venerdì 3 dicembre 2004

Buongiorno, notte al prossimo Festival del cinema indipendente di Mar del Plata

El Clarin www.clarin.com
La alternativa marplatense

«Es la primera edición del Festival de Cine Independiente de Mar del Plata. Se verán 65 películas que, según su director artísti co, Daniel Boggio, conforman "un espacio de experimentación y de libertad, en el que se exhiba el cine más joven e innovador que se produce actualmente en el mundo."»

Il film di Marco Bellocchio, Buongiorno, notte sarà proiettato all'interno della sezione del Festival che ha per titolo

8 Imprescindibles 2003/2004

Guidi e il Ministero della Salute
«campagna per la salute mentale»

Yahoo Notizie Venerdì 3 Dicembre 2004, 14:08
PSICHIATRIA: IL 10% DEGLI ITALIANI HA DISTURBI, PARTE LA CAMPAGNA DEL MINISTERO

(ANSA) - ROMA, 3 DIC - Un italiano su dieci soffre di disturbi mentali e il pregiudizio che ancora oggi circonda tali patologie rappresenta per i pazienti un ulteriore macigno che si aggiunge alla malattia. Proprio per combattere lo stigma sociale delle patologie mentali, l'esclusione, la discriminazione e informare i cittadini sulle possibilita' di cura e accesso ai servizi e' ai nastri di partenza la I Campagna nazionale per la salute mentale, presentata oggi al ministero della Salute, che prendera' il via il prossimo 5 dicembre in occasione della celebrazione della I Giornata nazionale della Salutementale.
Indetta dal presidente del Consiglio, su proposta del ministro Girolamo Sirchia, la Campagna coinvolgera' direttamente le associazioni piu' rappresentative del mondo del volontariato in questo settore e le maggiori societa' scientifiche in psichiatria: dall'Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale Unasam alle Societa' italiana ed europea di psichiatria. Primo obiettivo: rendere appunto piu' omogenee ed efficaci le iniziative per combattere il pregiudizio che continua a circondare i malati mentali nella nostra societa'.
Tante le iniziative previste dalla Campagna, accompagnata dallo slogan 'Non e' diverso da te. Curare i disturbi mentali si puo', nessun pregiudizio, nessuna esclusione': manifestazioni nelle principali piazze italiane, convegni e incontri rivolti non solo ai medici ma anche ai malati e le loro famiglie, distribuzione di opuscoli nelle farmacie e negli ambulatori dei medici di famiglia, uno spot televisivo e la realizzazione di un sito ad hoc. Il sito, all'indirizzo www.fuoridallombra.it, sara' gestito dalle associazioni ma anche direttamente dai pazienti e rappresenta, per questo, una esperienza innovativa: Una mini-redazione composta da giovani affetti da disturbi mentali collaborera' infatti alla produzione di notizie che saranno pubblicate sul sito della Campagna. Un'iniziativa, sottolinea il ministero, destinata a testimoniare con i fatti la possibilita' di inclusione nel mondo del lavoro di soggetti con disturbi di mente come ''via maestra'' per combattere i pregiudizi nei loro confronti. Una lotta al pregiudizio colpevole anche, affermano gli esperti, di ritardare in moltissimi casi l'incontro con lo specialista e le prime cure.
''L'inguaribilita' e la pericolosita' della persona affetta da malattia mentale - ha affermato il sottosegretario alla Salute Antonio Guidi presentando la Campagna - sono i piu' diffusi pregiudizi alla base di atteggiamenti di esclusione e, spesso, anche di ostilita' e disprezzo verso le persone con problemi psichici''. Questi sentimenti, ha sottolineato Guidi, ''purtroppo diffusi anche tra i familiari e, talora, fra gli stessi operatori, sono il piu' potente ostacolo alla solidarieta' e alla comprensione della sofferenza del paziente, che sono invece la base per qualsiasi processo di cura''. (segue).

ancora sui "corsi di astinenza" federali negli USA

per chi volesse saperne di più sull'argomento, Sandra Mellone segnala le pagine che possono essere raggiunte cliccando sul link seguente:

http://www.plannedparenthood.org/

o direttamente il documento (un pdf) disponibile su questa pagina
_________________

donne a Teheran

Repubblica 3.12.04
NOI DONNE DI TEHERAN
il vino nascosto dentro la borsetta
Perché si stanno svuotando le moschee
"Da bambine", si sente dire, "siamo costrette a recitare da adulte. Una volta cresciute viviamo di proibizioni"
La tentazione della modernità è molto forte, ma i richiami al vecchio ordine si fanno sentire in una contraddizione continua
di FRANCO MARCOALDI

TEHERAN. Sono in largo anticipo sull'appuntamento al ristorante Bistango e ne approfitto per fare un salto alla libreria Book-City. Sul bancone d'ingresso fanno bella mostra di sé una serie di volumi dedicati alla famiglia dello scià, con biografie di Reza Pahlavi, Soraya, Farah Diba e parentado. Molti i libri di cucina e manualistica varia, soprattutto su come raggiungere il successo in amore e conquistare la felicità. Infine, a fianco dei classici della letteratura persiana, svariate opere dei migliori scrittori occidentali tradotte in farsi; naturalmente con gli opportuni tagli approntati in anticipo sulla stessa censura, come mi racconta una traduttrice che ha espunto ex-ante da Cecità di Saramago tutte le pagine che avrebbero potuto irritare la smodata sessuofobia dei religiosi.
A Book City, insomma, di mullah e ayatollah nemmeno l'ombra: qui si oscilla tra la nostalgia del tempo che fu, la buona letteratura, e l'editoria popolare «fai da te».
Siamo nella Teheran nord, la parte più ricca e occidentalizzata della città. Il che ha sicuramente il suo peso. Nei quartieri popolari infatti tira un'altra aria, così come, a maggior ragione, nell'Iran arcaico e profondo dei villaggi. Come scrive Daryush Shayegan nel suo bellissimo Cultural schizofrenia. Islamic society confronting the West (Saqi Books), è bene non dimenticare che in quell'Iran remoto mullah e gente comune si comprendono alla perfezione, perché vivono entrambi nella stessa epoca premoderna. Se infatti l'incontro con la modernità ha in un certo senso messo all'angolo i mullah, per contro lo shock che quella modernità ha comunque inflitto a tanta gente, finisce per restituire loro un'importante funzione: «Perché garantisce una rifugio nella tradizione, dove c'è risposta per ogni domanda».
Shayegan ha il merito di aver tematizzato l'enorme difficoltà che l'Iran di oggi sperimenta, stretto com'è tra l'irruzione di un universo che invita al cambiamento, alla verifica empirica, all'uso critico della ragione, e l'obbedienza a una tradizione fissata invece in una temporalità leggendaria, tendente a una specie di oblomovismo sociale inerte e sclerotico, accompagnato però da un'ideologia del combattimento. Come può una persona convivere con due modi di pensare così diversi senza il rischio di comportamenti distorti? Da qui la schizofrenia tra nuove idee che cadono nel vuoto perché prive di contesto e tessitura emotiva, e le vecchie idee atrofizzate, fallite in partenza perché incapaci di mordere il presente. «Ed eccoci così costretti», conclude il filosofo iraniano, «a inventare continue scuse mentali: il capitalismo delle multinazionali, gli effetti catastrofici del colonialismo, il sionismo, l'imperialismo e tutti gli ismi del mondo».
Mi piacerebbe trasformare la cena che sta per cominciare in un piccolo seminario su questo fascinoso tema, così come ha fatto Azar Nafisi con la letteratura di Nabokov, James e la Austen per darne poi conto in Leggere Lolita a Teheran. Stasera, a farmi da guida nel labirinto iraniano, saranno tre giovani donne, belle e agguerrite: due giornaliste e una sociologa.
La scena ha luogo in uno dei pochi ristoranti davvero eccellenti della città: ottimo cibo, servizio impeccabile... e la solita comica dei tre bicchieri per acqua, fanta e coca-cola. Jila, al mio fianco, sorride e mi dice che nei ristoranti dove il controllo è più lasco lei si porta una bottiglia di vino dentro la borsa: l'ennesimo esempio di doppia vita cui è costretta la gente di qui. Del resto pare che l'esercizio della dissimulazione sia insito nella storia degli sciiti fin dall'inizio del loro confronto-conflitto con la maggioranza sunnita. Quanto alla classica distinzione tra spazio esterno (biruni) e interno (andaruni) - riferita all'architettura delle abitazioni, ma anche a quella della mente - a cos'altro allude se non ad una costante ambivalenza tra quel che si può fare in pubblico e quel che ci si permette in privato?
Come ho già avuto modo di dire, questo continuo esercizio di sdoppiamento impone un uso costante dell'intelligenza, ma può anche generare distorsioni mentali dalle quali poi è difficile salvarsi. Jila mi espone questa fatica nel più semplice ed efficace dei modi: «Come faccio a insegnare a mia figlia di non dire bugie se la mia vita è intrisa di bugie dalla mattina alla sera?».
Tra tutti gli iraniani, le donne sono quelle che patiscono di più questo stato di cose. Ma rappresentano anche la massima spina nel fianco del regime religioso, che a partire dalla rivoluzione del '79 aveva instaurato il matrimonio in età puberale, la disparità in ordine all'affidamento dei figli, al valore della testimonianza giudiziaria e dell´eredità. Per finire con l'imposizione del velo e la segregazione dei sessi in diverse sfere della vita.
Per effetto paradossale, però, fu proprio la segregazione a spingere molte famiglie tradizionali a mandare le proprie ragazze all'università, nella convinzione che la loro «purezza» fosse meglio «protetta». E ora sono loro, le donne, a rappresentare la maggioranza dei laureati iraniani; dunque il motore principale e inarrestabile del cambiamento.
Dice Zahra, la sociologa: «Il regime ha avuto bisogno di mobilitarci politicamente al momento della rivoluzione e successivamente, quando c'è stata la guerra contro l'Iraq, ha dovuto inserirci nel mercato del lavoro. Ma così facendo ci ha reso ancora più consapevoli dei diritti che ci spettano e che ci vengono perennemente negati».
Anche il visitatore occasionale ha modo di verificare quanto il maschilismo indigeno raggiunga spesso e volentieri livelli manicomiali di ipocrisia e doppiezza. Come nel caso dei contratti matrimoniali «temporanei», volti a consentire i rapporti sessuali occasionali, e insieme a coprire di fatto una prostituzione teoricamente bandita. Per non parlare delle molteplici manifestazioni di perversa sessuofobia, come denunciano le teste mozzate di manichini femminili nei negozi di moda; oppure, per contro, l'invito subliminale alla pedofilia di svariati giornali familiari che mettono in copertina bambine truccatissime e seducenti (le uniche che possono mostrare il loro volto imbellettato e i propri capelli sciolti senza infrangere la legge). «È l'ennesima conferma della schizofrenia in cui siamo catapultate», commenta la terza convitata, Elaheh. «Siamo considerate adulte per legge ben prima dei maschi, ma torniamo bambine quando siamo grandi per davvero, bambine che il regime costantemente «protegge»: col velo, coi matrimoni temporanei, non consentendoci di andare allo stadio perché sentiremmo parole che offenderebbero le nostre orecchie. Ma a ben guardare tutti gli iraniani, uomini e donne, sono trattati alla stregua di bambini. Ed è perciò che il movimento delle donne ha tanta importanza, perché se salta questo anello, salta l'intera catena di un regime gerarchizzato e patriarcale che pretende di sovrintendere a qualunque scelta individuale... Succederà, prima o poi, perché il comportamento di questi padroni produce sempre più spesso effetti opposti a quelli da loro auspicati. Basta pensare all'eccessiva politicizzazione della religione, che ha finito per allontanare la gente dalle moschee».
Tutti, a Teheran, mi parlano di questo nuovo fenomeno, che riguarderebbe in particolare - come è naturale - i più giovani. Anche stavolta, però, il processo è tutt'altro che lineare. Come sempre in Iran. Più che di una progressiva laicizzazione, infatti, si tratta di una nuova religiosità: una religiosità light, insofferente di ogni costrizione in materia di libertà sessuale, aborto, divorzio, che contemporaneamente rimpiange e invoca un islamismo in chiave patriottica quale unico possibile appiglio in una società priva di punti di riferimento. Dunque si torna ancora una volta all'ipotesi di Dayush Shayegan: la tensione tra nuove zone della realtà disvelate dalla modernizzazione e l´atavica compulsione ad escluderle dal campo della conoscenza, crea una ferita che la coscienza individuale non ce la fa a sanare.
Il seminario al ristorante è finito. Saluto con calore le mie nuove, generose amiche e mi tuffo nell'inestricabile traffico di Teheran, di fronte al quale, al vigile occhialuto e allampanato che lo veglia, altro non resta che ritirarsi in una postura meditabonda. Al modo del pensatore di Rodin. Lo guardo e mi tornano alla mente le parole che ieri, davanti a una tazza di tè, mi diceva lo scrittore Amir Hassan Cheheltan: «La nostra situazione è più o meno questa. Abbiamo assaggiato il boccone della modernità e quel boccone ci è rimasto sul gozzo. Non abbiamo ancora deciso se risputarlo o digerirlo una volta per tutte».

