse. Non ha mai voluto parlare con i giornalisti. Ora ha detto «va bene». Ha guardato con noi l'intervista di Anna Maria Franzoni nella trasmissione «L'Antipatico».
Parla di quella lista come di una lugubre rosa, forse con qualche petalo che sporge di più, messo più in evidenza. Lui è uno di quei petali più lunghi. Ripensa alla Franzoni come è apparsa in tv e alla sua vicenda. Commenta a voce bassa: «Mi fa pena chi mi ha tirato in mezzo».
Ci racconta com’è andata? «Era la sera del 18, intorno alle sei. Ero a casa. Squilla il cellulare: siamo i carabinieri, scenda che dobbiamo notificarle un documento. Sono sceso, erano in due, in borghese, molto gentili. Mi hanno dato questo foglio».
È un «verbale di relata notifica» a persona «interessata». Non spiega nulla. Lui domanda a che cosa si fa riferimento: «Al delitto di Cogne», rispondono. «Mi è crollato un pezzo di monte Bianco in testa. Che c'entravo io? La mattina dopo vado in caserma. Era come alla mutua: prima la tornata delle nove, poi quella delle undici. Un andirivieni».
Tutta gente che si conosce, uomini e donne di Cogne e non solo, 25 in tutto, tra loro tutti i soccorritori entrati nella villetta e poi la gente più disparata. È interessante quella sfilata, ci sono persone stupefatte. Leggendo bene l'elenco viene fuori un ventaglio a 360 gradi. È facile dividerli per gruppi: uno è quello dei soccorritori, un altro è quello di chi fin dal primo giorno ha gridato all'innocenza di Anna Maria, il terzo è di uomini con un minimo comun denominatore, cioé la solitudine, la vita un pò difficile, il carattere a volte scontroso seppur più spesso con il sorriso indifeso.
Continua il racconto: «Mi prendono queste impronte e mi mandano a casa. Dopo qualche giorno ritornano e mi riportano in caserma. Sempre educati, gentili. Vogliono sapere dov'ero quella mattina. Il Bianco mi è caduto addosso tutto intero. Sa che cosa vuol dire capire che ti pensano capace di una cosa del genere? È indescrivibile, è atroce.
Vogliono sapere dov'ero. Mi salva l'elicottero che non ha potuto salvare Samuele, perché mi ricordo della polvere che ha alzato tutto intorno, mi ricordo che l'ho visto virare sul prato di Sant'Orso. E allora mi ricordo anche che ero a lavorare da prima delle otto, come è dimostrato. Loro vogliono sapere dove abitavo a quell'epoca e io lo dico. A quel punto il maresciallo mi dice addio. Metto in moto e me ne vado. Pensi che io quello che era successo lo venni a sapere soltanto alle undici e mezza».
In quella casa ci è mai stato? «No. Mai messo piede». E Anna Maria la conosceva, le piaceva, la seguiva? «L'ho vista qualche volta. Un bel tipo, ma non il mio tipo, non mi interessava. Vedevo più spesso Stefano e devo dire che l'ho visto come un ottimo padre, attento, amorevole».
Perché lei tra i possibili colpevoli? «Perché io? Perché sono una persona sola, i miei sono morti quando ero piccolo. Ho cominciato a lavorare a 14 anni e me la sono sempre cavata. Vuol sapere perché mi hanno messo in mezzo? Perché faccio parte dei soggetti più adatti. Ringrazio la procura e i carabinieri per come hanno lavorato, per il rispetto che hanno mantenuto. Perché non si gioca con i sentimenti, non si gioca su un bambino ucciso, non si gioca e basta».
COGNE, PARLA IL «SOSPETTO» INDICATO DAI LEGALI DELLA FRANZONI
«Io, assassino virtuale del piccolo Samuele»
E’ un uomo sulla quarantina, gentile e col sorriso triste, si dice allibito
«Mi hanno preso le impronte, mi fa pena chi mi ha tirato in mezzo»
«Perché mi hanno scelto? Sono solo, per loro ero un soggetto adatto»
E’ il sorriso più dolente che si possa incontrare. È il sorriso di una persona stanca, esasperata, stupefatta e che si sforza a ogni costo di essere gentile. Quest'uomo sulla quarantina è uno degli «assassini virtuali» di Samuele Lorenzi.
«Assassini virtuali» perché i loro nomi sono entrati in un troncone nuovo di inchiesta dopo che l'avvocato Carlo Taormina ha consegnato alla magistratura il suo dossier di investigazioni alternative a quelle dei giudici aostani. Una sera l'hanno avvertito: «Domani deve essere in caserma per le impronte digitali e palmari». Lui e altri tre o quattro in mezzo a 25 nomi che comprendono le persone più diverse. Non ha mai voluto parlare con i giornalisti. Ora ha detto «va bene». Ha guardato con noi l'intervista di Anna Maria Franzoni nella trasmissione «L'Antipatico».
Parla di quella lista come di una lugubre rosa, forse con qualche petalo che sporge di più, messo più in evidenza. Lui è uno di quei petali più lunghi. Ripensa alla Franzoni come è apparsa in tv e alla sua vicenda. Commenta a voce bassa: «Mi fa pena chi mi ha tirato in mezzo».
Ci racconta com’è andata? «Era la sera del 18, intorno alle sei. Ero a casa. Squilla il cellulare: siamo i carabinieri, scenda che dobbiamo notificarle un documento. Sono sceso, erano in due, in borghese, molto gentili. Mi hanno dato questo foglio».
È un «verbale di relata notifica» a persona «interessata». Non spiega nulla. Lui domanda a che cosa si fa riferimento: «Al delitto di Cogne», rispondono. «Mi è crollato un pezzo di monte Bianco in testa. Che c'entravo io? La mattina dopo vado in caserma. Era come alla mutua: prima la tornata delle nove, poi quella delle undici. Un andirivieni».
Tutta gente che si conosce, uomini e donne di Cogne e non solo, 25 in tutto, tra loro tutti i soccorritori entrati nella villetta e poi la gente più disparata. È interessante quella sfilata, ci sono persone stupefatte. Leggendo bene l'elenco viene fuori un ventaglio a 360 gradi. È facile dividerli per gruppi: uno è quello dei soccorritori, un altro è quello di chi fin dal primo giorno ha gridato all'innocenza di Anna Maria, il terzo è di uomini con un minimo comun denominatore, cioé la solitudine, la vita un pò difficile, il carattere a volte scontroso seppur più spesso con il sorriso indifeso.
Continua il racconto: «Mi prendono queste impronte e mi mandano a casa. Dopo qualche giorno ritornano e mi riportano in caserma. Sempre educati, gentili. Vogliono sapere dov'ero quella mattina. Il Bianco mi è caduto addosso tutto intero. Sa che cosa vuol dire capire che ti pensano capace di una cosa del genere? È indescrivibile, è atroce.
Vogliono sapere dov'ero. Mi salva l'elicottero che non ha potuto salvare Samuele, perché mi ricordo della polvere che ha alzato tutto intorno, mi ricordo che l'ho visto virare sul prato di Sant'Orso. E allora mi ricordo anche che ero a lavorare da prima delle otto, come è dimostrato. Loro vogliono sapere dove abitavo a quell'epoca e io lo dico. A quel punto il maresciallo mi dice addio. Metto in moto e me ne vado. Pensi che io quello che era successo lo venni a sapere soltanto alle undici e mezza».
In quella casa ci è mai stato? «No. Mai messo piede». E Anna Maria la conosceva, le piaceva, la seguiva? «L'ho vista qualche volta. Un bel tipo, ma non il mio tipo, non mi interessava. Vedevo più spesso Stefano e devo dire che l'ho visto come un ottimo padre, attento, amorevole».
Perché lei tra i possibili colpevoli? «Perché io? Perché sono una persona sola, i miei sono morti quando ero piccolo. Ho cominciato a lavorare a 14 anni e me la sono sempre cavata. Vuol sapere perché mi hanno messo in mezzo? Perché faccio parte dei soggetti più adatti. Ringrazio la procura e i carabinieri per come hanno lavorato, per il rispetto che hanno mantenuto. Perché non si gioca con i sentimenti, non si gioca su un bambino ucciso, non si gioca e basta».
Nobel e dintorni
La Stampa 06 Ottobre 2004
Piero Bianucci
Tre scienziati americani - David Gross, David Politzer e Frank Wilczek - ieri hanno visto premiare con il Nobel per la fisica una teoria che pubblicarono nel 1973: quella che spiega come e perché stanno insieme i quark, cioè i mattoni fondamentali della materia, e i nuclei atomici. Gross ha 63 anni e lavora all’Università della California a Santa Barbara; Wilczek, suo allievo, ha 53 anni e insegna al Massachusetts Institute of Technology; David Politzer, dopo aver studiato ad ad Harvard, è passato al California Institute of Technology di Pasadena: si divideranno in parti uguali una somma di oltre un milione di euro.
La teoria che i tre fisici elaborarono più di 30 anni fa si chiama «cromodinamica quantistica». Centinaia di esperimenti ne hanno comprovato la validità. Il Modello Standard delle particelle elementari ha in essa un caposaldo: senza questa teoria molti fenomeni del microcosmo sarebbero incomprensibili. Il Nobel arriva quindi con un po’ di ritardo...
La «cromodinamica quantistica», nonostante il suo nome, non ha nulla a che fare i colori. I fisici parlano di «colori» per caratterizzare le forze che agiscono tra i quark e nei nuclei atomici. I quark sono considerati attualmente particelle senza struttura, cioè entità realmente elementari, e sono sei; due soltanto però, chiamati Up e Down, entrano nella costituzione della materia di cui siamo fatti e di cui è fatto l’universo visibile. Combinazioni di tre di questi due tipi di quark formano i protoni (particelle con carica positiva) e i neutroni (particelle senza carica elettrica). A parte il caso dell’idrogeno, i nuclei sono costituiti da più protoni e neutroni, e i protoni, avendo la stessa carica, si respingono: i nuclei quindi non dovrebbero stare insieme. A renderli compatti provvede l’«interazione forte», grazie al fatto che è più forte dell’interazione elettromagnetica e dei suoi effetti repulsivi. Il comportamento di questa forza è singolare: agisce in un campo ristretto, che non supera i confini dei nuclei atomici più massicci, ma in questo ambito diventa più forte a distanza maggiore e più debole a distanza minore. Un po’ come la forza che bisogna esercitare per allungare un elastico aumenta via via che se ne allontanano i capi. I quark, quando sono confinati nei protoni e nei neutroni a distanze brevissime, possono quindi comportarsi quasi come se fossero particelle libere. La teoria di Gross, Wilczek e Politzer descrive in modo matematicamente coerente questo bizzarro comportamento.
«La possibilità di mantenere un regime debole dell’interazione forte - spiega Roberto Petronzio, presidente dell’Istituto di fisica nucleare - è alla base dell’esistenza di un nuovo stato della materia nucleare, il plasma di gluoni e quark, ottenibile a energia e densità elevate, che si studierà al Cern». Il prossimo obiettivo è arrivare a una teoria ancora più generale, che spieghi in modo unitario l’interazione forte, l’interazione elettro-debole e la gravità: la «teoria del Tutto». Chi ci riuscirà farà un viaggio a Stoccolma.
Repubblica 6.10.04
Tutti i segreti di un premio speciale
Alla vigilia del prestigioso riconoscimento per la letteratura
I protagonisti gli esclusi, le scelte Ecco come lo si assegna
PIERGIORGIO ODIFREDDI
Nel suo testamento del 27 novembre 1895 Alfred Nobel, divenuto miliardario per l´invenzione della dinamite, destinò la sua fortuna alla creazione di quelli che oggi sono i riconoscimenti più famosi e ambìti del mondo: gli annuali premi per la letteratura, la fisica, la chimica, la medicina e la pace, ai quali la Banca Centrale di Svezia ha aggiunto nel 1968 un analogo premio per l´economia. Nobel morì a San Remo il 10 dicembre 1896, e i suoi premi furono assegnati a partire dal 1901. Ogni anno la cerimonia ufficiale si tiene il 10 dicembre, in due solenni eventi paralleli: a Oslo il re di Norvegia consegna il premio per la pace, a Stoccolma il re di Svezia i rimanenti cinque. Ma i nomi dei vincitori vengono comunicati agli inizi di ottobre, proprio in questi giorni.
