domenica 24 ottobre 2004

sul domenicale del Sole del 24 ottobre

Il Sole-24 Ore Domenica 24 Ottobre 2004

pagina 34
FISICA QUANTISTICA
La luce e il gatto di Schrödinger
Su «Science» un esperimento eccezionale su dualismo onda-particella firmato da tre giovani ricercatori italiani
di Marco Bettini
(dell'Istituto Nazionale Ottica Applicata, Firenze)

pagina 35
STORIA DELLE IDEE
Psichiatri sull'orlo di una crisi di nervi
Il punto sulla psicopatologia a partire da casi di malati che guardano la loro vita dal di fuori
di Paolo Rossi
(Giovanni Stanghellini, «Disembodied spirits and deanimated bodies: the psychopathology of common sense», Oxford University Press, 2004, pagg. 226, £ 29,95)

pagina 39
GRANDI MOSTRE / NAPOLI
La tragedia dell'ultimo Caravaggio
Nel 1606 il Merisi uccide un uomo ed è braccato dalla giustizia. Inizia un'angosciosa fuga che dura quattro anni, nei quali il pittore dipinge opere terribilmente drammatiche. Ora riunite al Museo di Capodimonte
di Marco Bona Castellotti

(«Caravaggio, l'ultimo tempo 1606-1610», Napoli, Museo di Capodimonte, fino al 23 gennaio 2005. Catalogo Electa Napoli)

Barbara Spinelli
integralismi

La Stampa 24.10.04
LEGGERE LOLITA A STRASBURGO
Barbara Spinelli

SICCOME non viviamo fuori dalla storia né dal mondo, è alla luce di quel che accade e che muta intorno a noi che conviene meditare sullo scontro in corso tra Parlamento europeo e Buttiglione, scelto dai governi dell'Unione e dal presidente dell'esecutivo Barroso come commissario incaricato delle libertà, della sicurezza e degli interni. Quel che accade intorno a noi, non solo in Italia ma nel mondo, è l'importanza sempre più grande e invasiva che sta assumendo la fede religiosa nella formulazione delle politiche interne e mondiali.
Questo è senz'altro vero per gli integralismi musulmani, ma lo è anche per una religione - il cristianesimo - che nel Vangelo ma anche nella storia europea ha rivelato di essere il monoteismo più propenso alla separazione tra politica e fede, tra quel che appartiene a Cesare e a Dio. Il ministro della Giustizia John Ashcroft è convinto che per tre anni, dall'11 settembre, la nazione Usa è stata «benedetta», e che «la mano della Provvidenza è stata assistita nella guerra contro il male dai devoti dell'amministrazione Bush». Bush stesso sostiene di essersi candidato alla presidenza, anni fa, perché Cristo in persona gli «affidò una speciale missione».
La guerra militare contro il terrore è fatta dai neoconservatori per esportare un bene - la democrazia - che il Capo di Stato Usa considera «donato direttamente agli uomini da Dio», tramite il suo braccio secolare che è l'America. Questo scontro di civiltà religiose, che il terrorismo islamico ha imposto per primo ma che la potenza guida dell'Occidente e i suoi assertori hanno fatto proprio con zelo neo-fondamentalista, è il clima in cui bisogna collocare, purtroppo, la vicenda Buttiglione. Quel che non accettiamo da certi regimi musulmani (l'ingerenza nelle scelte sessuali intime, il rifiuto dell'uguaglianza delle donne, la religione mai lasciata fuori dalla porta della res publica: altrettante scelte integraliste così ben descritte nel romanzo «Lolita a Teheran», di Azar Nafisi) non dovrebbe oggi essere un cavallo di battaglia del cristianesimo occidentale, a me pare. Il premier turco Erdogan che avesse detto parole somiglianti a quelle di Buttiglione non sarebbe giudicato idoneo, allo stato attuale, a entrare nell'Unione europea.
Non diversamente dall'America degli evangelicali, ci sono politici in Europa che si propongono di tradurre in leggi alcuni inflessibili articoli di fede sulle scelte di costume. Il momento in cui sono interrogati, dai parlamentari verso cui son responsabili, è quello in cui le loro intenzioni vengono vagliate alla luce di quel che faranno nelle vesti di legislatore che tutela credenti e non credenti.
Il presidente della Commissione parlamentare che ha censurato Buttiglione, il giscardiano Jean-Louis Bourlanges, è stato chiaro dopo la bocciatura del 6 ottobre.Ha detto che «in causa non era la fede personale di Buttiglione» (fede a suo parere più che legittima), ma quel che Buttiglione aveva già fatto in Europa: «Non è la sua dichiarazione sull'omosessualità (da Buttiglione definita "un peccato" di fronte ai parlamentari europei) ad aver creato i veri problemi - questo ha detto Bourlanges in un'intervista - ma il fatto che quando rappresentava il governo italiano nella convenzione incaricata del progetto di costituzione europea, Buttiglione propose un emendamento inteso a eliminare l'orientamento sessuale dalla lista delle discriminazioni proibite nello spazio dell'Unione». Emendamento che fu rifiutato, tanto che ora - nell'articolo 21,1 della Carta europea dei diritti (e la Carta è giuridicamente vincolante, nella costituzione che i governi approveranno il 29 ottobre a Roma), è scritto: «È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali».
Non è vero dunque, secondo Bourlanges, che i deputati europei non son capaci di distinguere tra libertà di convinzione e diritto, tra credenza personale e operato politico. Ma «avendo riversato le sue convinzioni sull'omosessualità - di per sé onorevoli, secondo Bourlanges - in una pratica politica», Buttiglione è stato valutato in chiave politica.
Buttiglione non era chiamato infatti a giudicare secondo coscienza leggi già promulgate (il politico cattolico può contestarle, pur dovendo garantirne il rispetto) ma a esporre le sue propensioni in quanto legislatore futuro, in un'Europa dove non tutti son cristiani, non tutti son eterosessuali, e non tutti i cristiani la pensano allo stesso modo. È qui che il confine tra credenza privata e comportamento pubblico rischia d'essere violato. E non importa che il credo di Buttiglione sugli omosessuali sia eventualmente condiviso da ampie maggioranze: ci sono diritti (quelli garantiti dalla Carta dei diritti ma non quello di abortire più o meno facilmente) che dovrebbero valere anche quando ci son maggioranze desiderose di smantellarli.
A questo punto si pongono tre questioni. La prima attiene all'etica personale, la seconda è costituzionale europea, la terza è storico-politica, e riguarda il peso che la memoria del passato dovrebbe o non dovrebbe avere non solo sull'agire politico, ma sulle credenze stesse degli europei occidentali.
Il problema etico personale è stato sollevato, in Italia, da politici e intellettuali che denunciano il pregiudizio anticattolico che regnerebbe nell'Unione. Si è parlato di «dogma del politicamente corretto», che impedirebbe di esprimere opinioni morali su omosessuali o parità della donna. Buttiglione ha lamentato l'«odio» che lo colpirebbe, e l'esistenza di una ricattatoria «nuova ortodossia accompagnata a una nuova inquisizione, questa volta anticristiana». Queste accuse non hanno senso, perché i parlamentari non hanno condannato una fede: hanno espresso, proprio come Buttiglione, una valutazione politica. Si sono domandati quali riflessi su Buttiglione commissario-legislatore avranno le sue convinzioni etiche. Inoltre per un filosofo e storico della Chiesa è veramente fuori posto se non blasfemo, comparare l'Inquisizione con i giudizi (non mortiferi) espressi dal Parlamento europeo.
Il problema costituzionale riguarda il diritto del Parlamento europeo a bocciare un commissario, ed eventualmente l'intera commissione (anche perché son almeno 5, i commissari ritenuti incapaci o eticamente non ineccepibili). Mi sembra completamente fuori luogo parlare di «crisi istituzionale senza precedenti», in caso di censura dell'esecutivo Barroso, e di turbativa che guasterebbe le cerimonie romane del 29 ottobre, quando i governi approveranno la costituzione europea. La bocciatura di un governo da parte del Parlamento è cosa affatto normale in uno Stato, e solo chi s'oppone a un'Unione politica considera disastroso che la stessa procedura diventi normale anche nei rapporti Commissione-Parlamento europeo (salvo poi giudicare la Commissione una burocrazia senza legittimazione democratica). Ancor più grave è che Barroso e Buttiglione (parlando sulla Stampa a Amedeo La Mattina), chiamino i governi a far pressione sui gruppi parlamentari europei. La commissione è un organo federale che risponde davanti a deputati eletti direttamente dai popoli europei, non davanti agli Stati. La verità, forse, è che molti governi temono una prova di forza Commissione-Parlamento europeo, perché essa dimostrerebbe in maniera spettacolare (e per niente negativa, oltre che raddrizzabile) i poteri dell'assemblea sovrannazionale.
La terza questione è storico-morale. È vero, credere che l'omosessualità sia un peccato (vocabolo gravoso per i religiosi, che si paga con punizioni o Inferno) è un credo non censurabile in democrazia. Ma c'è qualcosa di più nella parola usata, e non basta ammettere - come Buttiglione nella lettera di ritrattazione a Barroso - che essa suscita «emotività». È qualcosa che con il cristianesimo ha poco a che vedere (non c'è condanna degli omosessuali nel verbo di Gesù, e l'omosessualità è equiparata a sodomia solo nell'XI secolo). Ed è qualcosa che occorre esaminare alla luce non solo della storia che ci è contemporanea, ma della storia europea del Novecento.
Per esser precisi: non si può fare a meno di ricordare che gli omosessuali, accanto a ebrei e zingari, erano considerati dal nazifascismo alla stregua di genia suscettibile di infettare la pura e prolifica razza ariana, e dunque da eliminare. Lo ricordano lapidi al campo di Sachsenhausen, dove finirono e morirono centinaia di omosessuali, e lo ricorda un monumento in Italia, a Bologna, presso i giardini di Villa Cassarini di fronte a Porta Saragozza. Gli omosessuali erano accusati sulla base del paragrafo 175 del codice penale nazista (28-6-1935) di atti licenziosi e lascivi tali da «distruggere - sono le parole di un discorso segreto di Himmler, nel '37 - la purezza e la continuità biologico-razziale del popolo tedesco». Durante il nazismo centomila di essi circa furono arrestati. Alcuni furono incarcerati, altri internati, indicibilmente seviziati come cavie, uccisi. Alla fine della guerra, ne erano sopravvissuti 4000.
Coloro che son onorati come martiri nei monumenti diventano oggetto di tabù, perché sulla memoria storica e sugli interdetti si è voluta costruire una società non disumana. E il tabù mette in evidenza come la discriminazione precedente il martirio sia una cosa, la discriminazione dopo il martirio un'altra, radicalmente diversa. Questo vale per il monumento Yad Vashem, a Gerusalemme, come per i monumenti di Sachsenhausen e Bologna evocanti coloro che, perché omosessuali, dovevano cucire sulla casacca il triangolo rosa. Come dobbiamo innalzare tabù sull'antisemitismo, così dobbiamo innalzarli anche su zingari e «triangoli rosa». Non possiamo dire che gli attacchi antiebraici di Dostoevskij sono improponibili dopo la Shoah, e quelli contro gli omosessuali no. Non possiamo rispettare i tabù sull'antisemitismo, e affermare che la critica contro la discriminazione degli omosessuali è invece un dogma anticristiano del politicamente corretto. Un poeta può forse: la letteratura osa l'indicibile. Un politico non può.
Lo stesso articolo di fede della Chiesa sugli omosessuali andrà forse rivisto in Europa e America (e secondo me lo sarà) così come son stati corretti alla luce dei crimini passati il pregiudizio anti-giudaico, le crociate, le conversioni forzate, la schiavitù dei negri. Sennò bisogna dire che anche il rifiuto dell'antisemitismo - o il rifiuto di criminalizzare zingari, malati mentali, slavi - è in fondo un dogma politicamente corretto, un'ortodossia che gli antidogmatici possono abbattere. Nessun democratico, immagino, vorrà cadere in sì grande contraddizione, e dimenticare la storia da cui gli Europei vengono, e che ha fondato e fonda ancor oggi la loro unità.