fenomenologia della parabola di Repubblica
Luciana Sica su Hillman

Repubblica 3.12.04
CARO HILLMAN TI SCRIVO
lettere a un grande
Esce un carteggio tra un gruppo di personaggi della cultura italiana e l'intellettuale americano che ama la provocazione e la sorpresa Il dissenso prevale sull'ammirazione per il maestro che ha radicalmente messo sotto accusa la psicoanalisi
Viene messa in discussione l'identità dell'inventore della "psicologia archetipica"
C'è una polifonia di voci anche molto contrastanti che percorre il mondo dei nipotini di Jung
di LUCIANA SICA

Alcuni personaggi della psicologia analitica e della cultura italiana scrivono a James Hillman, la figura senz'altro più carismatica - anche se molto controversa - dello junghismo contemporaneo: le venticinque lettere, accompagnate dalle risposte del destinatario, sono state raccolte in un libro dal titolo Caro Hillman?, per la cura intelligente e fantasiosa di Riccardo Mondo e Luigi Turinese (Bollati Boringhieri, pagg. 240, euro 26).
È un volume che interessa, per più di una ragione. Intanto, attraverso questo carteggio, si coglie con grande immediatezza la polifonia di voci - assai poco assimilabili tra loro - che percorre l'universo junghiano. Emergono, dall'epistolario, due tendenze che già coesistono in Jung, pensatore geniale ma disordinato e asistematico, contraddittorio e pieno di aporie: una è decisamente critica, ermeneutica, probabilista; l´altra sembra cadere nell'illusione di una psicologia perennis, di una psiche in qualche modo oggettiva, valida e identica per tutti, con un eccesso di enfasi - ad esempio - per quella ipotesi suggestiva ma enigmatica, nebulosissima, che è l'inconscio collettivo.
Oltre a disegnare una mappa curiosa dello junghismo italiano, questo libro sottende costantemente nelle sue pagine un interrogativo - sospeso e irrisolto - che rimanda all'identità più autentica del maestro di Atlantic City.
Chi è infatti oggi James Hillman? Si sa che, a Zurigo, è stato un allievo diretto di Jung, ma - dopo quella che lui stesso ha definito «una crisi di fede - è diventato l'inventore di un nuovo pensiero, di una sua disciplina detta "psicologia archetipica", ribattezzata frettolosamente e a dispetto del ridicolo "una terapia con gli dèi".
Oggi non è chiaro se Hillman si possa ancora in qualche modo considerare uno psicoanalista, per quanto eterodosso e da molti anni lontano dalla pratica clinica, o sia piuttosto un raffinatissimo letterato, un intellettuale neoplatonico (amatissimo dagli intellettuali, e dai molti che suppongono di esserlo), un cantore neopagano di cui poco o nulla è rimasto dell´imprinting originario: «un brillante bricoleur», per dirla con Augusto Romano.
In queste lettere inviate a Hillman, può sorprendere che in genere sia il dissenso a prevalere sull'ammirazione. Quella di Mario Trevi, firmata con Marco Innamorati (insieme hanno scritto Riprendere Jung), è una presa di distanza, sofisticata ma dura già nel titolo, "Contra psychologiam archetypalem", una messa sotto accusa delle tesi più ardite di Hillman: dalla lettura che fa dei classici alla pretesa di parlare ancora di un'ontologia dell´anima, al rifiuto drastico di ogni modello medico.
Nella sua risposta, il grande provocatore americano - che a tratti tende ad assumere un'aria sussiegosa un po´ irritante - sfugge abilmente alle questioni più sottili. «Un freddo vento del Senex soffia da nord, e potrei essere indotto a focose esagerazioni del Puer come difesa?»: Hillman non cade in questa tentazione, e del resto sarebbe poco convincente contrapporre a un presunto atteggiamento senile il suo spirito da eterno fanciullo, anzi il suo metodo ermetico/mercuriale che «si avvale di trucchi, inganni, appropriazioni e non vuole stare da qualche parte a combattere, ma fugge nell´invisibilità su scarpe alate in conformità con i suoi alati pensieri avvolti in "può darsi", "forse" e "come se"»?
La sensazione è che il comune ceppo junghiano non basti ad accorciare le distanze: Hillman e Trevi non potrebbero essere più sideralmente lontani, a cominciare dai linguaggi che utilizzano. «Che cosa abbiamo da dirci l'un l'altro?», si chiede Hillman con una qualche brutalità, concludendo in modo scarsamente dialettico: «Due sentieri paralleli, non importa quante miglia possiamo percorrere, non si incontreranno mai. Forse fianco a fianco è abbastanza».
Molto spiritosa, ma per nulla rapita dal pensiero dell'autore di Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio, risulta Silvia Vegetti Finzi: lei ha tradito la psicoanalisi, gli scrive, «nel senso in cui l'amante tradisce l'amata per troppo amore? Lei affida alla psicoanalisi nientemeno che l'incarico di salvare il mondo? Ma siamo sicuri che la psicoanalisi abbia il compito di prendere il posto di Dio: di sapere tutto, di potere tutto?».
Se qui lo scambio è meno glaciale, la possibilità di un dialogo autentico rimane piuttosto remota. Il punto è che alle "regole" della clinica psicoanalitica Hillman è estraneo fino all'insofferenza, e non ha alcuna difficoltà a dichiararsi colpevole dell´accusa di essere un traditore. Non è la stanza d'analisi a interessarlo, non sono i piccoli o grandi malesseri di pazienti in cerca d'ascolto a catturarne l'attenzione. Il suo impegno ha dimensioni molto più ampie, più ambiziose: lui si dedica a «stendere l'anima del mondo sul lettino e a rimanere in ascolto delle sue sofferenze». È questa immagine a catturarlo, o anche, con un'espressione che gli è cara: è questo il suo daimon.
Alla fine, da raffinatissimo giocoliere qual è, ritorce con abilità l'accusa di tradimento, pure accettata senza sussulti: «Le replico - sempre nello spirito di calore e comprensione tra noi - che la Sua posizione tradisce la sfida contemporanea alla pratica clinica: la sua estensione oltre la stanza di terapia. Traggo questo orientamento sia da Freud sia da Jung, che consideravano il loro lavoro un lavoro sui tempi e sulla cultura collettiva in cui la psiche era immersa».
Spulciando ancora tra le molte lettere di questo carteggio, più incline alla perplessità che all'elogio appare anche Marcello Pignatelli, che - seppure con garbo amichevole - segnala il rischio di una deriva estetizzante. Come sempre Hillman si diverte soprattutto a spiazzare, e in questo caso lo fa rievocando una bella serata romana di anni fa proprio nella casa di Pignatelli, il "collega" junghiano involontariamente caduto in un fraintendimento comune.
«Quando tu mi hai ricevuto lì, con vino, cibo e conversazioni, ponendo attenzione ai bisogni di un visitatore straniero? questo tuo comportamento apparteneva all'etica o all'estetica? Conosci bene la tradizione classica, da Platone in poi, in cui Estetica ed Etica erano inseparabili. Entrambe sono contenute nella parola Kosmos, che significa giusto ordine, implicando sia la bellezza sia la giustizia»: per Hillman, la divisione tra queste due nozioni può risultare, oltre che falsa, dannosa per entrambe «poiché priva il mondo dell´estetica di ogni moralità e il mondo morale di ogni sensibilità». Dal suo punto di vista, l'insistenza sul bello avrebbe di per sé una connotazione di ordine etico.
Sarà il caso di fare almeno un cenno allo scambio affettuosissimo che in questo libro si rintraccia tra Manlio Sgalambro e Hillman sulla condizione della vecchiaia, un tema su cui entrambi si sono esercitati con risultati brillanti. Il filosofo gli ha inviato una sua poesia che si conclude con questi versi:
«Il vecchio è colui nel quale la vita è finita. Ma quale vita?
La vita funzionale, la vita dei ruoli, la vita che passa attraverso
il "permesso" di vivere concesso dalla società a certi patti.
Ma è dopo tutto questo che resta la "vita". La bellezza del vivere per
nessuno scopo, del vivere per vivere».
La replica di James Hillman è - almeno in questo caso - nel segno dell'entusiasmo: «Quanto più, quanto più squisite, quanto più apportatrici di verità sono le strofe della Sua poesia rispetto al mio intero libro sull'invecchiare!». L'epilogo si riassume nell'invito di un signore forse stravagante ma dallo charme innegabile, che prende congedo con poche semplicissime parole, impronunciabili per certi geometri della psiche: «Posso incontrarla un giorno nel Suo caffè preferito?».