Per partire da casa nostra, i vincitori italiani sono stati finora diciannove: sei in letteratura (Carducci, Deledda, Pirandello, Quasimodo, Montale e Fo), cinque in medicina (Golgi, Bovet, Luria, Dulbecco e Levi Montalcini), cinque in fisica (Marconi, Fermi, Segrè, Rubbia, Giacconi) e uno in chimica (Natta), economia (Modigliani) e per la pace (Moneta).
Allargando lo sguardo al mondo intero, le donne insignite del premio sono state trentuno in tutto, di cui due italiane, variamente distribuite: da dieci per la pace a due per la fisica. Benché nessuna abbia vinto un premio intero nell´economia, si può dire che la moglie di Lucas Robert ne abbia vinto il cinquanta per cento nel 1995: grazie alla sentenza di divorzio, che le assegnava la metà di un eventuale premio futuro. La stessa cosa aveva fatto Albert Einstein, che girò preventivamente alla moglie l´intero premio: scommettendo, questa volta, sul sicuro.
Pochissime sono, ovviamente, le foto di famiglia nell´album dei vincitori: la più affollata è certamente quella dei Curie, con la madre Marie, il padre Pierre, la figlia Irene e il genero Frederic Joliot. In altri cinque casi vinsero padre e figlio, tra i quali Henry e William Bragg in uno stesso anno (1915), e Manne e Kai Siegbahn a cinquantasette anni di distanza (1922 e 1975), tutti per la fisica. In altri due casi vinsero marito e moglie, mentre di fratelli si registra invece solo una coppia.
Soltanto due persone hanno preso due volte lo stesso premio: John Bardeen in fisica, nel 1956 e 1972, e Frederick Sanger in chimica, nel 1958 e 1980. Altre due hanno meritato due premi diversi: Marie Curie in fisica e chimica, e Linus Pauling in chimica e per la pace. Il più giovane vincitore è stato William Bragg, che aveva venticinque anni. Il più sfortunato William Vickrey, che nel 1996 morí tre giorni dopo aver ricevuto la notizia della vittoria.
Le persone che hanno rifiutato il premio si contano, letteralmente, sulle dita di una mano. I russi obbligarono Boris Pasternak (letteratura) a declinare nel 1958. Lo stesso avevano fatto i tedeschi con Richard Kuhn e Adolf Butenandt (chimica) e Gerhard Domagck (medicina) nel 1938-39, ma essi furono reintegrati dopo la guerra. Gli unici rifiuti spontanei sono quelli di Jean Paul Sartre (letteratura) nel 1964 e Le Duc Tho (pace) nel 1973.
Il premio per la pace ha, ovviamente, forti connotazioni politiche. Spesso è stato assegnato a organizzazioni indiscutibili: l´alto commissariato Onu per i rifugiati, la campagna contro le mine, i medici senza frontiere, la Croce Rossa, Amnesty International, l´Unicef. A volte è andato a figure carismatiche quali il Dalai Lama, madre Teresa e il dottor Schweitzer, o a simboli della lotta contro l´oppressione quali Mandela, Sacharov e Martin Luther King. Troppo spesso, però, è stato assegnato a coloro che la pace la fanno solo dopo aver fatto la guerra. Il caso più controverso è certamente quello di Henry Kissinger, che l´ha ricevuto insieme a Le Duc Tho: un movimento popolare sta ora cercando di farglielo revocare, a causa delle sue responsabilità nel genocidio in Cambogia e nel colpo di stato di Pinochet.
Anche il premio per la letteratura ha una natura politica, benché meno evidente. Sartre lo rifiutò appunto perché non voleva un riconoscimento che andava soltanto a scrittori occidentali o dissidenti. Oltre a Pasternak, il più famoso di questi ultimi fu certamente Solgenitsyn, che non andò a ritirarlo nel 1970 per timore di non poter rientrare in Unione Sovietica, e lo ricevette dopo essere stato espulso nel 1974. Un´ulteriore anomalia del premio per la letteratura è che fra i vincitori ci sono molti scrittori di secondo piano, dimenticabili e dimenticati, ma non i più grandi nomi del secolo: Proust, Joyce, Musil, Gadda e Borges, tanto per rimanere alle lingue europee. Il che suona ironico, visto che in genere è proprio questo il premio che riceve la maggiore attenzione mediatica.
Il premio per la fisica è invece il più ambíto tra quelli scientifici. L´hanno ricevuto i padri fondatori della meccanica quantistica (Planck, Bohr, Heisenberg, Schrödinger e Dirac), cosí come i creatori dell´elettrodinamica quantistica (Feynman, Schwinger e Tomonaga) e gli unificatori della forza elettrodebole (Glashow, Weinberg e Salam). Stranamente, invece, nessun premio è mai stato assegnato per la relatività: neppure a Einstein, che ne avrebbe meritati parecchi e ne ricevette uno solo, per un lavoro secondario sull´effetto fotoelettrico. Molti premi sono andati ai fisici sperimentali, che hanno scoperto in laboratorio le particelle previste dalla teoria: dal positrone (Anderson) ai bosoni deboli (Rubbia).
I vincitori del premio per la chimica sono forse i meno noti al pubblico, benché fra essi ci siano nomi quali i già citati Marie Curie e Linus Pauling. Più fortunati sono i medici, il cui premio comprende ufficialmente la fisiologia e ufficiosamente la biologia: nella lista dei laureati troviamo personaggi ormai passati alla storia, che hanno legato il loro nome ai riflessi condizionati (Pavlov), alla penicillina (Fleming), all´elica del Dna (Crick e Watson), al caso e alla necessità (Monod), all´etologia (Lorenz) e alla lateralizzazione del cervello (Sperry).
Il premio per l´economia, ultimo arrivato, riflette la duplicità di una disciplina ancora costretta a barcamenarsi tra fatti e opinioni. A un estremo si situano gli economisti matematici, dimostratori di profondi teoremi sulle scelte sociali (Arrow e Sen), l´equilibrio dei mercati (Debreu), la pianificazione (Kantorovich) e la teoria dei giochi (Nash). All´altro estremo si trovano gli economisti politici, dispensatori di superficiali slogan ideologici: il più controverso è Milton Friedman, ultrà del liberalismo e del monetarismo, che fornì a Pinochet la copertura intellettuale per i suoi esperimenti economici.
Kissinger e Friedman non sono però i soli premi Nobel imbarazzanti della storia. Altrettanto lo è stato Antonio Moniz, premiato nel 1949 per «la scoperta del valore terapeutico della lobotomizzazione», una pratica oggi considerata più uno strumento di tortura che una terapia clinica. O Hermann Müller, vincitore nel 1946 per la medicina, dopo essere emigrato dagli Stati Uniti in Unione Sovietica per proporre a Stalin un programma eugenetico. O Fritz Haber, vincitore nel 1918 per la chimica, dopo aver inventato e inaugurato nella Prima Guerra Mondiale la prima letale arma chimica (il gas di cloro). Fortunatamente, però, queste sono eccezioni: la regola del premio Nobel è quella che gli ha permesso di diventare, in un secolo, un diploma di eccellenza che molti sognano di vincere, anche se pochi ci riescono.
La Stampa TuttoLibri 2.10.04
Giovani, vi esorto alla scienza
Tullio Regge
AI miei tempi, parlo di mezzo secolo fa, era di moda la fisica: relatività e meccanica dei quanti erano per me un’esca irresistibile. Erano i tempi della rivoluzione scientifica con i suoi eroi e le sue leggende. La fisica ha sconvolto la nostra visione del microcosmo e del macrocosmo, ha dato impulso a nuove tecnologie che a loro volta hanno scatenato altre rivoluzioni scientifiche in campi diversi del sapere come la biologia, l’astrofisica e la matematica. Nonostante il mio entusiasmo, penso che la carica rivoluzionaria della fisica stia per esaurirsi o che stia perlomeno andando incontro a una fase di stasi, che spero temporanea. Come avrebbe detto il filosofo della scienza Thomas Kuhn, la fisica è al momento in una fase di «scienza normale»: la bandiera della rivoluzione è ora in mano alla biologia, ma anche a discipline affini alla fisica e dallo sviluppo tumultuoso come la cosmologia e l’astrofisica. Telescopi spaziali, sonde e nuovi grandi telescopi terrestri, ma anche possenti metodi informatici, hanno rivoluzionato le tecniche osservative.
Quello che voglio consigliarvi è di rivolgervi alle scienze in fase di rapido sviluppo e di guardare al futuro, ma al tempo stesso di non cedere alle mode. Chi si ricorda più della cibernetica? Trent’anni fa pareva la fine del mondo, e oggi è ormai un carrozzone in disuso, buono solo per gli antiquari. Lo stesso dicasi dei frattali. State attenti alle etichette che promettono molto ma che poi svaniscono nel nulla. Come antidoto consultatevi con degli esperti, e non con uno solo, ma con molti, in modo da comporre una visione equilibrata della vostra personale ricerca.
Dopo Panofsky ho conosciuto Millard Meiss, e poi Irvin e Marilyn Lavin, suoi successori all’Institute for Advanced Study di Princeton. Raccontai loro della mia visita ad Arezzo e della mia meraviglia davanti agli affreschi di Piero della Francesca, e appresi che l’artista era stato anche un grande matematico, come testimonia il suo trattato De quinque corporibus regularibus, scritto in latino e tradotto poi in italiano nel 1509, dopo la sua morte.
Nei suoi dipinti appaiono i cinque solidi platonici: non solo il cubo, l’ottaedro e il tetraedro regolare, ma anche l’icosaedro e il pentagondodecaedro, oggetti assai più impegnativi dal punto di vista formale. Piero della Francesca manipolava disinvoltamente le radici quadrate utilizzate nella sezione aurea e ovunque appaia la simmetria pentagonale. Di grande interesse e ancora attuale è la formalizzazione delle leggi della prospettiva utilizzate nella sua opera fondamentale De prospectiva pingendi.
Piero della Francesca morì il 12 ottobre 1492, il giorno della scoperta dell’America e della fine del Medioevo. Nei secoli successivi l’armoniosa coesistenza e simbiosi tra arte, cultura umanistica e scienza, gloria e vanto del Rinascimento, è venuta gradualmente meno, ed è logico chiedersi il perché. Tra le varie cause, la caduta del sistema geocentrico, seguita dal successo spettacolare della nuova astronomia e della legge di Newton, e poi il susseguirsi di sempre nuove rivoluzioni scientifiche. In Italia, poi, credo che l’influsso del neoidealismo di Croce e Gentile - dominante nella cultura del Novecento - abbia dato il colpo di grazia a una dicotomia già molto difficile da ricomporre, tentando fra l’altro di relegare la scienza a un ruolo subordinato. Croce sosteneva che la scienza fosse mera «ingegneria», che il suo valore fosse esclusivamente pratico e non potesse quindi costituire una vera conoscenza. Anche se il neoidealismo appartiene ormai al passato, i danni che ha causato sono ancora evidenti.