nuovi scavi archeologici in Cina

ansa.it 24/10/2004 - 14:18
Archeologia: Cina, ricerche su misteriosa civiltà bianca
Cominciati scavi in un migliaio di tombe scoperte nel 1934

(ANSA) -PECHINO, 24 OTT- Cominciati gli scavi in tombe di 4mila anni fa nel nordovest della Cina, fulcro, sembra, di una misteriosa civilta' di uomini forse bianchi. Lo riferisce l'agenzia Nuova Cina. Le tombe, scoperte nel 1934 da un esploratore svedese, sarebbero un migliaio. Le ricerche che si svolgono a Xiaohe, vicino al deserto di Lop Nur, potrebbero risolvere un enigma dell'archeologia che parla dell'esistenza di una cultura isolata a migliaia di chilometri da ogni altra comunita' bianca.
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storia delle donne
tre streghe nel Ponente ligure

Corriere della Sera 24.10.04
CULTURA
Un’indagine di Stefano Moriggi racconta le persecuzioni in Italia prima di Salem e di Loudun
in un intreccio all’italiana

Lo strano caso delle streghe che evitarono il rogo
una recensione di Giulio Giorello

La storia
Il libro di Stefano Moriggi, «Le tre bocche di Cerbero» (edito direttamente nei Tascabili Bompiani) indaga uno dei casi più affascinanti, misteriosi e feroci di stregoneria avvenuti in Italia, e più precisamente a Triora, piccolo borgo del Ponente ligure tra il 1587 e il 1589. Moriggi cerca di ricostruire che cosa si nascose dietro la misteriosa scomparsa delle donne accusate di stregoneria, torturate dall’Inquisizione e infine deportate da Triora.
«La vigilia del 24 giugno, giorno in cui ricorre la festa di San Giovanni Battista, compatrono di Triora, riaccendono ogni anno, a notte iniziata, dei fuochi di fascine di legna detti falò nell’interno dell’abitato di Triora e paesi circonvicini e sul colle antistante alla chiesa di S. Zane (da Zuane, uguale Giovanni) sul Monte Ceppo». Così leggo ne Le streghe e l’Inquisizione di Francesco Ferraironi (un classico, 1955, di storia della stregoneria) cui attinge anche Stefano Moriggi in questo Le tre bocche di Cerbero. Poiché si tratta del Ponente ligure, zona geografica che mi è abbastanza nota (la famiglia di mio padre era dell’alta Val Bormida), mi ha richiamato i falò della mia infanzia che costellavano le colline, quasi a voler rompere il buio notturno e a regalare ancora frammenti dello splendore di quei giorni che sono tra i più lunghi dell’anno. Il buon reverendo Ferraironi scrupolosamente aggiungeva che tutti quei fuochi «che si accendono in Liguria per la festa di San Giovanni non hanno alcuna relazione con la stregoneria», in quanto si limitano a esprimere «gioia popolare»! Il che mi riconforta, perché debitamente aiutato e/o sorvegliato da mio nonno e da mio padre, da ragazzino ne accendevo uno anch’io in un campo della nostra casa di campagna - e mi spiacerebbe passare (insieme con babbo Carlo e nonno Giulio) per uno che fa parte di una qualche «ribalda» setta di stregoni. Comunque, Triora ha davvero conosciuto la sua caccia alle streghe nel terribile triennio 1587-1589. Superstizioni, accuse, furori popolari, timori dei maggiorenti (quando vi videro coinvolte le loro «matrone») e soprattutto accanimento persecutorio da parte di magistrati «laici» che solo l’intervento dell’Inquisizione romana riuscì alla fine a «moderare». Un caso molto europeo (e tutto italiano) che solo per avventura (e magari per tirchieria) non si concluse con le fiamme dei roghi. Il libro di Stefano Moriggi non solo ricostruisce le modalità dei processi, ma cerca di gettare qualche luce sulla misteriosa scomparsa delle donne accusate, torturate e infine deportate da quell’antico borgo dell’alta Valle Argentina. È l’occasione per scandagliare gli inizi della nostra modernità e i tratti peculiari della cultura del nostro Paese - all’apparenza così devoto, di fatto così sensibile all’utilità del Male. (Ma non vogliamo svelare qui l’intrigo politico e i nomi dei veri colpevoli). Come scrive lo stesso autore: «Nella pavimentazione della piazza centrale di Triora, davanti alla chiesa parrocchiale, spicca lo stemma civico: Cerbero, il favoloso cane a tre teste e quindi a tre bocche, latinamente tria ora». Un nome, un destino? Stefano Moriggi è una sorta di Candide postilluministico che non si fida troppo dei fanatici (i magistrati, laici o religiosi che siano, che assurgono a deuteragonisti del suo racconto); che contro di loro fa propria l’ammonizione dell’illuminato gesuita Friedrich von Spee (1631: «Chi poi si sentisse ardere di indignazione contro il delitto di stregoneria tenti di controllarsi un poco e unisca a sì gran zelo razionalità e ponderazione»); che non ama l’evocazione né di un Dio né di un Diavolo «tappabuchi», come non la amavano Hume o Voltaire; che non esita a ricorrere alla critica filosofica di Ludwig Feuerbach quando vuol mostrare che tralasciare la componente diabolica finisce col «mutilare violentemente» il Cristianesimo stesso; che nello smontare l’ideologia sottostante della caccia alle streghe si serve dei sofisticati strumenti dell’epistemologia contemporanea; che ricorre alla teoria dei memi di un naturalista come Richard Dawkins per contenere gli effetti di una lettura troppo relativistica della faccenda... Ma che infine tempera alcune delle sue considerazioni più speculative con il riferimento al suo Papa preferito, quel Paolo VI che, con la sua audace ammonizione circa la presenza del Demonio, non aveva avuto esitazione a sfidare il senso comune di laici e cattolici troppo «secolarizzati».
Alcune delle ricostruzioni di necessità congetturali che l’autore propone in questo Le tre bocche di Cerbero, e forse non poche delle sue tesi circa il ruolo svolto dal Maligno nella formazione della moderna coscienza europea potranno sembrare incompiute o addirittura appena abbozzate. E ciò non solo perché ogni autentica ricerca è interminabile; e nemmeno, nella specifica questione di Triora, per la non disponibilità di molte fonti dirette o altro prezioso materiale, ma proprio per il carattere intrinsecamente ambiguo di quell’Aleph dello spazio-tempo della geografia italica che viene normalmente etichettato come la caccia alle streghe trioresi. Stefano Moriggi ha il dono della chiarezza e della piacevolezza di stile - due doti essenziali per non lasciarsi risucchiare dal fascino perverso di quelle alture, dove, stando alla leggenda, il cane infernale avrebbe fatto cadere la sua bava affinché potessero germogliare i fiori della trasgressione.
Il testo qui pubblicato è una parte della postfazione che Giulio Giorello ha scritto per il libro di Stefano Moriggi, «Le tre bocche di Cerbero. Il caso di Triora: le streghe prima di Loudun e di Salem», Tascabili Bompiani, pagine 224, 7,50, in libreria da mercoledì 27 ottobre
© Corriere della Sera

cultura islamica in Puglia

Repubblica edizione di Bari 24.10.04
Emirati, minareti e fortezze
"Qui una convivenza esemplare"
Medioevo da mille e una notte le tracce dell´Islam in Puglia
VITO BIANCHI

Federico II, Al-inbiratur, aveva trascorso la fanciullezza alla corte di Palermo. Arabi erano stati i suoi precettori. Araba la lingua che aveva orecchiato nelle stanze delle cancellerie. Araba la matrice delle favole ascoltate: col Kitab Kalila wa Dimna s´era sgranato agli occhi del principino tutto un fantastico mondo di cose mirabili e animali parlanti. Per le sale del Palazzo Reale, il piccolo re s´era poi edotto ai Conforti politici che Ibn Zafer, arabo di Sicilia, aveva composto nel XII secolo. E per i cortili e i giardini palermitani il fanciullo era cresciuto nel vivace cosmopolitismo post-normanno. L´eclettismo culturale assorbito nell´infanzia sarà un bagaglio che lo stupor mundi porterà sempre con sé e lo renderà sensibile non tanto all´Islam-religione, quanto all´Islam-pensiero, al fascino di un patrimonio che per spirito di sperimentazione e metodo d´indagine sopravanzava l´Europa cristiana. Filo-islamismo? Non del tutto: dal 1222 al 1233, e ancora oltre, Federico II condusse contro i Saraceni di Sicilia un´operazione di polizia che si risolse in un bagno di sangue.
I sopravvissuti furono deportati in Puglia, a Stornara, Girofalco o Castelluccio dei Sauri. E soprattutto a Lucera, civitas sarracenorum. Al tempo di Manfredi è inoltre ricordata un´ambasciata di Ibn Wasil (un erudito), in cui si narra dell´esistenza, nell´abitato lucerino, di una "Casa della scienza", dove si coltivavano le dottrine speculative, sulla falsariga degli istituti scientifici della Baghdad abbaside e del Cairo fatimide.
Prima di Federico II la componente musulmana non era estranea al territorio, tutt´altro: la stessa realizzazione del castello di Bari, nel 1132, fu demandata da re Ruggero II a costruttori saraceni. Senza parlare dell´instaurazione dell´emirato di Bari (847-871), menzionato da quell´al-Baladhuri che visse alla corte di Bagdad nel IX secolo. Secondo una tradizione locale, fu proprio in quel frangente che vennero traslate le ossa di San Sabino (l´altro protettore cittadino, insieme a San Nicola) da Canosa a Bari. Fu allora che l´emiro barese Sawdan, pianse il giorno in cui vide il dotto ebreo Abu Aaron, per sei mesi suo prezioso consigliere, lasciare la corte per tornare in Oriente. E sempre a quel periodo diversi studiosi hanno addebitato l´origine delle fortune commerciali di Bari. Durante l´emirato, non un tumulto, non una rivolta, non una protesta si levò da parte della popolazione locale, diversamente da quanto accadde con Longobardi, Bizantini e Normanni.
Nel Medioevo un governo di matrice islamica pareva essere più conveniente per tutti, anche per ebrei e cristiani erano sì sottoposti a una tassa di religione. Ma rientravano in tal modo nella fascia dei "dhimmi", i protetti. Anche a Taranto, fra l´840 e l´880, prosperò una base saracena, probabile emirato. Si è spesso affermato che, in Puglia, la presenza di tracce della cultura islamica, al di là della ricorrenza nei cognomi (come il diffusissimo Morabito, da al-murabitun) o nel dialetto (in barese il denaro è ancora detto tarnìse, da tarì, la moneta araba fresca di conio), non sia percepibile. Ma basta uno sguardo al portale dei Santi Niccolò e Cataldo a Lecce, alla Cattedra di Ursone nel duomo di Canosa o all´Archivolto del portale del Duomo di Trani o all´assetto urbanistico di molti piccoli centri per convincersi del contrario. Ancora fra Ottocento e Novecento, nel Salento, sorgeranno dimore signorili ispirate ai profumi d´Oriente: villa Sticchi a Santa Cesarea Terme, o villa De Francesco, a Santa Maria di Leuca, architetture che componevano ambienti da "Mille e una notte". Più perspicua è la costruzione del sontuoso minareto di Selva di Fasano, voluto da un pittore barese, Damaso Bianchi, con maestranze e materiali fatti arrivare dalla Tunisia e dalla Libia.