sulla natura umana:
Science non ha dubbi: «chiunque può diventare un torturatore»

Le Scienze 29.11.2004
Le torture di Abu Ghraib
"Chiunque avrebbe potuto compiere atti così atroci"

Quando sono venute alla luce le notizie degli abusi sui prigionieri del carcere di Abu Ghraib, in Iraq, molti si sono chiesti chi mai potesse compiere atti simili. Secondo alcuni psicologi dell'Università di Princeton, che hanno esaminato numerosi studi sull'argomento, la risposta è: "chiunque".
In un articolo pubblicato sul numero del 26 novembre 2004 della rivista "Science", Susan Fiske e colleghi sostengono che molte forme di comportamento, compresi atti di estrema malvagità, sono influenzati tanto dalla psicologia dell'individuo quanto dalle figure dei superiori, dalle pressioni dei compagni e da altre interazioni sociali.
"Se mi chiedete se un diciottenne qualsiasi avrebbe potuto torturare quei prigionieri, - commenta Fiske - la mia risposta è: 'Sì, avrebbe potuto farlo chiunque.'".
Fiske e colleghi hanno tratto le loro conclusioni da 25.000 studi riguardanti 8 milioni di partecipanti, che spiegano come fattori che spaziano dallo stress della guerra alle attese dei superiori possono combinarsi per spingere persone del tutto normali a commettere azioni apparentemente inspiegabili. "Le persone comuni - scrivono i ricercatori - possono esibire un comportamento incredibilmente distruttivo, se gli viene ordinato da un'autorità legittima".
Gli scienziati hanno fatto riferimento soprattutto ai celebri studi condotti da Stanley Milgram negli anni settanta. Milgram aveva dimostrato che normali volontari avrebbero somministrato consapevolmente scosse elettriche anche letali ad altre persone se gli fosse stato detto che si trattava di una parte necessaria di un esperimento. "I subordinati non solo fanno quello che gli viene ordinato di fare, - conclude Fiske - ma anche quello che credono che i loro superiori desiderano, in base a una supposizione soggettiva degli obiettivi finali".

Susan T. Fiske et al., "Why Ordinary People Torture Enemy Prisoners", Science 306: 1482-1483 (26 novembre 2004).

© 1999 - 2004 Le Scienze S.p.A.

giovedì 2 dicembre 2004

USA:
corsi federali di astinenza sessuale per milioni di giovani

Corriere della Sera 2.12.04
Denuncia all'amministrazione Bush che sostiene il progetto
Usa, le falsità nei corsi per l'astinenza sessuale
«L'aborto può portare al suicidio e alla sterilità, toccare i genitali può portare alla gravidanza». Milioni i ragazzi coinvolti
Un malato di Aids (Ansa)

ROMA - L'astinenza sessuale, l'ultima ossessione americana contro gravidanze indesiderate, Aids e malattie varie. A tal punto che l'amministrazione Bush ha istitutito, a questo scopo, dei corsi per i giovani. Non proprio ordotossi, però, vista la denuncia che appare sull'autorevole quotidiano Washington Post.
L'aborto può portare al suicidio e alla sterilità; metà dei gay americani hanno l'Aids; toccare i genitali «può portare alla gravidanza»: sono alcune delle 'perle' insegnate nei corsi per educare i giovani all'astinenza sessuale, fortemente sostenuti dall'Amministrazione Bush.
LA DENUNCIA - La denuncia è contenuta in uno studio commissionato da un membro del Congresso Usa, secondo quanto ha scritto giovedì il Washington Post online. Il rapporto, diffuso mercoledì, afferma che queste e altre affermazioni sono esempi della «informazione falsa, fuorviante o distorta» contenuta nei materiali didattici di molti di questi programmi. Lo studio, presentato dal parlamentare democratico Rep. Henry Waxman, della California, ha passato in rassegna i 13 programmi di insegnamento più usati nei progetti che mirano a prevenire gravidanze e malattie sessuali fra adolescenti. L'amministrazione del presidente George W. Bush, con l'appoggio del Congresso a maggioranza repubblicana, ha stanziato 170 milioni di dollari l'anno scorso per finanziare gruppi che predicano l'astinenza come unico modo di prevenire gravidanze precoci e malattie sessuali. Milioni di giovani, fra i nove e i 18 anni, hanno partecipato a qualcuno degli oltre 100 corsi federali sull'astinenza istituiti a partire dal 1999. Fra le altre informazioni sotto accusa, c'è che un feto di 45 giorni è «una persona pensante»; o che l'Hiv, il virus dell'Aids, può essere trasmesso dal sudore o dalle lacrime.

Bertinotti intervistato da Le Monde
e criticato
(lividamente) dal professor Giorello

Liberazione 2.12.2004
Bertinotti al quotidiano "Le Monde"
"NON SOLO CONTRO BERLUSCONI MA PER CAMBIARE POLITICA"
di Jean-Jacques Bozonnet

Lei ha contribuito alla caduta del governo Prodi nel 1998. Oggi, in vista del ritorno di Prodi siete di nuovo alleati. Che cosa è cambiato?
La situazione politica del paese si è radicalmente modificata. È per questo che non parlo di ritorno, ma di arrivo di Prodi in un nuovo contesto. In Italia si è sviluppata una grande corrente di critica alla globalizzazione e abbiamo visto crescere il movimento pacifista più importante d'Europa. C'è anche stata la rinascita delle grandi rivendicazioni sociali, testimoniata dallo sciopero generale del 30 novembre. Se il centrosinistra del primo governo Prodi era relativamente omogeneo, oggi si è dissolto in una grande alleanza che esprime un'ampia diversità. A sinistra l'alternativa non si limita più a Rifondazione comunista. C'è anche il Correntone, i Verdi e altre organizzazioni.
L'unico programma dell'opposizione sembra essere l'antiberlusconismo. Arriverete a un programma comune di governo?
Non sono d'accordo. Le proposte dei sindacati e dei movimenti sociali possono servire da base del programma. Così possiamo raggiungere una posizione comune sulla pace e sul ritiro delle truppe italiane dall'Iraq. L'opposizione ha presentato degli emendamenti alla finanziaria che, pur non costituendo un programma di politica economica, danno degli orientamenti chiari, ad esempio in materia fiscale. Anche sull'ambiente, la giustizia e le riforme la nostra è un'opposizione qualitativa. Non ci battiamo solo per cacciare Berlusconi ma per cambiare politica.
Come conciliare le aspirazioni moderate e riformiste del centrosinistra con le vostre posizioni più radicali?
Per vincere un'elezione non è sufficiente avere un programma articolato: bisogna proporre alle persone di aderire a un'idea, a un'ideologia. Se Bush ha vinto è perché esprime una realtà popolare profonda. Uno stato come l'Ohio, con il 30% di disoccupati non avrebbe votato per lui senza una grande operazione ideologica. In Italia per battere le politiche liberal-populiste di Berlusconi bisogna contrapporgli una grande idea che rappresenti un progetto alternativo di società.


