giovedì 27 gennaio 2005

cellule staminali embrionali

tre articoli ricevuti da Roberta Mancini

Notiziario Cellule Stamin
ali dell'Aduc http://staminali.aduc.it
Anno III Numero 77 del 24 Dicembre 2004
Usa. Il diritto alla dignità prenatale non costituisce diritto alla vita
Cinzia Colosimo

Non è solo dai banchi del Parlamento che si fa politica. La si fa ogni giorno, dissacrando o innalzando le proprie convinzioni, lottando o tacendo, e soprattutto utilizzando i mezzi giuridici a disposizione delle democrazie per combattere determinati provvedimenti.
Negli Usa, così come in molti altri Paesi, la voce della magistratura produce sempre una particolare risonanza: per coloro che parlano in nome della legge la distinzione fra giusto e sbagliato non è solo una questione di prospettiva, ma di vera e propria res-publica. Quando un giudice parla ci si aspetta che lo faccia per ?scrostare? i colori politici da un problema e analizzarne il succo partendo dal punto di vista meno ?umano? che esista: quello legale. A volte, per fortuna, è così, e dagli Usa proprio in questi giorni è arrivata una notizia che può solo rincuorare.
Una Corte d?Appello federale si è rifiutata di riaprire una causa, archiviata dal 1999, sulla presunta incostituzionalità della ricerca con le cellule staminali embrionali.
Il caso e? stato sottoposto alla corte da un?associazione che si batte per i diritti ?alla vita?, e che intendeva riportare alla luce la questione del diritto alla vita esteso anche ai cosiddetti pre-nati. La National Association for the Advancement of Preborn Children si e? presentata in aula come rappresentate di ?Mary Doe?, il nome fittizio dato ai 400.000 embrioni congelati nelle cliniche per la sterilità. Rudolph Palmer, portavoce e fondatore dell?associazione ha esordito il suo discorso dicendo: «Mary Doe è in quest?aula e vi sta dicendo "sono viva, sono sopravvissuta. La ricerca sulle cellule staminali sta uccidendo mio fratello e mia sorella, e toccherà anche a me dopo di loro. Ho gli stessi diritti degli altri cittadini americani e questa corte ha il dovere di proteggermi"».
La Corte d?Appello del 4° distretto Usa ha risposto, per bocca dei tre giudici che la compongono: «Ci opponiamo alle considerazioni etiche sulla ricerca su embrioni, perché l?attuale legge prende in considerazione solo le linee embrionali create prima del 2001. Mary Doe quindi non rientra nel testo in vigore. C'è da dire inoltre che dal cambiamento politico messo in atto dal presidente Bush dopo l?amministrazione Clinton, il tema è ancora in discussione in Parlamento e occorre attendere esiti politici da quella sede».
La Corte ha poi ricordato che dal 1999, quando è nato il caso Palmer, la National Bioethics Advisory Committee ha redatto delle linee guida per la ricerca che prevedevano esplicitamente la ricerca su embrioni inutilizzati. E nel 2000 lo stesso National Institute of Health ha adottato quelle linee guida, pur non applicandole mai. Per Palmer il comportamento dei giudici è stato scontato quanto inadatto: si sono limitati infatti a dare una valutazione tecnico-giuridica sulla faccenda, evitando di entrare in questioni morali lasciandole alla competenza politica. Ma la corte non ha esitato a esprimere il proprio parere, infatti in più occasioni tutti e tre i membri hanno espresso la convinzione che «un grumo di cellule non può essere considerato un essere umano e godere degli stessi diritti».
Questo atteggiamento è stato lodato da molti ricercatori e scienziati. Per loro ha parlato Sean Tipton della Coalition for the Advancement of Medical Research, secondo il quale «la corte ha fatto la cosa giusta. Non esponendosi ha dato modo alla legge di esprimersi da sola, evitando così manierismi intellettuali inutili. Siamo contenti che esistano ancora persone che si fidano della ricerca e temono ostacoli moralisti», che, aggiungiamo noi, danno solo libero sfogo ad un?etica del sacrificio più che mai inattuale.