sinistra
Alberto Asor Rosa

il manifesto 23.10.04
SINISTRA
Un punto d'incontro
ALBERTO ASOR ROSA

Partito il 14 luglio con un mio articolo, che non aveva (davvero) nessun'intenzione di aprire una discussione; proseguito nei due mesi o poco più che ci separano da quella data con una trentina di interventi, alcuni dei quali molto autorevoli (segretari di partito ed esponenti di varie frazioni politiche, importanti dirigenti sindacali e intellettuali di grido): il dibattito svoltosi sul manifesto sulle forme di una possibile, diversa unità della sinistra italiana si potrebbe definire un successo. Io ne ho avvertito soprattutto i limiti. Constato ad esempio che non è intervenuta nessun'esponente dei gruppi e movimenti femminili e/o femministi. Non sono intervenuti neanche i rappresentanti del cosiddetto «correntone», forse risucchiati nel gioco interno Ds. Non sono intervenuti (salvo un'eccezione) neanche i verdi: pensano che le tematiche ambientalistiche siano ancora autosufficienti? Non sono intervenuti neanche gli esponenti del riformismo moderato: forse pensano che non sia affar loro l'eventuale costituzione di un raggruppamento di sinistra distinto dal loro oppure lo guardano con sufficienza, pensando che l'idea sia fuori del mondo? Ma il limite più grande lo dirò alla fine.
Ripartirò dall'inizio, che a me era parso molto semplice, fin troppo elementare (e che del resto costituiva solo una minima parte del discorso): far dialogare e agire unitariamente quella sinistra che sta a sinistra delle convergenze riformiste-moderate (triciclo, partito unico riformista, ecc) ne aumenterebbe la forza e attenuerebbe il rischio di compromessi di basso livello. Aiuterebbe anche i movimenti - che la sinistra hanno contribuito in passato e continuano a rinnovare - a preservare la propria autonomia. Contribuirebbe a chiarire l'indirizzo programmatico dell'intero centro-sinistra, indirizzo che rimane ancora indefinito nonostente il «ritorno» di Prodi e l'annuncio di un'opposizione più chiara al governo di cui la programmata manifestazione del 6 novembre costituisce per ora il solo punto forte. Vorrei esser molto chiaro su questo punto: non si tratta di mettere in dubbio l'alleanza di centro-sinistra, che non ha alternative.
Si tratta al contrario di renderla più credibile e di rafforzarla in settori molto delicati dell'elettorato (quelli più colpiti dalla crisi economica), influenzandone il programma e spostandola al tempo stesso, come si diceva una volta quando esisteva una sinistra, a sinistra. Rafforzare e riequilibrare l'alleanza di centro-sinistra in questo momento è particolarmente essenziale, perché a metterla davvero in dubbio ci pensano le componenti moderate, che, anche dall'interno dell'Ulivo, lavorano sempre più alacremente per riaprire il capitolo del centrismo. Questo, mi permetto di dire, lo capirebbe anche un bambino. Ma spingiamoci di qui in poi un po' più in là di una semplice, limitata, per quanto utile, razionalizzazione del quadro politico della sinistra italiana. A me pare che il problema del rapporto fra le «due sinistre» è destinato a presentarsi prima o poi, anzi, si sta già presentando, mutatis mutandis, in tutta Europa. La distinzione (più o meno profonda) tra le due ali del riformismo poggia infatti su fattori oggettivi, addirittura di classe, oserei dire (anche se non proprio alla vecchia maniera), tipicissimi in questa fase proprio della situazione europea.
L'assenza di una formazione, magari confederale, che renda esplicita tale distinzione, senza necessariamente (anche in senso tecnico) estremizzarla, significa in parole povere che un pezzo della società occidentale è politicamente sottorappresentato: sia che ciò si manifesti nella forma della disaffezione alla politica; sia che il tasso di astensionismo nei ceti deboli resti elevato, nonostante tutti gli appelli; sia che si verifichino, in presenza di condizioni particolarmente negative, paurosi spostamenti di questo elettorato verso destra; sia che, quasi infallibilmente, i programmi dei vari centro-sinistra europei appaiano egemonizzati dalla componente moderata del centro-sinistra medesimo.
L'incontro tra le diverse frazioni (organizzate o no) di questa «parte» della sinistra (componente dialettica, a sua volta, ma non necessariamente antagonistica di uno schieramento più largo), sarebbe davvero impossibile, solo se fra esse (e soprattutto nella fetta di società che esse dicono di rappresentare) ci fossero differenze ideali e strategiche insormontabili. Ma è così? Nessuno può pretendere che si faccia qui l'elenco delle questioni su cui un'unità sostanziale, non estremistica e non ideologica, appare già oggi operante. Eppure un primissimo tentativo, di entrare nel merito bisognerà pur farlo.
Quando si dice - e lo dicono ormai anche alcuni dei riformisti moderati, e persino qualche centrista del centro-sinistra, - che non è più possibile sostenere la linea di un liberismo senza freni, spesso non ci si accorge di dire che il rapporto (nesso, conflitto, persino compromesso, lo si dica come si vuole, purché lo si dica) tra capitale e lavoro, invece di aver fatto il suo tempo, prepotentemente riemerge. Riemerge con esso il problema di una rappresentanza politica del lavoro. E con esso riemerge il problema del rapporto fra rappresentanza politica del lavoro e sindacato, rapporto entrato da più di dieci anni verticalmente in crisi in tutta Europa.
Una situazione del genere non è un residuo del passato (come qualcuno dice) ma nasce (o rinasce) precisamente all'interno di quel contraddittorio e tormentato processo che chiamano globalizzazione. Influenzare, spostare, determinare il rapporto capitale-lavoro (e di conseguenza quello fra capitale e ambiente, capitale e salute, capitale e sottosviluppo: da qui l'importanza del rapporto organico rossi-verdi), significa influenzare e determinare la globalizzazione e cambiarne il segno. E' per me del tutto evidente che la scintilla che ormai periodicamente incendia tutto il mondo, nasce dall'interno del sistema, perché all'interno del sistema non sono cresciuti gli anticorpi necessari a spegnerla. Non si può essere contro la guerra, se non se ne comprende e non se ne combatte la genesi profonda (che è dentro il sistema, non solo nel suo illimitato delirio espansivo).
La mancanza di regole, lo sfrenato avventurismo dei conservatori, l'incerta sempre più balbettante risposta dei riformisti moderati, fanno correre il rischio che una crisi politica si trasformi in una crisi di civiltà (la nostra) e che questa investa in maniera catastrofica la sfera dei valori, dei diritti e della stessa democrazia. La demoniaca volontà dell'Occidente capitalistico-democratico d'esportare all'esterno il proprio modello, svuota il modello e lo riduce ad un guscio vuoto, sempre più facilmente modificabile. La battaglia per i diritti torna a essere a sinistra di una portata epocale: la civiltà la difende la sinistra, perché non c'è più nessun altro che lo faccia. Lo dimostra ad abundantiam il radicale rifiuto della guerra, che solo a sinistra affonda senza ostacoli le sue radici (mentre il riformismo moderato su questo punto continua paurosamente ad oscillare).
Basta questa modesta sintesi a disegnare una linea di confine abbastanza precisa tra riformismo moderato e riformismo radicale e a precostituire le condizioni perché il riformismo radicale unisca le sue forze attualmente disperse? Può darsi che non basti: ma allora bisognerebbe dire onestamente perché e cos'altro serva perché basti. Bisognerebbe non aggirarsi intorno al problema, ma affrontarlo. O no?
Insinuo un'ipotesi negativa. Ecco qual è il limite più grande del nostro dibattito. Agostinianamente si potrebbe argomentare che il non potere discende dal non volere. Dubito fortemente che i protagonisti del dibattito sulle possibili forme dell'unità della sinistra sarebbero tutti disposti, messi alla prova dei fatti, a tradurre le parole in realtà. Se le cose stessero così, vorrei dichiarare una mia personale difficoltà. Sono anni che, a scadenze periodiche, si apre un dibattito sul modo di ripensare la sinistra, l'organizzazione politica, la realtà italiana ed europea, ecc: e poi si assiste inerti, ogni volta, alla dispersione in terra carsica del rivolo che sembrava essersi creato.
Beh, la pazienza e le forze (non solo mie, immagino) sono al termine. Ripropongo, in termini altamente e seriamente problematici, la questione iniziale: esiste o non esiste questa famosa sinistra diversa da quella che ora c'è ma che anch'essa domani potrebbe del tutto scomparire? E' pensabile, è tollerabile una situazione in cui non ci sia «sinistra»?
Se non faremo la prova, continueremo a non saperlo. E per saperlo dobbiamo almeno per una volta «materializzare» (sì, proprio nel senso letterale del termine) quella sinistra che dice di esserci e non vuole scomparire consensualmente nel nuovo raggruppamento moderato.
Propongo che ci sia, a breve scadenza, un momento e un luogo d'incontro per tutti coloro che si dichiarano e si sentono (e forse effettivamente sono, ma questo potremo saperlo solo dopo) a favore di un processo di avvicinamento e d'incontro (e forse di unificazione, ma anche questo potremo saperlo solo dopo) tra quelle forze della sinistra, che, sebbene disperse, continuano a resistere alla manovra riformistico-moderata.
Ma sia chiaro: non ci bastano più gli Stati maggiori (per quanto necessari), persino le forze organizzate esistenti ci appaiono in sé e per sé, per quanti meriti gli si debbano riconoscere, più come la struttura cristallizzata del nostro passato che come la prefigurazione vera e propria del nostro futuro. Se l'iniziativa serve a quella massa che sta al di qua e al di là di quella linea che separa attualmente una «politica organizzata» da una «politica non organizzata», e cioè (ripeterò questa parola fino alla nausea) serve fin dall'inizio a fare politica in modo nuovo, sarà utile, altrimenti no. Perciò dico che in casi del genere la quantità fa la massa critica e la massa critica precede il pensiero (e, forse, ahi, lo determina). Bisogna lavorare sulla massa critica che precede e determina la nascista di una nuova sinistra.

sinistra
Fabio Mussi

Liberazione 22.10.04
Il punto è: come battere il riformismo blairiano
di Fabio Mussi