Magazine (Corriere della Sera) 2.12.2004
BERTINOTTI, CHE FAI: SCAMBI MARX PER POPPER?
di Giulio Giorello

Genova nei giorni «terribili» del G8: alla repressione «il movimento - dalla suora in preghiera alle tute bianche che forzavano la zona rossa - ha risposto con un comportamento di massa non violento». Così Fausto Bertinotti nel suo intervento in Non violenza (Le ragioni del pacifismo. Fazi Editore). Questo multicolore affresco dimentica le divise nere dei Black Bloc (quando qualcuno è «più a sinistra di te» bollalo come provocatore!). Questi tuttavia sono dettagli: Fausto è tutto preso nel compito di «cambiare il mondo rinunciando per sempre a ogni violenza». Non rinuncia però al «comunismo», riletto come l'aspirazione «a una società aperta». Che voglia operare una sostituzione del mitico Karl: non più Marx, ma Popper? I compagni non tremino: il comunismo resta il Movimento Reale che «dovrebbe abbattere lo stato di cose esistente». Ovviamente, in modi non violenti - con buona pace (è proprio il caso di dirlo) di Lenin e di Trotzkij. La giaculatoria bertinottiana mira comunque alla «rifondazione» del movimento, non a una specifica linea di condotta: non entra mai nei particolari di come attuare il suo «progetto», ma è generosa nel criticare il passato e stigmatizzare il «terrorismo»
Non è chiaro, però, in che misura «terrorismo» e «violenza» coincidano: il Nostro usa il secondo termine in una accezione piuttosto ampia. Nella «modernizzazione violenta, squilibrante e distruttiva» imposta dal capitalismo attuale rientra infatti un «assoluto dominio della scienza e della tecnica» e a tal dominio «tutti sono sottoposti in una catena e in una consequenzialità che si spinge fino alla manipolazione del gene». Al pacifismo impotente Fausto sposa così la demonizzazione dell'impresa scientifica in particolare delle biotecnologie - senza pensare che il lasciar fare alla Natura è solo una fuga dalla responsabilità di interventi che potrebbero efficacemente combattere fame e sofferenza. Altro che Goodbye Lenin!: l'eroe della Rivoluzione d'Ottobre, almeno, confidava nelle possibilità offerte dalla scienza. La pace di Bertinotti, invece, mi pare quella del camposanto.

Renato Caccioppoli

Liberazione 2.12.2004
Un libro sul matematico napoletano
IL FASCINO DI CACCIOPPOLI
di Tonino Bucci

Nipote dell'anarchico Bakunin, bambino prodigio, geniale matematico, raffinato artista, uomo di cultura, musicista, eccentrico, protagonista di aneddoti più o meno corroborati da prove storiche, compagno di strada del Pci napoletano. Ci sono tutti gli ingredienti per ricomporre il ritratto di una personalità carismatica e affascinante nel caso di Renato Caccioppoli, reso celebre al grande pubblico da un film di Mario Martone del 1992, "Morte di un matematico napoletano", e ora, nell'anno del centenario della nascita, riproposto nelle librerie da un volume di Roberto Gramiccia (Editori Riuniti, pref. di Abdon Alinovi, pp. 200, euro 12,00).
Probabilmente è proprio la ricchezza del profilo dell'uomo ad affrancare chiunque si cimenti nella sua biografia dall'obbligo di limitarsi al Caccioppoli matematico. Non che manchi il materiale per una ricostruzione scientifica del suo pensiero: a chi fosse provvisto della necessaria volontà si offrirebbe il vasto, non occorrerebbe far altro che affrontare il corpo delle originali ricerche sulla teoria delle funzioni di variabili reali e sull'analisi funzionale (prese in esame in due appendici finali di Ennio De Giorgi e Carlo Sbordone). Sarebbe perciò un errore di distorsione ottica far prevalere gli aspetti eccentrici del personaggio di Caccioppoli a discapito della produzione matematica, oscurandone il profilo di scienziato.
Il libro di Gramiccia - un non specialista delle matematiche, equamente diviso tra la professione di medito e l'interesse della critica d'arte, esercitata sulle pagine di "Liberazione" - non cade nelle due opposte tentazioni: l'una, quella di enfatizzare il racconto aneddotico di un viveur strambo come Caccioppoli (che fu, tra l'altro, anche un personaggio tragico, come dimostra la morte per suicidio); l'altra, quella di rinunciare alla biografia esistenziale a vantaggio dell'aspetto scientifico-matematico. Né l'uno né l'altro, il risultato è una scrittura che si mantiene a metà strada, semmai sempre orientata a interrogarsi su come fosse possibile questo binomio di dionisiaco e apollineo, di indole artistica e spirito scientifico, di intuizione e sistematicità all'interno di un'unica personalità. "Sono rimasto folgorato - spiega lo stesso autore - dalla genialità e multiformità del suo carattere. Era un periodo della mia vita in cui sempre più frequentemente mi capitava di riflettere, a partire dall'esperienza della mia professione di medico, sulle insidie della cultura tecnocratica divisa in blocchi di pensiero specialistici e non comunicanti. E' facile intuire quanto potesse felicemente sorprendermi in quel momento la figura del matematico napoletano".
Chi si aspetta un'opera scientifica, un saggio tradizionale, resterà deluso. E' un Caccioppoli visto soprattutto come una mente esuberante, anarcoide, sempre oltre i confini degli specialismi quello che emerge dalla lettura del libro - un Caccioppoli quasi adulato, al di là persino del personaggio storico, come una sorta di modello, di figura idealtipica al cui potere fascinatorio e seducente l'autore non si sottrae.
Qualunque sia l'aspetto biografico indagato - l'insegnamento universitario, l'arte, la politica, le donne, gli amici - il lettore avvertirà nelle parole l'irrompere di un sentimento di identificazione con questa personalità niente affatto scontata, elevata a maestro del disordine.
"Il disordine è contro la stagnazione. E' democratico, antidogmatico, antidispotico. E' un vaccino contro le milizie e le tirannidi. E' affine al riso e all'ironia. E, finalmente, alla disobbedienza. E' dionisiaco, libero e giustamente pericoloso". Ma la fascinazione non si ferma agli aspetti caratteriali, si estende anche alle suggestioni intellettuali. Quasi per associazione libera dell'autore al nome di Caccioppoli si legano filosofi, pensatori e letterati che con il matematico napoletano non hanno avuto alcun contatto reale. Su questo piano di affinità simboliche scorrono, nella terza parte del volume, i nomi di Paul K. Feyerabend, Cesare Pavese, Giordano Bruno, Evariste Galois e Arthur Rimbaud.
Di aneddoti la vita di Caccioppoli - dalla nascita a Napoli nel 1904 sino al suicidio, il 9 maggio 1959, con un colpo esploso da una Beretta - è piena. C'è il gesto individuale di ribellione nella città visitata da Hitler nel '38, quando intona la "Marsigliese" in un ristorante, che gli costerà il ricovero in manicomio. C'è la maniera del tutto originale di vivere la politica, come quella volta in cui, al posto di un comizio sulla pace, si mise a suonare il pianoforte indispettendo i dirigenti del Pci. Ma c'è anche l'epilogo tragico del suicidio del quale "non è permesso a nessuno liquidarne la solennità e il mistero con spiegazioni accattone e miserabili".

un libro su Gramsci

Il manifesto.it 1 dicembre 2004
Antonio Gramsci in salsa Le Carré
«Antonio Gramsci. Storia e mito» di Luigi Nieddu per Marsilio. Una rilettura di alcuni tratti della biografia dell'intelletuale sardo non di rado forzata da pregiudizi ideologici. All'ombra, vecchia e sempre utile, dell'«oro di Mosca» sui comunisti italiani dell'«Ordine Nuovo»
GUIDO LIGUORI

