«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 12 ottobre 2004
la religione americana
«Sotto Dio»
meglio giurare in silenzio
LETTERE DAL CAMPUS
Maurizio Viroli
«GIURO di essere fedele alla bandiera degli Stati Uniti d'America, e alla Repubblica che essa rappresenta, una nazione sotto Dio indivisibile, con libertà e giustizia per tutti» («I pledge allegiance to the flag of the United States of America, and to the Republic for which it stands, one nation under God, indivisible, with liberty and justice for all»). Mano sul petto, viso rivolto alla bandiera, in piedi, gli studenti delle scuole americane iniziano così la loro giornata.
Recitare il «pledge of allegiance» non è obbligatorio, ma è l'insegnante a prendere l'iniziativa e a guidare la classe. Non recitarlo comporta per lo studente dover affrontare una pressione psicologica assai forte da parte degli insegnanti, degli altri studenti, e dei genitori.
Il problema sta infatti in quell'«under God». Il padre di una studentessa californiana di terza elementare, Michael Newdow, ha presentato un ricorso contro la formulazione del «pledge of allegiance» perché a suo giudizio l'inciso «under God» viola la separazione fra Stato e Chiesa. Con una maggioranza schiacciante la Corte Suprema ha respinto l'appello e il presidente Bush ha dichiarato a chiare lettere nel secondo dibattito che non nominerà mai alla Corte Suprema un giudice disposto a togliere le parole «under God» dal giuramento di fedeltà.
«Under God» non appare nella formulazione originaria del giuramento, quella del 1892, scritta da un socialista cristiano, Richard Bellamy, autore di romanzi a carattere utopistico, Looking Backward (1888) e Equality (1897). Fu aggiunta nel 1954, in tempo di guerra fredda, sotto la pressione di un gruppi religiosi. Quello che era una pura professione di patriottismo politico divenne così un giuramento patriottico e religioso.
Non è certo il solo esempio di commistione fra religione e politica negli Stati Uniti: «In God we trust» scritto nelle banconote, la mano sulla Bibbia nel giuramento del Presidente, il rituale «God bless America» alla fine di ogni discorso importante e nelle perorazioni che concludono i dibattiti televisivi nella campagna elettorale.
La Repubblica degli Stati Uniti d'America è stata fondata da uomini profondamente religiosi che amavano la libertà e la repubblica e vennero nel Nuovo Mondo per pregare Dio in libertà. Diversamente da quello che è avvenuto in Europa, il clero americano, quale che fosse la sua fede, si è sempre tenuto orgogliosamente lontano dal potere politico, e ha limitato la sua opera all'educazione religiosa e morale. Tutto questo ha reso la religione molto forte nell'animo degli americani e per la grande maggioranza di loro non è un problema il fatto che i ragazzini delle scuole recitino ogni mattina un giuramento solenne che comprende la parola «Dio». Anzi, quando una corte di grado inferiore dichiarò nel 2002 illegale il giuramento di fedeltà, l'opinione pubblica reagì con risentimento e sdegno.
È giusto incoraggiare dei bambini e dei ragazzi a pronunciare un giuramento di fedeltà alla bandiera e alla Repubblica? L'effetto di un rituale di questo tipo è sicuramente di stimolare nei ragazzi sentimenti patriottici. Ma il fatto di recitare un giuramento guidati dall'insegnante può generare un atteggiamento bigotto e conformista, più che veri e propri sentimenti patriottici. Mi ha confessato una studentessa, educata in una famiglia di rigidi principi religiosi e patriottici in un piccolo paese del Midwest, che quando ha dichiarato di non voler recitare il giuramento di fedeltà è nato un caso che ha coinvolto tutta la scuola.
Un atteggiamento intollerante nei confronti di chi, per qualsiasi ragione, non se la sente di pronunciare pubblicamente il giuramento è evidentemente in contrasto con il giuramento stesso che pone l'esigenza della libertà per tutti al primo posto. È difficile, per non dire impossibile, non ferire i sentimenti di chi dissente, fin quando il giuramento di fedeltà avrà la forma attuale.
Un giuramento è un impegno con la propria coscienza e con Dio (per chi ci crede). Potrebbe essere allora più efficace, dal punto di vista educativo, e più rispettoso della libertà individuale, chiedere agli studenti un giuramento silenzioso. In piedi, occhi rivolti alla bandiera (che è giusto sia in classe, meglio se accompagnata dalla Costituzione), ognuno, se vuole, reciti il giuramento in cuor suo. Né la coscienza né Dio hanno bisogno di ascoltare parole, e un impegno preso con la propria coscienza è più forte di qualsiasi recitazione e non costringe nessuno a dire parole in cui non crede.
viroli@princeton.edu
Adonis e Hölderlin
Religiosità, politica e creatività secondo il grande poeta siriano detestato dai fondamentalisti. Domani sarà ospite di «RomaPoesia»
Adonis e la chiave del futuro: «Sarà meticcio o non sarà»
di Mario Baudino
ROMA. SI chiama Ali Ahmad Sai id Esber, ma ben pochi lo conoscono sotto questo nome, tanto che a volte si fa fatica a rintracciarlo negli alberghi. Per tutti è Adonis, e cioè non solo il maggior poeta di lingua araba, ma uno dei grandi della letteratura mondiale. E' nato 74 anni fa in un villaggio siriano, è cresciuto a Damasco, ha lavorato in Libano e da tempo vive a Parigi. Dopo anni d'esilio ora può tornare non solo nel suo Paese ma in tutto il mondo arabo, rispettato come una grande bandiera culturale, anche se è ovviamente inviso ai fondamentalisti. In Italia è pubblicato da Guanda (Memoria del vento, La preghiera e la spada), mentre in questi giorni una sua raccolta di poesie dal lungo titolo (Libro delle metamorfosi e della migrazione nelle regioni del giorno e della notte) esce per Mondadori. Appena arrivato da Francoforte, sarà oggi a Santa Marinella per il festival Mediterranea e domani all’Auditorium di Roma per Romapoesia.
Alla Buchmesse, dove ha tenuto un reading, era uno degli invitati di maggior rilievo nell'edizione in cui il mondo arabo rappresentava l'ospite d'onore. Si è sottratto a ogni polemica, ha accettato l'invito della Lega araba anche se, mi dice, «è un'istituzione piena di errori. E non potrebbe essere diversamente, visto che è lo specchio dei regimi arabi, nei confronti dei quali il mio giudizio è negativo. Ma questa trasferta era importante per la nostra cultura, e qualcuno doveva pur organizzarla. Considerata la situazione, non è stato un cattivo lavoro». Adonis sa dare scandalo politicamente, ma soprattutto lo fa già con lo stesso nome che si è scelto, e che rinvia all'Adone pagano, ai miti del Mediterraneo. «Quando ho scelto di firmarmi così - racconta - non sapevo che sarei poi andato tanto avanti». E tanto avanti significa che il poeta ha ripercorso a ritroso la strada di un lungo passato.
Un solo Dio è troppo, o troppo poco. «Bisogna criticare radicalmente il monoteismo, che ha creato tutte le dittature, di destra e di sinistra. Bisogna riuscire a rimetterlo in questione». Adonis lo fa con i suoi versi luminosi, come questi degli anni Sessanta:
«Il sole dell'amante declina piegato dal sonnoe con i suoi saggi, quelli ancora senza titolo che usciranno tra poco per Guanda, quelli di L'Oceano nero che sta per pubblicare in arabo. Non teme lo scandalo? «No, anche perché ho il massimo rispetto della religiosità. Non sono contro la fede degli uomini. La mia critica non è sul piano, appunto, della fede, ma su quello filosofico. Come si può comprendere, in questo secolo, un atteggiamento monoteista?».
bisogna che l'occulto prenda congedo dal raccolto
che il mio volto si fonda con l'anima del mondo»
Proprio oggi, gli chiedo, una domanda del genere ha senso dentro ciò che si definisce cultura araba? «La cultura araba è espressa dalla lingua, ma all'interno di essa ci sono specificità e differenze importanti. Il nostro avvenire, dico di tutti, è in una sorta di meticciato. L'avvenire sarà meticcio o non sarà. Io non credo all'Est e all'Ovest, credo agli uomini. La cultura, in ogni caso, ha già lasciato indietro la geografia». E la poesia? «A maggior ragione. Anzi direi che oggi poesia non è più tanto lo scrivere nell'accezione tradizionale della parola. E' un modo di poetizzare il mondo. Ci sono romanzi poetici, ci sono filosofi-poeti. La nozione di poesia ha superato le sue dimensioni tradizionali».
E' arrivata l'ora di «vivere poeticamente», secondo il celebre verso di Hölderlin? «Sarebbe straordinario, ma non è facile». Lei ha avuto qualche volta una sensazione del genere? «Sì, nell'amore e nell'amicizia. E in viaggio, quando sono da solo. Il viaggio rappresenta un modo di vivere lo spazio e i luoghi come se si scrivesse una poesia. E' poesia vissuta, come l'amore e l'amicizia, un'appropriazione dello sconosciuto, una scoperta. Oggi persino la nuova astronomia è secondo me una scienza quasi poetica». Sembra suggerire che è più importante una sorta di creatività che non la scrittura. «Una scrittura senza creatività, è vero, non ha importanza. Ma non può essere solo uno strumento. Sono necessarie entrambe». Che cos'è, allora, una poesia? «Un fiume che si scava il proprio letto».
Neuropsicofarmacologi (sic!)
contro la schizofrenia...
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
Uniti contro la schizofrenia
Il Pensiero Scientifico Editore
Diciotto gruppi europei per la difesa della salute mentale si sono uniti sotto la bandiera di INFORMED (International Network For Mental Health Education). Il loro obiettivo? Migliorare l’accesso alle informazioni sulla schizofrenia con l’iniziativa gratuita “Discover the road ahead”, inaugurata nel corso del 17esimo Meeting Annuale dell’European College of Neuropsychopharmacology (ECNP).
La schizofrenia colpisce un europeo su 100. È un grave disturbo mentale caratterizzato da sintomi che rendono difficile per chi ne è affetto distinguere tra esperienze reali e non e organizzare i propri pensieri. Secondo i dati riportati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa un terzo delle persone che si ammalano di schizofrenia guarisce, tornando a svolgere la vita precedente alla crisi senza ulteriori ricadute: ma nel quadro della strategia terapeutica possono avere un ruolo decisivo l’informazione e la consapevolezza del malato.
L’iniziativa di INFORMED è stata accolta con favore dal Parlamento europeo: Charles Tannock, parlamentare europeo ed ex-psichiatra, ha commentato: “Sono felice di poter sostenere il lancio dell’iniziativa INFORMED. Ho passato tutta la vita a curare pazienti affetti da schizofrenia e qualsiasi misura possa alleviare le loro sofferenze e informare meglio le famiglie è ben accetta”. Rodney Elgie, presidente della Global Alliance of Mental Illness Advocay Networks (GAMIAN), la principale associazione di pazienti, dal canto suo sottolinea: “Siamo consci che sapere è potere e se un malato affetto da schizofrenia non è informato in merito a ciò che lo ha colpito, alla possibilità di usufruire delle più recenti terapie e ai network di sostegno, la sua vita quotidiana e lavorativa ne risulta notevolmente compromessa. Obiettivo di “Discover the Road Ahead” è quello di ottenere un maggiore e più equo accesso a informazioni di facile accesso e aggiornate, in particolare per quanto concerne le ultime terapie, in modo che coloro che sono affetti da schizofrenia e chi si prende cura di loro possano fare scelte consapevoli”.
Una persona su quattro tra quelle che si prendono cura di un malato afferma di non essere in possesso di alcuna informazione utile e che spesso tali informazioni sono negate o poco diffuse: i volantini informativi non forniscono nozioni sufficientemente dettagliate, d’altra parte internet e i testi specialistici non sono di facile consultazione e intimoriscono molti pazienti.
“Discover the road ahead” fornisce utili informazioni per individuare i primi segni di schizofrenia, affrontare la diagnosi indicando terapie e aiuti disponibili. Il vademecum è stato prodotto da specialisti che hanno affrontato la schizofrenia in prima persona. Il progetto è stato testato in Inghilterra con malati di schizofrenia, che lo hanno definito “diverso, necessario, facile, aperto e accurato”.
Giorello e la nascita di Venere
L' INCONTRO «La nascita di Venere» vista da Zecchi e Giorello
È «La nascita di Venere» il tema del secondo appuntamento per la rassegna di filosofia «Le rotte della conoscenza».
Stefano Zecchi e Giulio Giorello dibattono al Teatro Studio sull' origine del mito di Venere.