Ho voluto ricordare la figura di Piero della Francesca e il fascino che esercitò su di me tanti anni fa proprio per mostrare come scienza e arte, e più in generale mondi che sembrano così lontani tra loro come la ragione e la creatività, o la fantasia, in realtà non lo siano affatto. Credo invece che appartengano tutti a una dimensione umana più ampia di quanto ci abbiano voluto far credere molti secoli di eventi e varie correnti di pensiero. E’ quella dimensione in cui, ed è su questo che vi invito a riflettere, riusciamo a cogliere e ammirare la bellezza di un teorema di matematica o di un’equazione di fisica, e nello stesso modo un dipinto o un brano musicale - penso soprattutto a Johann Sebastian Bach, uno dei miei idoli - ci appaiono nella loro perfezione numerica e geometrica, sublime quanto emozionante.
Piero Bianucci
Tre scienziati americani - David Gross, David Politzer e Frank Wilczek - ieri hanno visto premiare con il Nobel per la fisica una teoria che pubblicarono nel 1973: quella che spiega come e perché stanno insieme i quark, cioè i mattoni fondamentali della materia, e i nuclei atomici. Gross ha 63 anni e lavora all’Università della California a Santa Barbara; Wilczek, suo allievo, ha 53 anni e insegna al Massachusetts Institute of Technology; David Politzer, dopo aver studiato ad ad Harvard, è passato al California Institute of Technology di Pasadena: si divideranno in parti uguali una somma di oltre un milione di euro.
La teoria che i tre fisici elaborarono più di 30 anni fa si chiama «cromodinamica quantistica». Centinaia di esperimenti ne hanno comprovato la validità. Il Modello Standard delle particelle elementari ha in essa un caposaldo: senza questa teoria molti fenomeni del microcosmo sarebbero incomprensibili. Il Nobel arriva quindi con un po’ di ritardo...
La «cromodinamica quantistica», nonostante il suo nome, non ha nulla a che fare i colori. I fisici parlano di «colori» per caratterizzare le forze che agiscono tra i quark e nei nuclei atomici. I quark sono considerati attualmente particelle senza struttura, cioè entità realmente elementari, e sono sei; due soltanto però, chiamati Up e Down, entrano nella costituzione della materia di cui siamo fatti e di cui è fatto l’universo visibile. Combinazioni di tre di questi due tipi di quark formano i protoni (particelle con carica positiva) e i neutroni (particelle senza carica elettrica). A parte il caso dell’idrogeno, i nuclei sono costituiti da più protoni e neutroni, e i protoni, avendo la stessa carica, si respingono: i nuclei quindi non dovrebbero stare insieme. A renderli compatti provvede l’«interazione forte», grazie al fatto che è più forte dell’interazione elettromagnetica e dei suoi effetti repulsivi. Il comportamento di questa forza è singolare: agisce in un campo ristretto, che non supera i confini dei nuclei atomici più massicci, ma in questo ambito diventa più forte a distanza maggiore e più debole a distanza minore. Un po’ come la forza che bisogna esercitare per allungare un elastico aumenta via via che se ne allontanano i capi. I quark, quando sono confinati nei protoni e nei neutroni a distanze brevissime, possono quindi comportarsi quasi come se fossero particelle libere. La teoria di Gross, Wilczek e Politzer descrive in modo matematicamente coerente questo bizzarro comportamento.
«La possibilità di mantenere un regime debole dell’interazione forte - spiega Roberto Petronzio, presidente dell’Istituto di fisica nucleare - è alla base dell’esistenza di un nuovo stato della materia nucleare, il plasma di gluoni e quark, ottenibile a energia e densità elevate, che si studierà al Cern». Il prossimo obiettivo è arrivare a una teoria ancora più generale, che spieghi in modo unitario l’interazione forte, l’interazione elettro-debole e la gravità: la «teoria del Tutto». Chi ci riuscirà farà un viaggio a Stoccolma.
Repubblica 6.10.04
Tutti i segreti di un premio speciale
Alla vigilia del prestigioso riconoscimento per la letteratura
I protagonisti gli esclusi, le scelte Ecco come lo si assegna
PIERGIORGIO ODIFREDDI
Nel suo testamento del 27 novembre 1895 Alfred Nobel, divenuto miliardario per l´invenzione della dinamite, destinò la sua fortuna alla creazione di quelli che oggi sono i riconoscimenti più famosi e ambìti del mondo: gli annuali premi per la letteratura, la fisica, la chimica, la medicina e la pace, ai quali la Banca Centrale di Svezia ha aggiunto nel 1968 un analogo premio per l´economia. Nobel morì a San Remo il 10 dicembre 1896, e i suoi premi furono assegnati a partire dal 1901. Ogni anno la cerimonia ufficiale si tiene il 10 dicembre, in due solenni eventi paralleli: a Oslo il re di Norvegia consegna il premio per la pace, a Stoccolma il re di Svezia i rimanenti cinque. Ma i nomi dei vincitori vengono comunicati agli inizi di ottobre, proprio in questi giorni.
Per partire da casa nostra, i vincitori italiani sono stati finora diciannove: sei in letteratura (Carducci, Deledda, Pirandello, Quasimodo, Montale e Fo), cinque in medicina (Golgi, Bovet, Luria, Dulbecco e Levi Montalcini), cinque in fisica (Marconi, Fermi, Segrè, Rubbia, Giacconi) e uno in chimica (Natta), economia (Modigliani) e per la pace (Moneta).
Allargando lo sguardo al mondo intero, le donne insignite del premio sono state trentuno in tutto, di cui due italiane, variamente distribuite: da dieci per la pace a due per la fisica. Benché nessuna abbia vinto un premio intero nell´economia, si può dire che la moglie di Lucas Robert ne abbia vinto il cinquanta per cento nel 1995: grazie alla sentenza di divorzio, che le assegnava la metà di un eventuale premio futuro. La stessa cosa aveva fatto Albert Einstein, che girò preventivamente alla moglie l´intero premio: scommettendo, questa volta, sul sicuro.
Pochissime sono, ovviamente, le foto di famiglia nell´album dei vincitori: la più affollata è certamente quella dei Curie, con la madre Marie, il padre Pierre, la figlia Irene e il genero Frederic Joliot. In altri cinque casi vinsero padre e figlio, tra i quali Henry e William Bragg in uno stesso anno (1915), e Manne e Kai Siegbahn a cinquantasette anni di distanza (1922 e 1975), tutti per la fisica. In altri due casi vinsero marito e moglie, mentre di fratelli si registra invece solo una coppia.
Soltanto due persone hanno preso due volte lo stesso premio: John Bardeen in fisica, nel 1956 e 1972, e Frederick Sanger in chimica, nel 1958 e 1980. Altre due hanno meritato due premi diversi: Marie Curie in fisica e chimica, e Linus Pauling in chimica e per la pace. Il più giovane vincitore è stato William Bragg, che aveva venticinque anni. Il più sfortunato William Vickrey, che nel 1996 morí tre giorni dopo aver ricevuto la notizia della vittoria.
Le persone che hanno rifiutato il premio si contano, letteralmente, sulle dita di una mano. I russi obbligarono Boris Pasternak (letteratura) a declinare nel 1958. Lo stesso avevano fatto i tedeschi con Richard Kuhn e Adolf Butenandt (chimica) e Gerhard Domagck (medicina) nel 1938-39, ma essi furono reintegrati dopo la guerra. Gli unici rifiuti spontanei sono quelli di Jean Paul Sartre (letteratura) nel 1964 e Le Duc Tho (pace) nel 1973.
Il premio per la pace ha, ovviamente, forti connotazioni politiche. Spesso è stato assegnato a organizzazioni indiscutibili: l´alto commissariato Onu per i rifugiati, la campagna contro le mine, i medici senza frontiere, la Croce Rossa, Amnesty International, l´Unicef. A volte è andato a figure carismatiche quali il Dalai Lama, madre Teresa e il dottor Schweitzer, o a simboli della lotta contro l´oppressione quali Mandela, Sacharov e Martin Luther King. Troppo spesso, però, è stato assegnato a coloro che la pace la fanno solo dopo aver fatto la guerra. Il caso più controverso è certamente quello di Henry Kissinger, che l´ha ricevuto insieme a Le Duc Tho: un movimento popolare sta ora cercando di farglielo revocare, a causa delle sue responsabilità nel genocidio in Cambogia e nel colpo di stato di Pinochet.
Anche il premio per la letteratura ha una natura politica, benché meno evidente. Sartre lo rifiutò appunto perché non voleva un riconoscimento che andava soltanto a scrittori occidentali o dissidenti. Oltre a Pasternak, il più famoso di questi ultimi fu certamente Solgenitsyn, che non andò a ritirarlo nel 1970 per timore di non poter rientrare in Unione Sovietica, e lo ricevette dopo essere stato espulso nel 1974. Un´ulteriore anomalia del premio per la letteratura è che fra i vincitori ci sono molti scrittori di secondo piano, dimenticabili e dimenticati, ma non i più grandi nomi del secolo: Proust, Joyce, Musil, Gadda e Borges, tanto per rimanere alle lingue europee. Il che suona ironico, visto che in genere è proprio questo il premio che riceve la maggiore attenzione mediatica.
Il premio per la fisica è invece il più ambíto tra quelli scientifici. L´hanno ricevuto i padri fondatori della meccanica quantistica (Planck, Bohr, Heisenberg, Schrödinger e Dirac), cosí come i creatori dell´elettrodinamica quantistica (Feynman, Schwinger e Tomonaga) e gli unificatori della forza elettrodebole (Glashow, Weinberg e Salam). Stranamente, invece, nessun premio è mai stato assegnato per la relatività: neppure a Einstein, che ne avrebbe meritati parecchi e ne ricevette uno solo, per un lavoro secondario sull´effetto fotoelettrico. Molti premi sono andati ai fisici sperimentali, che hanno scoperto in laboratorio le particelle previste dalla teoria: dal positrone (Anderson) ai bosoni deboli (Rubbia).
I vincitori del premio per la chimica sono forse i meno noti al pubblico, benché fra essi ci siano nomi quali i già citati Marie Curie e Linus Pauling. Più fortunati sono i medici, il cui premio comprende ufficialmente la fisiologia e ufficiosamente la biologia: nella lista dei laureati troviamo personaggi ormai passati alla storia, che hanno legato il loro nome ai riflessi condizionati (Pavlov), alla penicillina (Fleming), all´elica del Dna (Crick e Watson), al caso e alla necessità (Monod), all´etologia (Lorenz) e alla lateralizzazione del cervello (Sperry).
Il premio per l´economia, ultimo arrivato, riflette la duplicità di una disciplina ancora costretta a barcamenarsi tra fatti e opinioni. A un estremo si situano gli economisti matematici, dimostratori di profondi teoremi sulle scelte sociali (Arrow e Sen), l´equilibrio dei mercati (Debreu), la pianificazione (Kantorovich) e la teoria dei giochi (Nash). All´altro estremo si trovano gli economisti politici, dispensatori di superficiali slogan ideologici: il più controverso è Milton Friedman, ultrà del liberalismo e del monetarismo, che fornì a Pinochet la copertura intellettuale per i suoi esperimenti economici.
Kissinger e Friedman non sono però i soli premi Nobel imbarazzanti della storia. Altrettanto lo è stato Antonio Moniz, premiato nel 1949 per «la scoperta del valore terapeutico della lobotomizzazione», una pratica oggi considerata più uno strumento di tortura che una terapia clinica. O Hermann Müller, vincitore nel 1946 per la medicina, dopo essere emigrato dagli Stati Uniti in Unione Sovietica per proporre a Stalin un programma eugenetico. O Fritz Haber, vincitore nel 1918 per la chimica, dopo aver inventato e inaugurato nella Prima Guerra Mondiale la prima letale arma chimica (il gas di cloro). Fortunatamente, però, queste sono eccezioni: la regola del premio Nobel è quella che gli ha permesso di diventare, in un secolo, un diploma di eccellenza che molti sognano di vincere, anche se pochi ci riescono.