"Si respira un clima di nuovo dinamismo", scrive Rina Gagliardi su Liberazione del 20 ottobre, parlando della sinistra italiana sulla scia delle dichiarazioni di Fausto Bertinotti. Posso convenire con lei, a patto che si sappia che le rotte e gli approdi non sono già tutti tracciati. Che c'è una incertezza vera sugli esiti, e una lotta politica in corso, e una battaglia culturale, dentro e fuori i partiti. Vorrei provare a parlar chiaro.
Nascerà un "partito riformista", inesorabilmente spostato al centro, figlio legittimo delle suggestioni blairiane che tanto hanno pesato in questi anni sulla sinistra italiana maggioritaria? Quelle suggestioni che hanno fatto dire anche a D'Alema, in un impeto di sincerità, "abbiamo troppo subito il fascino del liberismo"? E' evidente che a sinistra allora nascerà una nuova forza. Le cose hanno una loro logica, persino a prescindere dalle intenzioni e dalle volontà soggettive.
Il punto è che io non dò affatto per scontato il compimento di questo progetto. Penso anzi che, se lì dovessimo andare a parare, sarebbe una sconfitta di tutti. Penso che occorra agire per evitare, nella alleanza democratica che si sta costituendo, l'effetto "maionese impazzita", quando gli ingredienti si separano, l'olio con l'olio, il limone con il limone, i riformisti coi riformisti, i radicali con i radicali. Sospetto che una tale separazione intaccherebbe le basi politiche della alleanza e ne farebbe regredire i contenuti programmatici. Maestra è l'esperienza: quando la squadra del centrosinistra è al completo, vengono proposte buone (lo si è visto nella riunione dell'11 ottobre), quando si chiude il recinto dei riformisti, si cammina come i gamberi (qualche esempio? La stralunata discussione di mezza estate sull'invio di truppe Nato in Iraq, o la danza al tempo stesso semilaica e semiclericale a proposito del referendum sulla procreazione assistita).
Per questo io sono nei Ds, sto nei Ds, mi batto nel Congresso dei Ds, e, galileianamente, ypotheses non fingo, non immagino ipotesi di "Cose" alternative, di "Case della sinistra alternativa", come scrive Gagliardi. Non vorrei mai offrire su un piatto d'argento, con una separazione volontaria, esattamente quella divisione in due campi - riformisti e radicali - di cui vedo troppi paladini. L'imperativo attuale è: mescolare, mescolare, mescolare….
In questo senso mi interessa il rapporto con Bertinotti. Mi interessa che fermentino le idee di una cultura critica innovativa, l'immaginazione di "un altro mondo possibile", la rielaborazione del pensiero dei diritti universalistici nelle società contemporanee, l'indicazione di un nuovo inventario dei beni comuni dell'umanità, la critica radicale al sistema della violenza, del terrorismo e della guerra. E il progetto di un governo per l'Italia. C'è però un'ambiguità nell'espressione "sinistra alternativa". L'alternatività deve riferirsi al programma della alleanza, alternativo a quello della destra: troppo spesso invece il concetto viene coniugato con lo spirito minoritario di una parte della sinistra che c'è. Con l'idea che, alla fine, siamo nati per l'opposizione. Non lo dico naturalmente a Rifondazione: il passaggio dall'accordo di desistenza del 1996 alla proposta di un "programma comune" per il governo, è una delle novità più importanti della situazione politica italiana. Ho la presunzione di aver dato un qualche contributo, con il "correntone", a riaprire i canali intasati a sinistra, a ricostruire così alcune delle condizioni per la Grande alleanza democratica.
Critico ora la "Federazione riformista". Vedo che Fassino tira dritto. Vedo anche che le difficoltà sono enormi, come risulta dallo stesso inquieto dubbio sulle liste da presentare alle regionali, e dall'indecisione forte nell'indicare apertamente la meta del partito unico riformista. Dubbi e indecisioni che salgono dal fondo della società (ricordo un magnifico Cesare Luporini: "Il Grund di cui parla Marx non è "fondamento", come traducono le anime belle hegeliane, è "fondo": le cose hanno un fondo, piuttosto che un fondamento ….). Non c'è, nella coscienza politica profonda della società italiana, qualcosa che corrisponda davvero al "soggetto riformista". Tale progetto ha una matrice elitaria. L'Ulivo aveva, nel maggioritario, il 45% nel 1996 e il 43.7% nel 2001 (quando perse). "Uniti nell'Ulivo" lo ritroviamo al 31.1% nel proporzionale delle europee 2004. Nel '96 era un fiume in piena che correva più di noi, ora è una pioggia fredda che cade dall'alto. E per la Grande Alleanza Democratica dobbiamo trovare, alla svelta, un nuovo universo simbolico in cui possano riconoscersi e identificarsi milioni di persone.
Per queste ragioni penso che la partita non sia chiusa, nei Ds. Questo è il mio partito. Figlio della svolta dell'89 di cui io sono stato fervente sostenitore. Riconoscendo oggi che, nella foga dello strappo dal Pci, vennero via allora anche radici buone, come il valore forte dell'uguaglianza che il fallimento della globalizzazione liberista ci ripropone intatto, semmai ancora più vivo e attuale. Ma trovo improbabile che si ritrovi un sentiero nel campo devastato del comunismo del 900. Dobbiamo piuttosto guardare avanti, verso una sinistra e un socialismo pacifista, ambientalista, antiliberista, libertario. E questo è un nodo assolutamente non sciolto.
Penso perciò che non ci sia bisogno di tracciare le frontiere di nuovi "contenitori". E di gettarsi nel tango di nuove "scissioni e fusioni" - come scrive Rina Gagliardi -. Le nostre azioni devono essere misurate sull'obiettivo di battere la destra. Invece c'è un buon lavoro programmatico nel quale impegnare, anche trasversalmente, le forze. Tra le cose che mi preoccupano, c'è questo costante rinvio dell'appuntamento del programma. Sappiamo bene che occorrerà, nella coalizione, trovare un punto di sintesi, e anche di compromesso. Darci anche delle regole: Bertinotti ha aperto sul principio di maggioranza nella coalizione, a patto - egli dice giustamente - che il processo sia democratico e partecipato. Vedo qui una possibilità, ognuno dalla postazione che occupa, di fare un lavoro importante sui contenuti, tenendo aperta la stagione che ha visto irrompere, e non solo sulla scena nazionale, grandi movimenti portatori di buona politica.
Proviamo a fare questo lavoro sul programma, cioè a dare un contributo serio, qui e ora, alla sinistra e alla alleanza democratica?

Henrik Ibsen (1828-1906)

L'Arena 24.10.04
Un convegno internazionale da domani a Torino
Il lato oscuro di Ibsen all’esame degli studiosi

Il lato oscuro di Ibsen, non certo quello di «Casa di bambola», ma piuttosto de «Gli spettri» sarà quello che da da domani a mercoledì riunirà all’ Università di Torino studiosi da tutto il mondo. Lo scopo è mettere in rilievo gli aspetti più inediti o segreti della personalità ibseniana, quelli attinenti alla sessualità e all’occultismo. Illustri studiosi arriveranno dalla Norvegia, dalla Danimarca, dalla Svezia, dalla Romania, dagli Stati Uniti, dalla Cina, Iran, per demistificare, assieme ai colleghi italiani,l’ immagine razionale e in fondo ottocentescamente attardata di Ibsen, restituendone una figura decisamente più inquieta, attuale e autentica.
L’ iniziativa di studio, preliminare alle celebrazioni mondiali del primo centenario della morte nel 2006, intende, non tanto sostituire quanto affiancare all’ Ibsen razionale, positivista, un p o’ femminista, sicuramente rassicurante e molto buonista che la critica ci ha tramandato, l’ alter ego più complesso e sfaccettato. Secondo questa seconda interpretazione, c’è un lato oscuro, uno strato segreto della sua scrittura capace di cogliere gli abissi dell’ irrazionale, i mostri dell’inconscio, le pulsioni più profonde e più perverse della sessualità.
Il teatro - dicono gli studiosi che si riuniranno domani - in questo senso ha anticipato la critica letteraria e lo dimostra il fatto che da un p o’ di tempo in tutto il mondo viene messa in scena la drammaturgia ibseniana. Il convegno, dal titolo esemplificativo «Ibsen, The dark Side», intende fare un primo bilancio di questa correzione critica del grande autore nordico.
L’ appuntamento internazionale (che apre alle ore 15 presso la facoltà di Scienze della Formazione) è stato organizzato dal Centro Studi per lo Spettacolo Nordico afferente al corso di laurea in Dams in collaborazione con il Centre for Ibsen Studies dell’Università di Oslo. I lavori saranno aperti dal rettore Ezio Pelizzetti, dall’ assessore alla Cultura della Regione Piemonte, Giampiero Leo e dalla preside della Facoltà di Scienze della Formazione Anna Maria Poggi.

ossimori
l'«Associazione psichiatri e psicologi cattolici»:
santità
(sic!) e follia

Avvenire 23.10.04
Travolti dallo spirito
di Pierluigi Fornari

Roma. Santità e follia. Un binomio a volte superficialmente appiattito in un'identità. Per superare indebite «commistioni» si tiene oggi e domani a Roma il Forum su «Santità e Follia, oltre la confusione», quinto Meeting organizzato dal Movimento europeo per la psicologia e l'antropologia cristiana. L'organizzazione unisce cristiani di tutti i paesi dell'Europa: teologi, psicologi, antropologi, consulenti, psichiatri, medici e altri professionisti. Dalle relazioni di ricercatori che provengono da Polonia, Gran Bretagna, Germania, Italia emergono i tratti specifici della santità che trova nella fede, nella capacità di perdono, nell'amore al nemico «la sua misura». «Perdonare il prossimo, il nemico, se stessi - spiega Alberto Scicchitano, vicepresidente dell'Associazione italiana di psichiatri e psicologi cattolici - "perdonare" la propria storia, significa recuperare la libertà, salvando preziose energie psichiche».
«Il convegno si propone di affrontare i rapporti tra scienza e fede - spiega Ermes Luparia, presidente dell'Aipcc - dal punto di vista di un spaccato particolare, di frontiera, come quello del tema prescelto. In secondo luogo puntiamo a costituire un coordinamento europeo, con un mutuo arricchimento attraverso lo scambio delle esperienze».
«Si deve superare l'equivoco riduzionista per cui con la psichiatria si cerca di spiegare la santità - aggiunge Tonino Cantelmi, fondatore dell'Aippc, che domani concluderà il forum -. Ma non si è santi perché folli, ma perché si è fatto un incontro personale con Gesù Cristo e questo può riguardare ogni categoria di persone».
A evidenziare i caratteri precipui della santità, Scicchitano indica la vicenda di san Giovanni Calabria, che affrontava i suoi alti e i suoi bassi ancorato ai consigli del padre spirituale. E allora infaticabile si dava da fare per costruire l'opera per i bimbi abbandonati, e poi durante la fase depressiva, sempre ben consigliato e confortato tiene ferma la fede: «Sono giorni di tenebra, di prove inaudite, sento il mio nulla e la mia miseria ma sento che Gesù vuole su questo costruire in questa ora oscura anche se sono invaso dall'angoscia per l'inutilità della mia vita».
Agli inizi del '800, un celebre malato, Sir Perceval, figlio del primo ministro inglese, così individuava il discrimine della follia: «Nelle operazioni dell'intelletto umano accade sovente che una voce manifesti il suo volere così celiando; nel fraintendere o pervertire queste rivelazioni, nel prendere sul serio questa forma di discorso consiste forse il peccato originale. Perché la mente dell'uomo dopo la caduta nello stato di disgrazia scambia lo spirito d'umorismo per spirito di Verità, questa è la pazzia».
Dunque per ricondurre in un circolo virtuoso la sofferenza mentale, sottolinea Scicchitano, sono necessarie risorse l'umiltà e una comunità di appartenenza che «consenta una forte "resistenza a terra" per non restare fulminati».
Nell'ambito del convegno sarà trattato anche il tema particolarmente delicato della psicoterapia vocazionale. «È la sacralità dell'opera a richiedere da parte dello psicoterapeuta la necessaria coscienza di essere egli stesso in un personale percorso di vocazione e di conversione», ammonisce Luparia. «La chiamata ad affiancare i consacrati nel loro cammino di discernimento, formazione o difficoltà comunitarie ed individuali, non può essere considerata un ambito del tutto simile a quello che riguarda il "mondo secolare"». «Lo psicoterapeuta o psicologo vocazionale - sottolinea il presidente dell'Aippc - riceve un mandato speciale, quello di entrare nella storia vocazionale della persona senza interferire sul progetto divino, ma entrandoci con tutta la propria sensibilità, intuizione ed attento ascolto, per sostenere ed alleviare il cammino di crescita, là dove esistono dei nodi evolutivi che non permettano un cammino vocazionale sereno».

sabato 23 ottobre 2004

al Festival di Montpellier
omaggio a Marco Bellocchio

www.filmdeculte.com
FESTIVAL: LE CINéMA MéDITERRANéEN S'AFFICHE à MONTPELLIER

Après une soirée d’ouverture ce vendredi 22 octobre, placée sous le signe de l'Espagne, le 26e festival international du cinéma méditerranéen s’installe pour toute la semaine au Corum de Montpellier.

Au programme une sélection officielle rassemblant longs métrages, courts métrages, et documentaires venus des quatre coins du pourtour méditerranéen. Des zoom sur des courants parfois oubliés (Films du jeune cinéma algérien, Publicité et Méditerranée, Expérimental et arts numériques – Panorama des productions récentes en méditerranée, Films d’animation...).