Filosofi a confronto
Il testo di Giulio Giorello, qui pubblicato, anticipa i temi che verranno affrontati questa sera, alle ore 17, al Teatro Studio di Milano in un incontro-dibattito tra Giulio Giorello appunto e Stefano Zecchi. Il titolo della serata è «Tra mito e simbolo: la nascita di Venere» ( nella foto, l’opera di Botticelli ) e si inserisce all’interno del ciclo «Le rotte della conoscenza», organizzato dal Piccolo Teatro di Milano (diretto da Sergio Escobar) per l’edizione 2004 del Festival del Teatro d’Europa, dedicato quest’anno al Mediterraneo.
La nuova bellezza di Venere? E' nella matematica
Il rapporto fra mito e scienza simboleggiato dall' esempio di Lucrezio, grande poeta e straordinario scienziato
di Giulio Giorello
Una divinità del mito presiede all' umana impresa della scienza. Poiché «senza te nulla sorge alle rive divine della luce», ti desidero come «compagna nello scrivere i versi che mi appresto a comporre sulla natura delle cose». All' inizio del suo De rerum natura Lucrezio invoca Venere, la dea che «pervade il mare popolato di navi e la terra fertile di frutti». Figura della potenza di amore, Venere dispone le poche lettere dell' alfabeto in modo che il poeta possa comprendere la complessa varietà dei fenomeni riconducendoli agli elementi costitutivi, gli atomi, che turbinano nello spazio vuoto, aggregandosi e disaggregandosi. Essa è signora della vita e della morte, e per questo può donare a chi le si rivolge la facoltà di fare emergere la forma dall' informe, l' ordine dal caos, il descrivibile dall' indescrivibile. Lucrezio - che la tradizione vuole che scrivesse negli sprazzi di lucidità concessi da un' intermittente follia dovuta a un filtro d' amore - era al contempo un grande poeta e uno straordinario «scienziato», capace di lavorare pazientemente sulle parole come di analizzare dettagliatamente le osservazioni di cui disponeva. La sua Venere non è una semplice immagine retorica, bensì la personificazione della forza creativa della ricerca. L' avventura di Lucrezio non è diversa dalla nostra, anche se noi abbiamo telescopi orbitanti o acceleratori di particelle per esplorare la natura delle cose. E Venere, che rappresenta «il piacere degli dei o degli uomini», è oggi la bellezza della macchina e della matematica, del congegno più concreto come della forma più astratta. Il sorriso della dea, come nel quadro di Botticelli, continua ad accompagnarci nella nostra esistenza. Sin dai filosofi della natura del Rinascimento che avevano riscoperto il testo di Lucrezio, Venere che nasce dalla spuma del Mediterraneo viene a simbolizzare l' infinito disvelarsi di una verità che a noi può solo darsi in forma finita. È questa la condizione dell' indagatore umano, quella stessa che così drammaticamente Lucrezio rende quando conclude il suo poema con la desolazione della peste di Atene. La finitezza - dolore e fragilità - è l'altro volto di Venere. Ma che ne è allora del piacere, almeno per gli esseri umani? Esso si alimenta della sua stessa finitezza, della capacità se non di possedere la natura, di saggiarla, provando e riprovando, per tentativi ed errori, come se ogni obiettivo costituisca un nuovo inizio - non diversamente da come può fare il lettore se riprende i primi versi di Lucrezio e soggiace di nuovo alla seduzione di Venere. In questa vicissitudine, che non conosce colpa o peccato e che non ha bisogno di salvezza, facciamo esperienza della gioia della scoperta e della libertà dell' invenzione. Senza presunzione o vanità, ma anche senza (più o meno) compiaciuto abbandono al mistero. Come ai tempi di Lucrezio, è bene che ogni tanto qualcuno si dedichi al compito di «vegliare le notti serene» - a cercare qualche nuova stella, a studiare qualche bizzarra specie animale o vegetale, oppure a tentare di risolvere qualche astruso rompicapo matematico. Poiché strana e sorprendente è la natura della creatività umana, scientifica o artistica, che la Venere lucreziana suscita. Come ha scritto un altro poeta (Percy Bysshe Shelley), «la mente nell' atto della creazione è come un tizzone che si sta spegnendo, cui qualche influenza invisibile, come un vento incostante, restituisce una luminosità effimera».
Giovanna Mezzogiorno:
«per me, che sono atea...»
Repubbica 11.10.04
Giovanna Mezzogiorno è protagonista del film tv in onda stasera e domani su RaiUno
"La mia Monaca di Monza travolta da Chiesa e famiglia"
di SILVIA FUMAROLA
ROMA - «Dovrò invecchiarla un po', sembra una bambina che ha indossato una veste non sua». La perplessità del pittore chiamato a ritrarla, prima di entrare in convento, riassume il senso del destino della nobile Virginia Maria de Leyva. Non li sentirà mai suoi quegli abiti da suora, la giovane aristocratica innamorata della vita, che voleva essere moglie e madre, e che il padre, Don Martino, nella Monza del '600, destinò al convento per non disperdere il patrimonio di famiglia. È lei, la Monaca di Monza, la famosa sventurata di cui scrive Manzoni nei "Promessi sposi": e perché «la sventurata rispose» lo spiega il bel film di Alberto Sironi, Virginia, la Monaca di Monza, interpretato da Giovanna Mezzogiorno, in onda oggi e domani su RaiUno.
[...]
«Virginia non è un personaggio antico, né moderno, è senza tempo, perché nessuno di noi è mai veramente libero: siamo condizionati da ciò che gli altri si aspettano o pretendono da noi» spiega Giovanna Mezzogiorno.
[...]
La Mezzogiorno affida a Virginia l´inquietudine, il coraggio, la rabbia di una donna che non si piega; Bertorelli è un cattivo senza appello, diabolico.
[...]
«Sapevo di lei quello che si studia a scuola», ammette la Mezzogiorno, «immaginavo un personaggio inquietante, misterioso. La sceneggiatura, basata sugli atti del processo e sul carteggio tra la suora e il Cardinale, restituisce invece una Virginia molto più umana. Una donna moderna che commette il peccato di voler esser libera, e libera di amare in un'epoca in cui alle donne non era riconosciuto neanche il diritto di vivere. La Chiesa e il padre diventano i suoi carnefici. Per me, che sono atea, è difficile capire perché non si sia ribellata e non abbia scelto di vivere povera, ma libera. La verità è che Virginia voleva la libertà, ma anche il potere».
citato al Giovedì e al Lunedì
Wojtyla: dio e il diavolo collaborano!
Il nuovo libro del Pontefice: "Il nazismo, furore bestiale"
In "Memoria e identità" la filosofia della storia e gli ultimi 2 secoli in Europa
Cita Goethe: il diavolo come "parte di quella forza che vuole... il male e crea... il bene"
MARCO POLITI
ROMA - La «bestialità» del nazismo, vissuta da chi lottava con l´arma della cultura e della fede perché in Polonia gli esseri umani non diventassero «sottouomini» come voleva Hitler. L´enigma del comunismo, cioè di un «male» forse «necessario al mondo e all´uomo», raccontato da chi ha contribuito più di ogni altro ad abbatterlo. Si preannuncia pieno di spunti profondi il nuovo libro di papa Wojtyla. Si chiamerà "Memoria e Identità", centoquaranta pagine. La Rizzoli lo pubblicherà nei primi mesi del 2005.
Sarà «un magnifico affresco sugli eventi della nostra storia» e sulle chiavi per capirli, annuncia da Francoforte il suo portavoce Joaquin Navarro. Toccherà oltre due secoli di storia europea, dall´Illuminismo al postcomunismo, tratterà di democrazia, diritti umani, libertà, cultura, i concetti non identici di nazione, patria e stato, il rapporto tra Chiesa e Stato, il volume che Giovanni Paolo II ha composto con la pazienza del tessitore partendo da una serie di conversazioni avute nel 1993 a Castelgandolfo con due filosofi polacchi: il sacerdote Jozef Tischner, ora scomparso, e Krzysztof Michalski fondatore a Vienna dell´ "Istituto di Scienze sull´uomo".
Attenzione alle data di uscita del volume. Dovrebbe coincidere la primavera prossima con il pellegrinaggio, che il vecchio pontefice sogna di fare a Czestochowa dopo le tappe ai santuari mariani di Pompei e di Lourdes, quasi per consegnare alla Madonna Nera la "summa" dei propri pensieri sul cristianesimo e l´Europa.
«È un libro non diretto solo ai cattolici o ai cristiani, ma che interessa tutti», spiega Navarro a Repubblica, aggiungendo: «Il mistero dell´uomo, le ragioni del Male, sono il leitmotiv sempre presente nel pensiero di Giovanni Paolo II e in tutta l´opera filosofica e letteraria di Karol Wojtyla». Il Papa «si pone la domanda sull´origine del Male nella storia e scopre elementi di bene anche nel male. Non è un libro di condanna».
Dai brani anticipati da Rizzoli emerge l´attenzione differenziata riservata dal pontefice al nazismo e al comunismo. Due fenomeni da indagare diversamente. Scrive Wojtyla che neanche i contemporanei compresero la reale dimensione del male che imperversava in Europa durante il Terzo Reich: «Vivevamo sprofondati in un´eruzione di male». Dopo la guerra Wojtyla si disse che i dodici anni di nazismo erano da vedersi come «il limite imposto dalla Divina Provvidenza ad una simile follia». Anzi, aggiunge, non era stata soltanto una follia, ma una «bestialità, uno scatenarsi di furore bestiale». Se però il comunismo è durato più a lungo e se dopo la guerra presentava prospettive di ulteriore sviluppo - pensava già allora Karol Wojtyla - «deve esserci qualche senso in tutto questo».
Così senza volerlo Giovanni Paolo II si inserisce nel rovente dibattito fra chi omologa - banalizzandone le radici - i due eventi che hanno segnato tragicamente la storia del Novecento e chi non rinuncia ad analizzare i due fenomeni nella loro interezza. Sulla ripulsa di entrambi i sistemi totalitari da parte di Wojtyla non c´è dubbio alcuno, ma al fenomeno comunista egli dedica l´approccio di uno scrutatore pensieroso. Non è un caso se in proposito evoca il pensatore e scrittore tedesco Goethe, che nel suo dramma "Faust" definisce il diavolo come «parte di quella forza che vuole costantemente il male e crea costantemente il bene». Adombrando, insomma, una sorta di eterogenesi dei fini e di complessità delle spinte interne. Anche se nel loro comportamento le dittature nazista e comunista hanno egualmente cercato di «nascondere all´opinione pubblica (il male) che facevano».
Non si capisce la leadership di Wojtyla senza la sua natura mistica e filosofica. Per questo il tema della verità dell´agire umano e politico e della sua connessione con la libertà resta centrale nella sua riflessione. Anche in "Memoria e identità" il Papa torna sulla questione della libertà che ha il compito di realizzare «la verità sul bene» e che al tempo stesso deve essere sempre «libertà per l´amore». Si comprende così la sua avversione per chi propaganda la libertà, ma si inebria di potenza. Però anche il suo malumore per le democrazie senza valori.
Repubblica, stessa pagina
Cacciari: "Interpreta la storia da una prospettiva teologica"
"Ha visto la caduta della grande eresia"
Sul finire della vita ha voluto riconsiderare tutti gli avvenimenti da lui vissuti. Ha visto il crollo delle grandi bestie, ma non delle ideologie e delle idolatrie
di Alessandra Longo
ROMA - Massimo Cacciari, la sorprende che il Papa parli del comunismo come male necessario?
«No, direi che è ovvio e per nulla scandaloso che Egli interpreti la storia da una prospettiva teologica, secondo la linea della Provvidenza eterna. Anche il più indicibile dei mali rientra nel disegno divino. Tutto ciò fa parte della visione profetico-apocalittica ed escatologica di questo Papa. Forse queste parole, non nuove, possono scandalizzare una coscienza laico-illuminista ma sono quelle che pronuncia ogni cristiano autentico. Con la venuta del Cristo, la storia è giudicata. L´avversario - si dice nell´Apocalisse - è lasciato fare, è lasciato manifestarsi... I mali dunque non cessano, sono ancora permessi, ma non hanno più giustificazione».
Il Papa introduce una distinzione fra male necessario, che può creare, in certe concrete situazioni dell´esistenza umana, occasioni per il bene, e male assoluto, il nazismo, «follia e bestialità».