La Stampa TuttoLibri 2.10.04
Giovani, vi esorto alla scienza
Tullio Regge
AI miei tempi, parlo di mezzo secolo fa, era di moda la fisica: relatività e meccanica dei quanti erano per me un’esca irresistibile. Erano i tempi della rivoluzione scientifica con i suoi eroi e le sue leggende. La fisica ha sconvolto la nostra visione del microcosmo e del macrocosmo, ha dato impulso a nuove tecnologie che a loro volta hanno scatenato altre rivoluzioni scientifiche in campi diversi del sapere come la biologia, l’astrofisica e la matematica. Nonostante il mio entusiasmo, penso che la carica rivoluzionaria della fisica stia per esaurirsi o che stia perlomeno andando incontro a una fase di stasi, che spero temporanea. Come avrebbe detto il filosofo della scienza Thomas Kuhn, la fisica è al momento in una fase di «scienza normale»: la bandiera della rivoluzione è ora in mano alla biologia, ma anche a discipline affini alla fisica e dallo sviluppo tumultuoso come la cosmologia e l’astrofisica. Telescopi spaziali, sonde e nuovi grandi telescopi terrestri, ma anche possenti metodi informatici, hanno rivoluzionato le tecniche osservative.
Quello che voglio consigliarvi è di rivolgervi alle scienze in fase di rapido sviluppo e di guardare al futuro, ma al tempo stesso di non cedere alle mode. Chi si ricorda più della cibernetica? Trent’anni fa pareva la fine del mondo, e oggi è ormai un carrozzone in disuso, buono solo per gli antiquari. Lo stesso dicasi dei frattali. State attenti alle etichette che promettono molto ma che poi svaniscono nel nulla. Come antidoto consultatevi con degli esperti, e non con uno solo, ma con molti, in modo da comporre una visione equilibrata della vostra personale ricerca.
* * *
Se potessi rinascere e ricominciare tutto da capo forse cambierei mestiere, lascerei la fisica e mi occuperei di storia dell’arte. Uno dei miei primi ricordi di Princeton, siamo ancora negli Anni Sessanta, è l’incontro con un buffo ometto, uno storico dell’arte. Mi chiese da dove provenissi, e quando gli dissi che venivo da Torino, città che secondo me aveva ben poco da offrire, reagì vigorosamente elencando una lunga serie di tesori artistici che temo siano tuttora ben nascosti nella mia città. Aveva una memoria stupefacente, ed era anche molto simpatico. Solo diverso tempo dopo scoprii che quel buffo ometto era Erwin Panofsky, considerato dagli esperti come l’Einstein della storia dell’arte.
Dopo Panofsky ho conosciuto Millard Meiss, e poi Irvin e Marilyn Lavin, suoi successori all’Institute for Advanced Study di Princeton. Raccontai loro della mia visita ad Arezzo e della mia meraviglia davanti agli affreschi di Piero della Francesca, e appresi che l’artista era stato anche un grande matematico, come testimonia il suo trattato De quinque corporibus regularibus, scritto in latino e tradotto poi in italiano nel 1509, dopo la sua morte.
Nei suoi dipinti appaiono i cinque solidi platonici: non solo il cubo, l’ottaedro e il tetraedro regolare, ma anche l’icosaedro e il pentagondodecaedro, oggetti assai più impegnativi dal punto di vista formale. Piero della Francesca manipolava disinvoltamente le radici quadrate utilizzate nella sezione aurea e ovunque appaia la simmetria pentagonale. Di grande interesse e ancora attuale è la formalizzazione delle leggi della prospettiva utilizzate nella sua opera fondamentale De prospectiva pingendi.
Piero della Francesca morì il 12 ottobre 1492, il giorno della scoperta dell’America e della fine del Medioevo. Nei secoli successivi l’armoniosa coesistenza e simbiosi tra arte, cultura umanistica e scienza, gloria e vanto del Rinascimento, è venuta gradualmente meno, ed è logico chiedersi il perché. Tra le varie cause, la caduta del sistema geocentrico, seguita dal successo spettacolare della nuova astronomia e della legge di Newton, e poi il susseguirsi di sempre nuove rivoluzioni scientifiche. In Italia, poi, credo che l’influsso del neoidealismo di Croce e Gentile - dominante nella cultura del Novecento - abbia dato il colpo di grazia a una dicotomia già molto difficile da ricomporre, tentando fra l’altro di relegare la scienza a un ruolo subordinato. Croce sosteneva che la scienza fosse mera «ingegneria», che il suo valore fosse esclusivamente pratico e non potesse quindi costituire una vera conoscenza. Anche se il neoidealismo appartiene ormai al passato, i danni che ha causato sono ancora evidenti.
Ho voluto ricordare la figura di Piero della Francesca e il fascino che esercitò su di me tanti anni fa proprio per mostrare come scienza e arte, e più in generale mondi che sembrano così lontani tra loro come la ragione e la creatività, o la fantasia, in realtà non lo siano affatto. Credo invece che appartengano tutti a una dimensione umana più ampia di quanto ci abbiano voluto far credere molti secoli di eventi e varie correnti di pensiero. E’ quella dimensione in cui, ed è su questo che vi invito a riflettere, riusciamo a cogliere e ammirare la bellezza di un teorema di matematica o di un’equazione di fisica, e nello stesso modo un dipinto o un brano musicale - penso soprattutto a Johann Sebastian Bach, uno dei miei idoli - ci appaiono nella loro perfezione numerica e geometrica, sublime quanto emozionante.
* * *
Vorrei che si sviluppasse in voi giovani il senso critico, ossia la capacità di valutare le cose per quelle che sono, senza filtri demagogici o dogmatismi di sorta, avendo il coraggio, se necessario, di dubitare anche di quello che tutti sembrano ritenere ovvio. Significa anche saper giudicare a partire dai fatti, e non lasciarsi fuorviare dalle idee degli altri senza averle prima fatte nostre, né permettere che le nostre si irrigidiscano. Significa documentarsi, andare instancabilmente alla ricerca di conferme, saper cambiare idea e riconoscere i propri errori. E’ quanto di meglio la scienza, e il metodo scientifico, mi abbiano mai insegnato. Spero che possa insegnarlo anche a voi.
* * *
Prima ancora di abbracciare la nobile causa dell’ambientalismo, dovremmo forse pensare a un’«ecologia della mente», sbarazzarci dei pregiudizi, tornare al dialogo aperto e costruttivo. Non abbiate paura di dubitare, e di criticare tutto quello che non vi convince fino in fondo. Abbiate la forza e il coraggio di sostenere le vostre idee, anche se vi sembrano impopolari, anche quando non vi sentite appoggiati. La forza della ragione è in ciascuno di voi. E’ questa la scienza che voglio provare ad insegnarvi: quella mossa dal ragionamento critico, lo stesso che già due secoli fa insegnavano gli illuministi e dopo di loro il grande filosofo Kant, e che riassumerei così: pensate con la vostra testa.
Cina:
cambia la politica sulla natalità
Repubblica 6.10.04
Cina, via la legge sul figlio unico è crisi per il crollo delle nascite
Lo stop all´aumento della popolazione sta creando problemi economici, sanitari e previdenziali
Negli ultimi 25 anni era stata sconfitta la "bomba demografica": adesso è emergenza per la denatalità
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
FEDERICO RAMPINI
PECHINO - Ci sono due fratellini di pochi mesi che indossano l´antico costume imperiale e la treccia da mandarino. Altri in barba alla tradizione hanno preferito sfoggiare un cappello da cowboy. Alcuni sono arrivati sul passeggino-tandem spinto dalla mamma, i due più anziani (70 anni) appoggiandosi al bastone. Sono le cinquecento coppie che da sabato nel parco vicino alla Città proibita animano il primo festival dei gemelli. Per l´evento sono venuti da tutta la Cina e il telegiornale di Stato in vena di facezie gli ha dedicato questo titolo di apertura: «Pechino ci vede doppio». In un paese con 100 milioni di figli unici i gemelli sono i privilegiati di madre natura: crescono in compagnia di un fratello o di una sorella, senza che i loro genitori debbano pagare multe e tasse salate per aver infranto la legge sul controllo delle nascite. «Noi non siamo mai sole» ha dichiarato esultante alla tv Wang Yanren, una di tre gemelle quindicenni.
Questo festival nazionale dei gemelli è stato orchestrato con gran pubblicità in coincidenza con la settimana di vacanze che si apre ogni anno il primo ottobre, anniversario della Rivoluzione. Come spesso accade in Cina anche con gli eventi più leggeri, la sceneggiatura lascia trapelare un disegno politico. Contrordine compagni, e soprattutto compagne. Negli ultimi 25 anni la Cina ha sconfitto la sua «bomba demografica» con la più efficace politica di limitazione della natalità mai applicata al mondo. La legge del figlio unico ha frenato brutalmente l´aumento della popolazione, che ormai cresce solo dello 0,7% annuo. Appena una generazione fa, la Cina aveva una volta e mezzo gli abitanti dell´India, fra dieci anni l´India l´avrà raggiunta a quota 1,4 miliardi. Il successo cinese non è stato indolore. Quando fu varato alla fine degli anni 70 il controllo delle nascite, soprattutto nelle campagne, veniva applicato dal partito comunista con metodi autoritari (inclusi gli aborti forzati) denunciati dai difensori dei diritti umani. In seguito subentrarono strumenti più soft come i disincentivi fiscali e assistenziali (oltre il primo figlio salgono le tasse e rincara la scuola). Qui e là ci furono anche delle eccezioni, nelle aree più depresse, per alcune minoranze etniche, o per arginare gli infanticidi di bambine nelle campagne, le autorità chiusero un occhio sul secondo figlio. Ma intanto l´emancipazione femminile, l´istruzione e il lavoro delle donne hanno avuto un ruolo decisivo sul crollo della prolificità. Oggi nelle metropoli «americanizzate» di Pechino Shanghai e Guangzhou i giovani preferiscono godersi il benessere, le mogli pensano alla carriera, dilaga il trend sociale delle coppie che decidono di rimanere a quota zero figli, questa volta senza nessuna pianificazione dall´alto. Di colpo il governo di Pechino deve fronteggiare - su una scala senza eguali al mondo - tutti i problemi creati dalla denatalità: invecchiamento accelerato, emergenza-pensioni, crisi della sanità.
Shanghai, la City della finanza e la capitale del boom industriale, è già alle prese con i sintomi di una penuria di giovani sul mercato del lavoro.
Spesso all´avanguardia nei cambiamenti politici, Shanghai il mese scorso ha rotto il tabù per prima: le autorità cittadine hanno offerto incentivi fiscali alle coppie che fanno due figli. Adesso lo strappo sta per diventare nazionale. Il presidente Hu Jintao ha nominato una task force di 250 demografi ed economisti incaricati di riesaminare la politica delle nascite. Dai lavori della commissione è già trapelata un´anticipazione: gli esperti consigliano di adottare ufficialmente la «politica dei due figli», indispensabile nel lungo termine per stabilizzare la popolazione e garantire un equilibrio tra vecchi e giovani.
Per un paese che nella nostra memoria è ancora associato alla sovrappopolazione, i problemi oggi si sono invertiti drammaticamente. Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, tra vent´anni l´età media dei cinesi avrà superato quella degli americani. Nel 2025, gli ultrasessantenni in Cina saranno più di 300 milioni mentre dietro di loro le generazioni più giovani si assottigliano. L´emergenza è accentuata dal fatto che la Cina - comunista ormai solo di nome - non ha un sistema previdenziale moderno. Solo di recente il governo ha pubblicato un Libro Bianco sulle pensioni. La maggioranza della popolazione - dai contadini agli immigrati nelle città, dai dipendenti delle piccole imprese ai lavoratori autonomi - deve affrontare la vecchiaia senza rete. Nella tradizione confuciana l´unico Welfare è la famiglia. È un sistema che poteva funzionare nella Cina imperiale, quando gli anziani erano circondati da un esercito di figli e nuore, nipoti e pronipoti. Diventa una ricetta impraticabile nella Cina del «figlio unico», che dovrebbe sostentare da solo genitori e nonni sempre più longevi. L´emergenza-anziani è tanto più grave perché la Cina, a differenza dagli Stati Uniti e dal Giappone, ha avuto meno tempo a disposizione per prepararsi alla nuova fase demografica. Secondo la battuta dell´economista Hu Angang della università Qinghua di Pechino, «noi qui rischiamo di diventare vecchi prima di essere diventati ricchi». Nel 2040 la popolazione di cinesi anziani avrà superato quella americana, ma il reddito pro capite no.