Notiziario Cellule Staminali dell'Aduc
Anno IV Numero 79 del 21 Gennaio 2005
Italia. Rita Levi Montalcini: la ricerca sugli embrioni potrà aiutare molto


«Non c'e' nessun rischio che dalla ricerca sugli embrioni possano venire un giorno dei "bebè alla carta", mentre è positiva l'apertura alla ricerca sugli embrioni condotta a scopi terapeutici, cosi' come ha fatto la Gran Bretagna». Lo ha detto il Nobel Rita Levi Montalcini, incontrando studenti e medici del Policlinico Gemelli e dell'Università Cattolica di Roma in un dibattito sulla Scienza, lo scorso 12 gennaio.
Qualsiasi paura della scienza non può che basarsi sull'ignoranza, ha detto una Montalcini decisamente in forma. «Credo che la scienza sia stata sul banco degli imputati non per sue colpe, ma per ignoranza». Così, secondo il Nobel, una condanna della ricerca sugli embrioni dettata dalla paura della clonazione a scopo riproduttivo non ha senso.
«Personalmente ritengo che la ricerca sugli embrioni potrà aiutare molto. Credo per questo che sia corretta l'apertura della Gran Bretagna alla ricerca sugli embrioni». Non c'è nessun pericolo che da questa ricerca possano derivare dei bambini su misura.

Notiziario Cellule Staminali dell'Aduc
CELLULE STAMINALI EMBRIONALI
PER CHI AVESSE QUALCHE DUBBIO SULLA LORO EFFICACIA, LA RISPOSTA ARRIVA DALLE AVANZATISSIME RICERCHE DELL'ADVANCED CELL TECHONOLOGY CHE STA RIGENERANDO LA RETINA DELL'OCCHIO
Vincenzo Donvito, presidente Aduc

Firenze, 24 settembre 2004. La cecità potrebbe essere curata con l'uso delle cellule staminali embrionali. Grazie alle avanzatissime ricerche della "Advanced Cell Technology (Act) del Massachusetts, come dice il suo direttore Robert Lanza, «è la prima volta che da cellule staminali embrionali ne derivano cellule retinali. Crediamo che queste nuove cellule possano essere utilizzate per trattare la cecita».
C?è da ricordare che le cellule staminali embrionali usate da questa azienda biotech, sono quelle che, in un mare di polemiche a livello internazionale, lo scorso aprile sono state messe gratuitamente a disposizione per la ricerca dall'Harvard University di Cambridge (Massachusetts), grazie a fondi privati.
Non si tratta di cantare vittoria, ma solo di capire razionalmente che cosa voglia dire "cellule staminali embrionali", cioè quelle cellule la cui ricerca nel nostro Paese è vietata dalla legge sulla fecondazione assistita e che, in Gran Bretagna, sono uno dei fiori all'occhiello della politica di ricerca medica del Governo Blair.
E questo è uno solo dei molti usi che la tecnologia delle cellule staminali embrionali potrà avere. Poco più di un mese fa, sempre cellule staminali embrionali hanno dato origine a cellule del cervello in grado di produrre dopamina, che è la sostanza che viene a mancare nei malati di Parkinson (studio di Lorenz Studer, pubblicato sulla rivista Pnas).
Il problema, per l'appunto, sta tutto nel mettere a disposizione leggi e soldi pubblici per poterla sviluppare, nonché stimolare i privati ad investirvi.
L'occasione in Italia, dove nel settore cellule staminali non mancano competenze e teste (per ora concentrate solo sulle staminali adulte, molto più limitate), è data dal referendum in cui in questi giorni si stanno giocando le ultime battute per abrogare la legge che impedisce la ricerca in materia.
Questa ricerca dell'Act è la speranza: razionale, concreta e con prospettive.

il governo spagnolo
un buon esempio: Zapatero non si inginocchia

ANSA.it
Spagna-Vaticano: Madrid convoca il nunzio apostolico Per esprimere "meraviglia" dopo le parole papa sul "laicismo"


(ANSA) - MADRID, 26 GEN - Il governo spagnolo ha convocato il nunzio apostolico per esprimergli "meraviglia" per le parole del papa su "un presunto laicismo". Il nunzio, mons. Monteiro, è stato ricevuto dal sottosegretario Calvo Merino. Nel corso dell'incontro "il governo spagnolo ha espresso al nunzio la sua meraviglia per il riferimento ad un presunto laicismo restrittivo capace di limitare la libertà religiosa e che possa essere attribuito ad un atteggiamento deliberato del governo".