«Il suo è un invito a riflettere sulla profonda differenza attraverso cui si può esprimere il male. Nazismo e comunismo: ovvero da una parte un´ideologia che affonda le radici nel nazionalismo, nel "terra e sangue" pagano, dall´altra l´ideologia universalistica del comunismo che è il vero nemico della Chiesa, la vera sfida che la Provvidenza manda al cristiano, necessaria in quanto avente un significato, un senso. Oportet haereses esse... Ecco l´eresia da combattere e vincere, il pericolo maggiore, l´insidia mortale, una Gerusalemme celeste costruita con la nostra forza! Le parole di Agostino che possono persino applicarsi al Manifesto di Marx... C´è un sottile significato esoterico nelle parole del Papa che spero non sfugga. Il nazismo era la Resurrezione di Satana, già vista e già vinta, mentre il comunismo è stato l´eresia necessaria, l´avversario interno da sfidare, la Chiesa in casa».
La Divina Provvidenza, dice il Papa, ha deciso "solo" dodici anni di follia nazista mentre il comunismo è durato più a lungo. Come giudica questa distinzione temporale?
«A dir la verità, questa periodizzazione - nazismo breve, comunismo lungo - mi sembra un po´ una caduta in un discorso alto. Dietro tuttavia si cela la questione della differenza abissale tra le due ideologie. Un passaggio importante agli occhi dei teologi e anche per i non credenti».
La destra attuale si attesta su una posizione ben diversa, sulla parificazione dei totalitarismi, l´uno eguale all´altro.
«E´ quel fare di ogni erba un fascio che trovo insopportabile, di un´assoluta stupidità dal punto di vista scientifico-storico e filosofico».
Tornando un passo indietro, davvero si può introdurre la categoria dei mali necessari contro quella dei non necessari?
«Come filosofo potrei dire che ciò appare insensato. Siamo abituati a capire le cause, a ragionare sulle condizioni che determinano gli avvenimenti, la storia. Ma l´approccio teologico va compreso anche dallo storico più laico. Il discorso del Papa mi pare, lo dico tra virgolette, "divertente", stimolante, ci invita tutti a meditare sull´abissale differenza tra paganesimo ed eresia».
Fausto Bertinotti registra e corregge: «Il comunismo - dice - non è stato un male necessario ma un bene da costruire».
«Bertinotti, certamente in buona fede, dice cose di disarmante ingenuità. E´ rimasto ancora alla teoria delle radici dell´albero buone che producono frutti marci. Una teoria che non sta tanto in piedi. Già nel ´68 i più consapevoli di noi l´avevano capito».
Questo libro, queste riflessioni su «Memoria e identità» arrivano adesso. C´è, secondo lei, una qualche ragione che ha spinto il Papa a scrivere ora ?
«Penso che sul finire della vita abbia voluto riconsiderare, a questa altezza, tutti gli avvenimenti da lui vissuti. Ha assistito alla caduta delle grandi bestie, del nazismo e del comunismo, ma non alla caduta delle ideologie e delle idolatrie. E´ l´elemento tragico della sua esperienza, il dramma segreto di questo Papa».
lunedì 11 ottobre 2004
Cina
LE AUTORITA’
I ribelli gentili che non conoscono Mao
Internet, rock e sogni: i teenager di Pechino sono lontani anni luce dal comunismo dei loro padri
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
Fabio Cavalera
PECHINO - Ci sono tanti possibili modi di interpretare il successo economico della Cina, le contraddizioni del suo sistema e le trasformazioni negli stili di vita legate al ritmo forsennato dello sviluppo. Ma uno dei più efficaci e dei meno battuti dagli osservatori internazionali - impegnati a considerare i numeri relativi alle performance industriali - è quello che guarda ai giovani.
Sono loro, questo immenso esercito di ragazzi, di adolescenti, di universitari, persino di precoci lavoratori della terra che si spostano nelle metropoli alla ricerca di integrazioni salariali dopo la stagione dei raccolti (dal 1997 sono stati circa cento milioni i migranti interni), sono loro che ormai costituiscono uno degli ingranaggi più importanti nel motore della innovazione.
È una massa che preme sui vecchi equilibri della società, che sa essere creativa e alla quale non piace l'omologazione generata dal maoismo. Una massa che è nata quando il Grande Timoniere era già morto (1976) e che ha accompagnato negli ultimi venti anni le tappe della politica di apertura graduale del regime alla economia capitalista. Una massa che non ha conosciuto le durezze, le violenze fisiche e ideologiche della rivoluzione culturale. Una massa che crede nella modernizzazione, nella ricchezza, nel successo e non è comunista. Che ama il cinema e la musica. Dentro questa massa si sta formando la classe dirigente del domani, quella che sostituirà Hu Jintao, il leader che sta governando la svolta. Se Hu Jintao è la quarta generazione della Cina formatasi nel 1949, una quarta generazione ancora divisa nel partito fra conservatori e riformatori, quella dei ragazzi cresciuti dal 1976 in poi è la quinta generazione che sta diventando adulta con miti, obiettivi, speranze, delusioni tutte diverse dal passato.
Pechino non é l'immagine della Cina. Troppe sono le differenze sociali e di educazione da una città all'altra, da una provincia all'altra. Ma nella settimana appena conclusa della festa nazionale per il cinquantacinquesimo anniversario della Repubblica Popolare (sei giorni di fermo totale del Paese inventati per incentivare le spese e lo shopping), la capitale è stata presa dall'assalto frenetico di intere famiglie da ogni provincia o distretto e si è come trasformata in uno specchio nel quale sono sfilate le facce, le problematiche, le idee che oggi scuotono l'anima dei giovani cinesi. Di chi cerca il successo, di chi lo ha trovato e di chi ha perso la bussola o teme di perderla. Il volto di una Cina che ha scoperto il consumismo dei McDonald's e dei grandi centri commerciali, oppure che si rifugia nella tranquillità di una comodissima libreria all'Oriental Plaza dove sfogli riviste e pubblicazioni bevendo un caffè o un tè, oppure che si culla nel divertimento dei locali alla moda (che aprono al ritmo di uno alla settimana). Una Cina giovane che sta pure sperimentando la malattia trasmessa dall'ansia di rispondere alla sfida della competizione e alle attese di chi (i genitori, i parenti, le autorità) ti chiede di sfondare e scommette su di te per cercare una rivincita sociale o affermare un nuovo ruolo. E' l'altra parte, quella nascosta, della vitalità della gioventù cinese.
Secondo il centro psicologico dell'Università di Pechino almeno due ragazzi su dieci soffrono di lievi crisi depressive ma quattro su cento ne soffrono in maniera grave. E' la Cina che ama le auto e i vestiti, che ama Internet, i computer e i videogame. Shen Qiyun, direttrice del Comitato per la riforma della educazione, sostiene che in un anno sono stati venduti 30 milioni di giochi elettronici perlopiù a diciottenni e a ventenni. Una tendenza che sta preoccupando la Lega giovanile comunista al punto da costringerla il 26 settembre scorso a emettere una sorta di classifica dei videogame: quelli accettabili e quelli no. Li ha divisi in cinque categorie (violenza, sesso, terrore, morale, cultura) e ogni categoria a sua volta in gradi di intensità. Dal meno pericoloso al più pericoloso. Ha spiegato Shen Qiyun: «I giovani hanno il diritto di passare il loro tempo libero con i videogame, è impossibile vietarlo possiamo però consigliarli su che cosa è giusto e che cosa è sbagliato».
Ecco dunque una Cina giovane dai mille volti che contrastano ma che alla fine si integrano nell'esprimere un forte desiderio di libertà e di moderazione, di apertura e di solido realismo. Per cominciare il volto che appare un po' eccentrico e controcorrente ma che in verità è già orientato alla mediazione con le regole imposte dalle autorità. Il volto della cultura underground. Se nei primi giorni di ottobre - mentre in piazza Tiananmen sventolavano le bandiere rosse davanti al ritratto di Mao - andavi al parco internazionale delle sculture alla periferia ti imbattevi nei metallari, nei punk, nei rockettari partiti anche dalle zone più estreme del Celeste Impero. Come la piccola Yu in gonnella corta stile leopardo e capigliatura rossa, che se ne stava in una tenda montata ai bordi di un marciapiede. E ce ne erano tante altre di tende canadesi, distribuite lungo una siepe al «Midi festival», il festival dei musicisti alternativi. I padri degli alternativi (saranno stati diecimila nel parco) erano guardie rosse e un tempo sarebbero inorriditi all'idea di trovarsi figli con giubbotti in pelle nera, jeans rattoppati, capelli colorati, accovacciati a scambiarsi cd delle migliori band inglesi o americane degli anni Settanta, Ottanta, Novanta.
Eppure la cultura underground ha messo radici. Sono i giovani che hanno ribaltato la scala dei valori. Uniscono il sentimento della ribellione, una ribellione moderata, a una gentilezza di fondo che è tipica cinese.
Non c'è proprio nulla di aggressivo in questi ragazzi. C'è lo smarrimento di chi cerca una strada nuova. E lo capisci quando vedi che vendono per dieci renmimbi, poco più di un dollaro, un euro, asciugamani con gli sguardi di Mao e di Saddam Hussein. E non sai se lo fanno per celebrare o per schernire. Lo chiedi e ti rispondono: decidi tu, sventolalo o pulisciti. C'era stampato in ideogramma sull'asciugamano: rock your life . Un invito a rendere più elettrica la tua vita. Hanno un punto di riferimento in complessi tipo i Primavera e Autunno o i Recycle o gli Handsome Black o gli Ak 47 o i Ming Jie i quali cantano «Non ce ne frega niente di niente, vogliamo essere soltanto noi». Un po' come Vasco Rossi in Italia. Frequentano i loro locali, della periferia pechinese, il «Nameless Highland» il più gettonato. Suonano, bevono birra, improvvisano mercatini dell'usato di dischi e film. I video di Charlie Chaplin, Mastroianni, Fellini, poi l'horror, l'amore romantico, la guerra, il west selvaggio.
Non sono ragazzi emarginati questi underground cinesi. Vogliono essere diversi, si coprono di piercing, dicono di rifiutare l'omologazione.
Però si autocensurano. Sanno qual è il limite oltre il quale non bisogna andare, non possono andare, non intendono andare. E le autorità tollerano. C'è una sorta di compromesso accettabile per le due parti. Li chiamano linglei , un tempo significava teppista ora più semplicemente sta per alternativo. Molti studiano, la stragrande maggioranza è alle superiori. Sono punk o metallari romantici e sognatori. Anche loro parte - piccola, gentile e risoluta - di una generazione che sta cambiando i lineamenti della Cina. E che colgono al volo l'opportunità di una grande Festa Nazionale per divertirsi, o suonare, o cantare, anziché ricordare i padri fondatori di una Repubblica Popolare che non c'è più.
(1-continua)
Corriere della Sera 11.10.09
Quinta generazione
POCHI GIOVANI Sono relativamente pochi i giovani nella Repubblica popolare: su 1,3 miliardi di abitanti, quelli al di sotto dei 18 anni sono il 28%. In India sono a esempio il 41%
MOLTI MASCHI
La politica di controllo delle nascite e l’aborto legale (anche se è proibito effettuarlo in base al sesso) fa sì che i maschi siano più delle femmine: sotto i 15 anni 1,13 per ogni femmina
PIU’ MODERNI
Anche in Cina sono i giovani a usare le nuove tecnologie: su 87 milioni di internauti, una ventina hanno meno di 18 anni. Gli stessi che hanno comprato 30 milioni di videogame
il sesso dei preti
IL SESSO DEI PRETI
di GIOVANNI ROMEO
Perversi aguzzini come il protagonista non corrispondono certo alle figure di preti che ci sono più familiari. È altrettanto vero, però, che la questione di fondo sollevata nel film - quella della sessualità degli ecclesiastici - è seria e importante, sia per gli interessati, sia per il mondo in cui essi operano. Si pensi soltanto agli scossoni che hanno sconvolto la Chiesa cattolica negli Stati Uniti, dopo i gravi abusi perpetrati da tanti preti, coperti dai superiori, ma smascherati dai giudici: pesanti indennizzi da pagare alle vittime e un danno d´immagine incalcolabile per l´istituzione.