Le tout est complété de rétrospectives thématiques: hommage à Marco Bellocchio [...]

vendredi 22 octobre 2004

19 h 00 Corum - Opéra Berlioz
Projection en présence de Marco Bellocchio
Radio West (fm.97), de Alessandro Valori (Italie, 2004)

20 h 00 Corum - Salle Einstein
En présence de Marco Bellocchio
M. Bellocchio Sogni infranti
Sogni infranti : ragionamente e deliri, de Marco Bellocchio (Italie, 1995)
La Contestation (épisode Discutiamo, discutiamo), de Marco Bellocchio (Italie, 1969)
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Scalfari risponde a proposito di embrioni

testi ricevuti da Tonino Scrimenti

Venerdì di repubblica 8 ottobre 2004


L'embrione è un progetto non ancora una persona

Domanda: La recente proposta referendaria sulla procreazione assistita avrebbe dovuto scatenare sui media un dibattito su una questione fondamentale: l’identificazione o se vogliamo la vera a propria definizione di chi sia questo embrione. Si. perché se dovremo essere chiamati ad usare responsabilmente il mezzo referendario e pronunciarci su una questione che, cattolici o laici, coinvolge tutti, dovremo avere le idee un po' più chiare.
Dovremo capire chi sia esattamente questo embrione, se è già vita o non lo è, e se non lo è quando lo diventa? Perché fondamentalmente è di lui, dell'embrione, che potremmo essere chiamati a decidere e personalmente ritengo che al di la delle posizioni legittime o meno legittime sulla libertà della donna o libertà della scienza, che un dibattito dovrebbe tentare di rispondere.
LUCIA MAGRO e mail

Risposta: L’embrione è esattamente l’incontro di due cellule, una femminile l'altra maschile, che a quel punto sono in condizione di creare un feto e infine la completa persona del nascituro. Lei chiede se l'embrione è vita o non lo è.
Rispondo: si, l'embrione è vita, materia organica. Anche la singola cellula è vita. La vita sul nostro pianeta ha infatti avuto come prima espressione esseri unicellulari. Posso porre io una domanda? La formica è vita? La rosa è vita? La crisalide è vita? Certo che si, anche un filo d'erba è vita. A maggior ragione è vita l'embrione che contiene un progetto di persona.
Attenzione, signora Lucia Magro: un progetto di persona. Non ancora una persona. Da questo punto di vista anche lo spermatozoo è vita, essendo l'elemento maschile fecondatore senza il quale neanche il progetto di vita potrebbe aver luogo; e anche l'ovulo femminile non ancora fecondato è vita, poiché senza di esso il seme maschile non avrebbe materia da fecondare. Dunque si può dire che l'embrione è vita capace di produrre un progetto di persona, ma none ancora una persona.
Questa non è un'opinione ma una pura e semplice constatazione. Da qui in avanti si hanno soltanto opinioni. La mia opinione è questa: un elemento vitale che non è ancora una persona non può godere gli stessi diritti d'una persona ed anzi in certi casi prevalere su di essi. Una non persona non è titolare dl diritti.
Non so se lei sarà d'accordo con me, ma quella era la sua domanda e questa è la mia risposta.

Venerdì 22 ottobre 2004

L'embrione è un progetto o già l'inizio di una vita?

Domanda: Caro Scalfari , mi permetta di tornare sull'argomento se l’embrione sia una persona o solo un progetto. Il progetto è qualcosa che precede la costruzione. L’embrione invece è un'entità di cellule che sta evolvendo per la costruzione della persona. all'inizio della persona stessa. La costruzione inizia dal momento della fecondazione dell'ovulo da parte dello spermatozoo. L'uomo può porre fine a questo inizio di costruzione di una persona? penso che sia un grandissimo problema etico.

Risposta: L’argomento e molto complesso ed è stato già più volte affrontato in questa mia rubrica. Ma torniamoci ancora poiché questo è II nodo di tutto il dibattito in corso sulla legge numero 40 sulla fecondazione assistita. Cercherò di essere ti più chiaro possibile.
1) Anzitutto: a nessuno - dico a nessuno - è mai venuto in mente di aprire una crociata per la distruzione degli embrioni. Lo dico e lo ripeto perché a volte chi è favorevole all'abrogazione della legge viene presentato caricaturalmente come un killer dedito ad una vera e propria caccia agli embrioni.
2) Nella grandissima quantità dei casi l'embrione prende forma attraverso un normale accoppiamento tra uomo e donna e segue la sua evoluzione naturale nel ventre materno fino alla nascita vera e propria.
3) Ci sono persone affette da problemi di sterilità. Se hanno il legittimo desiderio di aver figli le tecnologie disponibili consentono di tentare una fecondazione assistita attraverso la produzione di embrioni al di fuori del ventre materno, che vengono poi impiantati nell'utero della donna. Per ottenere un risultato, non sempre favorevole, bisogna impiantarne più d'uno.
Ne risulta che per poter ottenere un essere vivente occorre sacrificare alcuni embrioni. Ci si può astenere da questa pratica col risultato di non far nascere nessuna nuova persona. Da ciò deduco che la fecondazione assistita è una pratica rivolta ad ottenere una nuova vita e non già una pratica tendente a promuovere morte.
4) Che cos'è l'embrione? Un progetto di persona, non ancora una persona. In quale momento un gruppo di cellule fecondate diventa una persona? Rispondo: nel momento in cui si forma il cervello. Del resto, quando in una persona il cervello cessa di funzionare la scienza medica dichiara che quella persona e clinicamente morta anche se la sua vita vegetativa prosegue.
5) Se l'embrione è considerato già persona a tutti gli effetti e quindi portatrice di diritti di pari dignità con tutte le altre persone, è evidente che la sua distruzione equivale ad un assassinio. I cattolici la pensano in questo modo ed anche alcuni non cattolici e quindi faranno bene a non praticare la fecondazione assistita; nessuno li obbliga, così come nessuno è obbligato ad abortire contro la sua volontà. Ma non si vede perché si voglia obbligare chi non ritiene the l'embrione sia già persona, a rinunciare alla possibilità di avere un figlio.
6) L'adozione consente di avere un figlio nato geneticamente da altri genitori. Ne deduco the la fecondazione cosiddetta eterologa, purché con II consenso della coppia genitoriale, equivale ad una adozione per cui non si vede perché debba essere vietata.

sinistra
Rossana Rossanda: religione e politica

ricevuto da Roberto Altamura

Il Manifesto 23.10.04

FEDE D’ASSALTO
ROSSANA ROSSANDA

«Votate Gesù, vostro salvatore e signore, è buon investimento», recita un cartellone all’ingresso di una cittadina dell’Alabama. E si moltiplicano negli Usa, specie nel Middle West e negli stati del Sud, sfilate di fondamentalisti cristiani che esigono l’iscrizione dei dieci comandamenti sui palazzi di Giustizia o si incatenano in giacca e cravatta sui gradini dei giudici che vi si oppongono. Teleprediche e cortei contro l’aborto, i gay, il matrimonio fra gay e financo i jeans a vita bassa, in un empito di puritanesimo che agguanta la bibbia e la agita come Alfa e Omega di quel che deve essere la vita pubblica, Alcune immagini ricordano persino gli arcaici rituali sui quali indagava Ernesto De Martino. Ma non sono forme affatto arcaiche Sono l’approdo della post-post modernità. Negli Usa dio non è mai mancato corre perfino su ogni dollaro, ma l’era di Gorge W. Bush – salvato dalla scapestrataggine, racconta lui stesso, dall’incontro a 40’ anni con Gesù Cristo - ha enfatizzato l’utilizzo politico della fede. Anzi la totale confusione fra scelte pubbliche, interne e internazionali e religiosità. Il terreno c’era se è vero che nel 2001 su 208 milioni di statunitensi adulti, 51 milioni si dichiaravano cattolici e oltre 70 milioni protestanti di varie chiese, fra le quali quella tradizionale e più mite era in calo rispetto al crescere dei cosiddetti «evangelici», soprattutto battisti, ma anche pentecostali, cui vanno aggiunti i testimoni di Geova, i mormoni, gli avventisti e chiese minori; Se si considera che professano di essere praticanti quasi 3 milioni di ebrei, e un po’ di più di un milione di mussulmani e 1 di buddisti, bisogna ammettere che pochi stati al mondo conoscono un così intenso pullulare di chiese e che è in esse che avviene il massimo della partecipazione dei cittadini e della formazione di un pensiero anche politico militante. Questo forse spiega perché il duello delle presidenziali si basi, più che un coinvolgimento sul che cosa e come fare, sulle battute mediaticamente più efficaci o emozionali. La democrazia è diventata una ben strana cosa, e qualche rilettura di Offe e anche di Luhmann sulle società complesse, un tempo portati alle stelle, sarebbe utile. Non colpisce infatti che i neocons si fondino sulle più integraliste di queste fedi, ma che questa sia diventata la trama del discorso politico. E’ vero che la confusione sta già in quella che gli americani chiamano «religione civile» e su cui tutti, non credenti inclusi, giurano: essa appoggia sul culto per i padri fondatori, sul primato della fede e della preghiera, sulla certezza dell’America perché dio la benedice, sul ruolo messianico che ne deriva, il tutto coronato dal più rigido individualismo. Noam Chomsky ci ha recentemente detto che no, che il popolo americano è mite e pacifico, non si sente superiore agli altri e volentieri si sottoporrebbe al Tribunale Penale Internazionale, ma forse – questi dati alla mano – sarebbe meglio cessare di credere alle masse innocenti deviate dai dirigenti pessimi. E Anche all’innocenza dell’offensiva religiosa che oggi si offre come unica portatrice di senso a un mondo senza cuore. Essa è partita anche in Europa; davanti alla inaspettata risolutezza con la quale il governo Zapatero sta mettendo fine alla millenaria ingerenza della chiesa in Spagna, il Vaticano prima si è infuriato, poi è passato all’attacco. Dunque non bastava la pervasiva rete paraecclesiastica dell’Opus Dei, creata proprio a Barcellona e che aveva infiltrato persino la presidenza del Fondo monetario internazionale nella persona di Michel Camdessus. La proposta di un notorio integralista come Buttiglione, a capo di uno dei dicasteri politicamente più delicati della Commissione europea non è stata casuale: con lui si sono congratulati Giovanni Paolo II e il cardinal Ruini. E certo non si attendevano la reazione del Parlamento europeo che per la prima volta ha alzato la voce. Non è accidentale la vasta attività epistolare del cardinale Ratzinger che dopo essersi diffuso sul genio femminile che consiste nel rimanere le donne quel che sono sempre state, adesso sta vergando un ampio catechismo non più per i fedeli – quello era stato aggiornato qualche anno fa – ma per l’azione politica in genere, nel quale ribaltando abilmente il «Non expedit», il Vaticano stabilisce quel che parlamenti, stati e governi possono o non possono, debbono o non debbono fare al di fuori delle leggi finanziarie, la Chiesa ponendosi come detentrice delle verità morali e delle regole di vita ultime e prime. Non era successo neanche quando la Democrazia cristiana ha rasentato in Italia il 40% dei voti. Perché succede ora? Perché il mutare dei costumi e delle culture sarebbe così intriso della razionalità illuminista che la povera chiesa cattolica, come piange Buttiglione, si sente discriminata e in pericolo? Al contrario. Avviene perché un’etica pubblica e laica non è mai stata così debole come ora, pareva che la caduta del muro di Berlino le desse mille argomenti e concedesse anche alla sinistra una espansione piena. Invece sembra che non sappia più che cosa dire, dove attaccarsi, si ritira, si scusa, balbetta. Non è certo lei a chiamare centinaia di migliaia di giovani in cerca di senso, sono Comunione e Liberazione e l’Azione politica. Non c’è più una posizione politica aconfessionale sulla donna, la famiglia, la sessualità, l ’embrione, sui quali impazzano solo i patriarcati ecclesiastici e profani, Sono soltanto i radicali che osano prendere la parola, bisogna riconoscerglielo. Gli altri se la cavano con una alzata di spalle, nei Parlamenti ognuno voti secondo le proprie coscienze, perché la sinistra di sue coscienze specifiche non ne ha. Anzi riconosce quella del papa come la sola autorità morale dei nostri tempi. Un importante gruppo di femministe ha trovato magnifica la lettera di Ratzinger. Gli ex comunisti si sono commossi della generosità con la quale Wojtila li ha distinti dai nazisti: siamo stati un male necessario, grazie grazie. Lasciamo perdere l’assai discutibile questione del «male necessario» - necessario a chi, a che cosa? Permesso da dio? A quale misterioso scopo? – che dal libro di Giobbe ad Aushwitz ha fatto scorrere fiumi di inchiostro teologico e letterario. Sembra che ne abbiano contezza soltanto Filippo Gentiloni da noi e Mario Pirani su Repubblica. Limitiamoci a osservare come l’etica laica, ammesso che ci sia, in merito non ha avuto niente da dire. Ma con questo finisce anche di offrire una sponda alle parti più progressive del cristianesimo e dell’ebraismo. La sponda i laici la stanno offrendo alle destre religiose, vedi il Giordano Bruno Guerri e il Ferrara su La 7. Si intendono meglio, E pazienza se fossero in ginocchio soltanto i leader, tutti intenti a «far politica». Stanno diventando pensosamente pii anche i più degli e delle intellettuali. Hanno scoperto di colpo che la laicità non possiede gli abissi sapienziali delle religioni rivelate e forse neanche altrettanta conoscenza delle pieghe dell’animo umano. E’ vero. Ma non l’ha mai preteso. Non è una filosofia, è – era – la persuasione che le regole dell’umana convivenza sono terrestri e devono basarsi sull’assioma che ogni essere umano è libero e deve avere ugualissimo potere di decisione su di sé e sugli altri: Questa e non altra è la «égalité en droits». Principio semplice ma molto difficile da praticare, che fra l’altro è il solo cardine su cui basare il rifiuto della guerra: Sarebbe anche il vero legame fra cristianesimo e modernità. Non chiesa e modernità, perché nessuna chiesa lo ha mai fatto suo preferendo benedire le guerre «giuste» - non se ne è salvato neanche Giovanni Paolo II per la guerra jugoslava – e difendere le gerarchie della famiglia e degli altri ordini costituiti. Senza quel principio non c’è infatti grande differenza fra le crociate dei cristiani e quelle dell’Islam che si fanno da reciproco specchio. Al fondo dell’attuale crisi della politica c’è questa «afasia morale» ogni tanto a quelli come me –siamo rimasti in quattro gatti – che chiedono alla sinistra di darsi una botta di risveglio e dire quale idea di società propone, arriva il rimprovero o il sospetto di volere «come sempre», pane, olio, sale e salario per i poveri. Ignorando da volgari economicisti come siamo sempre stati il bisogno di spiritualità, simboli e senso che invece le chiese capiscono così bene. Non resta ai quattro gatti che mettersi le mani nei capelli. Intanto per dire che per definire la sinistra come essenzialmente economicista, bisogna aver letto pochi libri e aver dimenticato anche quelli. In secondo luogo tentare di avanzare un patto: proponiamo alle sinistre italiane qualche fondamento non solo materiale per un suo programma. Per noi il primo è quel principio dell’etica laica che dicevo e che è anche il nucleo della democrazia non formale, il filo dal quale si sono dipanati speranze e sconfitte del Novecento e che questo inizio stupido e crudele del ventunesimo secolo ha perduto. Vogliamo finirla di stare in ginocchio e provarci?