Insieme con i problemi previdenziali ed economici, il controllo delle nascite ha anche provocato un ribaltamento nei valori e nei comportamenti. La Cina dei «cento milioni di figli unici» è diventata una società più individualista, più egoista, dove il rispetto degli anziani è stato gradualmente sostituito dall´idolatrìa dei bambini. La scarsità li ha resi preziosi, quindi viziati e coccolati come nelle peggiori società consumistiche. Per questo fenomeno sociale - del tutto sconosciuto nella storia della società cinese dominata dall´autorità degli anziani - è stato coniato il nome di Xiao Huangdi, cioè «piccoli imperatori». Il celebre letterato Yang Xiaosheng, in un´intervista al Beijing Star Daily, ha descritto questa cultura dei figli unici come «egocentrici, arrivisti spietati, incapaci di accettare critiche». Generazioni di genitori e nonni, che dovettero interrompere gli studi negli anni terribili della Rivoluzione culturale, oggi danno fondo a tutti i loro risparmi per pagare rette scolastiche di 6.000
dollari l´anno (tre volte il reddito pro capite del cinese medio): tanto costano a Pechino e Shanghai le scuole private di lusso che proiettano i «piccoli imperatori» verso le università di élite e il successo professionale.
Per motivi economici o per porre fine a questa dittatura dei teen-agers, i leader di Pechino sono costretti a smantellare quel controllo delle nascite che è stato uno dei pochi veri successi del comunismo. Ma non è detto che la società cinese di oggi obbedisca così docilmente al cambio di rotta come avvenne un quarto di secolo fa. Quando arriverà in tutte le case il pressante invito a mettere in cantiere il secondo figlio, forse sarà troppo tardi.
Cina, via la legge sul figlio unico è crisi per il crollo delle nascite
Lo stop all´aumento della popolazione sta creando problemi economici, sanitari e previdenziali
Negli ultimi 25 anni era stata sconfitta la "bomba demografica": adesso è emergenza per la denatalità
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
FEDERICO RAMPINI
PECHINO - Ci sono due fratellini di pochi mesi che indossano l´antico costume imperiale e la treccia da mandarino. Altri in barba alla tradizione hanno preferito sfoggiare un cappello da cowboy. Alcuni sono arrivati sul passeggino-tandem spinto dalla mamma, i due più anziani (70 anni) appoggiandosi al bastone. Sono le cinquecento coppie che da sabato nel parco vicino alla Città proibita animano il primo festival dei gemelli. Per l´evento sono venuti da tutta la Cina e il telegiornale di Stato in vena di facezie gli ha dedicato questo titolo di apertura: «Pechino ci vede doppio». In un paese con 100 milioni di figli unici i gemelli sono i privilegiati di madre natura: crescono in compagnia di un fratello o di una sorella, senza che i loro genitori debbano pagare multe e tasse salate per aver infranto la legge sul controllo delle nascite. «Noi non siamo mai sole» ha dichiarato esultante alla tv Wang Yanren, una di tre gemelle quindicenni.
Questo festival nazionale dei gemelli è stato orchestrato con gran pubblicità in coincidenza con la settimana di vacanze che si apre ogni anno il primo ottobre, anniversario della Rivoluzione. Come spesso accade in Cina anche con gli eventi più leggeri, la sceneggiatura lascia trapelare un disegno politico. Contrordine compagni, e soprattutto compagne. Negli ultimi 25 anni la Cina ha sconfitto la sua «bomba demografica» con la più efficace politica di limitazione della natalità mai applicata al mondo. La legge del figlio unico ha frenato brutalmente l´aumento della popolazione, che ormai cresce solo dello 0,7% annuo. Appena una generazione fa, la Cina aveva una volta e mezzo gli abitanti dell´India, fra dieci anni l´India l´avrà raggiunta a quota 1,4 miliardi. Il successo cinese non è stato indolore. Quando fu varato alla fine degli anni 70 il controllo delle nascite, soprattutto nelle campagne, veniva applicato dal partito comunista con metodi autoritari (inclusi gli aborti forzati) denunciati dai difensori dei diritti umani. In seguito subentrarono strumenti più soft come i disincentivi fiscali e assistenziali (oltre il primo figlio salgono le tasse e rincara la scuola). Qui e là ci furono anche delle eccezioni, nelle aree più depresse, per alcune minoranze etniche, o per arginare gli infanticidi di bambine nelle campagne, le autorità chiusero un occhio sul secondo figlio. Ma intanto l´emancipazione femminile, l´istruzione e il lavoro delle donne hanno avuto un ruolo decisivo sul crollo della prolificità. Oggi nelle metropoli «americanizzate» di Pechino Shanghai e Guangzhou i giovani preferiscono godersi il benessere, le mogli pensano alla carriera, dilaga il trend sociale delle coppie che decidono di rimanere a quota zero figli, questa volta senza nessuna pianificazione dall´alto. Di colpo il governo di Pechino deve fronteggiare - su una scala senza eguali al mondo - tutti i problemi creati dalla denatalità: invecchiamento accelerato, emergenza-pensioni, crisi della sanità.
Shanghai, la City della finanza e la capitale del boom industriale, è già alle prese con i sintomi di una penuria di giovani sul mercato del lavoro.
Spesso all´avanguardia nei cambiamenti politici, Shanghai il mese scorso ha rotto il tabù per prima: le autorità cittadine hanno offerto incentivi fiscali alle coppie che fanno due figli. Adesso lo strappo sta per diventare nazionale. Il presidente Hu Jintao ha nominato una task force di 250 demografi ed economisti incaricati di riesaminare la politica delle nascite. Dai lavori della commissione è già trapelata un´anticipazione: gli esperti consigliano di adottare ufficialmente la «politica dei due figli», indispensabile nel lungo termine per stabilizzare la popolazione e garantire un equilibrio tra vecchi e giovani.
Per un paese che nella nostra memoria è ancora associato alla sovrappopolazione, i problemi oggi si sono invertiti drammaticamente. Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, tra vent´anni l´età media dei cinesi avrà superato quella degli americani. Nel 2025, gli ultrasessantenni in Cina saranno più di 300 milioni mentre dietro di loro le generazioni più giovani si assottigliano. L´emergenza è accentuata dal fatto che la Cina - comunista ormai solo di nome - non ha un sistema previdenziale moderno. Solo di recente il governo ha pubblicato un Libro Bianco sulle pensioni. La maggioranza della popolazione - dai contadini agli immigrati nelle città, dai dipendenti delle piccole imprese ai lavoratori autonomi - deve affrontare la vecchiaia senza rete. Nella tradizione confuciana l´unico Welfare è la famiglia. È un sistema che poteva funzionare nella Cina imperiale, quando gli anziani erano circondati da un esercito di figli e nuore, nipoti e pronipoti. Diventa una ricetta impraticabile nella Cina del «figlio unico», che dovrebbe sostentare da solo genitori e nonni sempre più longevi. L´emergenza-anziani è tanto più grave perché la Cina, a differenza dagli Stati Uniti e dal Giappone, ha avuto meno tempo a disposizione per prepararsi alla nuova fase demografica. Secondo la battuta dell´economista Hu Angang della università Qinghua di Pechino, «noi qui rischiamo di diventare vecchi prima di essere diventati ricchi». Nel 2040 la popolazione di cinesi anziani avrà superato quella americana, ma il reddito pro capite no.
Insieme con i problemi previdenziali ed economici, il controllo delle nascite ha anche provocato un ribaltamento nei valori e nei comportamenti. La Cina dei «cento milioni di figli unici» è diventata una società più individualista, più egoista, dove il rispetto degli anziani è stato gradualmente sostituito dall´idolatrìa dei bambini. La scarsità li ha resi preziosi, quindi viziati e coccolati come nelle peggiori società consumistiche. Per questo fenomeno sociale - del tutto sconosciuto nella storia della società cinese dominata dall´autorità degli anziani - è stato coniato il nome di Xiao Huangdi, cioè «piccoli imperatori». Il celebre letterato Yang Xiaosheng, in un´intervista al Beijing Star Daily, ha descritto questa cultura dei figli unici come «egocentrici, arrivisti spietati, incapaci di accettare critiche». Generazioni di genitori e nonni, che dovettero interrompere gli studi negli anni terribili della Rivoluzione culturale, oggi danno fondo a tutti i loro risparmi per pagare rette scolastiche di 6.000
dollari l´anno (tre volte il reddito pro capite del cinese medio): tanto costano a Pechino e Shanghai le scuole private di lusso che proiettano i «piccoli imperatori» verso le università di élite e il successo professionale.
Per motivi economici o per porre fine a questa dittatura dei teen-agers, i leader di Pechino sono costretti a smantellare quel controllo delle nascite che è stato uno dei pochi veri successi del comunismo. Ma non è detto che la società cinese di oggi obbedisca così docilmente al cambio di rotta come avvenne un quarto di secolo fa. Quando arriverà in tutte le case il pressante invito a mettere in cantiere il secondo figlio, forse sarà troppo tardi.
martedì 5 ottobre 2004
Continua il dibattito su ateismo, fede e militanza
su "Liberazione"
una segnalazione di Roberto Altamura
(...) C'E' UN SECOLO DI DIALOGO E DI INTRECCIO FRA COMUNISMO E TESTIMONIANZA
CATTOLICA ?
Le lettere, "Liberazione" 5 ottobre 2004
Cara "Liberazione", c'è da rimanere stupefatti a leggere l'intervento di qualche compagno che proclama l'incompatibilità fra l'essere comunista e l'essere religioso. E' come se questo compagno si fosse risvegliato dopo un sonno durato almeno un secolo, nel quale il comunismo italiano ha definito la sua identità anche in questa materia. Dalla polemica dei giovani comunisti torinesi (Gramsci, Togliatti, Terracini e Tasca innanzitutto) contro l'anticlericalismo dell' "Asino" di Podrecca, al dialogo dell'era giovannea sul pericolo nucleare, al congresso del 1975 con Berlinguer che proclamava in una prima fase addirittura la centralità del cattolicesimo come dottrina riformatrice, ed altri compagni, primo fra tutti Ingrao, che gli ricordavano il valore delle confessioni minoritarie, come il vivace protestantesimo italiano. Certo, fede religiosa ed attivismo politico vanno tenuti in ambiti ben distinti: e questo vale sia contro i tanti cedimenti al clericalismo del centrosinistra di questi anni, sia contro un'antistorica discriminante antireligiosa, che rifiuto innanzitutto io, ateo e quindi libertario. Ma possiamo dimenticarci il grande contributo di quei movimenti, dalla Teologia della Liberazione ai Cristiani per il Socialismo, che hanno valorizzato il ruolo del pensiero religioso come fatto di liberazione sociale? Ci siamo dimenticati, per esempio, di Camillo Torres, prete e guerrigliero comunista? Dei quattro religiosi dirigenti sandinisti, perseguitati dall'integralismo del papato di Wojtila? Dei tanti nostri confratelli e consorelle comunisti e credenti di tante diverse fedi? Casomai, ai compagni "distratti", vorrei ricordare che è proprio in quella tradizione comunista italiana da rifondare che ci sono compromessi che, nel passato, hanno fatto scivolare il partito in una logica di moderazione e di cedimento politico, e che paghiamo ancor oggi. Oppure ci siamo tutti scordati che nel 1947 il Pci, a differenza delle altre forze della sinistra, ha votato per la costituzionalizzazione del Concordato nell'art. 7 ? In qualsiasi caso, proprio per porre il dibattito su giuste basi, che sono quelle del confronto ideale per rafforzare il nostro percorso di radicalità e rifondazione, perché il nostro quotidiano non ripubblica la mitica "Lettera a Pipetta" di don Dilani, scritta in un momento così insospettabile come il 1948 della vittoria democristiana e stella cometa, negli anni '70, per tanti giovani comunisti che hanno saputo lasciarsi alle spalle le antistoriche diatribe tra compagni credenti e non credenti?