Di nodi irrisolti ce ne sono svariati: dall´incompatibilità tra condizione clericale ed esperienze sessuali di qualsiasi tipo, ribadita con vigore da una Chiesa cattolica fermamente contraria a ogni apertura, alla tendenza a nascondere le magagne dei sacerdoti, anche quando - l´esperienza statunitense insegna - si tratta di atti violenti, penalmente perseguibili. È qui che i conti non tornano, come sanno bene gli studiosi che cercano di ricostruire in modo più equilibrato le relazioni proibite provocatoriamente illustrate da Almodóvar. Se la trasparenza ha finalmente prevalso pochi anni fa nella decisione di aprire l'Archivio centrale dell'Inquisizione romana, non si può dire altrettanto per la maggioranza degli archivi vescovili che conservano i processi intentati a ecclesiastici ritenuti colpevoli di abusi sessuali. Essi restano quasi sempre chiusi, con grave danno per la ricerca, ma anche per l'immagine stessa della Chiesa cattolica.
Tuttavia, già dalla limitata documentazione, soprattutto campana, finora disponibile, alcuni elementi di valutazione sono chiarissimi. In primo luogo, la questione della sessualità dei preti comincia a profilarsi in tutta la sua drammaticità in tempi relativamente recenti: è solo dal secondo Cinquecento in avanti che essi sono richiamati con forza a rinunciare a tutto, anche a esperienze familiari diffuse, oltre che benviste dalle comunità che guidavano spiritualmente, e costretti a una doppia vita. Il fatto curioso e poco noto che talvolta, ancora agli inizi del Novecento, in qualche paesino del Sud i nuovi parroci si vedessero "consegnare" dai capifamiglia una donna da loro scelta per sua compagna, perché non ne molestassero le mogli, è l´estrema propaggine di uno schema antico, che aveva funzionato bene per alcuni secoli. Nel nuovo, invece, le violenze sessuali dei preti aumentano e pongono alle competenti autorità ecclesiastiche - fino alla metà dell´Ottocento lo Stato non ha voce in capitolo - il problema di una risposta adeguata.
Proprio qui, peraltro, la continuità tra gli atteggiamenti di ieri e di oggi si mostra più netta: più che a rendere giustizia alle vittime degli abusi sessuali dei sacerdoti (siano esse donne o bambini), i tribunali ecclesiastici pensano a non infangare, con condanne pesanti, l´onore del clero e della Chiesa tutta. La prassi più diffusa, quando tutto va bene, è la monetizzazione del danno: si chiudono così molti processi di violenza carnale a carico di chierici o di preti. È ciò che capita ovunque, a Napoli come nelle più sperdute campagne del Sannio, anche quando le prove sono schiaccianti, complici la solida posizione economica degli ecclesiastici violenti e la difficoltà di difendersi adeguatamente da parte di chi ha subito gli abusi. L´aspetto più paradossale di questa situazione riguarda proprio l´omosessualità: i laici, se erano ritenuti colpevoli, finivano sul patibolo, a meno che non riuscissero a rifugiarsi in qualche chiesa, gli ecclesiastici se la cavavano con poco, grazie all´occhio di riguardo dei tribunali della Chiesa. Anche di queste dolorose contraddizioni, insomma, bisogna tener conto, se si vuole capire la complicata miscela che favorisce il perpetuarsi delle sgradevoli situazioni presentate da Almodóvar.
BergamoScienza
La scienza non è fiction ma fa il pieno
«Abbiamo colmato un'esigenza», ripete con semplicità Gianvito Martino, presidente di Sinapsi, a chi gli chiede le ragioni dello straordinario successo di BergamoScienza. Nei primi tre giorni della manifestazione, la risposta della gente, accorsa in massa ai convegni e a far visita alle mostre, è stata travolgente, di gran lunga superiore a ogni aspettativa. Un fiume in piena che ha sorpreso gli stessi organizzatori e ha costretto televisioni e grande stampa ad intervenire in forze per accendere i riflettori su Bergamo. Una buona idea, perseguita con tenacia, si è trasformata in un vero e proprio avvenimento, dando vita a un fenomeno culturale che a Bergamo non si ricordava dai tempi della grande mostra su Giovan Battista Moroni.
A sconvolgere in senso positivo la città, che «improvvisamente è apparsa più viva, più simpatica e più proiettata verso il futuro» - come ha sintetizzato il presidente del comitato scientifico della manifestazione, lo scienziato Edoardo Boncinelli -, è stato un drappello di amici, alcuni dei quali ricercatori, uniti dall'amore per la scienza e dalla convinzione che essa debba essere messa alla portata di tutti, in particolare dei più giovani. Vale la pena ricordare che, solo alcuni mesi fa, le stesse persone - tutti volontari con pochi mezzi e privi di pregiudizi ideologici - si aggiravano fra istituzioni e imprese a chiedere una mano, incassando anche numerosi «ci dispiace». È nell'ordine delle cose ma, alla luce dei risultati, a loro e a chi ha creduto in questa scommessa oggi Bergamo deve un grazie sincero.
Non c'è stato incontro, mostra, proposta che non abbia registrato il «tutto esaurito». Ottocento persone all'inaugurazione nella ex chiesa di Sant'Agostino, altrettante per la conferenza sulla clonazione; ovunque sale piene: tantissimi i giovani alle lezioni di genetica e di astrofisica. Ma il riscontro più incredibile si è registrato ieri sera, quando ha dovuto intervenire la polizia per dissuadere le centinaia di persone rimaste fuori dai saloni del Centro Congressi, desiderose di assistere al convegno con Mauro Ceruti, Massimo Cacciari e il cardinale Martino. E non è finita: già questa mattina, alla Fiera Nuova, sono previsti mille studenti delle superiori a lezione da Boncinelli e Beppe Remuzzi che cercheranno di spiegare loro il mestiere di scienziato. E per tutta la settimana continueranno mostre e concerti.
Qual è la lezione che ci arriva da BergamoScienza? Anzitutto l'interesse del grande pubblico per temi ritenuti, evidentemente a torto, esclusiva degli specialisti. Un sintomo confortante che, dopo gli anni delle ideologie e delle disillusioni, e nonostante il bombardamento mass mediatico che propone modelli frivoli e fiction pervase di sentimentalismo, la cosiddetta gente non ha ancora perso, anzi ha acuito, l'interesse per la realtà così come essa si pone. C'è un estremo bisogno di realtà, di conoscere come stanno veramente le cose, e forse è per questo che gli scienziati che la indagano con serietà e rigore raccolgono oggi il massimo della stima e della credibilità. La seconda lezione è che si può parlare di energia nucleare e di clonazione senza steccati e senza dogmatismi, da uomini aperti, in modo che nessuno si metta in cattedra a dettare agli altri cosa sia giusto pensare e cosa si debba fare. Vale in primo luogo per chi, forte di principi assoluti, pone sempre e comunque barriere insormontabili alla ricerca; ma vale anche per gli stessi scienziati i quali, prendendo a prestito un'immagine utilizzata ieri, devono avere chiara la consapevolezza di essere esploratori mandati in avanscoperta dalla «tribù degli uomini» per indagare i misteri dell'universo e dell'io, senza pretendere di essere gli unici depositari della verità. La scienza, è stato ripetuto più volte in questi giorni, non è un assoluto, ma un prodotto storico. Ed è vero quanto ha sostenuto Cacciari: siamo da tempo usciti dal positivismo ottocentesco ed è la consapevolezza dei suoi limiti che oggi interessa alla scienza. L'urgenza, allora, non è ripetere all'infinito i rischi che le nuove scoperte possono rappresentare, bensì «la cura dello scienziato in quanto tale, l'apertura di un dialogo profondamente umano sulla sua angoscia e sulla sua inquietudine».
La terza lezione riguarda la nostra città. Un'avventura come BergamoScienza dimostra che chi è portatore di idee nuove che sappiano incidere, fino a diventare un modello culturale, trova il consenso di tutti. Perché se centinaia di ragazzi si accalcano ad ascoltare le conferenze di Cavalli Sforza, Simons, Redi, Galli, Mullis e recepiscono la sfida e lo spirito critico di don Verzè il futuro è garantito.
Corriere della Sera 11.10.04
«Professione scienziato. Per restare sempre giovani»
Oggi i ricercatori incontrano mille studenti. Remuzzi: «Si mantiene la capacità di stupirsi». Boncinelli: «È il mestiere più bello del mondo»
DAL NOSTRO INVIATO
BERGAMO - Pronti a giurare che fare lo scienziato è il mestiere più bello del mondo. A impegnarsi per suscitare entusiasmi, muovere curiosità. Far provare un brivido d’avventura per territori scientifici immensi, che aspettano solo di essere conquistati. Saranno invitati a sentirsi pionieri i mille ragazzi che questa mattina andranno al Palatenda per ascoltare Giuseppe Remuzzi, medico e direttore dell’Istituto Mario Negri di Bergamo, e Edoardo Boncinelli, fisico, biologo, che ha scoperto una famiglia di geni che controllano il corretto sviluppo del corpo. Chi meglio di loro, per appassionare i giovani? E cosa meglio di un festival come questo che oggi chiude con i dibattiti, ma prosegue in settimana con mostre e laboratori, per convincerli che «per diventare scienziati basta lasciarsi incuriosire dalla realtà, farsi stupire dalla natura, dalle cose piccole o grandi che evocano un sentimento di bellezza», come ripete Marco Bersanelli, astrofisico?
Boncinelli ne è convinto: «Non c’è mestiere più bello, che dia altrettanta libertà e consenta di porsi domande affascinanti sull’universo, la terra, il corpo, il linguaggio. Lo scienziato ha l’impressione di riuscire ad aumentare il nostro patrimonio di conoscenze». Rincara Remuzzi: «Si attivano tutte le facoltà intellettuali e non si è mai arrivati: più si studia più si aprono scenari nuovi. Si deve restare sempre un po’ ingenui, pronti a stupirsi, giovani insomma. E poi questo è un mondo aperto: non ci sono barriere, se si è bravi, tutti lo riconoscono».
Perché i giovani sono allergici alla scienza? Risponde Boncinelli: «Forse perché si è data l’impressione, sbagliata, che non ci sia più niente da scoprire. Questo non è vero per la fisica, figuriamoci per la biologia, dove c’è ancora tutto da fare». E poi c’è il vecchio stereotipo dello scienziato chiuso in laboratorio, isolato da tutto: «Invece si è sempre a contatto con le persone, in giro per il mondo», spiega Remuzzi.
Certo, a vedere le centinaia di persone che ieri non sono riuscite a entrare per ascoltare il dibattito con Massimo Cacciari (sono arrivati anche polizia e carabinieri a regolamentare l’accesso) e considerando che sabato sono state «diecimila le persone che hanno frequentato convegni, mostre e dibattiti», come assicura Matteo Salvi, direttore del centro congressi di Bergamo, sembrerebbe quasi che non ci fosse bisogno di quest’opera di convinzione. E invece questi sono miracoli che avvengono solo in occasione di festival simili. La realtà è meno trionfale: «Ogni anno in Italia abbiamo 280 mila laureati e seimila ricercatori in materie scientifiche in meno rispetto al resto d’Europa - spiega Gianvito Martino, presidente di Sinapsi -; queste iniziative servono per rendere la scienza più fruibile». La realtà è anche un po’ triste: «Questa mattina - anticipa Remuzzi -, dovrò anche parlare della mia collaboratrice molto in gamba che è costretta a lasciare perché la borsa di studio non le basta». Solo un accenno, magari: ci sono mille ragazzi da convincere: «Basterebbe che solo due diventassero scienziati e sarebbe già un successo», parola di Boncinelli.
a Roma:
il cinema di Luis Buñuel
DEI PICCOLI
Buñuel, ecco in rassegna il suo cinema visionario
Franco Montini
La più bella e completa rassegna dedicata a Luis Buñuel negli ultimi anni fino a giovedì prossimo al cinema dei Piccoli di Villa Borghese, organizzata dall´associazione La farfalla sul mirino. In cartellone una ventina di titoli, sia in versione italiana che in originale con sottotitoli, con i film più celebri del maestro spagnolo, ma anche alcune rarità assolute del suo "periodo messicano" come El (stasera alle 20.30), Adolescenza torbida, Gran Casino. La rassegna propone due proiezioni al giorno: alle 20.30 e alle 22.30. Onirico, provocatorio, ironico, surreale, il cinema di Bunuel resta una delle espressioni più originali e sorprendenti nella storia del cinema e la rassegna romana ne è fedele testimonianza. Oggi a completare il programma saranno proiettati a partire delle 22.30 anche tre celebri mediometraggi: Simon del deserto, degli anni 60; Un chien andalou e L'age d'or, ovvero i primi due film del regista, segnati dall´adesione al surrealismo e da un visionario spirito antiborghese.
Cinema Dei Piccoli, viale della Pineta 15, 4 euro (abbonamento 4 ingressi a 10 euro), tel. 06.8553485
domenica 10 ottobre 2004
universi tolemaici
Cacciari sta con Foucault...