depressione a Torino

Repubblica 23.10.04
Oggi a Torino sarà presentato un cd con i consigli di venti esperti. Precarietà del lavoro e congiuntura "pesano" sui disturbi

Una ricetta contro la depressione
In Piemonte 800mila pazienti: ma solo uno su quattro si cura
DANIELE DIENA

Cresce la depressione sotto la Mole. E con lei i disturbi d´ansia. Le fasce sociali più deboli, gli anziani e le casalinghe le vittime più frequenti. E´ il nuovo, duro prezzo della congiuntura e della precarietà del lavoro, due fattori che a Torino vanno ad aggravare quel senso d´insicurezza che serpeggia un po´ in tutto il paese anche per le preoccupazioni del terrorismo internazionale.
Lo dice uno studio dell´Associazione per la Ricerca sulla Depressione che ha recentemente cercato di capire il perché degli 800 mila malati piemontesi, 500 mila dei quali depressi e 300 mila con i cosiddetti "disturbi d´ansia". Una ventina di specialisti dell´associazione, che ha la sua sede in via Belfiore 72, hanno studiato gli appunti compilati in un anno di sedute di 400 pazienti, dei 200 mila che vivono sotto la Mole. Bene, dai racconti del lettino di Freud è emersa evidente la forte incidenza della componente sociale tra i fattori scatenanti dei disturbi. In particolare l´erosione del potere d´acquisto, le preoccupazioni per la precarietà del lavoro e per l´insicurezza, problemi registrati soprattutto nella grande area occupazionale che si collega direttamente o indirettamente alla crisi della Fiat e del suo indotto.
Ma c´è un altro problema: solo 1 malato su 4 si cura, per i forti pregiudizi nei confronti dei disturbi psichici che persistono nella società. Per contribuire al superamento di queste barriere l´Associazione per la Ricerca sulla Depressione, oggi in convegno all´Unione Industriali, ha realizzato un cd, di 110 minuti, che spiega tutto ciò che bisogna sapere su depressione e disturbi ansiosi. Si trova sul sito dell´associazione www.depressione-ansia.it (250 pagine scaricabili).
Cosa c´è dietro il problema? «Nell´immaginario collettivo lo psichiatra è il "medico dei matti"» dice deciso Salvatore Di Salvo, presidente dell´Associazione, puntando anche il dito contro i medici di famiglia che spesso tendono a fare da soli. Di qui la difficoltà a rivolgersi allo specialista ed a usare gli psicofarmaci. Un altro pregiudizio diffuso? «La convinzione che basti la volontà per guarire: è importante, ma non basta». Il risultato del comportamento scorretto è il crescente abuso di ansiolitici: nel 2003 (dati ministero Salute), sono state vendute 60 milioni di scatole, per ben 410 milioni di euro che i malati hanno pagato di tasca loro, perché non sono coperti dalla mutua.

oggi il convegno di Fermo
e stasera la rappresentazione
di «DIVINA PROPORZIONE»

Repubblica 23.10.04
Storia della stella a cinque punte
La "divina proporzione" di questa figura affascinò Leonardo, Piero della Francesca e persino le Brigate Rosse
Pochi simboli hanno avuto fortuna come quello elaborato dall'antico filosofo e matematico
Si tiene oggi a Fermo un convegno dedicato alla sezione aurea
Dodecaedro e icosaedro estasiarono tutti gli addetti per la loro bellezza
PIERGIORGIO ODIFREDDI

Nell'ambito delle iniziative del convegno avrà luogo questa sera la rappresentazione di «DIVINA PROPORZIONE» di Francesca Angeli con Elda Alvigini
(leggi tutte le informazioni su SPAZI)

Si tiene oggi, all´Auditorium San Martino di Fermo, un convegno dal titolo "La sezione aurea" affiancato alla mostra di poliedri "Il numero e le sue forme". Intervengono il filosofo Giulio Giorello, il biologo Aldo Fasolo, l´architetto Giuliano Grisleri, il musicologo Piero Marconi. In questa pagina, anticipiamo la relazione introduttiva del matematico Pochi simboli hanno avuto, nella storia, il potere d´attrazione della stella pitagorica: di quella figura a cinque punte, cioè, che si ottiene tracciando le diagonali di un pentagono regolare. In Italia oggi noi l´associamo automaticamente alle Brigate Rosse, ma il suo utilizzo rivoluzionario ha radici lontane: essa non è infatti altro che la famosa Stella rossa sulla Cina dell´omonimo libro di Edgar Snow, ed è stata adottata in periodi diversi dall´Armata Rossa, dalle Brigate Garibaldi, dai Vietcong e dai Tupamaros.
Leggendo le loro memorie si scopre che i primi brigatisti, da Franceschini a Moretti, non riuscivano mai a disegnarla bene: veniva sempre un po´ squilibrata verso l´alto, quando addirittura non ci scappava una stella di David a sei punte. E con buone ragioni, perché la costruzione di un pentagono regolare non è immediata come quella di un triangolo, un quadrato o un esagono regolari, e coinvolge, implicitamente o esplicitamente, la divisione di un segmento in «divina proporzione» o «sezione aurea».
Naturalmente, i roboanti aggettivi suggeriscono che in quella proporzione sia coinvolto qualcosa di sublimemente estetico, e infatti così pensavano i pitagorici che la scoprirono. Cosa ci sia di divino, o di aureo, nella stella pitagorica, è difficile da intuire a prima vista: certo non il fatto che essa, avendo tante punte quante sono le lettere del nome Jesus, possa impaurire il demonio, come succede a Mefistofele nel Faust di Goethe.
Ma una volta che si cominci ad apprezzare l´equilibrio del rapporto tra la diagonale e il lato del pentagono regolare, si scoperchia una vera cornucopia. Anzitutto, il «rettangolo aureo» avente i due segmenti per lati ha una magica proprietà, illustrata dalla divisione in due scene della Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca: togliendo il quadrato costruito sul lato minore, rimane un rettangolo che è simile a quello di partenza. Al quale, naturalmente, si può riapplicare lo stesso procedimento, e così via, innescando un inarrestabile processo che costituisce una delle prime immagini storiche dell´infinito.
Un´altra immagine dell´infinito, ancora più evidente, si ottiene notando che i lati della stella pitagorica formano al centro una figura che non è altro che un nuovo pentagono regolare. Dentro al quale, naturalmente, si può costruire un´altra stella pitagorica, e così via. La successione telescopica di pentagoni e stelle, simile a un esercito senza fine di bambole russe contenute una nell´altra, suggerisce che la diagonale e il lato del pentagono siano grandezze fra loro incommensurabili.
Ed è probabile che proprio questo sia stato il primo esempio di quelle grandezze irrazionali, la cui scoperta mise in crisi il credo pitagorico che «tutto è numero»: una delusione profonda, che scavò un solco fra la razionalità scientifica che si poteva esprimere attraverso l´aritmetica, e l´irrazionalità artistica di cui la sezione aurea rappresentava l´esempio primordiale.
A scanso di equivoci, in origine «irrazionalità» non significava altro che «incommensurabilità», sia in greco che in latino: l´impossibilità, cioè, di misurare esattamente la diagonale e il lato del pentagono con una stessa unità di misura, perché una misura intera di una delle due grandezze esclude una misura intera dell´altra. Una specie di «principio di indeterminazione» geometrico, dunque, che precede di 2500 anni quello fisico scoperto da Heisenberg nel Novecento per la posizione e la velocità di una particella.
L´aspetto interessante della crisi pitagorica è che entrambi i termini del dilemma hanno continuato ad esercitare la loro indipendente attrazione, come poli opposti di una stessa calamita. Da un lato, il motto «tutto è numero» è rimasto l´ispirazione principale della scienza, opportunamente aggiornato nella forma «tutto è matematica», a includere non soltanto i numeri dell´aritmetica, ma anche, via via, le figure della geometria, le funzioni dell´analisi e le strutture dell´algebra e della topologia. Attraverso l´Armonia del mondo di Keplero la sua influenza si è propagata fino ai nostri giorni, e la sua versione più aggiornata e compiuta è oggi la teoria delle stringhe, che dovrebbe fornire la spiegazione ultima e finale dell´universo in linguaggio matematico.
Dall´altro lato, anche l´attrazione estetica della sezione aurea è rimasta immutata nei secoli. Il primo campo in cui essa si è mostrata è stata la matematica: dagli Elementi di Euclide alla Divina proporzione di Luca Pacioli, gli addetti ai lavori si sono estasiati di fronte alla bellezza del dodecaedro e dell´icosaedro, ottenuti l´uno mettendo insieme dodici pentagoni regolari, e l´altro congiungendo i dodici vertici di tre rettangoli aurei incastrati perpendicolarmente fra loro.
E quando si parla di addetti ai lavori, non ci si limita ai matematici: anche gli artisti hanno subíto il fascino di questi oggetti, da Leonardo a Dalí. Le illustrazioni del primo per il libro di Luca Pacioli hanno fatto storia, nelle loro versioni piene e vacue, e si possono ora ammirare realizzate in legno da Romano Folicaldi nella mostra di Fermo «Il numero e le sue forme», insieme a una varietà di altri poliedri. E nei Cinquanta segreti dell´artigianato magico il secondo ha discusso non soltanto i disegni di Leonardo, ma anche il proprio personale uso della stella pitagorica nell´impianto della Leda atomica, e del dodecaedro nella struttura de L´ultima cena».
Se in pittura la sezione aurea si presenta come paradigma di proporzione estetica, non stupisce ritrovarla anche nella scultura e in architettura, da Fidia a Le Corbusier. Addirittura, spesso il rapporto numerico tra diagonale e lato del pentagono viene appunto indicato con Phi, in onore del primo (oltre che di Fibonacci, che sta per entrare in scena). Quanto al secondo, il suo Modulor prende significativamente il nome da «module d´or», e utilizza la sezione aurea per determinare due serie, una rossa e una blu, di dimensioni armoniche a misura d´uomo, da utilizzare nella progettazione non solo degli edifici, ma anche dei mobili e degli oggetti di casa.
Anche nella musica la sezione aurea ha giocato un ruolo importante, da Bach a Bela Bartok. Il primo popolarizzò nei 48 preludi e fughe del Clavicembalo ben temperato il sistema di temperamento equabile tuttora in uso, che consiste nella divisione dell´ottava in dodici semitoni uguali fra loro, e che matematicamente corrisponde a una «spirale aurea» (per inciso, la «divisione aurea» dell´ottava corrisponde all´incirca alla sesta minore, cioè all´intervallo mi-do). Il secondo invece era così affascinato dalla sezione aurea, che la usò ripetutamente per equilibrare le parti della Musica per archi, percussioni e celesta e della Sonata per due pianoforti e percussioni.
Ma l´aspetto forse più stupefacente della sezione aurea, è che essa compare in innumerevoli fenomeni naturali, spesso approssimata dal rapporto fra due termini successivi di una sequenza di numeri scoperta nel 1202 da Leonardo da Pisa, detto Fibonacci, nel suo Libro dell´abaco, come soluzione di un problema relativo alla riproduzione dei conigli. La successione parte da 0 e 1, e a ogni passo procede sommando i due numeri precedenti: la sequenza continua dunque con 2, 3, 5, 8, 13, eccetera, e in questi giorni la si può ammirare, illuminata al neon, sulla Mole Antonelliana di Torino, in un´opera di Mario Mertz.
Le apparizioni, spesso inaspettate e insospettate, della sequenza di Fibonacci in natura sono talmente ubique, da riempire da anni i numeri della rivista quadrimestrale The Fibonacci Quaterly. Altrettanto vale per le altre manifestazioni della sezione aurea, descritte nei classici Crescita e forma di D´Arcy Thompson e Le curve della vita di Theodore Cook, e compendiate nel recente La sezione aurea di Mario Livio. Ben vengano dunque, una mostra e un congresso che si soffermano sulle variegate applicazioni dell´unico essere per il quale l´aggettivo «divino» non suona ridicolo o sacrilego, e cioè un numero.