Molti aspetti della biografia gramsciana non sono oggettivamente facili da chiarire. Alcuni di essi sono stati e sono al centro di controversie storiografiche più o meno fondate. Negli ultimi anni ha preso corpo una corrente interpretativa che si è lanciata in letture che si vogliono innovative, ma che spesso non sono fondate su documenti nuovi e fatti accertati, quanto su congetture e ipotesi sostanzialmente arbitrarie. Riletture a volte ingenue, a volte malevoli, contraddistinte quasi sempre da intenzionalità aprioristicamente polemiche. Ovviamente è bene che il dibattito storiografico sia articolato, variegato, assolutamente libero dalle ipoteche di partito che in tempi ormai lontani condizionarono la ricerca. A volte però si passa il segno, e lavori che pure si presentano come dettati solo da spirito di studio, finiscono per approdare a risultati che ricordano da vicino le più discutibili operazioni di propaganda «storiografica» anticomunista, ancora nei ruggenti anni ottanta. È il caso di un volume di Luigi Nieddu da poco in libreria, Antonio Gramsci. Storia e mito (Marsilio, pp. 250, € 21): scritto in apparenza con taglio aideologico e non privo di qualche «scoperta» di archivio, sia pure non rilevante, il libro è in realtà una rilettura di alcuni tratti della vicenda biografica di Gramsci talmente forzata da denunciare un palese pregiudizio politico.
I tratti della biografia gramsciana più discussi - come è noto - sono quelli del rapporto col padre, degli esordi nella stampa e nel partito socialisti, degli anni della lotta contro Bordiga, i contrasti del 1926, la lettera di Grieco del `28, l'opposizione alla «svolta» e le reazioni da parte del partito e dell'Internazionale, il ruolo dei familiari russi, i sospetti del recluso, le circostanze della morte. C'è chi su questi punti ha già ricamato, forzando indizi e circostanze, pur in assenza di un qualunque riscontro oggettivo. Nieddu non solo riprende e ripete e rafforza tutte le ipotesi più malevoli, ma ne introduce di nuove. Ad esempio, avevate mai saputo che l'Ordine Nuovo del 1919-'20 era diretta emanazione del Comintern, che non solo il giornale era pagato dall'Internazionale, ma che i maggiori articoli gramsciani ivi comparsi sono stati in realtà scritti o dettati da emissari di Mosca in Italia? Il maggiore quotidiano italiano - forse per un residuo di pudicizia - evita di riprendere quest'ultima esilerante notizia, buttandosi però senza perplessità sull'ennesima riedizione della vecchia e sempre utile storia dell'«oro di Mosca».
A questo proposito, forse non è inutile ricordare che proprio sulla questione della situazione finanziaria dell'Ordine Nuovo si erano soffermati - in una conversazione con Gianni Bosio di fine anni sessanta - Pia Carena e Alfonso Leonetti, rievocando certo la penuria di risorse, il lavoro volontario o pochissimo retribuito, le sinergie (diremmo oggi) con la stampa socialista, che permettevano di non pagare la sede del settimanale e tante altre spese. Ma non facendo cenno a sostanziosi «interventi esterni». Che - se di omissione volontaria si trattasse - sarebbe fatto strano, sia perché i due erano spiriti liberi e non certo comunisti ortodossi e fedelissimi del Pci, come è chiaro a chiunque conosca un minimo le loro biografie, sia e soprattutto perché - nel contesto del movimento comunista internazionale post-rivoluzione russa - non poteva essere motivo di vergogna ricevere quell'aiuto «internazionalista» ipotizzato da Nieddu. Il problema oggi è però un altro, sul piano storiografico-politico: o si ritrovano e si esibiscono documenti nuovi che comprovano certe affermazioni, oppure ha poco senso avventurarsi in ipotesi e congetture che lasciano, o dovrebbero lasciare, il tempo che trovano. E che subito innescano invece - ma non sorprende - la malizia di certa stampa.
Ma torniamo al libro. Gramsci è dunque «uomo di Mosca» fin dal 1919, ma nella lotta contro Bordiga saranno poi le figure di Togliatti e Scoccimarro quelle che sembrano a Nieddu le più rilevanti. Il comunista sardo è manovrato ora dagli uni ora dagli altri, ora da Tasca, ora da Bordiga, ora dagli agenti di Lenin, ora da «Scocci» e Togliatti, ininterrottamente dal 1914 al '26: un vero e proprio «pupazzo», un uomo di paglia. Resta solo da scoprire - questo il vero scoop che chiediamo a Nieddu - chi sia il vero autore dei Quaderni: certo non può essere un imbelle come Gramsci... Non si capisce infatti, seguendo il libro, come in carcere il comunista sardo sia divenuto capace di lottare contro tutto e contro tutti: probabilmente - essendo con le lettere del '26 divenuto (per Nieddu) nei fatti antisovietico e forse anticomunista - questo solo evento è capace, come la cresima per i primi cristiani, di rifornirlo di tutte le virtù dello spirito che prima gli erano negate. Dopo essere stato per anni alquanto meschino e debole e ingenuo, gli viene ora riconosciuta come per incanto una inedita dirittura morale, oltre che indubbie doti intellettuali.
Tutti gli altri protagonisti, in compenso, sono cattivi fino in fondo. Le sorelle Schucht, va da sé, sono tutte agenti dei «servizi» sovietici. Il nostro autore, a cui evidentemente piacciono i romanzi spionistici alla Le Carrè o i film di 007, le chiama addirittura ripetutamente «allodole»: comuniste disposte a tutto, anche ad andare «a letto con il nemico» (e a sposarselo e a farci un paio di figli...), per obbedire a Lenin prima e a Stalin poi. Gramsci è costantemente spiato da tutti, più che «l'uomo di Mosca» ne sembra il nemico o il prigioniero. A Vienna è isolato, gli aprono la corrispondenza, vive circondato da bordighisti o da protostalinisti. Sono Togliatti & co. che ovviamente, con subdola manovra, lo fanno condannare, altrimenti il Tribunale fascista non avrebbe avuto prove... Tania resta in Italia per sorvegliarlo e ogni sua mossa dipende dagli ordini rigidi che le vengono dati dall'ambasciatore sovietico o da Piero Sraffa, che l'autore chiama ripetutamente, sempre usando un gergo alla Le Carrè, «il controllore». Addirittura la morte di Gramsci sarebbe stata procurata dai suoi compagni e amici, e in primis da Sraffa e da Tania, che ostacolandone il ritorno in Sardegna lo avrebbero fatto irritare e avrebbero procurato un fatale «sbalzo di pressione», probabile «concausa della rottura di un vaso sclerotizzato e intasato per giunta da un trombolo o da un embolo».
Ciliegia sulla torta, Nieddu avanza ripetutamente, e neanche tanto surrettiziamente, la tesi che quel buon uomo di Mussolini, ogni volta che poteva far qualcosa per aiutare il vecchio amico «di corrente», interventista come lui nel `14, la faceva in meno di ventiquattro ore, purché non si violassero leggi e regolamenti carcerari: il fascismo, è noto, è stata la massima espressione del legalitarismo, mentre da Nieddu gli Arditi del popolo vengono definiti «squadristi rossi».
Per sostenere tutte queste sciocchezze, l'autore deve volutamente ignorare i lavori di Spriano e Giuseppe Fiori, di Pistillo, di Vacca, di Giacomini, ecc. Deve ignorare soprattutto episodi e situazioni, fatti avvalorati da decine di testimonianze: dal ruolo di primo piano svolto da Gramsci a Torino nel «biennio rosso» a quello nel '23-'24 per la ricostruzione del «centro» antibordighista, dai tentativi per liberarlo dal carcere fascista che lo uccideva, dall'irrilevanza della nota lettera di Grieco del '28 ai fini processuali, alle problematiche condizioni di salute di Tania, che causarono alcuni periodi di lontananza dal recluso, all'indefessa opera di Sraffa, verso cui del resto Gramsci riponeva una fiducia senza limiti. Si tace delle persecuzioni carcerarie, dell'assistenza medica inesistente, dell'insonnia notturna indotta, prima che dai dubbi sugli amici, dalle ispezioni delle guardie in cella nel mezzo della notte. Insomma, per Nieddu carcerieri e assassini di Gramsci furono in primo luogo i suoi falsi amici, gli odiosi comunisti, russi o italiani che dir si voglia.
Un libro di fantasia, un romanzo di spionaggio da guerra fredda, anche se sicuramente meno avvincente dei capolavori di Le Carré? Più che altro - avrebbe detto Gramsci - un esempio di «lorianismo», di scempiaggine intellettuale, pur tanto utile alla creazione di un «senso comune» che deve essere portato a vedere in tutto ciò che sa di comunismo qualcosa di abietto, riprovevole e corrotto.

week end
Alberto Giacometti a Ravenna

Corriere della Romagna giovedì 2 dicembre 2004
Giacometti, la scultura come negazione della vita
di Enzo Dall’Ara

Il Museo d’Arte della città di Ravenna organizza in collaborazione con la Fondation Maeght di Saint-Paul de Vence e la Fondazione Mazzotta di Milano una grande mostra dedicata ad Alberto Giacometti. Il progetto espositivo, ampio e articolato, darà conto di Giacometti, assoluto protagonista della scultura contemporanea, ma anche straordinario pittore così comefine disegnatore e incisore di rara sensibilità. Si tratta della più vasta mostra mai realizzata prima in Italia dedicata all’artista svizzero, grazie ai numerosi prestiti eccellenti, a partire dal nucleo centrale delle opere della Fondation Maeght, dalla Kunsthaus di Zurigo e a numerosi lavori provenienti da collezioni private. Le oltre cento opere scelte dai curatori permettono di ricostruire il percorso di Giacometti attraverso sculture, dipinti, disegni fornendo un completo quadro dellacomplessa personalità espressiva di un artista che come pochi altri ha suscitato l’interesse di filosofi e scrittori quali Jean-Paul Sarte, Simone de Beavouir, Samuel Beckett.

la mostra delle opere di Alberto Giacometti resterà aperta fino al 20 febbraio 2005
per infomazioni e per la prevendita dei biglietti ci si può collegare al seguente indirizzo:
http://www.museocitta.ra.it/mostre/giacometti.htm


Scorre un filo rosso fra Rodin, Bourdelle e Giacometti: essi formano una trilogia di transizione formativa che, nelle diverse personalità, si svolge su un simbolismo scultoreo dipanato nel segno della memoria. Se Rodin supera il tradizionale concetto di monumento per concentrare l’attenzione sul particolare della statua singola, Bourdelle riprende l’aspirazione monumentale, seguendo una stilizzazione formale evocante gli archetipi arcaici della scultura greca e romana. Giacometti torna a definire una netta avversione per il monumentale, volgendosi alla statuaria primitiva, in una semplificazione estrema, elementare e simbolica della forma. La tensione a ridurre l’opera d’arte alla scarna essenzialità di una lastra, modulata soltanto da accennata concavità e convessità, esprime l’anelato superamento della materia, per rivelare la pura componente intangibile dell’essenza. Per l’artista risulta fondamentale la percezione di uno spazio non astratto, non assoluto, ma determinato dalla presenza umana e quindi dischiuso ad ogni eventualità. Nella sua arte sembra affermarsi la convinzione di Medardo Rosso, secondo cui la statua è avvertita come “espressione della negazione della vita”. La splendida mostra, attualmente dedicata al grande artista svizzero dal Museo d’Arte della Città di Ravenna e puntualmente allestita alla Loggetta Lombardesca, percorre l’intero iter creativo di Giacometti scultore, pittore, disegnatore e incisore. Gli esordi più significativi avvengono secondo esperienze cubiste e astratte, permeate di suggestioni dell’arte africana, in particolare dell'etnia Dogon, o di fascinazioni della civiltà preellenica e, più precisamente, cicladica. Quando, nel 1930, lo scultore si volge all'avanguardia surrealista, le opere si caricano, invece, di visionarie evocazioni dell'inconscio e di sottese ma veementi indicazioni erotiche. La rottura col gruppo dei surrealisti, nel 1934, causa un lungo e critico periodo di isolamento, in cui l'artista realizza alcuni considerevoli dipinti e trova nel disegno, sempre considerato parametro fondamentale nell’opera d’arte, la potenzialità di assegnare forma concreta all’immagine. Alle opere pittoriche e disegnative, incentrate sui ritratti delle persone più care, sul luogo delle origini e sull'interno del suo studio, Giacometti affida valori di intimo colloquio, di confessione affettiva di sentimenti mai sopiti.Anche le opere litografiche di “Paris sans fin”, realizzate dal 1959 in poi, costituiscono una raccolta imperniata sulla narrazione evocativa di zone e ambienti parigini del ricordo, delineati, come di consueto, in un intreccio convulso di linee immediate che s’addensano o si dilatano nell’illusione di vincere con la presenza dell’immagine il senso della finitezza e della mancanza. In ambito scultoreo, già dal 1940 le opere iniziano a essere costrette in dimensioni sempre più ridotte, perfino di pochi centimetri, coagulate in autentiche miniature dell’introspezione e della sparizione iconica. L’artista, con tensione esistenzialista, s’interroga sul significato della vita, sulla condizione umana, che avverte come gabbia del vuoto e del nulla, in una verità scultorea ardua, tesa a coniugare realtà e rappresentazione. A metà del XX secolo, egli giunge, pertanto, a definire, in verticalità filiformi ancorate alla terra, figure ossificate, incorporee, solitarie o in gruppo, quasi scheletri ruvidi di entità morte, ormai immobilizzate in litica sofferenza interiore. Bloccata in uno ieratico e solenne dolore o rappresa in uno spasmodico movimento allucinato, l’entità umana si dibatte nel silenzio di una dimensione escatologica che accomuna tutta l’umanità. Torna il ricordo di un archetipo artistico etrusco, “L’ombra della sera”, insieme a quello di alcune sottili figure femminili di Picasso dei primi anni Trenta. Ma nelle opere di Giacometti la materia subisce continui processi costruttivi e distruttivi, di tortura e di rinascita, per esprimere le ansie, gli affanni e gli incubi dell’esistenza contemporanea. Il rovello del creare s’indirizza, ossessivamente, sull’ineludibile volontà di “scolpire la testa”, perché all’illustre scultore urge l’esclusiva modellazione dell’essenza, dell’entità individuale, speculare di quella collettiva. Ma al riguardo, l’artista afferma di essere “uno scultore mancato”, poiché incapace di raggiungere l’anelata oggettivazione iconica della sua realtà percepita. Non volendo confutare tale convinzione, va comunque rimarcato che egli è stato un artista insostituibile, unico nel riuscire a testimoniare l’opprimente, destabilizzante e macerante verità esistenziale dell'uomo d’oggi. Giacometti, quindi, come Bacon.