Corriere della Sera 27.1.05
Dopo le critiche vaticane al «laicismo»
Il governo di Madrid convoca il nunzio «Sorpresi dal Papa»
Mino Vignolo


MADRID - Diventa ancor più aspra, invece di placarsi, la contesa fra la Chiesa cattolica e il governo socialista di José Luis Rodriguez Zapatero. Gli attacchi e i contrattacchi verbali si susseguono, nonostante le profferte di «rispetto». E ieri sera la disputa è salita ufficialmente al piano diplomatico quando il ministero degli Esteri spagnolo ha convocato il nunzio apostolico a Madrid per esprimergli la propria «meraviglia» a causa dei riferimenti fatti dal Papa ad un «presunto laicismo» istigato dal governo Zapatero con le sue riforme su divorzio, matrimonio gay, insegnamento della religione nelle scuole. È un «laicismo» che, secondo i vescovi iberici e la Santa Sede, potrebbe portare a restrizioni della «libertà religiosa». Giovanni Paolo II aveva anche dichiarato che la Spagna sta promuovendo «il disprezzo o l’ignoranza verso il fatto religioso, relegando la fede nella sfera privata ed opponendosi alla sua espressione pubblica».
Queste parole erano state criticate dal governo di Madrid che aveva invitato la Chiesa alla non ingerenza nella sfera pubblica («Il governo spagnolo non è il predicatore della cristianità», ha detto il ministro della Difesa, José Bono) ma evidentemente ieri si è pensato di elevare la protesta ad un gradino più elevato. Ed è stato convocato il nunzio Manuel Monteiro de Castro nella sede del ministero degli Esteri dove ad attenderlo vi era il sottosegretario agli Esteri, Luis Calvo Merino, che, come no, ha ribadito la volontà del suo governo di «mantenere una fruttifera intesa con la Chiesa» ma fondata «sul rispetto profondo nell'ambito delle competenze che gli accordi fra Spagna e Santa Sede riconoscono ad entrambe le parti».
La convocazione del nunzio è arrivata a sorpresa, al termine di una giornata in cui sembrava avere messo la parola fine alla disputa, almeno per il momento, il premier Zapatero che sulla questione dei rapporti con la Chiesa si è espresso per la prima volta dopo il discorso del Papa. Il capo del governo, dall'Argentina dove si trova in visita, ha sottolineato che la Spagna «attraversa oggi il momento di maggiore libertà religiosa, ideologica, politica di tutta la sua storia». Riconosce al Pontefice «il diritto di esprimere la sua opinione su quel che fanno i vari governi, di qualsiasi orientamento siano, ma qualsiasi spagnolo può considerare come sia forse esagerato dire che in Spagna vi sia un problema di libertà religiosa».
Su Avvenimenti n°3 21-27 gennaio
Bambina provetta
Niente accordicchi parlamentari. Sulla fecondazione assistita quattro si al referendum.
di Simona Maggiorelli