Cacciari e Esposito alla Feltrinelli
Il potere psichiatrico, Foucault nel terzo millennio
Costanza Falanga
Agli inizi degli anni Settanta, per la precisione tra il 1973 e il 1974, in un momento cruciale in tutto il mondo per i rivolgimenti sociali, politici, economici che avrebbe comportato, il filosofo Michel Foucault teneva una serie di lezioni al Collège de France. Siamo negli anni più effervescenti per il dibattito antipsichiatrico, per quella che fu la rivoluzione introdotta in Italia da Franco Basaglia e per gli esperimenti di Thomas Szasz. In questo clima Foucault riprende il tema della Storia della follia, in cui aveva ricostruito la genealogia del manicomio e del potere medico-psichiatrico come conseguenza del progresso del sapere scientifico. Oggi, a distanza di trent’anni, le lezioni tenute da Foucault al Collège rivivono ne Il potere psichiatrico, il saggio a cura di Mauro Bertano, edito da Feltrinelli, al centro dell’incontro inaugurale di ”Passaggi e confini”, la rassegna promossa dal Dipartimento di Salute mentale dell’Asl Napoli 1 diretto da Fausto Rossano.
Primo appuntamento della serie, l’evento dedicato alle lezioni di Foucault si è svolto ieri mattina a ”la Feltrinelli” di piazza dei Martiri (curato da Mauro Maldonato) con la partecipazione dei filosofi Massimo Cacciari (preside della Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano) e Roberto Esposito (docente di Filosofia teoretica a L’Orientale), degli psichiatri Antonino Lo Cascio, Sergio Mellina e Fausto Rossano. «Oggi è un giorno particolare, non solo perché ricorrono vent’anni dalla morte di Foucault, ma anche perché si celebra la giornata internazionale della salute mentale e il decennale della chiusura dell’ospedale psichiatrico ”Leonardo Bianchi”. Tutte queste coincidenze ci inducono a riflettere su quanto fatto fino ad oggi. Un manicomio più che un luogo fisico è uno schema mentale che si può ripetere sempre e oggi stiamo camminando sul crinale di una pericolosa controriforma», spiega Fausto Rossano nell’introdurre l’incontro, nel corso del quale Antonino Lo Cascio ha ricostruito tutta la storia appassionante del movimento antipsichiatrico italiano, cui ha contribuito non poco.
Ma qual è l’attualità di Foucault? Perché i suoi studi psichiatrici sono ancora un esempio?
«Foucault fu un critico feroce di ogni tipo di umanesimo. C’è una storia tra le tante citate nel libro che mi ha molto colpito. È la battaglia che s’instaura tra un medico e un folle, in cui il folle non dice cose abnormi del tipo ”Sono Napoleone”, ma semplicemente ”Sono meglio di te”. Tutto il lavoro del medico consiste nel riuscire a fargli accettare la sua uguaglianza agli altri», afferma Massimo Cacciari.
E prosegue: «Il problema più complesso in Foucault fu di spiegare la complicità che si viene a stabilire tra chi esercita il potere e il suo soggetto-oggetto. Perché, in realtà, il potere non cerca l’assoggettamento ma il proprio riconoscimento che implica, quindi, una complicità tra le parti. Ma il potere è ciò che produce tanto la vita quanto la morte e questo, oggi, è evidente in modo dirompente. La nostra follia non consiste nel vivere in un’epoca in cui tutto è storto? In cui tutte le nostre idee sono condizionate?».
«L’attualità di Foucault - spiega Roberto Esposito, di cui sta per uscire Bios. biopolitica e fisofia (dopodomani, edito da Einaudi) - sta nell’evidenziare il rapporto tra verità e realtà. Cos’è l’errore di un folle e della follia? L’errore è la verità della follia. La lotta che s’instaura tra medico e paziente è quella della realtà con la verità. Il passaggio da una fase all’altra della psichiatria è segnato da questo mutamento di strategia. Questo è anche il nucleo più importante del corso tenuto da Foucault».
La rassegna ”Passaggi e confini” prosegue con molti altri appuntamenti, tra cui, la presentazione del saggio Psichiatria prossima di Pino Riefolo (ed. Boringhieri) e Dell’apocalisse, un’antologia di scritti di autori vari, edita da Guida.
Boncinelli: «troppe bugie su clonazione e biotecnologie»
Edoardo Boncinelli: troppe bugie su clonazione e biotecnologie
di Susanna Pesenti
Un invito a pensare bene, a pesare le parole. Soprattutto giornalisti e medici devono darsi una calmata, perché i «si dice» su celllule staminali, clonazione riproduttiva animale, clonazione terapeutica umana, stanno diventando un cocktail infernale di mezze verità, approssimazioni e franche bugie che impediscono non solo alla gente comune, ma agli stessi scienziati di avere un'idea chiara delle questioni in gioco. L'hanno detto, in maniera diversa, lo zoologo Carlo Alberto Redi, il biotecnologo Cesare Galli, il medico Giuseppe Remuzzi, il biologo Edoardo Boncinelli. Basta polveroni, cerchiamo di essere onesti a livello scientifico, avremo una base comune di informazione sulla quale potremo modulare le convinzioni di ciascuno e quindi arrivare ad esprimere un giudizio motivato come cittadini.«Le cellule staminali e la tecnologia che le circonda sono una grande promessa che non sappiamo quando si realizzerà». Edoardo Boncinelli, in maglietta con il logo di BergamoScienza, precisa per il cronista la sua posizione e riepiloga: «La clonazione l'avete inventata voi dei media. In laboratorio si è sempre detto clonaggio. Dieci anni fa si riuscì a far ringiovanire le cellule già caratterizzate fino allo stadio ancora indifferenziato, primo passo per ricostruire in laboratorio tessuti o organi per i trapianti. Ma per indirizzare le cellule occorrono le sostanze induttrici, che sono proteine. Sono molte e ne conosciamo solo due o tre. In alcuni casi potrebbe essere necessario anche un "ambiente" che contenga gli induttori. C'è tantissima ricerca da fare ancora. Ma di questo non parla mai nessuno...». Secondo punto: le cellule devono essere ancora in grado di riprodursi, non troppo differenziate e ancora disposte a farsi indirizzare. «Queste tre condizioni definiscono le cellule staminali che si trovano nell'embrione fino a 16 cellule, nell'embrione di qualche centinaio di cellule, nel feto, nel cordone ombelicale, e nell'adulto nel midollo osseo, nelle mucose e nel cervello. Quali cellule adoperare? In questo momento, onestamente, nessuno può sapere se le cellule adulte sono in grado di dare tutti i tipi di tessuto, se sono cioè totipotenti. Se lo fossero, avremmo risolto tutti i problemi etici». Gli eventuali tessuti o organi prodotti in laboratorio per essere utili devono essere compatibili, quindi provenire da cellule del soggetto. L'altra strada è prendere le cellule staminali da un embrione costruito con un nucleo ad hoc. Ma per molti non è lecito. «La questione è semplice - risponde il biologo - Se l'embrione prima di due settimane è un essere umano, questa tecnica non si deve adoperare perché non si usa un essere umano per salvarne un altro. Se non è un essere umano, il problema non si pone. É la società che deve dire che cosa si fa, che cosa no, che cosa può essere fatto gratis, che cosa a pagamento». La «questione embrione» centrale e ineludibile, è solo il primo dei problemi. Lo stato attuale delle ricerche infatti favorisce la confusione e le fughe in avanti, soprattuto, sostiene Boncinelli, in campo medico. L'enfasi sull'uso di staminali per riparare i tessuti secondo il direttore del Sissa di Trieste rischia di provocare cocenti delusioni: «Questi esperimenti non hanno ancora dato prova di funzionare nel tempo. Io sono un po' scettico che le staminali introdotte possano rimanere e riparare il danno e non si disperdano invece, o vengano rifiutate». C'è anche una terza via, alla quale Boncinelli pensa dal '97,che potrebbe risolvere la questione: la costruzione di una cellula artificiale, geneticamente su misura: «Ma per questo occorre moltissimo studio». Un problema urgentissimo è quello del controllo dei laboratori: si rischia la delocalizzazione selvaggia. Chi sta lavorando ora su embrioni umani?«Non si sa, l'unico laboratorio trasparente è quello di Newcastle in Inghilterra che ha chiesto l'autorizzazione e accettato i limiti imposti dalla legge del suo paese. Ma gli altri? I laboratori di ricerca bio sono sparsi in tutto il mondo e non più solo in alcuni paesi». Torna il problema di un'opinione pubblica ben informata, che possa accedere a dati credibili e che venga sottratta all'emotività, per esempio da parte della classe medica che secondo Boncinelli spinge troppo sulle biotecnologie rischiando l'effetto boomerang: «Anche la fecondazione assistita in fondo è un fatto portato avanti soprattutto dai medici». Aspettando che l'orizzonte biotecnologico si rischiari, l'Italia potrebbe assicurarsi un futuro investendo in nanotecnologie. Nessun problema etico, possibilità di applicazione vastissime, ottimo ritorno economico. Lo studio dei materiali, ma a livello molecolare. Anche qui Edoardo Boncinelli un'idea ce l'ha: «Le nanobiotecnologie, microsonde da mandare nel corpo che entrino nelle cellule e vedano quali sono cancerose. L'ho detto anni fa, Veronesi non ci credeva, adesso si tenta di farlo in tutto il mondo».
in morte di Derrida
l'impossibilità della conoscenza...
ADDIO A DERRIDA
Il filosofo che negava la Verità
di EMANUELE SEVERINO
Jacques Derrida è stato uno dei maggiori protagonisti della cosiddetta «svolta linguistica» - della «svolta», cioè, che costituisce uno degli episodi centrali della filosofia del nostro tempo. Per comprenderne la portata ci si può riferire alla «svolta» compiuta nel XIX secolo dall’idealismo rispetto al realismo tradizionale, per il quale il mondo esiste anche se non è pensato dall’uomo. Anche il cosiddetto «senso comune» crede, insieme al realismo, che la terra, il cielo, i monti, il mare - e innanzi tutto Dio - esistano anche se non sono conosciuti e sperimentati dagli esseri umani.
Sono, come si usa dire, «là fuori». L’idealismo ha invece mostrato che quel «là fuori» è esso stesso qualcosa che stiamo pensando - anche qui, ora - e che dunque non sta al di fuori del pensiero, sì che il pensiero è già sin dall’inizio presso quel «là fuori» che ci si era illusi di anteporre e di rendere esterno al pensiero.
Qualcosa di analogo è accaduto anche nelle filosofie della «svolta linguistica». Ma andando oltre lo stesso idealismo e le filosofie che, come ad esempio la fenomenologia di Husserl, all’idealismo si sono in qualche modo rifatte. Come il realismo crede che la realtà sia indipendente ed esterna al pensiero, così l’intera tradizione filosofica crede che realtà e pensiero siano indipendenti dal linguaggio . Con gli altri esponenti della «svolta linguistica», ma secondo cadenze di grande originalità, Derrida ha mostrato che nemmeno il pensiero è «là fuori» rispetto al linguaggio, ma che la parola è già sin dall’inizio «là fuori», presso le cose e il pensiero che ci si illude di poter concepire come esterni e indipendenti dalla parola. «Il rapporto della parola con la cosa - aveva scritto Heidegger - non è una relazione fra la cosa da una parte e la parola dall’altra». E anche Wittgenstein aveva escluso che «qui ci sia la parola e là il significato» («Il denaro e la vacca che si può comperare con esso»).
Da questo principio - in qualche modo anticipato nel XVIII-XIX secolo da Hamann, Herder, Humboldt - anche Derrida ha tratto la conseguenza dell’impossibilità di una qualsiasi verità assoluta e definitiva. Il linguaggio è infatti storico, temporale; dunque i suoi contenuti sono provvisori; e questa provvisorietà avvolge il pensiero che dal linguaggio non può mai uscire. È a questo punto che il problema del linguaggio diventa estremamente complesso. Ho più volte osservato che esistono sostanziali analogie tra la tesi che il pensiero è condizionato dal linguaggio e tesi analoghe, come quella che il pensiero è condizionato dal cervello (o dalla storia, dalla materia, dall’inconscio, ecc.). Ed è analoga anche la sorte di tutte queste tesi.
Qui va soprattutto richiamato che la convinzione che il linguaggio abbia un carattere storico-temporale è sì fondata su uno dei principi più decisivi delle scienze storiche, il quale tuttavia, nonostante il suo esser costantemente condiviso, è soltanto un’ ipotesi , ossia qualcosa che, per quanto accreditata, non possiede una verità assoluta. Certo, senza ipotesi di questo genere non si può stare al mondo. Ma sulla base di un’ ipotesi ci si può permettere di negare perentoriamente l’esistenza di ogni verità assoluta? O Derrida ha inteso negarla ipoteticamente?