Gian Luigi Bettoli, Pordenone
LA MILITANZA COMUNISTA E I "PERCORSI INTERIORI"
Caro Curzi, "religione oppio dei popoli", ateismo scientifico, alienazione religiosa, sono tutti concetti sui quali si fonda il pensiero del comunismo teorico elaborato da Marx. Tutto ciò è vero ma...poi l'uomo deve fare i conti con la sua coscienza, la sua finitezza, i suoi dubbi e le sue illusioni e allora, i conti non tornano più. Io credo fermamente che il comunismo debba salvaguardare la dignità umana in tutti i suoi aspetti, per cui non può non rispettare, con spirito libertario, il percorso interiore di ogni suo militante, al di là di qualsiasi dogmatismo settario. Se così non fosse, infatti, l'ideale comunista cadrebbe in una sostanziale contraddizione di fondo, poiché non farebbe altro che sovrapporre alle tanto odiate dottrine spirituali alla sua "religione" ateista, certamente altrettanto dogmatica. Ebbene, personalmente non potrei appartenere ad un partito così massimalista che si arroga il diritto ontologico delle scelte del mio cammino spirituale.
Francesco Sarli ,Roma
(...) C'E' UN SECOLO DI DIALOGO E DI INTRECCIO FRA COMUNISMO E TESTIMONIANZA
CATTOLICA ?
Le lettere, "Liberazione" 5 ottobre 2004
Cara "Liberazione", c'è da rimanere stupefatti a leggere l'intervento di qualche compagno che proclama l'incompatibilità fra l'essere comunista e l'essere religioso. E' come se questo compagno si fosse risvegliato dopo un sonno durato almeno un secolo, nel quale il comunismo italiano ha definito la sua identità anche in questa materia. Dalla polemica dei giovani comunisti torinesi (Gramsci, Togliatti, Terracini e Tasca innanzitutto) contro l'anticlericalismo dell' "Asino" di Podrecca, al dialogo dell'era giovannea sul pericolo nucleare, al congresso del 1975 con Berlinguer che proclamava in una prima fase addirittura la centralità del cattolicesimo come dottrina riformatrice, ed altri compagni, primo fra tutti Ingrao, che gli ricordavano il valore delle confessioni minoritarie, come il vivace protestantesimo italiano. Certo, fede religiosa ed attivismo politico vanno tenuti in ambiti ben distinti: e questo vale sia contro i tanti cedimenti al clericalismo del centrosinistra di questi anni, sia contro un'antistorica discriminante antireligiosa, che rifiuto innanzitutto io, ateo e quindi libertario. Ma possiamo dimenticarci il grande contributo di quei movimenti, dalla Teologia della Liberazione ai Cristiani per il Socialismo, che hanno valorizzato il ruolo del pensiero religioso come fatto di liberazione sociale? Ci siamo dimenticati, per esempio, di Camillo Torres, prete e guerrigliero comunista? Dei quattro religiosi dirigenti sandinisti, perseguitati dall'integralismo del papato di Wojtila? Dei tanti nostri confratelli e consorelle comunisti e credenti di tante diverse fedi? Casomai, ai compagni "distratti", vorrei ricordare che è proprio in quella tradizione comunista italiana da rifondare che ci sono compromessi che, nel passato, hanno fatto scivolare il partito in una logica di moderazione e di cedimento politico, e che paghiamo ancor oggi. Oppure ci siamo tutti scordati che nel 1947 il Pci, a differenza delle altre forze della sinistra, ha votato per la costituzionalizzazione del Concordato nell'art. 7 ? In qualsiasi caso, proprio per porre il dibattito su giuste basi, che sono quelle del confronto ideale per rafforzare il nostro percorso di radicalità e rifondazione, perché il nostro quotidiano non ripubblica la mitica "Lettera a Pipetta" di don Dilani, scritta in un momento così insospettabile come il 1948 della vittoria democristiana e stella cometa, negli anni '70, per tanti giovani comunisti che hanno saputo lasciarsi alle spalle le antistoriche diatribe tra compagni credenti e non credenti?
Gian Luigi Bettoli, Pordenone
LA MILITANZA COMUNISTA E I "PERCORSI INTERIORI"
Caro Curzi, "religione oppio dei popoli", ateismo scientifico, alienazione religiosa, sono tutti concetti sui quali si fonda il pensiero del comunismo teorico elaborato da Marx. Tutto ciò è vero ma...poi l'uomo deve fare i conti con la sua coscienza, la sua finitezza, i suoi dubbi e le sue illusioni e allora, i conti non tornano più. Io credo fermamente che il comunismo debba salvaguardare la dignità umana in tutti i suoi aspetti, per cui non può non rispettare, con spirito libertario, il percorso interiore di ogni suo militante, al di là di qualsiasi dogmatismo settario. Se così non fosse, infatti, l'ideale comunista cadrebbe in una sostanziale contraddizione di fondo, poiché non farebbe altro che sovrapporre alle tanto odiate dottrine spirituali alla sua "religione" ateista, certamente altrettanto dogmatica. Ebbene, personalmente non potrei appartenere ad un partito così massimalista che si arroga il diritto ontologico delle scelte del mio cammino spirituale.
Francesco Sarli ,Roma
Simona
il manifesto.it 5 ottobre 2004
POLITICA O QUASI
Se Simona non fa rima con vittima
IDA DOMINIJANNI
«Sono donne e dovrebbero stare zitte. Sono pacifiste e dovrebbero vergognarsi. Sono vive e avrebbero dovuto tornare solo come salme per una bella cerimonia di unità nazionale, come prova evidente che la guerra di civiltà è scoppiata davvero». Non c'è molto da aggiungere alle parole con cui il direttore dell'Unità Furio Colombo ha commentato domenica il linciaggio a cui Simona Pari e Simona Torretta sono state sottoposte sui giornali della destra (codiuvati, sia pure con toni più moderati, da alcune firme dei grandi giornali indipendenti) per avere osato sostenere, dopo il loro rilascio, che l'invasione dell'Iraq deve cessare, che le truppe willing vanno ritirate, che i sequestratori le hanno trattate con rispetto; per avere osato affermare che vogliono tornare ancora in Iraq; per avere osato ringraziare, oltre al governo, l'opposizione e le manifestazioni pacifiste. Il linciaggio, da cui lo stesso Silvio Berlusconi ha sentito il bisogno di prendere a un certo punto le distanze, ha avuto nei giorni scorsi - e ancora ieri, nell'editoriale del Tempo - toni di una volgarità insopportabile, di quella che di tanto in tanto spunta dalle viscere dell'Italia in transizione e dovrebbe farci interrogare sull'inciviltà che abita le nostre democrazie prima che sullo scontro di civiltà fra Occidente e Islam. Frasi come «se vogliono tornare in Iraq rispediamocele con due calci nel sedere», «la prossima volta si paghino da sole il ricatto», «tacciano e intanto ritiriamogli il passaporto» non depongono a favore né di chi le pronuncia né della sfera pubblica in cui circolano. Sono diventate pronunciabili nella sfera pubblica italiana anche o in primo luogo perché erano indirizzate a due donne? Credo di sì e non lo dico per alimentare il vittimismo femminile ma in senso esattamente contrario: tanta foga si è scatenata proprio perché le due Simone hanno smentito lo stereotipo della donna vittima. Se fossero state vittime e basta, vittime e morte, vittime e perse, vittime e vinte, vittime e piegate, vittime e stuprate, chiunque, compresi i direttori di Libero, del Giornale e della Padania nonché gli zelanti deputati leghisti che ne hanno seguito i suggerimenti, le avrebbero invece piante e compiante, commiserate e santificate. Ma così non è stato. Molti lati restano e resteranno oscuri del loro sequestro e del loro rilascio, motivi e modalità, ma un punto è chiaro ed è che le prime ad aver creato le condizioni per la propria liberazione sono state loro stesse, Simona e Simona: parlando con i sequestratori in una lingua che li ha saputi raggiungere, convincendoli che avevano preso un abbaglio, posizionandosi politicamente laddove stavano e stanno, cioè con e non contro la popolazione irachena. Il primo spazio di trattativa, senza nulla togliere a Berlusconi Frattini e Letta e Scelli, lo devono a se stesse, alla pratica politica che a Baghdad avevano costruito e all'esperienza e alla conoscenza dell'altro che avevano accumulato. Due donne libere, non due donne vittime. Due donne che fanno politica in prima persona, non o non solo due donne posta in gioco della politica istituzionale. Due donne amiche, non due donne in competizione fra loro. E' quanto basta per spiazzare tutti gli stereotipi che mezza Italia del terzo millennio - e non solo, ci si può giurare, il suo lato destro - non solo mantiene nelle sue viscere ma alimenta e rinverdisce.
Si aggiunge a questo la loro resistenza a diventare, come ha osservato Ilvo Diamanti su Repubblica, l'icona vivente dell'unità nazionale sperimentata durante il loro sequestro. Ma qui siamo già nel regno della ragion politica; l'essenziale viene prima, su quel piano prepolitico, o forse postpolitico, su cui tutto l'essenziale della guerra in Iraq si sta giocando mettendo in scacco la ragion politica. Lo spiazzamento dei ruoli sessuali - in questo caso come in altri, compreso quello dolente e di segno opposto delle torturatrici di Abu Ghraib - continua a essere un segmento decisivo di questa guerra, combattuto senza esclusione di colpi.