Bambina provetta. Semplicemente sana. Con una nascita che la rende uguale e con le stesse possibilità di partenza, fisiche e psichiche, di tutti gli altri bambini. Non esattamente bionda con occhi azzurri o progettata pezzo a pezzo secondo i desideri astratti di papà e mamma. Semplicemente una bambina o un bambino che, nonostante i genitori siano portatori di malattie genetiche, grazie alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita con cui è stata concepita, potrà avere una vita normale. Tecniche che in Italia, dal 19 febbraio scorso, sono regimate dalla legge 40, che - unica in Europa con queste restrizioni - proibisce a una coppia sterile di ricevere gameti da donatori e alle coppie portatrici di malattie genetiche, la diagnosi pre-impianto. Ma proibisce anche la conservazione e la ricerca sugli embrioni e obbliga la madre a ricevere un numero fisso di tre embrioni, sani o malati che siano. "Apparentemente creando un piano di uguaglianza, fra embrione e madre. Di fatto, già all'articolo 1 è l'embrione a dettare le condizioni, pur essendo, non dimentichiamolo, ancora solo una potenzialità", ricorda la senatrice Ds Vittoria Franco, che proprio su questa delicata materia sta per pubblicare un libro per Donzelli.
Così come, secondo la discussa legge 40, la donna che è ricorsa alle tecniche in vitro non può rifiutare l’impianto dell’embrione, anche se malato. Semmai dopo il concepimento potrà scegliere di abortire.
"Tanto varrebbe allora, permettere la diagnosi preimpianto dell’embrione, piuttosto che arrivare a sopprimere un feto", commenta la senatrice della Lega Nord Rossana Boldi che, diversamente dai cattolici del centrodestra e della Margherita, ha scelto di votare no alla legge. "Anch’io sono cattolica - precisa -. Ma in casi di questo genere non posso obbligare un’ altra persona a non fare ciò che io non farei". E dopo che la Corte Costituzionale ha riconosciuto la validità di quattro quesiti referendari su cinque, sottolinea con vigore: "L’importante è che non si mescolino le carte, che non si raccontino storie alla gente. Sono un medico e so che non è vero che i portatori di malattie genetiche che desiderano mettere al mondo dei bambini sani vogliano fare dell’eugenetica. Semplicemente conoscono la gravità della propria patologia. Nel caso di talassemici, per esempio, sanno che i loro bambini nella migliore delle ipotesi dovranno sottoporsi a trattamenti per tutta la vita. E che, una volta diventati grandi, si troverebbero davanti al medesimo destino di dover mettere al mondo figli malati". E sul capitolo di legge che obbliga la donna a far sviluppare e farsi impiantare tre embrioni, dice: "una clausola che nega il rapporto di valutazione strettissima che ogni paziente deve avere con il proprio medico. Ogni caso è diverso dall’altro. Una ventenne alla qual vengano impiantati tre embrioni ha molte possibilità di andare incontro a un parto plurigemellare; per una quarantenne è probabile che nemmeno tre siano sufficienti. E ripartire, ogni volta, con un nuovo ciclo di stimolazione ormonale non è senza danno. Oppure mettiamo il caso di una grave
sterilità maschile, non è possibile procedere al prelievo di spermatozoi più e più volte". Insomma per la senatrice leghista, come per altri
liberal della maggioranza, non basterebbe un leggero maquillage alla legge. "Occorrono cambiamenti di sostanza - ribadisce -. E la bocciatura da parte della Corte Costituzionale del quesito totalmente abrogativo, per quanto renda più difficile le cose per il cittadino, stana chi nel centrodestra ha votato questa legge ob torto collo, seguendo ordini di scuderia". Affermazioni forti che si aggiungono alle denunce del centrosinistra su un iter legislativo blindato. "Diciamo la verità - incalza la senatrice capogruppo del Carroccio in commissione Sanità del Senato - non è poi così vero che questa legge sia stata approvata da una larghissima maggioranza convinta di
quello che stava facendo. Al momento del voto a molti è stato detto: meglio una cattiva legge che nessuna legge. In aula il senatore Cursi ha espresso parere negativo sugli emendamenti. Con un pronunciamento di questo genere da parte del governo, era difficile per noi votare contro la legge". Insomma, lascia intendere la senatrice Boldi, in accordo con molti suoi autorevoli colleghi medici e scienziati: sul dibattito sulla fecondazione assistita pesano ancora troppo oscurantismo e ignoranza. Ma anche i diktat del Vaticano. "Che ci sia una campagna in atto da parte della Chiesa è indubitabile - commenta Maura Cossutta dei Comunisti Italiani -. Il fatto stesso che il Papa, accogliendo i diplomatici, abbia lanciato come primo tema la difesa dell’embrione, ne è la dimostrazione. E la sua campagna ha trovato robusti appoggi nei nostri organi istituzionali". Così l’ostentata liberalità di Berlusconi che oggi concede ai suoi libertà di coscienza e di voto, va a braccetto con le manovre di Gianni Letta, che, per lanciare un segnale al Vaticano, ha fatto in modo che il governo si presentasse alla Corte perché dichiarasse inammissibili i quesiti referendari. "La Consulta ha preso una decisione politica gravissima - denuncia il segretario dei Radicali Italiani Daniele Capezzone -, spazzando via il pericolo del quesito totalmente