in mostra a Napoli
Michelangelo Merisi da Caravaggio
gli ultimi anni

Repubblica 23.10.04
I capolavori degli ultimi anni di vita
Diciotto tele del maestro ed altre cinque che ora gli vengono attribuiti da grandi critici
Da oggi a Napoli un'esposizione con le opere dipinte tra il 1606 e il 1610
PAOLO VAGHEGGI

NAPOLI. Fare cultura, ripartire dalla cultura. E´ questa l´idea da cui nasce Caravaggio. L´ultimo tempo 1606-1610 che apre questa sera nelle sale di Capodimonte, all´interno del percorso museale, dedicata agli ultimi quattro anni di vita e di lavoro del grande artista, «spirito più agitato che non il mare di Messina con le sue precipitose correnti», come ebbe a scrivere il suo biografo Francesco Susinno. Quattro anni tumultuosi ricostruiti attraverso diciotto dipinti di mano del maestro, segnati da angoscianti luminazioni cariche di ombre e di luci - da La cena in Emmaus alla Flagellazione, dall´ Amorino dormiente a due versioni di Salomè con la testa del Battista, ai tre dipinti siciliani riuniti insieme per la prima volta - a cui vanno aggiunte cinque nuove proposte, cinque tele attribuite a Caravaggio da Mina Gregori, sir Denis Mahon e Ferdinando Bologna, nonché cinque copie antiche di opere perdute.
E´ un viaggio nella fuga di un Caravaggio consciamente o inconsciamente alla ricerca di una salvazione resa palpabile dall´ombra, che diventa materia e simbolo dell´approssimarsi della morte, in quel tempo trascorso tra Napoli, Malta e la Sicilia dopo che, nell´estate del 1606, per avere ucciso in una lite di gioco Ranuccio Tomassoni, suo compagno di strada, era stato costretto a fuggire da Roma.
Nicola Spinosa, soprintendente al polo museale napoletano, curatore di questa mostra che andrà avanti fino al 23 gennaio e che dalla primavera sarà trasferita alla National Gallery di Londra, avverte con foga e passione: «E´ una vera esposizione di studi sull´ultimo periodo dell´artista, per mettere a fuoco i rapporti con l´area mediterranea, Napoli, Malta e la Sicilia, luoghi che trasformarono completamente il suo modo di fare arte, il suo punto di vista rispetto allo spazio, alla luce, all´essere e all´esistere dell´uomo».
Fu così forte e determinante l´incontro con l´area mediterranea, è così diverso l´ultimo Caravaggio?
«Ci fu un cambiamento profondo, completo. Fino all´arrivo a Napoli era ancora legato a una visione fortemente rinascimentale e in qualche modo umanistica. L´incontro con Napoli e l´area mediterranea progressivamente sconvolse una concezione che fino ad allora era stata, tutto sommato, classica e composta. L´impatto con una città densamente affollata dove la vita si svolgeva in vicoli stretti e bui con squarci di luce improvvisi trasformò il suo modo di fare arte. Per capirlo basta guardare Le opere della misericordia dove tutto avviene in un piccolo vicolo. Cambia il concetto di spazio che si dilata sempre più ma che non è misurabile in termini reali, geometricamente o prospetticamente definibile, perché la misura è data dall´uomo e dal tempo dell´azione dell´uomo, dal gesto. In questo senso il dipinto più significativo è il Martirio di Sant´Orsola dove lo spazio apparentemente quasi non esiste, è dato dal movimento del tiranno che scocca la freccia, dalla donna ferita, dalla mano di un uomo che cerca di bloccare il dardo senza riuscirci. E´ un frenetico susseguirsi di eventi ma neppure un gesto d´amore riesce a fermare il destino. Solo il fare arte si pone sopra il tempo estremamente limitato dell´esistere».
Il fare arte è la chiave di lettura dell´ultimo Caravaggio?
«Il fare arte è l´unico strumento che lo può riscattare, che prevarica il tempo dell´uomo, la condizione effimera della vita. E negli ultimi anni Caravaggio dipinse moltissimo, in quattro anni non meno di quaranta quadri anche se ne sono arrivati a noi la metà. In poche settimane a grande velocità eseguì opere di grandissime dimensioni: a Napoli, Le opere della Misericordia, a Malta la Decollazione del Battista, a Siracusa il Seppellimento di Santa Lucia, a Messina la Resurrezione di Lazzaro, a Palermo la Natività e poi torna a Napoli... Ha una grande voglia di fare perché il fare pittura è l´unico strumento che lo riscatta, che lo fa sentire capace di andare al di là delle contingenze umane. Questo fino al momento in cui seppe da Scipione Borghese che forse stava per essere perdonato dal Papa. Non arrivò a Roma ma ancora una volta riaffermò il potere dell´arte. Sulla feluca aveva tre dipinti che voleva donare a Scipione Borghese: il San Giovannino che ora è alla galleria Borghese, presente in mostra, una Maddalena di cui si sono perse le tracce di cui esponiamo una copia, un San Giovannino alla sorgente che forse abbiamo identificato e che è tra le nuove proposte dell´esposizione di Capodimonte. Proviene dalla Svizzera. Altra cosa importante è il confronto con Tiziano».
Tiziano?
«Quando andò a Genova dai Doria, Caravaggio vide il Cristo alla colonna di Tiziano. A lungo dato per perduto è stato ritrovato da Ferdinando Bologna. Lo esponiamo accanto alla Flagellazione di Caravaggio. Fu il suo precedente più illustre».
Il San Giovannino, Tiziano...ma non sono troppe le attribuzioni?
«Nelle prime sale presentiamo le opere certe mentre la seconda parte è riservata alle nuove proposte che finalmente si trovano a confronto con autentici capolavori. Da questo confronto si potranno capire molte cose. Il San Giovannino potrebbe essere davvero di Caravaggio, dipinto rapidamente con una pittura molto essenziale».
Ci sono nuove ipotesi anche sulla morte di Caravaggio?
«No. Caravaggio frequentava le osterie, il popolo, la realtà più vera e cruda. Fu ferito durante una rissa in un´osteria e non guarì mai. Quando durante il ritorno verso Roma fu fermato a Palo e fu costretto a tornare a piedi verso Porto Ercole morì. Forse per la fatica, forse per la malaria che lo colpì nelle paludi che attraversò. Ma aveva già consumato la sua esistenza, il fare arte e nel Martirio di Sant´Orsola aveva scritto il suo testamento: anche l´amore non blocca un destino di morte».

Repubblica 23.10.04
IL GRAN PITTORE DI CRUDE REALTÀ
Quando il maestro salpò sulla feluca che lo portò all'appuntamento con la morte, aveva con sé una "Maddalena" e due "San Giovanni"
Nell'ottobre del 1606 Caravaggio è a Napoli dove riceve una pioggia di commissioni che gli fanno accelerare i suoi già rapidi tempi di esecuzione
Capolavori. Questa è una rassegna di eccezionale intensità per come documenta gli ultimi quattro anni
La tecnica. L´artista rinunciò allo splendore cromatico della maturità in favore di un linguaggio più scarnificato
Tutti quadri eseguiti da quando il pittore fuggì precipitosamente da Roma per sottrarsi ad una condanna per omicidio
ANTONIO PINELLI