POLITICA O QUASI
Se Simona non fa rima con vittima
IDA DOMINIJANNI
«Sono donne e dovrebbero stare zitte. Sono pacifiste e dovrebbero vergognarsi. Sono vive e avrebbero dovuto tornare solo come salme per una bella cerimonia di unità nazionale, come prova evidente che la guerra di civiltà è scoppiata davvero». Non c'è molto da aggiungere alle parole con cui il direttore dell'Unità Furio Colombo ha commentato domenica il linciaggio a cui Simona Pari e Simona Torretta sono state sottoposte sui giornali della destra (codiuvati, sia pure con toni più moderati, da alcune firme dei grandi giornali indipendenti) per avere osato sostenere, dopo il loro rilascio, che l'invasione dell'Iraq deve cessare, che le truppe willing vanno ritirate, che i sequestratori le hanno trattate con rispetto; per avere osato affermare che vogliono tornare ancora in Iraq; per avere osato ringraziare, oltre al governo, l'opposizione e le manifestazioni pacifiste. Il linciaggio, da cui lo stesso Silvio Berlusconi ha sentito il bisogno di prendere a un certo punto le distanze, ha avuto nei giorni scorsi - e ancora ieri, nell'editoriale del Tempo - toni di una volgarità insopportabile, di quella che di tanto in tanto spunta dalle viscere dell'Italia in transizione e dovrebbe farci interrogare sull'inciviltà che abita le nostre democrazie prima che sullo scontro di civiltà fra Occidente e Islam. Frasi come «se vogliono tornare in Iraq rispediamocele con due calci nel sedere», «la prossima volta si paghino da sole il ricatto», «tacciano e intanto ritiriamogli il passaporto» non depongono a favore né di chi le pronuncia né della sfera pubblica in cui circolano. Sono diventate pronunciabili nella sfera pubblica italiana anche o in primo luogo perché erano indirizzate a due donne? Credo di sì e non lo dico per alimentare il vittimismo femminile ma in senso esattamente contrario: tanta foga si è scatenata proprio perché le due Simone hanno smentito lo stereotipo della donna vittima. Se fossero state vittime e basta, vittime e morte, vittime e perse, vittime e vinte, vittime e piegate, vittime e stuprate, chiunque, compresi i direttori di Libero, del Giornale e della Padania nonché gli zelanti deputati leghisti che ne hanno seguito i suggerimenti, le avrebbero invece piante e compiante, commiserate e santificate. Ma così non è stato. Molti lati restano e resteranno oscuri del loro sequestro e del loro rilascio, motivi e modalità, ma un punto è chiaro ed è che le prime ad aver creato le condizioni per la propria liberazione sono state loro stesse, Simona e Simona: parlando con i sequestratori in una lingua che li ha saputi raggiungere, convincendoli che avevano preso un abbaglio, posizionandosi politicamente laddove stavano e stanno, cioè con e non contro la popolazione irachena. Il primo spazio di trattativa, senza nulla togliere a Berlusconi Frattini e Letta e Scelli, lo devono a se stesse, alla pratica politica che a Baghdad avevano costruito e all'esperienza e alla conoscenza dell'altro che avevano accumulato. Due donne libere, non due donne vittime. Due donne che fanno politica in prima persona, non o non solo due donne posta in gioco della politica istituzionale. Due donne amiche, non due donne in competizione fra loro. E' quanto basta per spiazzare tutti gli stereotipi che mezza Italia del terzo millennio - e non solo, ci si può giurare, il suo lato destro - non solo mantiene nelle sue viscere ma alimenta e rinverdisce.
Si aggiunge a questo la loro resistenza a diventare, come ha osservato Ilvo Diamanti su Repubblica, l'icona vivente dell'unità nazionale sperimentata durante il loro sequestro. Ma qui siamo già nel regno della ragion politica; l'essenziale viene prima, su quel piano prepolitico, o forse postpolitico, su cui tutto l'essenziale della guerra in Iraq si sta giocando mettendo in scacco la ragion politica. Lo spiazzamento dei ruoli sessuali - in questo caso come in altri, compreso quello dolente e di segno opposto delle torturatrici di Abu Ghraib - continua a essere un segmento decisivo di questa guerra, combattuto senza esclusione di colpi.
Le mille e una notte
Repubblica 5.10.04
Ristabilita la versione originale con 282 racconti.
Mille e una notte senza Aladino
RISCOPERTO L'ORIGINALE ORA LE FAVOLE SONO SOLO 282
SPARISCONO ALADINO E SINBAD
Il testo originale era stato ampliato nel ´700 da Antoine Galland
di VANNA VANNUCCINI
Ci fu un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui l´Europa fu presa dalla febbre d´Oriente. C´era chi si faceva costruire edifici alla maniera dei sultani, come Augusto il Forte, elettore di Sassonia e re di Polonia, che abbellì Dresda perfino di un giardino alla turca. I salotti d´Europa si riempirono di tappeti e cuscini moreschi. I pittori come Delacroix dipingevano giganteschi interni di harem con le schiave seminude in pose lascive. Goethe compose il suo Divano occidentale-orientale. Mozart scrisse il Ratto dal Serraglio. Anche la letteratura popolare si riempì di libri d´avventure.
Si svolgevano nei bazar, nei caravanserragli, nei misteri di un mondo "di bagni, di profumi, di danze, di piaceri", come scrisse Chateaubriand. Da dove era venuta questa moda? Da un libro, il solo che ancora oggi rappresenta per noi l´Oriente. Le Mille e Una Notte. La prima traduzione di un volume di racconti che aveva ricevuto dalla Siria fu pubblicata dall´orientalista francese Antoine Galland nel 1704. Fu un successo inimmaginabile. Altri sei volumi seguirono fino al 1709 e poi ancora quattro, di cui l´ultimo uscì addirittura due anni dopo la morte di Galland. L´Oriente veniva fuori da quelle descrizioni come il regno dei sensi, la donna orientale era quanto ci poteva essere di più sensuale. Le sue arti erotiche erano impareggiabili. Un bipolarismo di sensualità e violenza, dice l´islamista Andreas Pflitsch nel libro appena uscito Mito Oriente (Herder, euro12,90). Dispotismo e lascivia. Perversione e voluttà. Anche allora ci s´inventava volentieri un mondo piuttosto che guardare la realtà. Sull´Oriente gli europei proiettavano i sogni, le fantasie, i fantasmi che in occidente erano tabù. Facevano ricadere tutta la decadenza sull´Oriente - così come oggi i fondamentalisti islamici la fanno ricadere sull´Ovest.
E´ stato così che Antoine Galland, archivista che aveva tentato senza molto successo di salire la scala sociale ed accreditarsi come diplomatico, ha formato per trecento anni la nostra immagine dell´Oriente. Anche quando sappiamo che nel mondo arabo ci sono tante cose di cui nemmeno i servizi segreti sanno nulla, almeno di una cosa siamo sempre stati certi: le Mille e una Notte sono la metafora dell´Oriente. Mille e una sono, come si sa, la somma di quelle notti in cui Sharazad, la più bella e la più saggia delle figlie del vizir, racconta al re Shahriyar una novella e quando arriva l´alba la interrompe sul momento culminante, e in questo modo ha salva la vita. Il re, curioso di conoscere la fine, rinvierà l´esecuzione all´indomani. Shahriyar, re di Persia e delle Indie, per punire la moglie infedele aveva infatti deciso di vendicarsi non solo sulla moglie (cui fece subito tagliare la testa) ma su tutte le donne. Ogni sera ne sceglieva una per farla poi decapitare al mattino. Sharazad riuscì però ad intrattenerlo per mille e una notte finché il re cambiò idea e la prese in sposa.
Questo sapevamo. E nessuno di noi immaginava che venisse fuori la storia che le Mille e una Notte potessero essere un costrutto occidentale. Ebbene, è così. Ce lo dice autorevolmente l´arabista Claudia Ott, che alla Fiera del Libro di Francoforte presenta la sua nuova traduzione della famosa raccolta di novelle (Beck, euro 29,90). Una traduzione che è soprattutto un restauro. Basandosi sulla edizione del 1984 dell´iracheno Muhsin Mahdi, professore a Harvard, Claudia Ott ha tolto alle Mille e una Notte tutti gli strati sovrapposti, riscoprendo l´originale: non 1001 novelle ma solo 282. Via Aladino e la sua lanterna, via Sinbad il marinaio, via Ali Baba e i quaranta ladroni e altre 719.
Tutte queste infatti, ci dicono Muhsin Mahdi e Cladia Ott, erano state aggiunte di suo pugno dall´orientalista francese Antoine Galland. Visto il successo, e per suggerimento dell´editore, si era preoccupato meno del testo originale e più del gusto dei salotti francesi dell´epoca. Aveva cominciato a esaltare i momenti più esotici del racconto, tralasciando gli altri. L´esotismo era evidentemente un modo per far entrare nelle case borghesi l´erotismo. Finì per creare un prodotto che rispondeva soprattutto ai cliché che l´Occidente si faceva dell´Oriente. Un cliché durato per trecento anni.
Ristabilita la versione originale con 282 racconti.
Mille e una notte senza Aladino
RISCOPERTO L'ORIGINALE ORA LE FAVOLE SONO SOLO 282
SPARISCONO ALADINO E SINBAD
Il testo originale era stato ampliato nel ´700 da Antoine Galland
di VANNA VANNUCCINI
Ci fu un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui l´Europa fu presa dalla febbre d´Oriente. C´era chi si faceva costruire edifici alla maniera dei sultani, come Augusto il Forte, elettore di Sassonia e re di Polonia, che abbellì Dresda perfino di un giardino alla turca. I salotti d´Europa si riempirono di tappeti e cuscini moreschi. I pittori come Delacroix dipingevano giganteschi interni di harem con le schiave seminude in pose lascive. Goethe compose il suo Divano occidentale-orientale. Mozart scrisse il Ratto dal Serraglio. Anche la letteratura popolare si riempì di libri d´avventure.
Si svolgevano nei bazar, nei caravanserragli, nei misteri di un mondo "di bagni, di profumi, di danze, di piaceri", come scrisse Chateaubriand. Da dove era venuta questa moda? Da un libro, il solo che ancora oggi rappresenta per noi l´Oriente. Le Mille e Una Notte. La prima traduzione di un volume di racconti che aveva ricevuto dalla Siria fu pubblicata dall´orientalista francese Antoine Galland nel 1704. Fu un successo inimmaginabile. Altri sei volumi seguirono fino al 1709 e poi ancora quattro, di cui l´ultimo uscì addirittura due anni dopo la morte di Galland. L´Oriente veniva fuori da quelle descrizioni come il regno dei sensi, la donna orientale era quanto ci poteva essere di più sensuale. Le sue arti erotiche erano impareggiabili. Un bipolarismo di sensualità e violenza, dice l´islamista Andreas Pflitsch nel libro appena uscito Mito Oriente (Herder, euro12,90). Dispotismo e lascivia. Perversione e voluttà. Anche allora ci s´inventava volentieri un mondo piuttosto che guardare la realtà. Sull´Oriente gli europei proiettavano i sogni, le fantasie, i fantasmi che in occidente erano tabù. Facevano ricadere tutta la decadenza sull´Oriente - così come oggi i fondamentalisti islamici la fanno ricadere sull´Ovest.
E´ stato così che Antoine Galland, archivista che aveva tentato senza molto successo di salire la scala sociale ed accreditarsi come diplomatico, ha formato per trecento anni la nostra immagine dell´Oriente. Anche quando sappiamo che nel mondo arabo ci sono tante cose di cui nemmeno i servizi segreti sanno nulla, almeno di una cosa siamo sempre stati certi: le Mille e una Notte sono la metafora dell´Oriente. Mille e una sono, come si sa, la somma di quelle notti in cui Sharazad, la più bella e la più saggia delle figlie del vizir, racconta al re Shahriyar una novella e quando arriva l´alba la interrompe sul momento culminante, e in questo modo ha salva la vita. Il re, curioso di conoscere la fine, rinvierà l´esecuzione all´indomani. Shahriyar, re di Persia e delle Indie, per punire la moglie infedele aveva infatti deciso di vendicarsi non solo sulla moglie (cui fece subito tagliare la testa) ma su tutte le donne. Ogni sera ne sceglieva una per farla poi decapitare al mattino. Sharazad riuscì però ad intrattenerlo per mille e una notte finché il re cambiò idea e la prese in sposa.
Questo sapevamo. E nessuno di noi immaginava che venisse fuori la storia che le Mille e una Notte potessero essere un costrutto occidentale. Ebbene, è così. Ce lo dice autorevolmente l´arabista Claudia Ott, che alla Fiera del Libro di Francoforte presenta la sua nuova traduzione della famosa raccolta di novelle (Beck, euro 29,90). Una traduzione che è soprattutto un restauro. Basandosi sulla edizione del 1984 dell´iracheno Muhsin Mahdi, professore a Harvard, Claudia Ott ha tolto alle Mille e una Notte tutti gli strati sovrapposti, riscoprendo l´originale: non 1001 novelle ma solo 282. Via Aladino e la sua lanterna, via Sinbad il marinaio, via Ali Baba e i quaranta ladroni e altre 719.