i maschi tedeschi...

TG.com
Preservativi, occhio alla taglia
Germania: molti uomini sbagliano misura

Secondo un'inchiesta condotta recentemente in Germania, a cui non si può certo imputare scrupolosità e precisione, i maschi tedeschi tra i tanti problemi che li affliggono, dovranno d'ora in poi annoverare anche la spiccata inettitudine nella scelta dei preservativi. Sembra, infatti, che per manifesta "mania di grandezza", i giovani leoni tedeschi pecchino di superbia e acquistino immancabilmente profilattici troppo grandi di misura.
L'indagine è avvenuta in occasione della Giornata dell'Aids. E' stato chiesto a 2.500 uomini, in un asettico linguaggio burocratico-sanitario al limite della pedanteria, di verificare a tutti gli effetti la misura del proprio pene in posizione eretta, in base alla constatazione che "si conosce perfettamente la taglia delle proprie scarpe, ma molto meno la misura del proprio membro", ha spiegato Jan Vinzenz Krause della Vinico, la società demoscopica incaricata del sondaggio.
Del resto le aziende produttrici di condom avevano lamentato da tempo la carenza di una letteratura in proposito a cui ricorrere per la produzione in massa del prodotto che, dati alla mano, è secondo solo al fazzoletto come prodotto igienico di largo consumo.
Ebbene, se la matematica non è un'opinione e la lunghezza media del pene-tipo tedesco è di 14,7 cm, solo il 18% del campione sceglierebbe la taglia giusta a fronte di un "imbarazzato" 34% che opterebbe - sapendo di sbagliare - per il tipo magnum extra-large. Conclusione della ricerca: la maggior parte delle aziende di profilattici vendute in Germania devono quindi correre ai ripari, facendo corrispondere meglio la produzione alle esigenze reali dei consumatori

neuroscienze americane
scoperto il perché delle allucinazioni...?

La Repubblica Salute 2.12.04
Allucinazioni e ritmi nervosi

LE CELLULE nel cervello deputate al controllo dello scambio di informazioni con l'ambiente circostante, quindi alla formazione delle cosiddette "impressioni mentali" sono meno attive nei malati di schizofrenia. Questo almeno è quello che ha potuto osservare uno studio americano coordinato da Robert Mccarley dell'Harvard Medical School e pubblicato sull'ultimo numero di "Proceedings of the National Academy of Sciences", la rivista ufficiale dell'Accademia nazionale delle scienze Usa.
Secondo i ricercatori sarebbe questa diminuita attività neurofisiologica quello che spiega il formarsi delle allucinazioni e il pensiero sconnesso che affligge i soggetti sofferenti di schizofrenia.
L'esperimento è stato condotto su un campione di 20 pazienti (confrontato con 20 individui sani) sottoposti a un questionario basato sull'osservazione di alcune immagini mentre sul loro cervello veniva effettuato un elettroencefalogramma che registrava continuamente l'attività cerebrale. E' stata cosi rilevata una corrispondenza abbastanza significativa tra la frequenza con cui oscilla in modo sincrono l'attività dei neuroni del cervello e il tempo di reazione del soggetto.
Gli schizofrenici hanno una frequenza di oscillazione neuronica e tempi di reazioni più bassi rispetto agli individui sani.
Il team di ricercatori ha anche scoperto che i neuroni caratterizzati da una frequenza di oscillazione più bassa davano i sintomi clinici peggiori nel soggetto, incluso le allucinazioni appunto.
Ciò suggerisce che una scarsa sincronia neurale tra le diverse parti del cervello porta a percezioni disordinate tipiche degli schizofrenici. Le "oscillazioni" neurali sono localizzate nell'area visiva, zona occipitale del cervello ecco perché, spiegano i ricercatori, gli schizofrenici hanno le allucinazioni visive. Lo studio quindi collega le disfunzioni dei circuiti neurali alla schizofrenia e dimostrerebbe la possibilità di diagnosticarla attraverso un'esame encefalografico sulla frequenza di oscillazione dei neuroni nella zona dell'occipite. (s. j. s.)

teorie sulla depressione...

Repubblica edizioe di Torino 2.12.04
Lo psichiatra Crosignani: in questi casi si decide di scegliere la morte anche per chi si ama di più
"Il gesto di una depressione senza confini"
L´intervista
L'analisi. Questa è una malattia, grave però curabile. Nasconderla è pericoloso
di MARCO TRABUCCO

Annibale Crosignani è uno dei più noti psichiatri torinesi. Per anni primario alle Molinette, ha una lunga esperienza di casi di depressione.
Professore cosa spinge una madre a uccidere la propria figlia e poi a tentare il suicidio come è accaduto ieri a Volpiano?
«Sulla base dei dati finora noti, la tragedia di Volpiano sembra un caso classico di una donna che agisce in questo modo perché soffre di una grave forma di depressione. Che è, non bisogna stancarsi di ripeterlo, una malattia terribile che dà dolore e sofferenze indicibili, quel "dolore morale" che è molto più forte di qualsiasi sofferenza fisica».
Che tipo di dolore?
«La persona depressa vede davanti a sé solo buio. Non vede spiragli di luce ed è convinta che questa non sia una malattia, ma un modo di essere, una condizione esistenziale. In più vive questa situazione con forti sensi di colpa. Da qui l'idea del suicidio come unica possibile via di uscita. E nel suo delirio di annientamento il depresso coinvolge nel suo dolore anche le persone più care e ritiene quindi sia giusto togliere la vita anche a loro per sottrarle a questa situazione terribile. Per questo in genere prima uccide e poi si suicida. I casi di madri con bambini piccoli sono i più frequenti perché il legame simbiotico che si crea è fortissimo».
La depressione è una malattia gravissima. Ma si può intuirne l´insorgere, ha sintomi evidenti?
«La depressione endogena è una malattia gravissima che non dipende da fattori esterni, ma dal malfunzionamento di meccanismi cellulari. È una malattia genetica, tra le malattie psichiatriche è quella in cui più ci sono casi di ereditarietà. E dà sintomi, non sempre facili da captare, anche perché il soggetto se ne vergogna e tende a nasconderli. Ma che, per chi vive con il depresso sono visibili».
Quali?
«Sintomi precoci sono l'insorgere dell'insonnia, magari lieve: ma il soggetto non riesce più a dormire come prima. Poi insorge una disattenzione, disaffezione verso le attività che la persona fino a poco tempo prima svolgeva con entusiasmo, con amore. Viene a mancare lo slancio vitale, il soggetto non vede più le cose come prima, rallenta il suo ritmo di attività. È un processo lento che può andare avanti quindici giorni, un mese e che l'interessato cerca di nascondere. Ma se si osserva lentamente si capisce».
La depressione grave è curabile?
«Assolutamente sì. La si cura con psicofarmaci e con una opportuna terapia psicologica di sostegno. E si guarisce. È vero che ha un andamento ciclico, ma se il malato supera la crisi, ricomincia a vedere la vita con positività e riesce e riprendere la vita normale. Purtroppo in molti casi non viene riconosciuta, dai familiari, ma anche dai medici: perché la parola depressione è troppo comune, è vissuta come un fatto normale. Tutti siamo un po´ depressi. Ma qui si parla di un'altra cosa, lo ripeto, di una malattia. Vera, grave e curabile».

psichiatria...

Università.it 2.12.04
1904-2004 Cento anni di legislazione psichiatrica in Italia
Il prossimo 3 dicembre è in programma a Gallarate una Giornata di Studio sul tema “1904-2004. Cento anni di Legislazione Psichiatrica in Italia”
Codice: 19644 Rubrica: Università
Università dell'Insubria

Il prossimo 3 dicembre è in programma a Gallarate una Giornata di Studio sul tema “1904-2004. Cento anni di Legislazione Psichiatrica in Italia”, organizzata dal Dipartimento di Medicina e Sanità Pubblica dell’Università degli Studi dell’Insubria e dall’Azienda Ospedaliera S. Antonio Abate di Gallarate, con l’intervento di esperti in campo storico, psichiatrico e medico-legale.
Il complesso cammino della psichiatria nell’ambito clinico, legislativo ed organizzativo, a cento anni dalla legge 36 del 14 febbraio 1904 “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati” (che disciplinava, con norme generali ed omogenee i principi organizzativi relativi all’assistenza psichiatrica sul territorio nazionale), ha fatto evolvere significativamente la condizione dei sofferenti. Dalla custodia e cura dei soggetti nei manicomi, fondata sul concetto di pericolosità e di incompatibilità sociale, si è acquisito un progressivo riconoscimento dei diritti relazionali e sociali all’interno della cura della malattia mentale.
La nuova prospettiva ha inserito la Psichiatria nel Servizio Sanitario nazionale e negli Ospedali Generali e l’assistenza viene svolta nell’ambito territoriale di appartenenza mediante rapporti collaborativi con tutti i soggetti istituzionali e sociali prossimi.
Nel corso della giornata di studio gli esperti esamineranno le tematiche più rilevanti del percorso dalla legge 36/1904 alla legge 431/1968 (Legge Mariotti sulle provvidenze per l’assistenza psichiatrica), alla legge 238/1976 (sull’autonomia della psichiatria universitaria), alle leggi di riforma 180 e 833 del 1978, sino ai recenti progetti nazionali e regionali.