L'Unità 9.10.04
09.10.2004
Derrida, la verità sottosopra. Scompare il filosofo del decostruttivismo
di Beppe Sebaste
Scrivo queste frasi di fronte alla morte di qualcuno che ha contato molto per me, e mi trova del tutto impreparato ad affrontarla - lontano dai libri, dai miei appunti, lontano perfino dalla mia memoria. E mentre constato questa inadeguatezza, mi sembra di sentire risuonare anche a questo proposito il modello dei suoi ultimi insegnamenti - quelli che, direbbe Maurizio Ferraris, autore di una recente Introduzione a Derrida (Laterza), erano dedicati a una serie di «oggetti sociali», come la testimonianza appunto, come il segreto, l’ospitalità, il perdono, l’amicizia, il giudizio. I temi cioè dei suoi corsi e seminari ristretti cui sono stato per anni ospite e partecipante.
Si può perdonare solo l’imperdonabile, insegnava Derrida, senza che si cancelli l’oggetto di ciò per cui deve avvenire il perdono; si può ospitare, accogliere, solo se si è impreparati a farlo, magari nel cuore della notte e all’improvviso; si può donare solo quell’impossibile dono privo del fantasma di un debito e un credito, anche inconsci; così come, seguendo Agostino, si confessa non per informare qualcuno che sa già tutto, ma per dire che si sa di essere colpevoli. Così, dopo avere a lungo indugiato per eccesso di coinvolgimento di tematizzarlo in vita, mi trovo inerme e incapace di farlo ora in morte, e per questo corro il rischio di scriverne.
Le ultime opere di Derrida espongono con chiarezza definitiva il rischio di un «pensare secondo l’aporia», facendo dell’esperienza della filosofia una sorta di «possibilità dell’impossibilità», parafrasando quanto Heidegger scriveva a proposito della morte. Raggiungendo il detto secolare, trasmessoci anche da Montaigne, che vuole che la filosofia consista nell’imparare a morire, per quanto incessante, cioè infinito, ne sia il compito.
Jacques Derrida non è stato solo un grandissimo filosofo, ma forse l’ultimo dei filosofi, in un’epoca distante come poche da questa pratica e da questo modo di stare nel mondo. E lo si ama anche per questo, per come ha preso sul serio, molto sul serio la filosofia. Derrida è quindi importante non solo per avere saputo creare un linguaggio e un «sistema» nuovi, così nuovi e spiazzanti che ancora in questi anni l’americano Richard Rorty, quando non sapeva che pesci prendere, poneva Derrida nell’ambito della letteratura, come una specie di Joyce da imbalsamare in un limbo e così proteggerci dal coinvolgimento perturbante del suo pensiero che ci impone di risponderne e di rispondere. Sì, c’è nella sua opera una «eccedenza» della filosofia, eccesso e s-fondamento, come ebbe a dire Derrida a proposito di uno dei suoi maestri, Lévinas, e non faceva troppa distinzione tra il repertorio delle opere dette filosofiche e quelle dette letterarie.
Ma Derrida è importante anche perché tutta la sua opera è dedicata, e quindi legata (nel senso dell’eredità e del legame), alla rilettura della tradizione filosofica. E in questo legame, in questa dedica, c’è onestà, rigore, coerenza, sobrietà, e anche un’intrinseca, forse dissimulata umiltà, che la si sappia o no vedere dietro il lussureggiante, magistrale, a volte frastornante virtuosismo dei suoi testi e lezioni. Infine, lui che ha ingaggiato un forse definitivo conflitto contro il mito della presenza, cuore della metafisica, ha anche saputo impegnarsi fino in fondo in una riflessione sul presente, come mostra anche l’ultima recentissima intervista a Le Monde. Che parla della propria morte; ma anche di politica, di Europa, di pace, di disarmo.
Dovendo scegliere e sintetizzare malamente la sua opera secondo parametri di divulgazione, ricorderei quello che disse lui stesso a proposito del concetto di «decostruzione», tra i più commentati e abusati dai suoi stessi allievi. La decostruzione, disse Derrida, è una sorta di psicanalisi, della filosofia, di cui la metafisica sarebbe la principale nevrosi. Psicanalizzare la filosofia comporta il portarne alla luce le rimozioni, di cui la principale è la materialità della scrittura da lui allargata alla nozione di «traccia», ma anche tutte le opposizioni secolari e i dualismi che ne dipendono, natura/cultura, presenza/assenza, soggetto/oggetto, intelligibile/sensibile, ecc. Il compito che Derrida si è assegnato è stato dunque immenso.
Se la cultura occidentale e tutta la nostra tradizione filosofica ha valorizzato la voce, facendo della scrittura un sostituto della sua presenza immediata, uno dei compiti che si è assunto Derrida è stato considerare questo abbassamento della scrittura ricostruendo un’altra storia dei segni scritti, e quindi un’altra lettura della tradizione filosofica, probabilmente della stessa nostra «civiltà». Dopo i suoi primi commenti alla fenomenologia di Husserl e alla sua valorizzazione della presenza a sé, imparentata con la voce (la sua Introduzione alle origini della geometria è del 1962), nel 1967 Derrida pubblicò una serie di studi fondamentali dedicati a questa rimozione della materialità - cioè della scrittura, della morte e dell’assenza - nella nostra cultura: La scrittura e la differenza, La voce e il fenomeno e Della Grammatologia.
La riflessione di quest’ultimo permette di coniugare la liberazione della memoria e l’esteriorizzazione delle tracce attraverso una nozione, già allora, di archivio (uno dei temi della riflessione di Derrida negli ultimi anni), perché dai graffiti dell’età del neolitico ai file dei computer ciò che permane è l’estensione delle possibilità di riserve, di stoccaggio, il che è già un equivalente dell’analisi della differenza.
E veniamo alla nozione, sempre degli anni ’60, di differenza, che lui scrisse con la «a», differanza. La decostruzione stessa prende forma da questa pratica ed enunciazione: in francese, différence e différance suonano allo stesso modo, il che permette, performativamente, di fare ciò che il neologismo dice. Non solo differire come non ripetizione del medesimo, e come rinvio nel tempo, indefinitamente; ma mostrandone ciò che viene rimosso - l’assente, inudibile, invisibile traccia - nella voce, il grafema diverso e differito che pure permane nel fonema uguale e medesimo. Tenere conto della différance è già smontare le illusioni della «presenza». La scrittura non supplisce la presenza, vi è sempre una distanza irriducibile, che la retorica della presa diretta delle «nuove» tecnologie della comunicazione di oggi non può smentire (anche il mittente di un sms può essere già morto al momento della sua ricezione). È la questione della testamentarietà dei testi, di ogni letteratura. Ma è anche la questione della Disseminazione (titolo di un’altra sua opera), che indica insieme l’an-archia della scrittura e la dipendenza della nostra civiltà dal totalitarismo dei dettami platonici, di cui il divieto alla fecondazione eterologa è l’ultima attualizzazione: la scrittura è il rimosso perché fuori dal controllo del Padre, del Potere, frutto di una disseminazione che non si può assoggettare politicamente.
Ma alla giustezza dell’analisi di Derrida partecipa, per sintetizzare brutalmente, l’evidenza del fatto che non è mai esistito un linguaggio primo, vergine di scrittura. E dimostrarne l’infondatezza significa anche minare la possibilità di una presenza a sé, sui cui si fonda ogni metafisica. Viceversa, è l’etica che si apre come necessità.
Repubblica 9.10.04
Nel suo pensiero la nozione di scrittura ha un ruolo centrale: egli sostiene che l'intera tradizione filosofica occidentale svaluta il segno scritto e privilegia il segno orale. Derrida divenne famoso soprattutto per il decostruzionismo e per la sua metafora della filosofia come una "carta postale" che ha valore se non giunge mai a destinazione.
[...]
Derrida ha contribuito a una completa rivisitazione dei concetti e delle categorie proprie della filosofia classica occidentale. Proprio muovendosi dal pensiero di Heidegger, Derrida ha affermato l'impossibilità di conoscere l'essere attraverso il linguaggio, in quanto l'essere è "differenza" rispetto a qualunque forma individuale.
La Stampa
10 Ottobre 2004
STRONCATO DAL CANCRO IL FILOSOFO FRANCESE PADRE DEL DECOSTRUZIONISMO. AVEVA 74 ANNI
DERRIDA
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Al centro della riflessione di Derrida - e del suo concetto di «decostruzione» - c'è la lingua. Aveva detto poche settimane fa, nell'ultima grande intervista a Le Monde (di cui pubblichiamo un ampio stralcio in questa pagina): «Amo il francese come amo la mia vita, l'amo come uno straniero che è stato accolto e che si è appropriato di questa lingua come la sola possibile per lui». E poi ancora: «Lasciare delle tracce nella lingua francese: ecco cosa mi interessa. Io vivo di questa passione, se non per la Francia, per qualcosa che la lingua francese ha incorporato da secoli».
[...]
Era sposato con una psicanalista, ma ha avuto un figlio da un'altra donna, anch'essa psicanalista, Sylviane Agacinski, ora moglie di Lionel Jospin.
La Stampa 10 Ottobre 2004
L’ULTIMA INTERVISTA. LA MALATTIA, LA SOPRAVVIVENZA, IL FUTURO DELL’EUROPA
«Imparare a vivere significa imparare
a morire: non ci sono mai riuscito»
Copyright Le Monde
«SONO gravemente malato. Sorvoliamo», sospira Jacques Derrida, nella sua casa di Ris-Orangis, vicino a Parigi.
D’accordo. Parliamo piuttosto del suo «Spettri di Marx», uscito in Francia nel ‘93. Un libro cruciale, che si apre con questo esordio enigmatico: «Qualcuno, voi o io, s’avanza e dice: vorrei finalmente imparare a vivere». Più di dieci anni dopo, a che punto è lei, con questo desiderio di «saper vivere»?
«Imparare a vivere è anche maturare, educare. Apostrofare qualcuno per dirgli “adesso ti insegno a vivere” significa - a volte su un tono minaccioso - ti raddrizzo io. Poi, la domanda più difficile: vivere, si può imparare? Insegnare? Si può imparare, per disciplina o apprendistato, per esperienza o sperimentazione, ad accettare, o meglio, ad affermare la vita? Per rispondere alla sua domanda: no, non ho mai imparato a vivere. Imparare a vivere dovrebbe significare imparare a morire, assumere - per accettarla - la mortalità assoluta (senza salvezza né resurrezione né redenzione). Da Platone in poi, è l’antica ingiunzione filosofica: filosofare è imparare a morire. E poiché adesso alcuni problemi di salute si fanno per me pressanti, la questione della sopravvivenza o del rinvio della condanna, che mi ha assillato in ogni istante della mia vita, oggi prende una colorazione ancora diversa».
Nei suoi lavori ritorna spesso la parola «generazione», concetto delicato da maneggiare: come indicare ciò che, a nome suo, viene trasmesso alla generazione successiva?
«Di questa parola io mi servo in modo un po’ vigliacco. Si può essere il contemporaneo “anacronistico” di una “generazione” passata o futura. Essere fedele a quelli che vengono associati alla mia “generazione”, essere il custode di una eredità differenziata ma comune, vuol dire due cose: tenere - anche contro tutto e tutti - a alcune esigenze condivise, da Lacan a Althusser, passando per Foucault, Barthes, Deleuze, Blanchot e tutti gli scrittori, poeti, filosofi o psicanalisti fortunatamente ancora in vita, dai quali ho ereditato qualcosa. Così, per metonimia, io indico un modo di scrivere e di pensare intransigente, addirittura incorruttibile, che non si lascia spaventare dal fatto che l’opinione pubblica o i media potrebbero costringerci alla semplificazione. Ma occorre anche ricordare che in quell’epoca “felice” nulla era irenico. Le differenze e le controversie infuriavano in quell’ambiente che tutto era, tranne che omogeneo. Dunque anche la fedeltà prende qualche volta la forma della infedeltà e della distanza. Occorre essere fedeli a queste differenze, cioè continuare la discussione. Quanto ho detto della mia generazione vale ovviamente anche per il passato, dalla Bibbia a Platone, Kant, Marx, Freud, Heidegger e così via. Non voglio rinunciare ad alcunché, non posso. Imparare a vivere è sempre narcisistico: si vuole vivere il più possibile, salvarsi, perseverare e coltivare tutte quelle cose che, infinitamente più grandi e potenti di noi, fanno comunque parte di quel piccolo “io” dal quale traboccano. Chiedermi di rinunciare a ciò che mi ha formato, a ciò che ho tanto amato, è chiedermi di morire. In quella fedeltà c’è una sorta di istinto di conservazione».