abrogativo, l’unico quesito che avrebbe permesso davvero di fare chiarezza. E così facendo ha aperto la strada a leggi e leggine che potrebbero svuotare dall’interno il senso del referendum, magari lasciando in piedi solo il quesito che riguarda la fecondazione eterologa, tema accettato solo dai laici". Maggioranza e prodiani, intanto, fanno da opposte sponde i medesimi scongiuri perché non si arrivi al referendum, puntando su accordi parlamentari dell'ultima ora (sono ben sette i disegni di legge in discussione, da quello diessino di Angius, a quello targato Forza Italia firmato da Tomassini e Bianconi, passando per l'ecumenico Amato), ma anche sul non raggiungimento del quorum pigiando l’acceleratore sull’astensionismo, già più volte auspicato dal Cardinal Ruini. "Storicamente la paura della scienza è sempre stata sfruttata dal potere e dalle gerarchie ecclesiastiche. Salvo poi sentirsi dire dopo 500 anni che Galileo è stato assoluto, ma il progresso scientifico non può essere fermato - commenta la senatrice Cinzia Dato, esponente dell’area laica della Margherita -. Spero che il paese non si lasci scappare l’occasione del referendum. Che lo utilizzi per un confronto pubblico aperto sui temi della scienza e della libertà di ricerca".
"Uno degli aspetti più controversi di questa legge davvero inaccettabile - attacca la Dato - è che implicitamente tenta di normare la ricerca, cioè aree molto più vaste di quelle di quelle dichiarate nelle intenzioni". In pratica la legge 40 lo fa vietando la conservazione degli embrioni e dicendo no alla ricerca su quelli conservati in celle frigorifere (In Italia sono circa 31mila). "Perché aspettare che vengano gettati in un lavandino? - domanda la senatrice della Margherita - proprio quando la scienza sta dimostrando che le cellule staminali di origine embrionale servono alla cura di molti tipi di malattie oggi incurabili. Prendiamo il caso dei trapianti, la Chiesa li ammette. Ma sappiamo anche che in India c’è chi si vende reni e cornee. Sappiamo anche che in Brasile e in altri paesi bambini vengono rapiti e uccisi perché esiste un mercato illegale di organi. Allora perché chiudere gli occhi di fronte a tutto questo in nome della sacralità dell’embrione? E proprio in un momento in cui attraverso cellule staminali embrionali si potrebbero sviluppare tecniche di autotrapianto?". "Per far ripartire la ricerca, ma anche per tutelare i diritti delle donne - dice Maura Cossutta dei Comunisti Italiani - il primo obiettivo, ora, è l’abrogazione dell’articolo 1 della legge 40, che tutela i diritti dell’embrione. Così si smantella tutto l’impianto della legge da cui promanano tutti i divieti, all’eterologa, al congelamento per la conservazione, il divieto alla ricerca sulle cellule staminali embrionali". E aggiunge: "Da medico so che, per quanto sia utile la ricerca sulle staminali adulte e dal cordone in particolare, molto più si può ottenere dalle ricerche sulle staminali embrionali perché più plastiche, con grande capacità di moltiplicarsi e soprattutto, essendo ancora indifferenziate, con la possibilità di poter essere utilizzate nella cura di organi differenti". Anche per questo l’informazione è il primo obiettivo annunciato dal comitato referendario per i sì ai quattro quesiti. Remando contro la scarsa collaborazione dimostrata fin qui dalla tv, a cui ora si aggiunge la spada di Damocle degli acting out di Celentano. "Non serve stare a parlare di filosofia - rilancia Maura Cossutta, in polemica con Paolo Prodi e i suoi richiami ad Habermas -. in questa campagna serve molto di più partire dalle esperienze concrete, dar voce alle associazioni di malati. Con questa assurda legge non si può negare loro possibilità di cura". E non solo. Bisogna avere il coraggio di parlare di valori come la libertà, la responsabilità delle persone la laicità dello Stato. "Perché non è affatto vero - conclude la parlamentare del PdCI - che i laici siano ideologici e i cattolici etici". A questi stessi temi di grande respiro si richiama anche Elettra Deiana, parlamentare di Rifondazione Comunista. "Credo che la campagna referendaria debba fare perno su questi temi. E che debbano entrare già nella discussione politica delle regionali. Perché - aggiunge - la battaglia contro la legge 40 non è un fatto marginale, ma una questione di civiltà". E non può aspettare. "Le grandi manovre per accordi di piccolo cabotaggio sono già cominciate", avverte Deiana. Una preoccupazione condivisa dalla gran parte delle forze che compongono il comitato referendario. "La decisione della Corte Costituzionale - dice Deiana - toglie lo strumento più efficace per dire no questa legge". "Una legge che - ribadisce - è in alcun modo emendabile, perché il suo impianto complessivo è antidemocratico, incostituzionale, lesivo dei diritti fondamentali". Una legge che apre la strada a un pericolo ulteriore: la messa in discussione della legge 194. "Già la maggioranza ne parla esplicitamente in parlamento e sui giornali - avverte Deiana - e non attraverso figure minori, ma per bocca di Buttiglione, di un ministro che, in quanto tale, dovrebbe garantire la legalità della Repubblica attraverso il rispetto delle sue leggi".
Liberazione 27.1.05
La misoginia anche a sinistra
di Lea Melandri