L’incontro si svolgerà a Villa Sironi – P.zza Giovine Italia 2 - Gallarate, a partire dalle ore 14.30.
La partecipazione è libera e gratuita.

una lettera a Repubblica

Repubblica Lettere 2.12.04
Gad, disturbo d'ansia
generalizzato
Riccardo Bentsik, Psichiatra, Roma

Caro direttore, le invio una piccola curiosità sul dibattito intorno al nome dell'alleanza del centrosinistra. Al di là di ogni altra considerazione sull'opportunità di una sigla pomposa ed autoreferenziale come G. A. D., aggiungo che in psichiatria tale sigla sta per generalized anxiety disorder, cioè "disturbo d'ansia generalizzato".

quelli del professor Cassano
con la complicità del Ministero

http://www.fondazioneidea.it/giornata%20salute.htm
Giornata nazionale della Salute Mentale

La nostra Fondazione è stata incaricata dal Ministero della Salute di curare l’organizzazione della Prima Giornata Nazionale della Salute Mentale, che avrà luogo il 5 dicembre p.v.
Questa giornata darà il via ad un importante campagna nazionale di comunicazione che proseguirà per tutto il 2005 e che si articolerà in diverse iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica (quali la messa in onda di uno spot, la realizzazione di locandine e manifesti, la creazione di un sito, la produzione di materiale informativo rivolto alla popolazione e agli operatori sanitari, l’organizzazione di conferenze stampa e di eventi di piazza) alla cui realizzazione hanno contribuito alcune tra le Associazioni di settore più rappresentative sul territorio nazionale (ARAP, DIAPSIGRA, FONDAZIONE IDEA, UNASAM) e due tra le maggiori Società Scientifiche di Psichiatria (S.I.P. e S.I.N.P.F.)
Il 5 dicembre, in numerose piazze d’Italia, Volontari e Operatori Sanitari saranno a disposizione della popolazione per distribuire materiale e dare informazioni
L’obbiettivo è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi relativi alla salute mentale fornendo alla popolazione un’informazione chiara e corretta sui disturbi mentali, sulle cure oggi disponibili, sull’organizzazione dei servizi, sulle Associazioni che da anni sono impegnate in questo settore
Questa Giornata rappresenta un’opportunità unica per promuovere una nuova cultura della solidarietà, e per combattere i pregiudizi e la disinformazione che ancora oggi rappresentano i principali ostacoli alla prevenzione e alla cura di queste patologie e ci sentiamo onorati ed orgogliosi del fatto che il Ministero abbia pensato a noi.

da non perdere:
Evgenij Kissin a Roma

Repubblica 2.12.04
SALA SANTA CECILIA
L'integrale dei concerti da sabato 4 a mercoledì 8
Giovane talento al piano Kissin suona Beethoven
Trentatré anni di successi: a 17 il debutto a Londra Il feeling con Abbado
di LANDA KETOFF

L'Hotel de Russie non porta questo nome per caso. In tempi lontani fu l´albergo dei nobili russi che venivano a Roma in vacanza e di artisti quali Diaghilev, Rimskij, Stravinsky. Ora questo luogo mitico ospita di nuovo molti artisti russi. E questa volta vi abbiamo incontrato il pianista Evgenij Kissin, 33 anni (ma ne dimostra dieci di meno), moscovita, ora cittadino del mondo con casa anche a New York e a Londra, e con una passione istintiva per la musica e per il pianoforte che in famiglia più d´uno suona. Ci ha raccontato che cominciò a esibirsi in patria da bambino e appena adolescente uscì fuori dalla Russia, prima nell'Europa dell'Est, poi in Giappone e a 17 già debuttava a Londra con la London Symphony diretto da Gergiev e in dicembre a Berlino con i Berliner Philharmoniker diretti da Karajan in un mitico Concerto di Capodanno diffuso in tutto il mondo. Da allora si è esibito con le maggiori orchestre internazionali e con i più grandi direttori. Il suo debutto negli Stati Uniti avvenne a 19 anni con la New York Philharmonic diretta da Zubin Mehta. E nel 2001 Abbado (col quale Kissin dice di trovarsi in perfetta sintonia) lo portò a Roma per quel formidabile ciclo con i Berliner che presentava le Sinfonie e i Concerti per pianoforte di Beethoven. A lui toccò il Terzo. E sarà ancora Beethoven, questa volta diretto dall'inglese Jan Latham-Koenig, che interpreta all'Auditorium di Roma. Un impegno pesante anche per chi, come Kissin, è ben preparato: esegue tutti i cinque Concerti, di cui i primi tre sabato 4 dalle 18 in poi, il quarto e quinto il 6 alle 21 con replica l'8 alle 19.30. Il Quarto è considerato non solo una novità per l'epoca ma anche un capolavoro nel genere del pianoforte concertante. Magnifico anche il Quinto chiamato "L´Imperatore": una sorta di splendida realizzazione delle premesse del Quarto.

Auditorium, sala Santa Cecilia, viale Pietro del Coubertin, Info: 06.8082058. Biglietti da 46 a 16 euro.

mercoledì 1 dicembre 2004

donne e uomini

Il Manifesto 1.12.04
Donne e uomini
LA FORZA DI SOTTRARSI AI RAPPORTI DI FORZA DONNE E UOMINI
di Luisa Muraro

La cosa che più stupisce, nel recente confronto tra Ferrara e Cacciari all'Università Cattolica, sui rapporti tra la cultura europea e l'islam, è il ritorno al pensiero forte della modernità - l'asse Spinoza-Hegel, per intenderci - da parte di Cacciari. Il filosofo arriva a parlare della scienza come basata su leggi universali e necessarie. Siamo alla fine del postmoderno? Èquello che ho pensato. Che previsioni possiamo fare per la cultura filosofica e politica che ha caratterizzato il passaggio dalla fine del comunismo allo stato di guerra permanente? Non lo so. Mi ha colpito che Ferrara registri, a modo suo, che nel confronto con l'islam le donne c'entrano, mentre Cacciari, che pure si dilunga sulla relazione di alterità, nulla dice dell'altro che è donna. Ne ha mai detto qualcosa? Forse no, ma almeno, quando scriveva di angeli, aveva l'idea che c'è altro: altro dal pensiero della sua formazione filosofica, ma comune alla tradizione cristiana, ebraica, islamica. Con la guerra, ecco che cosa succede, che i confronti s'irrigidiscono e alle esperienze, ai linguaggi, ai saperi che non ci stanno al nuovo regime, arriva l'ordine tacito e perentorio di sparire.
La vicenda delle due Simone parla però di un'altra possibilità. Forse le due non torneranno più in Iraq, ma si sono salvate e, come fa vedere il loro racconto, a questo esito felice ha contribuito il fatto che erano due, che erano amiche e che, con l'energia che emanava dalla loro amicizia, dalla loro bontà, dal loro sesso, sono riuscite a significare ai loro sequestratori che c'è un altro ordine da quello dei rapporti di forza.
Secondo me, la cosa più importante in questo momento storico è che le donne non spariscano per effetto di un loro adattamento totale al sistema dei rapporti di forza, che si tratti della guerra o dell'economia. Corrono questo rischio, di sparire, anche le donne che si schierano all'opposizione, nei partiti o nei movimenti.
Passo così a parlare del significato che io e altre abbiamo colto nella Lettera di Ratzinger sulla collaborazione della donna e dell'uomo. Per noi, quel testo è importante e nuovo perché ha idea di un senso libero della differenza sessuale, e lo fa parlare. Cito una sola frase: «Si deve accogliere la testimonianza resa dalla vita delle donne come rivelazione di valori senza i quali l'umanità si chiuderebbe nell'autosufficienza, neisogni di potere e nel dramma della violenza». S'intende, lo fa parlare secondo la visione del mondo propria dello scrivente, nella quale molte e molti non si riconoscono. Ma non dobbiamo appiattire una cosa sull'altra: sarebbe come inchiodare l'altro ad una rappresentazione immodificabile, qualunque cosa dica.
In un recente dibattito sulla Lettera di Ratzinger, ClaudiaMancina mi ha opposto che la differenza sessuale è un tema largamente presente già nella filosofia romantica. È vero, pensiamo per esempio a Humboldt (sul quale Donatella Di Cesare ha scritto un bell'articolo proprio su questo giornale, segnalando anche gli scritti sul tema in questione). Ma il punto riguarda il senso della differenza sessuale: i romantici pensavano la differenza nell'orizzonte totalizzante dell'Uno. Arrivare a fare uno è la direzione dominante del pensiero filosofico e politico della modernità e in questa prospettiva la differenza sessuale viene interpretata nella forma della complementarità Il senso libero del nostro essere donne/uomini nasce quando si mantiene la differenza e si rinuncia alla risposta della complementarità (e questa è la novità della Lettera, io dico). Il fatto dell'asimmetria tra i sessi resta così non aggiustato e diventa causa di lavoro simbolico (e quindi fonte di umanità): il pensiero (maschile) rinuncia a ridurrel'altro (che è donna) nel proprio orizzonte e trova il suo incipit non più nella definizione di sé (nell'identità) ma nell'ascolto e nell'interlocuzione conl'altro.
Questo - detto nei termini più intuitivi in un contesto ancora dominato dal neutro-maschile - è pensiero della differenza. E corrisponde ad una rivoluzione simbolica che in molte, uomini non esclusi, abbiamo intravisto, senza però attingerla pienamente. Un criterio che suggerisco sarebbe questo, che, nella teoria come nella pratica di vita, arriviamo al punto in cui l'affermazione dell'uguaglianza cede il passo al significarsi della differenza. Se non ci arriviamo, non ci sarà libertà delle donne, temo, oppure sì ma.., non ci saranno più le donne. Userò le semplici parole con cui sì è espressa Mary Catherine Bateson, la figlia di Gregory e di Margaret Mead: «In misura diversa, ognuna di noi (parla dì sé e di alcune amiche) ha subito discriminazioni per il fatto di essere donna; tutte siamo state qualche volta trattate come meno che uguali. Ma tutte siamo sempre alla ricerca di rapportidi differenza, un po' disorientate dalla necessaria accettazione politica dell'uguaglianza».
Quel punto in cui l'uguaglianza, ossia il diritto, cede il passo al significarsi della differenza, è rischioso, poiché da lì può passare la sopraffazione, ma ne vale la pena poiché lì si gioca la libertà femminile - altrimenti messa fuori gioco dall'applicazione della legge.
Torno a Cacciari che tenta,nel confronto con Ferrara, di strapparsi alla necessità dei rapporti di forza, che il suo interlocutore gli ha prospettato: «con la guerra o senza la guerra, dobbiamo difendere il nostro sistema di vita». Cacciari non riesce nel suo intento ed il suo intervento termina con frasi intricate. Cosa di cui io non mi sento di fargli carico, il problema essendo terribilmente intricato esso stesso. Ma una cosa gli imputo, di non essersi servito della politica delle donne.
L'umanità di sesso femminile ha una lunga storia di tentativi e di pratiche per strapparsi ai rapporti dì forza e far valereun altro ordine di rapporti. 01tre alla libertà femminile chec'è, poca o tanta, anche buona parte della civiltà di cui ancora godiamo, poca o tanto, viene da questa lotta. Con il pensiero femminista si è cercato - non senza conflitti e contrasti, come era inevitabile che fosse - di tradurla in un sapere. Abbiamo capito che il punto di svincolo dalla logica del più forte è nel saper sottrarsi alle simmetrie e alle contrapposizioni. E che, quando c'è relazione, non c'e identità irrinunciabile. La nostra formula più recente parla di saper fare un passo indietro, l'abbiamo scoperta grazie ad una vicenda recente, raccontata sull'ultimo numero della rivista Via Dogana (che l'ha messa nel titolo), nella quale si tratta proprio di rapporti con una comunità islamica di Milano. Fare un passo indietro perché ci sia posto per l'altro e perché altro possa avvenire, grazie alla relazione di scambio. Perché dobbiamo difenderci, se siamo capaci di cambiare?