Lei ha inventato una forma, una scrittura della sopravvivenza, che ben si adatta a questa impazienza della fedeltà.
«Se avessi inventato una scrittura, l’avrei fatto come una rivoluzione senza fine. In ogni situazione occorre creare una modalità di esposizione appropriata, inventare la legge dell’evento singolare, tener conto del destinatario presunto o desiderato. Ogni libro è una pedagogia destinata a formare il suo lettore. Le produzioni editoriali di massa non formano i lettori, ma presuppongono in modo fantasmatico un lettore già programmato. Al punto che finiscono per dare forma a questo destinatario mediocre che hanno postulato».
Lei in generale ha difficoltà a dire «noi» - «noi filosofi», ad esempio. Ma, a mano a mano che si dispiega il nuovo disordine mondiale, lei sembra sempre meno reticente a dire «noi europei». Già in «Oggi l’Europa», che lei ha scritto al tempo della prima Guerra del Golfo, lei si presentava come un «vecchio europeo», come «una sorta di meticcio europeo».
«Effettivamente dire “noi” m’imbarazza, ma mi capita di dirlo. Se di questi tempi mi capita di dire “noi europei”, è congiunturale: tutto quello che, della tradizione europea, può essere de-costruito non impedisce che, proprio per tutto quello che è successo in Europa, in seguito ai Lumi, in seguito al restringimento di questo piccolo continente e all’enorme senso di colpa che attraversa ormai la sua cultura (totalitarismo, nazismo, genocidi, olocausto, colonizzazione e decolonizzazione, e così via), oggi, nella nostra situazione geopolitica, l’Europa - un’altra Europa ma con la stessa memoria - possa (o almeno questo è il mio auspicio) ritrovarsi sia contro la politica egemonica americana sia contro un teocratismo arabo-islamico senza Lumi e senza futuro politico.
«L’Europa si trova nella necessità di assumersi una nuova responsabilità. Non parlo della comunità europea come esiste o si disegna nella sua attuale maggioranza (neoliberale), virtualmente minacciata di guerre intestine, ma di un’Europa futura, e che si cerca. In Europa e altrove. Quella che viene chiamata “Europa” ha delle responsabilità da accettare, per il futuro dell’umanità e del diritto internazionale. In questo caso non esiterei a dire “noi europei”. Non si tratta di augurarsi la costituzione di un’Europa come superpotenza militare, che protegge il suo mercato e fa da contrappeso agli altri blocchi, ma di un’Europa che pianti il seme di una nuova politica altermondialista. Che è l’unica via d’uscita possibile. Questa forza è in marcia. Anche se le sue ragioni sono ancora confuse, io penso che più nulla la fermerà. Quando dico Europa, dico questo: un’Europa altermondialista che trasforma il concetto e le pratiche della sovranità e del diritto internazionale. E che dispone di una vera forza armata, indipendente dalla Nato e dagli Usa: una potenza militare che, né offensiva né difensiva né preventiva, intervenga senza ritardi al servizio delle risoluzioni finalmente rispettate di una nuova Onu».
Sull’Europa non le sembra di essere in guerra con se stesso? Da un lato lei sottolinea che gli attentati dell’11 settembre hanno distrutto la vecchia grammatica geopolitica delle potenze sovrane, marcando così la crisi di una certa idea della politica che lei definisce come propriamente europea. Dall’altro, mantiene un attaccamento a questo spirito europeo, a cominciare dall’ideale cosmopolitico di un diritto internazionale di cui lei poi descrive, giustamente, il declino. O la sopravvivenza...
«Occorre “risollevare” la cosmopolitica, come scrivevo nel ‘97 in Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo! Quando si dice “politica”, si ricorre a una parola greca, un concetto europeo che ha sempre presupposto lo Stato, la forma “polis” legata al territorio nazionale e all’autoctonia. Quali che siano le rotture all’interno di questa storia, questa idea di politica resta dominante, nel momento stesso in cui molte forze si stanno dislocando: la sovranità dello Stato non è più legata a un territorio, e neppure le tecnologie della comunicazione e la strategia militare. Questa dislocazione mette effettivamente in crisi la vecchia idea europea di politica. E della guerra, della distinzione tra civile e militare, terrorismo nazionale o internazionale. Non credo però che ci si debba arrabbiare con la politica. E neppure con la sovranità, di cui io penso bene in certe situazioni, ad esempio per lottare contro certe forze mondiali del mercato. Anche lì si tratta di un’eredità europea, che va conservata e trasformata.
«È vero, sono in guerra con me stesso e dico cose contraddittorie. Questa guerra a volte la vedo come una guerra terrificante e penosa, ma so anche che è la vita. Non troverò pace se non nel riposo eterno. Non posso dunque dire che accetto consapevolmente questa contraddizione, ma so anche che è ciò che mi fa vivere e mi fa porre la famosa domanda: “come imparare a vivere?”».
In due libri recenti («Chaque fois unique, la fin du monde» e «Béliers»), lei ritorna sulla grande questione della salvezza, del lutto impossibile, insomma, della sopravvivenza.
«Come ho già detto - e ben prima delle esperienze di sopravvivenza che vivo oggi - ho rimarcato che la sopravvivenza è un concetto originale, che costituisce la struttura stessa di ciò che chiamiamo esistenza. Noi siamo strutturalmente dei sopravvissuti, segnati da questa struttura della traccia, del testamento. La sopravvivenza è la vita al di là della vita, la vita più che la vita, e il mio discorso non è mortifero, tutt’altro, è l’affermazione di un vivente che preferisce il vivere - e dunque il sopravvivere - alla morte, perché la sopravvivenza è la vita più intensa possibile. Non sono mai così ossessionato dalla necessità di morire come nei momenti di felicità. Gioire e piangere la morte che incombe, per me sono la stessa cosa».
La Stampa 10 Ottobre 2004
Grande e oscuro
Il fascino discreto
dell’obliquità
di Franca D’Agostini
[...]
I temi centrali del suo lavoro allora lanciati sono piuttosto noti: anzitutto l'idea che abbiamo a che fare con una differenza che è insieme temporale (differire nel tempo) e spaziale o strutturale, e le due cose sono così legate che solo un piccolo scarto grafico, la famosa «a» della «différance», ne registra il divergere; quindi, e conseguentemente, che esiste un certo primato del linguaggio scritto su quello parlato; infine, l'idea che la logica alla base del nostro pensare, scrivere, interpretare, sia una dialettica aperta, priva di sintesi, e dunque il compito del filosofo consista nel «decostruire» il linguaggio, mostrando come in ogni posizione teorica sia in gioco una dicotomia che è per lo più una falsa dicotomia (perché i due termini si annullano a vicenda, o se ne vanno ciascuno per suo conto, o perché l'uno contiene l'altro). Impossibile ricordare tutte le successive opere, circa 70 (l'Introduzione a Derrida, di Maurizio Ferraris, pubblicata l'anno scorso da Laterza, contiene una bibliografia dettagliata).
La maggiore fortuna di Derrida sbocciava in seguito, fiancheggiata dalla parallela diffusione del postmodernismo. Una fortuna controversa. Il primo celebre attacco è di John Searle, una polemica i cui termini sono fissati in Limited Inc. (1990, tradotto da Cortina, nel 1997). Ma ancora più famosa è la lettera di protesta contro l'assegnazione a Derrida della laurea honoris causa all'Università di Oxford, firmata da un buon numero di eminenti personalità della filosofia mondiale, e apparsa sul Times il 9 maggio 1992.
Due sono i principali rimproveri che gli sono stati rivolti: l'abbandonarsi a uno stile oscuro, e l'aver successo tra un pubblico «popolare» e non accademico. Ma forse queste erano anche ragioni di merito. A differenza di altri filosofi celebrati dai media Derrida non è mai venuto a patti con il linguaggio comune. Dotato in ciò di una certa purezza, ha sempre continuato a usare quello stile del tutto particolare che Rorty definì «ironico», e il cui segreto motivo conduttore è l'idea che le posizioni teoriche non possano proporsi come tali, in modo diretto, pena la ricaduta nella dialettica della decostruzione. Per questo, onestamente, Derrida non si è mai avventurato a fornire una presentazione razionale delle sue teorie. Si è limitato invece, come ha detto di se stesso, a scrivere «piccoli saggi obliqui». Il fatto che questi piccoli saggi contenessero, ancorché in obliquo, un grande pensiero, forse oggi lo dobbiamo ammettere.
La Gazzetta del Mezzogiorno10.10.04
Nelle «cartoline» di Derrida un addio alla verità
MARIO DE PASQUALE
[...]
La filosofia moderna ha prodotto un pensiero metafisico, che ha presunto di poter conquistare la verità oggettiva e in nome di quel possesso ha assunto atteggiamenti di onnipotenza, di dominio e di violenza, di intolleranza verso ogni «differenza», di rifiuto della pluralità delle verità.
La modernità ha fondato questa presunzione sulla convinzione che il soggetto fosse in grado di cogliere la verità presente nella propria coscienza (per questo ha prodotto un pensiero dell'identità e della presenza), e che fosse in grado di esprimerla attraverso la sua voce (il logocentrismo e il fonocentrismo secondo Derrida hanno caratterizzato la tradizione filosofica da Platone a Husserl).
Proprio la coscienza è invece secondo Derrida una grande illusione; non è il luogo originario di un'identità forte che produce o scopre verità. Il soggetto, come risulta da buona parte della filosofia e della scienza del '900 (specialmente in Freud e in Nietzsche), è spesso il risultato di forze che non sono presenti alla coscienza e la verità non siamo in grado di conoscerla se non attraverso le nostre parole.
La coscienza per Derrida è un concetto da abbandonare. Noi conosciamo le cose attraverso il linguaggio, attraverso i concetti e i discorsi che la tradizione ci trasmette nei testi scritti e con cui ci confrontiamo, che interpretiamo e deformiamo continuamente. La scrittura, lungi dall'essere semplice raddoppiamento e copia dell'originale verità che nasce in una coscienza, è sempre presa di distanza dall'originale vivente («La farmacia di Platone», in La disseminazione, Jaca Book ed., 1989, pp.105).
Le parole ci permettono di comprendere le cose e di fare esperienza del mondo, ma le parole vengono da una tradizione, fondata sui testi scritti, in cui siamo immersi, che utilizziamo per comprendere noi, il mondo e gli altri. Ma nel fare questo non possiamo mai avere la presunzione di cogliere l'essenza stessa della realtà, di essere in presenza della verità. La scrittura ci mette soltanto sulle tracce delle cose e del loro senso. Inevitabilmente nella lettura dei testi operiamo un tradimento rispetto al passato, costruiamo una differenza rispetto ad esso, spostiamo in avanti il senso delle cose, senza avere mai la presunzione di avere il possesso di una verità definitiva, e tuttavia creiamo il nuovo. Decostruire i testi significa sottoporli a nuove domande, a continue nuove interpretazioni che svelino sempre nuovi contenuti, nuovi significati, che ci possono offrire una pluralità di nuove prospettive di pensiero e di vita, cioè ulteriore differenza rispetto alla tradizione.
Proprio perché la sua è una filosofia decostruttiva, la sua scrittura è originale e complessa, in cui si intrecciano filosofia, psicoanalisi, linguistica, analisi testuale, gusto del paradosso e del gioco di parole. I suoi paradossi e i suoi giochi di parole, spesso irritanti, in realtà sono, come egli stesso afferma, «fuochi di parole, che intendono consumare i segni fino alla cenere…. slogare l'unità verbale, l'integrità della voce, frangere o effrangere la superficie calmadelle parole già dette, sottoponendo il loro corpo a una ginnastica allo stesso tempo gioiosa, irreligiosa e crudele»; sono finalizzati alla potenza della decostruzione dei testi, tendono a far emergere contraddizioni e nuovi significati.
Quella di Derrida è una scrittura molto lontana dal tradizionale discorso filosofico volto a presentare in modo semplice una tesi, i suoi presupposti, gli elementi di validità, le conclusioni, in modo concettuale, lineare, argomentativi e univoco. È una scrittura plurivoca, demistificante di ogni forma di idealizzazione e autorassicurazione, che non vuole risolvere i problemi, ma evidenziare aporie e contraddizioni dei discorsi su di essi, ampliarli, per far nascere altro pensiero, altra differenza, altra novità creativa.