Tutte queste infatti, ci dicono Muhsin Mahdi e Cladia Ott, erano state aggiunte di suo pugno dall´orientalista francese Antoine Galland. Visto il successo, e per suggerimento dell´editore, si era preoccupato meno del testo originale e più del gusto dei salotti francesi dell´epoca. Aveva cominciato a esaltare i momenti più esotici del racconto, tralasciando gli altri. L´esotismo era evidentemente un modo per far entrare nelle case borghesi l´erotismo. Finì per creare un prodotto che rispondeva soprattutto ai cliché che l´Occidente si faceva dell´Oriente. Un cliché durato per trecento anni.
1604, quattrocento anni fa
la «stella nova»
Eco di Bergamo 5.10.04
Quella «stella nova» cambiò il cosmo
Nel 1604 la comparsa di un astro luminosissimo: era l'esplosione di una supernova L'evento descritto da Keplero e Galileo. L'evoluzione delle galassie ebbe meno segreti
Folco Claudi
Ci vuole una bella immaginazione per riconoscere nel cielo stellato le figure mitologiche o di animali che dall'antichità danno il nome alle costellazioni. Una delle più immaginifiche è quella di Ofiuco («colui che porta il serpente») o, con una dizione derivata dal latino e non dal greco, del Serpentario, che ricorda la leggendaria figura di Asclepio, il medico che dai serpenti imparò il segreto della vita e della morte.
Fu perciò Zeus a causarne la morte – con un fulmine, ovviamente – ma riconoscendone i meriti gli riservò un posto in cielo. Compresa nel catalogo celeste di Tolomeo, la costellazione di Ofiuco è rimasta anche nella catalogazione moderna. La sua importanza storica è legata però a un fenomeno di importanza straordinaria: l'apparizione di una «nuova stella» molto luminosa, avvenuta giusto 400 anni fa, nell'ottobre 1604. L'improvviso aumento di luminosità, ben visibile a occhio nudo in un punto non distante dalla stella Theta Ophiuchi fin dal 9 ottobre, fu osservato il giorno 17 nientemeno che da Johannes Kepler, meglio conosciuto come Keplero, una delle figure più importanti per la storia della scienza e dell'astronomia in particolare.
Keplero – che diede anche il nome alla stella – fece una descrizione in un'apposita opera, il trattato «De stella nova in pede Serpetarii. Sulla nuova stella nel piede del Serpentario» dato alle stampe nel 1606. Ma Keplero non era l'unico astronomo con il naso all'insù nelle nottate di quel fatidico anno. Ad alcune migliaia di chilometri di distanza, c'era anche un quarantenne docente di matematica dell'Università di Padova, Galileo Galilei, non ancora famoso, che restò profondamente impressionato dall'evento. Ne rimane testimonianza in un opuscolo scritto in dialetto patavino pubblicato nel 1605, il «Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nova».
Ma che cosa videro in cielo i due grandi scienziati fino all'estate del 1605? Le sorgenti variabili di luce nel cosmo sono oggi classificate come supernove. Dal punto di vista fisico si tratta di una stella di grande massa che, giunta alla fine del suo ciclo vitale, esplode «in grande stile». Mentre la maggior parte delle stelle termina la propria esistenza in modo tranquillo, l'esplosione di una supernova è un evento che uguaglia in luminosità quello di una galassia contenente miliardi di stelle. Un evento catastrofico, dunque, di una potenza difficilmente immaginabile, che però nell'evoluzione di una galassia, preannuncia nuove nascite, poiché permette la sintesi degli elementi più pesanti del ferro. L'enorme energia che accompagna l'esplosione di una supernova proietta questi elementi a grande distanza, disseminandoli nello spazio. Da questi mattoni fondamentali della materia potranno poi nascere altre stelle e galassie e, almeno nel caso del nostro pianeta, esseri viventi. Questo è ciò che sappiamo oggi dell'esplosione di una supernova. E sappiamo anche con certezza che nel 1604 si trattò proprio di un fenomeno di questo tipo, così nel caso di un analogo fenomeno avvenuto in cielo solo 32 anni prima, nel 1572. Per i contemporanei dell'evento, in particolare per Galileo, la faccenda assunse tutt'altro significato.
Secondo la visione del mondo ereditata dagli antichi, fondata sulla cosmologia di Tolomeo e sulla fisica di Aristotele, tutto ciò che abitava il cosmo doveva rientrare in due precise categorie: la prima includeva tutte le cose presenti sulla Terra e nello spazio compreso tra la Terra e l'orbita della Luna; la seconda tutti gli oggetti celesti presenti oltre il mondo sublunare. Ciò che distingueva i due insiemi era la possibilità di mutare: nella prima sfera tutto nasce, si trasforma e muore; pianeti e stelle erano invece creati da Dio con un'essenza celeste e posizionati secondo un ordine perfetto e soprattutto immutabile.
Dove collocare dunque la stella nova? La cultura dominante avrebbe preferito liquidarla come un misterioso evento meteorologico, dunque compreso all'interno dell'orbita lunare, com'era avvenuto nel 1572. Nelle aule dell'Università di Padova invece Galileo era deciso a dare battaglia, con l'arma della propria ragione. Egli, pur non essendo un esperto di misure astronomiche, aveva una sufficiente confidenza con gli strumenti da riuscire a determinare approssimativamente la distanza del corpo luminoso e a stabilire che esso non si muoveva rispetto alle stelle fisse e che quindi non poteva essere di natura sublunare. Già seguace di Copernico, che nel 1543 aveva proposto il suo sistema eliocentrico, Galileo colse l'occasione della stella nova per portare avanti due idee fondanti per il successivo sviluppo della scienza moderna: la prima sosteneva che le misurazioni erano da preferire alle idee, per quanto antiche e accettate, dei filosofi; la seconda sosteneva che gli astronomi non dovevano occuparsi soltanto di fare calcoli matematici, ma anche indagare l'essenza delle stelle. Il già citato «Dialogo de Cecco», di tono sarcastico, era solo l'inizio. Vennero altre osservazioni astronomiche, nel 1609 e nel 1613, effettuate con l'uso del telescopio da lui inventato, che portarono Galileo a sostenere il sistema copernicano e a subire il processo dell'Inquisizione. Ma il nuovo pensiero scientifico, nato sotto gli auspici della stella nova, non poteva essere fermato. Il mondo chiuso – per parafrasare il titolo di un famoso saggio – cedeva il passo all'universo infinito.
Quella «stella nova» cambiò il cosmo
Nel 1604 la comparsa di un astro luminosissimo: era l'esplosione di una supernova L'evento descritto da Keplero e Galileo. L'evoluzione delle galassie ebbe meno segreti
Folco Claudi
Ci vuole una bella immaginazione per riconoscere nel cielo stellato le figure mitologiche o di animali che dall'antichità danno il nome alle costellazioni. Una delle più immaginifiche è quella di Ofiuco («colui che porta il serpente») o, con una dizione derivata dal latino e non dal greco, del Serpentario, che ricorda la leggendaria figura di Asclepio, il medico che dai serpenti imparò il segreto della vita e della morte.
Fu perciò Zeus a causarne la morte – con un fulmine, ovviamente – ma riconoscendone i meriti gli riservò un posto in cielo. Compresa nel catalogo celeste di Tolomeo, la costellazione di Ofiuco è rimasta anche nella catalogazione moderna. La sua importanza storica è legata però a un fenomeno di importanza straordinaria: l'apparizione di una «nuova stella» molto luminosa, avvenuta giusto 400 anni fa, nell'ottobre 1604. L'improvviso aumento di luminosità, ben visibile a occhio nudo in un punto non distante dalla stella Theta Ophiuchi fin dal 9 ottobre, fu osservato il giorno 17 nientemeno che da Johannes Kepler, meglio conosciuto come Keplero, una delle figure più importanti per la storia della scienza e dell'astronomia in particolare.
Keplero – che diede anche il nome alla stella – fece una descrizione in un'apposita opera, il trattato «De stella nova in pede Serpetarii. Sulla nuova stella nel piede del Serpentario» dato alle stampe nel 1606. Ma Keplero non era l'unico astronomo con il naso all'insù nelle nottate di quel fatidico anno. Ad alcune migliaia di chilometri di distanza, c'era anche un quarantenne docente di matematica dell'Università di Padova, Galileo Galilei, non ancora famoso, che restò profondamente impressionato dall'evento. Ne rimane testimonianza in un opuscolo scritto in dialetto patavino pubblicato nel 1605, il «Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nova».
Ma che cosa videro in cielo i due grandi scienziati fino all'estate del 1605? Le sorgenti variabili di luce nel cosmo sono oggi classificate come supernove. Dal punto di vista fisico si tratta di una stella di grande massa che, giunta alla fine del suo ciclo vitale, esplode «in grande stile». Mentre la maggior parte delle stelle termina la propria esistenza in modo tranquillo, l'esplosione di una supernova è un evento che uguaglia in luminosità quello di una galassia contenente miliardi di stelle. Un evento catastrofico, dunque, di una potenza difficilmente immaginabile, che però nell'evoluzione di una galassia, preannuncia nuove nascite, poiché permette la sintesi degli elementi più pesanti del ferro. L'enorme energia che accompagna l'esplosione di una supernova proietta questi elementi a grande distanza, disseminandoli nello spazio. Da questi mattoni fondamentali della materia potranno poi nascere altre stelle e galassie e, almeno nel caso del nostro pianeta, esseri viventi. Questo è ciò che sappiamo oggi dell'esplosione di una supernova. E sappiamo anche con certezza che nel 1604 si trattò proprio di un fenomeno di questo tipo, così nel caso di un analogo fenomeno avvenuto in cielo solo 32 anni prima, nel 1572. Per i contemporanei dell'evento, in particolare per Galileo, la faccenda assunse tutt'altro significato.
Secondo la visione del mondo ereditata dagli antichi, fondata sulla cosmologia di Tolomeo e sulla fisica di Aristotele, tutto ciò che abitava il cosmo doveva rientrare in due precise categorie: la prima includeva tutte le cose presenti sulla Terra e nello spazio compreso tra la Terra e l'orbita della Luna; la seconda tutti gli oggetti celesti presenti oltre il mondo sublunare. Ciò che distingueva i due insiemi era la possibilità di mutare: nella prima sfera tutto nasce, si trasforma e muore; pianeti e stelle erano invece creati da Dio con un'essenza celeste e posizionati secondo un ordine perfetto e soprattutto immutabile.
Dove collocare dunque la stella nova? La cultura dominante avrebbe preferito liquidarla come un misterioso evento meteorologico, dunque compreso all'interno dell'orbita lunare, com'era avvenuto nel 1572. Nelle aule dell'Università di Padova invece Galileo era deciso a dare battaglia, con l'arma della propria ragione. Egli, pur non essendo un esperto di misure astronomiche, aveva una sufficiente confidenza con gli strumenti da riuscire a determinare approssimativamente la distanza del corpo luminoso e a stabilire che esso non si muoveva rispetto alle stelle fisse e che quindi non poteva essere di natura sublunare. Già seguace di Copernico, che nel 1543 aveva proposto il suo sistema eliocentrico, Galileo colse l'occasione della stella nova per portare avanti due idee fondanti per il successivo sviluppo della scienza moderna: la prima sosteneva che le misurazioni erano da preferire alle idee, per quanto antiche e accettate, dei filosofi; la seconda sosteneva che gli astronomi non dovevano occuparsi soltanto di fare calcoli matematici, ma anche indagare l'essenza delle stelle. Il già citato «Dialogo de Cecco», di tono sarcastico, era solo l'inizio. Vennero altre osservazioni astronomiche, nel 1609 e nel 1613, effettuate con l'uso del telescopio da lui inventato, che portarono Galileo a sostenere il sistema copernicano e a subire il processo dell'Inquisizione. Ma il nuovo pensiero scientifico, nato sotto gli auspici della stella nova, non poteva essere fermato. Il mondo chiuso – per parafrasare il titolo di un famoso saggio – cedeva il passo all'universo infinito.
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