la Cina e la pena di morte

Il Corriere della Sera 1.12.04
Tra docenti universitari e avvocati aperto il dibattito sulla riforma
LA CINA E LA PENA DI MORTE "FORSE E' L'ORA DI ABOLIRLA"
I giuristi di Pechino: «Ci vorrà tempo, ma la via è segnata»
di Fabio Cavalera

PECHINO - Un pezzetto dopo l'altro il vecchio castello viene giù. Per la Cina di una volta provare a discutere la pena di morte così come la separazione del potere della politica dal potere della giustizia era sacrilegio assoluto. Adesso il motore delle trasformazioni è arrivato fino a coinvolgere le fondamenta del diritto penale. Siamo all'inizio. Nessuno sa pronosticare fino a dove approderà il confronto. Ma il dato certo è che le autorità non stanno ponendo alcuna censura - anzi al dibattito sulla riforma delle leggi fondamentali dello Stato in materia per l'appunto penale.
Allo stesso modo - con dibattiti che hanno avuto la funzione di percepire gli umori della società - era cominciato pure il percorso del riconoscimento della proprietà privata. Se ne è parlato in maniera quasi clandestina, dopodiché, passo passo, il cerchio è diventato così largo da coinvolgere partito e Assemblea del popolo. Un meccanismo che sembra ripetersi. La Cina ha bisogno di rispettare i suoi ritmi, spesso lentissimi. Ma si muove. Che sia comunque il segnaledi qualcosa di più profondo e incisivo che sta scuotendo l'anima del Celeste Impero? Qu Xinjin,professore all'Università di Politica e Giurisprudenza nel distretto Haidian, a ovest della capitale, risponde che la strada è segnata.
Fra un anno, fra dieci, fra venti «non so sbilanciarmi sui tempi, però, sono sicuro che il sistema della giustizia si evolverà». La sua convinzione non è campata per aria. Nei circoli dei penalisti, nelle università, fra gli avvocati il problema è all'ordine del giorno: è davvero possibile abolire la pena di morte? «Io credo di sì».
Dal 1979 in avanti la Cina non ha mai messo mano ai quattrocento e oltre articoli (dei quali una sessantina sulla pena di morte) che disciplinano la definizione e le sanzioni dei reati. L'esecuzione, la fucilazione, e prevista tanto per i cosiddetti attentati di carattere politico quanto per la corruzione grave, la violenza sessuale, il rapimento. Ci sono state piccole modifiche ma nulla che intaccasse la spina dorsale del sistema. Ora, spiega il professor Qu, fra gli studiosi si è messo in moto un processo di valutazione e di analisi sulla prospettiva di riformare profondamente il diritto penale. «Non abbiamo ancora coinvolto i funzionari dello Stato, i quali però sanno che in alcune università ciò è avvenuto e sanno pure quali sono state le nostre conclusioni».
Quarantenne con l'aria di chi prima di rispondere a una domanda ci sta a pensare un po'. Un volto ben squadrato e un ciuffo di capelli che penzola sulla fronte. Occhialetti di metallo, un golfino blu e una giacchetta, nonostante il freddo intenso che è appena sceso, il computer in mano. A Qu Xinjin l'etichetta di intellettuale appassionato, dai modi pacati ma risoluti, gliela appiccichi subito. C'è una nuova classe di liberi pensatori che si sta imponendo nel mondo accademico e che conta sempre di più al di fuori del binari tradizionali dell'ideologia comunista. Sono i laureati degli anni Ottanta. QuXinjin è uno di questi. Diploma, poi master.
La materia è delicata. Una frase fuori posto e si rischia di incappare nella maglie dei controlli. Almeno questo è ciò che pensi. Ti ricredi nel giro di un minuto. Il professore che insegna diritto penale non sembra avere alcuna diffidenza.E tanto meno paura. E' andato persino in televisione e ha raccontato la sua. Ripete che su una cosa gli studiosi si stanno ritrovando d'accordo: la pena di morte va abolita. «E' sui tempi che fra di noi ci sono giudizi diversi. I più moderati dicono che si può cambiare, ma che l'attuazione della riforma va differita di venti o addirittura trent'anni. Altri parlano di cinque o dieci anni. I più estremisti, chiamiamoli così, spingono perché avvenga subito. Io sono per il cambiamento ma so anche che occorre capire il sentimento della nostra gente». I primi sondaggi che qua e là sono stati effettuati, sondaggi non scientifici, sondaggi empirici via web o via telefono, «ci inducono a procedere senza avere troppa fretta, sette cinesi su dieci sarebbero infatti favorevoli alla pena di morte, persino fra i giovani e fra gli studenti la percentuale resta alta». La proposta di abolirla ci sarà ma non a brevissimo termine. «Forse, questa volta, è più preparato il sistema politico che non il popolo a un cambiamento così radicale». Resta il fatto che parlarne in pubblico è ormai tollerato, persino sollecitato. «E' un buon segno».
La Cina, che per altro continua a respingere ogni suggestione democratica (lo stesso presidente Hu Jintao ha sottolineato che la democrazia occidentale non è un modello adattabile al suo Paese), si sta chiedendo comunque quale sia il sistema giudiziario e penale più adatto a sostenere la sfida del mercato e della società nel prossimo futuro. Oltre che sulla pena di morte l'università, le facoltà di scienze politiche stanno segnalando l'opportunità di ragionare sul principio della divisione dei poteri.
I magistrati dipendono dalla politica? I magistrati sono di nomina politica? Oggi in Cina avviene chel'Assemblea del popolo elegge i magistrati della Corte Suprema, mentre le Assemblee locali eleggono i magistrati ai livelli più bassi. Dunque vi è una stretta dipendenza del potere giudiziario dal potere della politica. Che il quadro sia destinato a modificarsi è molto probabile. Lo segnalano due circostanze. Il Comitato centrale del Partito comunista, attraverso una «conferenza» per gli studi giudiziari, ha avviato una raccolta di informazioni in ambito accademico e, pur senza scardinare l'impianto in vigore, ha dato il segnale che la questione è all'ordine del giorno. Nonc'è fretta. D'accordo. In ogni caso è stato un bel passo in avanti. Come pure - e questa seconda circostanza va letta assieme alla prima - lo è la proposta avanzata daglistudiosi di provare ad avviare la riforma dalla periferia. Fare in modo che a nominare i magistrati dei tribunali locali non siano più le Assemblee del popolo ma i tribunali di livello immediatamente più alto.
Il professor Qu Xinjin è convinto che la fase dell'immobilismo sia definitivamente superata. «C'è un clima di libertà maggiore che consoliderà la via delle riforme». E' certo, il giovane titolare della cattedra di diritto penale, che il domani sia molto più vicino di quanto nonsi pensi. La Cina è capace di stupire in ogni momento. Gli studenti lo aspettano. Poi, Qu Xinjin correrà a un'altra conferenza. A ripetere che la pena di morte va abolita.