La sua è una scrittura che molti non ritengono tipicamente filosofica (ammessa che vi sia) ma per molti aspetti letteraria. In alcune opere (La carte postale, 1980), Derrida scrive brani di lettere, senza fare nomi di eventuali destinatari, per sottolineare che «scrivere è scrivere per chiunque, continuamente, senza sapere chi leggerà i messaggi»; si tratta di disseminare segni linguistici, nuovo senso, sperando nella lettura e nella decostruzione, non di incontrare singole coscienze, ma pensieri che si alimentano di tracce di altri pensieri.
La filosofia in Derrida ha un'ispirazione etico-politica in quanto intende affermare la necessità di riconoscere come strutturali la pluralità e la diversità dei modi di vivere e di pensare degli uomini. Derrida è stato certamente una figura di filosofo militante, impegnato nelle più significative battaglie della nostra epoca (ricordiamo quella in favore dell'ospitalità degli stranieri e del rispetto delle diverse tradizioni, dell'insegnamento della filosofia nei licei, della libertà di insegnamento nell'università, ecc.).
Per lui fare filosofia significava anche pensare i fenomeni sociali e politici del nostro tempo, pensare il loro senso per noi. Lo ha fatto fino agli ultimi giorni. In una delle sue ultime interviste, rilasciata a G. Borradori per il volume laterziano Filosofia del terrore (2004), Derrida legge l'11 settembre come parte iniziale di un «teatro arcaico della violenza» destinato a crescere in modo smisurato nel futuro grazie alle terribili potenzialità della tecnoscienza, che annullerà i confini tra guerra e terrorismo e che alimenterà paure impensabili. Perciò egli affida alla filosofia nuovi compiti: ripensare le categorie della politica, della guerra, del terrorismo.
Corriere della Sera 10.10.04
Un continuo dialogo con Husserl e Freud
È come se si fosse spezzato qualcosa, in un discorso a tutto campo che si è evoluto senza interruzione dai primi anni Sessanta ad oggi. Nell’insegnamento di Derrida echeggiano i grandi del Novecento. Gadamer e Levinas, per esempio, cui proprio questo ebreo algerino - che ha segnato la vita intellettuale parigina, seminando nel contempo lo scompiglio sull’altra sponda dell’Atlantico - tributò l’ultimo omaggio, con una melanconica riflessione su quell’irreparabile «fine di un mondo» che è, appunto, la morte. Ma soprattutto Freud, Husserl e Nietzsche: sono loro i capisaldi, i punti di forza da cui Derrida parte per entrare nel dibattito dello strutturalismo francese.
Di Freud recupera un breve testo dedicato al Notes magico, che registra le tracce di una punta finché con uno strappo non siano cancellate. E da lì (passando per Rousseau e Lacan) prende l’idea di graffio, di scrittura: all’origine del linguaggio non c’è il parlato, la tradizione orale, ma la traccia scritta che precede il fiato, la voce.
Chi prende la parola vive un’esperienza euforica: gli pare d’essere un piccolo dio che, col suo pensiero, dà la propria impronta all’informe cera del linguaggio. E’ questa l’onnipotenza che Derrida vede al centro della tradizione filosofica classica: quella greca del Logos.
Ma chi parla ignora che la lingua di cui si serve lo sovrasta con la potenza delle sue lettere. Qui il discorso di Derrida s’incrocia con quello di Lacan: per entrambi, si tratta di togliere il primato all’uomo e alla sua pretesa personalità, per mettere in luce le strutture linguistiche e familiari (le leggi della parentela, il complesso di Edipo) che lo fanno diventare quello che è.
Spodestato dal proprio mondo, l’uomo è sottomesso a leggi che gli sfuggono. Derrida rompe, così, con una tradizione millenaria e con il suo strapotere.
Le conseguenze non tardano a farsi sentire. I testi letterari e filosofici vengono interpretati in modo nuovo: è una vera e propria rivoluzione, soprattutto negli Usa dove egli, con una serie di interventi, dà l’avvio al famosissimo «decostruzionismo», attorno al quale si sono versati fiumi d’inchiostro.
Declassando qualsiasi rigida assunzione critica, il «decostruzionismo» autorizza ogni lettura. Contro le chiusure specialistiche si afferma una nuova apertura: è come un invito a farsi prendere per mano dal testo, a lasciarsi guidare dalla forza stessa della lingua. I punti di vista si moltiplicano. Gli studi, piano piano, escono dal testo per incontrare le ragioni più diverse: quelle delle minoranze etniche e sessuali.
La vecchia talpa del comunismo, di cui parla Bataille, scava ora le sue gallerie attraverso grandi pagine: mentre gli «epigoni» si scatenano in ogni direzione, Derrida si concentra su un suo modo, ostico ma inconfondibile, di fare critica. Si abbandona a una sorta di deriva interna e, applicando il suo udito infallibile, entra nelle pieghe delle frasi, ascolta l’effetto delle singole parole, interviene nello scorrere delle lettere.
Nascono pagine memorabili di grande fascino ma anche di grande difficoltà, dove tuttavia non tarda a farsi strada un nuovo illuminismo.
Non resta, ora, che chiedersi chi possa, dopo Derrida, prendere su di sé un mondo che muore, perché questo tipo di dialogo possa continuare, sia pure con tutte le difficoltà che comporta.
medioevo
Dalla trama dei conflitti fra papato, impero e comuni emerge la vera chiave di lettura per capire il Medioevo
Il Medioevo: un'età, nel migliore dei casi, di gestazione di embrionalità, di conati, di violenze belluine e di misticismi. Un periodo magmatico, il cui connotato tendenzialmente «negativo», per umanisti, protestanti, illuministi, sembra comunemente riscattarsi nella funzione di preparare l'età moderna. Né una visione progressiva del Medioevo, in una storia peraltro eurocentrica, si può oggi accogliere per una vera comprensione, allorché si è cercata un'autentica interpretazione di quell'epoca attraverso la valorizzazione di miti e saghe, in un ribaltamento della «fatale» razionalità della storia. Questo non è stato, felicemente, l’approccio del libro di Giovanni Tabacco e Grado Giovanni Merlo ora in edicola con il Corriere . Un tratto originale del libro è rappresentato intanto dall’attenzione posta al riordinamento delle società romano-germaniche, sollecitate da culture autoctone (germaniche, nord-orientali, asiatiche) e attratte, peraltro, da modelli di molto più elaborata cultura, per un verso filtrati attraverso l'assunzione delle tipologie tardo imperiali fatte proprie dalle giurisdizioni ecclesiastiche, per un altro mutuati dai rituali politico-linguistici orientali, mentre conosceva diffusione e successo un'altra esperienza religiosa, culturale e sociale, quella monastica, che proponeva, su scala ridotta, un altro modello di aggregazione sociale razionale, in vista di una finalità salvifica pienamente compatibile con la spiritualità del cristianesimo, che è lungi dall'essere, sino al IV-V secolo, «romanocentrico». L'ottica «globale» di un Medioevo occidentale, religiosamente accentrato su Roma e idealmente collegato col mito universale della stessa Roma, viene ampiamente riconsiderata. A segnare una prima divisione di processi di sviluppo non fu tanto l'irruzione islamica nel Mediterraneo (tesi Pirenne), quanto il costituirsi, proprio in Italia, di una monarchia longobarda, che nel corso di una lunga durata (due secoli!), assunse la funzione di catalizzatore degli sviluppi successivi: i Longobardi a) non permisero che si realizzasse l’aspirazione dell’impero bizantino di ricostituire l'unità ecumenica dell'antica Roma intorno al Mediterraneo; b) indussero la Chiesa di Roma a compiere una scelta occidentale, per non divenire la Chiesa nazionale longobarda, cercando una protezione più efficace e meno invasiva dell'impero bizantino nella forza emergente dei Franchi; c) offrirono, al momento del loro crollo, l'occasione per il costituirsi di un’entità che rappresentò un riferimento, per la società altomedievale, paritetico a quello che, comunque, s'era mantenuto ad Oriente. Nel contempo, fallito il disegno «tripolare» universale di una società cristiana fondata sulla Chiesa di Roma e sui due imperi (Bisanzio nel secolo IX dovette riconoscere l'impero dei Franchi), il carattere occidentale dei processi storici del Medioevo si espresse per un verso nel rapporto simbiotico, ma istituzionalmente ambiguo, tra sacerdozio e regno, sulla cui carismaticità aveva posto una pesante ipoteca l'iniziativa di Leone III di incoronare imperatore Carlo Magno, per un altro sull'oggettiva difficoltà e poi impossibilità di far coesistere il disegno perlomeno coordinato dell'esercizio di un potere politico-economico condiviso ed ambíto nello stesso tempo tra le stesse forze che teoricamente in un ordinamento «pubblico» avrebbero dovuto garantire il disegno carolingio. E quindi la società europea continua ad esprimere più forze autonome che centripete, più gestioni signorili autonome che funzionalità gerarchiche: ed in questo senso il Medioevo occidentale è ben lontano dal poter essere identificato con il «feudalesimo», o, ancor peggio, visto come anticipazione di un'idea di «stato», modernamente inteso, poiché coinvolgeva nel suo stesso dinamismo per l'esercizio del potere forze laiche ed ecclesiastiche, indifferentemente.
Sino a tutto il secolo XII, non ci fu più invasione «laica» di ambiti patrimoniali e giurisdizionali «ecclesiastici» di quanto ci fosse gestione «ecclesiastica» sollecitata, concessa e difesa di ambiti patrimoniali e giurisdizionali «laici». Questa fu una componente essenziale della cosiddetta «Lotta delle investiture»: che, peraltro, accelerò notevolmente il processo di centralizzazione del papato nei confronti dell'episcopato e delle chiese d'Occidente. I caratteri stessi delle ragioni e dell'esercizio del potere furono necessariamente riconsiderati, gli universalismi tradizionali si andarono specificando come assolutismo spirituale e temporale nel papato, che coinvolgeva nel suo disegno anche l'Oriente islamico (Crociate); e come istanza suprema del fondamento della società degli uomini nel diritto, che non cessava di essere immaginato come lex imperialis . Ma a questo punto - e solo a questo punto - si avviava un processo di legittimazione del convivere che può lasciare intravedere tratti fisiognomici del mondo moderno.
Il cosiddetto Basso Medioevo, (secoli XIII-XV, all'incirca) appare allora periodo di una lenta decantazione: il processo si presenta come sempre più ispirato ad una razionalizzazione, che si esprime nello sviluppo della scienza giuridica, di quella filosofica, di quella sperimentale.
Non si può affermare con decisa sicurezza che l'evolversi della città-stato comunale italiana, che mentre agiva in piena autonomia rispetto all'impero, ne ricercava una legittimazione inserendosi, con la pace di Costanza (1183), nell'ordinamento della gerarchia feudale, dovesse portare alla costituzione della signoria e al principato: ma è innegabile che il processo di semplificazione delle contrastanti forze in gioco (si pensi alla Firenze di Dante!) possa essere valutato come una costante. Così come la progressiva prevalenza della monarchia francese tende coscientemente a far valere la propria funzione in un meccanismo che si può ben definire «statuale», nei confronti di una feudalità gelosa dei propri poteri. E in Inghilterra la corona è precocemente indotta a sottoporsi al controllo del proprio governo da parte di organi che possono ben essere assunti come forme di «parlamento», mentre il carattere universale dell’impero si ridimensiona in quello più realistico di un Reich tedesco e nella penisola iberica la diaspora dei regni cattolici si polarizza verso la Castiglia e l'Aragona. La completa monarchizzazione della Chiesa romana, del resto, se si attua secondo modelli temporali e statuali, dà luogo a sempre più numerose richieste di legittimazione dei valori spirituali, pauperistici e sociali di cui l'istituzione non appare più portatrice e garante, suscitando contestazioni decise, rifiuti e sconfinamenti in un'eresia che è tale non tanto perché trasgressione al messaggio evangelico o ai dogmi, ma perché rifiuto di una certa ecclesiologia. Una serie di sviluppi che avvengono nel contesto di una società in crescita demografica ed economica che muta radicalmente la valutazione del potere, sempre più collegato con la ricchezza e con l'organizzazione politico-militare. Questo, per sommi capi, un Medioevo che si secolarizza e soprattutto demitizza ogni divinizzazione del potere, nel momento stesso in cui interpreta in termini umanamente assoluti il suo esercizio da parte degli Stati.
* Socio dell’Accademia dei Lincei e professore ordinario di Storia medievale all’Università di Bologna