Napoli. Mettiamo subito le cose in chiaro. Quella che si apre in questi giorni a Napoli non è una mostra che pronuncia il nome di Caravaggio invano. Non è, in altre parole, una delle tante rassegne occasionali, che in mezzo ad uno stuolo di quadri eseguiti da comprimari e comparse, introducono un paio di tele del grande pittore lombardo, per potersi fregiare del suo nome nel titolo e sfruttarne l´irresistibile capacità di richiamo sul pubblico. Questa è, al contrario, una rassegna imperdibile e di eccezionale intensità, perché non divaga dal suo assunto, che è quello di documentare al meglio gli ultimi quattro anni di vita di Caravaggio, e lo fa nel modo più concreto, asciutto ed eloquente, e cioè esibendo, uno accanto all´altro, una ventina di suoi capolavori autografi: tutti quadri eseguiti durante quel breve, angoscioso ma incredibilmente fecondo periodo, che ebbe inizio il 28 maggio 1606, quando il pittore fuggì precipitosamente da Roma per sottrarsi ad una condanna per omicidio. Quattro anni vissuti febbrilmente tra Napoli, Malta, Siracusa, Messina, Palermo, e poi ancora Napoli, in un alternarsi sempre più concitato di luci e di ombre, proprio come nei suoi quadri, che si fanno sempre più vuoti e cupi, ma sferzati da lampi che fendono il buio e incendiano i colori. Quattro anni in fuga, conclusisi tragicamente in quel torrido luglio del 1610, quando il pittore fu ghermito dalla morte sul malarico litorale della Maremma, dov´era sbarcato in attesa di una grazia papale, che sarebbe beffardamente arrivata quando ormai non serviva più.
Le venti tele caravaggesche in mostra costituiscono praticamente l´intero catalogo tardo dell´artista giunto fino a noi, tranne poche eccezioni che si possono contare sulle dita di una mano, come il San Girolamo e la Decollazione del Battista di Malta, o la Natività, che purtroppo non è più ricomparsa da quando fu trafugata, più di trent´anni fa, privando della sua gemma più preziosa quel meraviglioso scrigno del Barocco siciliano che è l´Oratorio di San Lorenzo a Palermo.
A questa eccezionale concentrazione di capolavori, la mostra napoletana aggiunge un prezioso gruppo di antiche copie, che surrogano l´assenza di alcuni originali di cui si è persa la traccia, e cinque tele, che rappresentano altrettante nuove proposte attributive al catalogo delle opere estreme dell´artista. Proposte che innescheranno senza dubbio il consueto, vivace dibattito tra gli specialisti, ma che comunque possiedono tutti i crismi per essere prese in seria considerazione.
Passiamoli allora velocemente in rassegna questi quattro ultimi anni di vita di Caravaggio, con l´aiuto delle opere in mostra. Siamo nel maggio 1606: Caravaggio, trentacinquenne, è all´apice della fama, ma il suo carattere turbolento lo tradisce ancora una volta. Durante il «gioco della racchetta», per un futile diverbio su un fallo si accende una rissa, nel corso della quale l´artista ferisce a morte Ranuccio Tomassoni. Il mattino dopo il pittore fugge, trovando riparo tra Zagarolo, Paliano e Palestrina, feudi di quel Marzio Colonna che è imparentato con Costanza Sforza Colonna, feudataria del paese lombardo da cui il pittore proviene e trae il soprannome. Forte di queste protezioni, in poche settimane Caravaggio dipinge una Maddalena svenuta, che è probabilmente la stessa che portava con sé nel suo ultimo, tragico viaggio alla volta di Roma, e di cui restano un numero considerevole di repliche, nessuna delle quali è però riuscita ad imporsi come l´originale autografo senza sollevare corpose obiezioni da più parti. Risale probabilmente a questo periodo anche il S. Francesco in meditazione di Carpineto, di cui le indagini scientifiche hanno confermato l´autografia, degradando a copia il dipinto di identico soggetto che è nella chiesa romana dei Cappuccini.
L´altra opera in mostra che risale a questi mesi trascorsi nel Basso Lazio è la Cena in Emmaus di Brera, che qui a Napoli può essere confrontata con il dipinto londinese di egual soggetto, che Caravaggio aveva dipinto qualche anno prima. Un paragone illuminante per constatare la progressiva economia di mezzi conquistata dall´artista, che presto rinunciò allo splendore cromatico e al nitore illusivo del suo stile maturo, in favore di un linguaggio più scarnificato, che riduce all´osso la forma.
Ai primi di ottobre del 1606 Caravaggio è a Napoli, dove riceve una pioggia di commissioni, cui fa fronte accelerando i suoi già rapidi tempi di esecuzione. In otto mesi escono dal suo pennello la pala con le Sette Opere di Misericordia, sconvolgente esempio di sintesi spaziale e di concentrato realismo, in cui l´artista infonde tutta l´urgenza morale di un sentimento della fede imperniato sulla pietà per gli umili e sulla concretezza di una misericordia corporale di schietta impronta lombarda. Seguono la Flagellazione per S. Domenico Maggiore, forse conclusa durante il secondo soggiorno napoletano (come suggerisce F. Bologna), e la Crocifissione di S. Andrea, tela che alcuni preferiscono posticipare al secondo periodo napoletano.
Ma è tempo per il pittore di mettersi di nuovo in viaggio, questa volta per Malta, dove sbarca nel luglio 1607. Segue poco più di un anno di relativa serenità e colmo di soddisfazioni. Il Gran Maestro Alof de Wignacourt si serve del pittore come artista di corte e ottiene la deroga papale per ammetterlo nell´Ordine. Caravaggio dipinge una serie di capolavori, tra cui spicca la Decollazione del Battista, un´opera cupa e opprimente, di violenta intensità emotiva, che il pittore ha voluto firmare ricavando il proprio nome dalla pozza di sangue che sgorga dal tronco del Santo decollato. Risale al periodo maltese anche un San Giovannino alla fonte, di cui la mostra propone due versioni, una sola delle quali, a mio parere, può aspirare ad essere ritenuta autografa: quella che si concentra sul busto del santo, che si protende nell´atto di abbeverarsi.
Ma ancora una volta, nell´agosto 1608, il pittore partecipa ad una rissa, è imprigionato e, senza attendere la sentenza che lo espellerà dall´Ordine, fugge con una corda dal carcere e approda avventurosamente a Siracusa. Per un anno circa il pittore sosta in Sicilia, lasciando a Siracusa, Messina e Palermo tele in cui ormai il buio dilaga, inghiottendo gran parte della scena, e l´azione si condensa in un unico, intensissimo attimo, bloccata come in un fotogramma, dove volti, corpi, espressioni sono colti di sorpresa da sciabolate di luce battente: la realtà rivelata nella sua nuda e attimale fenomenicità, nel suo accadere «qui e ora», sorpresa in flagrante.
Ma è tempo ormai di tornare a Napoli, dove nell´ottobre del 1609 il pittore subisce una misteriosa aggressione in un´osteria, ma senza che questo pregiudichi più di tanto la sua prodigiosa fertilità creativa: nascono, una dopo l´altra, opere come l´Annunciazione di Nancy, il David e il Battista Borghese, note da tempo, ed altre che sono state acquisite dagli studi solo di recente, come la Negazione di Pietro, venuta in prestito dal Metropolitan di New York o Il martirio di Sant´Orsola. Tele che erano ancora fresche di vernice, quando Caravaggio, portando con sé una Maddalena e due San Giovanni Battista, salpa sulla feluca che lo porterà all´ultimo, fatale appuntamento con la morte sul litorale di Port´Ercole. Un epilogo amarissimo, cui non mancherà neppure il sinistro volteggiare degli avvoltoi, perché i rapaci protettori del pittore si disputeranno senza risparmio di colpi quei suoi tre ultimi quadri.

venerdì 22 ottobre 2004

Edoardo Boncinelli:
pochi geni, immensi risultati biologici

Corriere della Sera 22.10.04
Pensavamo di averne 100 mila, invece sono 20 mila. L'importante è la combinazione
L'uomo ha meno geni del rospo, ma li usa meglio
di EDOARDO BONCINELLI

«Il cervello è più grande del cielo - dice Emily Dickinson - perché lo contiene senza sforzo e, in aggiunta, contiene anche te». Il nostro cervello è il gioiello dell'evoluzione biologica, la perla più pura emersa dalla creta originaria, contenente tanta acqua e una certa quantità di detriti inorganici. Eppure sembra che il nostro cervello, in tutta la sua potenza, non sia che il prodotto di ventimila geni.
Ventimila geni, più o meno quanti ne ha il vermiciattolo Caenorhabditis elegans, il cui corpo è costituito di solo mille cellule, e decisamente meno di quanti ne abbia una piantina alta una diecina di centimetri, la Arabidopsis. Insomma, il romanzo del nostro patrimonio genetico non ha più di ventimila capitoli. Quindici anni fa pensavamo di averne centomila; tre anni fa capimmo di averne circa trentamila; la valutazione finale, pubblicata adesso sulla rivista Nature, dice più o meno ventimila.
Ci dobbiamo preoccupare? Ci dobbiamo sentire umiliati? Dobbiamo cominciare ad adorare i rospi, il frumento o il riso, che ne hanno almeno cinquanta volte tanti? Nemmeno per idea. Ventimila possono bastare, se utilizzati giudiziosamente, ovvero se la relativa scarsezza di geni è compensata da una grande ricchezza, se non un'esuberanza, di processi regolativi. Un gene specifica la struttura di un prodotto biologico, in genere una proteina. Ma poi occorre stabilire quanta farne, in che tessuti farla e quando farla. I circuiti regolativi, che a questo punto ci aspettiamo sempre più complessi e interconnessi, servono proprio a specificare questi parametri. Sapevamo che anche la differenza fondamentale fra noi e gli scimpanzé risiedeva primariamente in una diversa capacità regolativa dei circuiti genici, decisamente più alta in noi che in loro, e il dato odierno non fa che rafforzare questa impressione.
Quanti e quali sono questi meccanismi regolativi? Una concisa ma aggiornatissima esposizione di tali temi si può trovare in un libro pubblicato da poco negli Stati Uniti e che uscirà il 28 di questo mese in traduzione italiana da Codice Edizioni. Si tratta de La nascita della mente. Come un piccolo numero di geni crea la complessità della mente del ricercatore della New York University Gary Marcus, che il 31 sarà al Festival della Scienza di Genova. Il problema che il nostro autore si pone è proprio quello di cui stiamo parlando: le poche migliaia di geni che possediamo sono sufficienti a formare, oltre al nostro corpo, anche un cervello funzionante, dotato di tutte le sue facoltà mentali, o dobbiamo al contrario invocare meccanismi diversi? Fermo restando che meccanismi diversi possono sempre essere dietro l'angolo e comparire da un momento all'altro, ci sono buone ragioni per ritenere che se ne possa anche fare a meno. I geni che abbiamo possono in sostanza benissimo bastare. E Marcus ci spiega perché, basandosi su ciò che sappiamo oggi sulla regolazione genica e sullo sviluppo embrionale degli animali superiori e dell'uomo. Attraverso quali vie, in sostanza, le istruzioni genetiche contenute nel nostro genoma e le vicende della nostra vita giungono a formare e modellare la nostra mente, nei suoi aspetti conoscitivi e razionalizzanti e in quelli più propriamente emotivi? La domanda ha una storia molto lunga. Si tratta del famoso dilemma innato-appreso, che nei Paesi di lingua inglese prende il nome di dilemma nature-nurture, che possiamo rendere con «natura o educazione?».
Come accade per tutte le domande di grande momento, si tende a proporre risposte basate su convinzioni a priori. Alcuni tendono ad affermare che tutto dipende dai geni che un individuo possiede; altri tendono ad attribuire tutto il merito alle sue esperienze di vita, come se i geni contassero poco o niente. Nell’uno e nell'altro campo si giunge spesso ad affermazioni assurde. Alcuni autori, fra cui il nostro, affrontano invece il problema in maniera seria e informata.
Non sono mai riuscito veramente a capire perché secondo alcuni trentamila (o ventimila) geni sono pochi. Su quale criterio si basa questa affermazione? Per coloro che credono che la mente sia una cosa diversa dal cervello, per produrla non basterebbero neppure un milione di geni. Per coloro che invece credono che i geni abbiano un ruolo nella costruzione della mente, non vedo perché ventimila dovrebbero essere pochi. Quanti dovrebbero essere per essere abbastanza? Il nostro autore salta a piè pari questa domanda e fa del suo meglio per persuaderci del fatto che partendo da un numero non grandissimo di geni si può giungere alla formazione di un numero enorme di caratteristiche biologiche, nel corpo e nel cervello.
Leggendo quest'opera ci si rende conto che quello che viene detto della formazione e del funzionamento del cervello potrebbe essere detto, quasi parola per parola, della formazione e del funzionamento di qualsiasi struttura biologica o parte del nostro corpo. I geni non «sanno» se stanno facendo un cervello o una milza. I meccanismi sono assolutamente gli stessi e spiegare come si forma il cervello è solo un pochino più complicato che spiegare come si forma la milza. Marcus avrebbe potuto parlare alla stesso modo della formazione di un arto o di un capillare, ma non c'è dubbio che sarebbe stato meno interessante. Dobbiamo comunque apprezzare lo sforzo di questo e di pochi altri autori per fare arrivare al grande pubblico almeno il sapore delle più recenti scoperte della biologia molecolare dello sviluppo dei mammiferi, un campo nel quale sono state fatte più scoperte negli ultimi venticinque anni che in tutta la storia precedente. E questo non per magia o per una supposta superiorità dei contemporanei, ma semplicemente perché ci sono oggi nel mondo più persone che si dedicano alla ricerca in questo campo di quante ce ne siano state mai in tutte le epoche passate messe insieme. La ricerca la fanno gli uomini, anche se l'apporto di apparecchiature e metodologie nuove è d'importanza fondamentale, e gli uomini sono più numerosi che mai. Chi ignora a bella posta e con compiacimento quello che la biologia moderna sta scoprendo, «perché tanto non potrà poi essere così importante», che cosa direbbe se gli facessero notare che in questo momento stanno operando tre Aristotele, due Platone, quattro Galileo, cinque Pascal e una manciata di Malpighi e di Spallanzani?