Il dominio maschile, pur avendo alle spalle una storia millenaria, resta ancora oggi un' "evidenza invisibile". Il fatto che il rapporto uomo-donna sia stato posto in secoli vicini a noi come "questione femminile", e quindi come emancipazione o difesa del "sesso debole" e "svantaggiato", non sembra aver scalfito più di tanto la "neutralità" dietro cui continua a celarsi il sesso che ha avuto in mano le sorti della specie umana, sotto qualunque cielo. L'idea che le donne appartengano a uno di quei gruppi sociali che, come direbbe Berlusconi, "sono rimasti indietro", e vanno perciò aiutati, sollecitati, responsabilizzati, è purtroppo più trasversale di quanto si creda ai partiti e ai movimenti politici. Lo dimostra platealmente il fatto che non c'è sinistra, moderata o radicale, che quando nomina le donne (ed è già eccezionale che vengano nominate), non le collochi nel triste corteo dei diseredati e dei bisognosi, vittime o parenti poveri verso cui indirizzare la solidarietà, o tra quei nuovi "soggetti" che potrebbero, come fecondo integratore di energie, ridare fiato a una politica diventata sempre più sterile. Se negli anni '70 erano seconde solo agli studenti e ai disoccupati, oggi la sequenza si è riempita di innumerevoli "miserie umane", per cui è del tutto casuale se compaiono dopo i migranti, gli anziani, i portatori di handicap. C'è anche chi, nominando la variegata composizione delle "violenze", che uomini esercitano su altri uomini, ignora del tutto le statistiche che riportano i dati crescenti della violenza sulle donne.
Da questo punto di vista, non hanno fatto eccezione le due assemblee, promosse a Roma il 15 e il 16 gennaio 2005, dalla "sinistra radicale", dove gli unici riferimenti nel merito di queste tematiche sono stati quelli di Lidia Menapace, costretta penosamente a ricordare che "non c'è solo la contraddizione capitale lavoro, ma anche uomo-donna", e di Rossana Rossanda che ha rimarcato l'indisponibilità delle femministe a entrare attivamente in una politica da loro considerata "maschile".
Dell'"autoesclusione" delle donne dalla scena politica si è parlato anche alla trasmissione "L'infedele" (La7 sabato 22.1.05), ma in quel caso era il politologo Panebianco a sostenere candidamente che le donne sono già contente e realizzate nelle professioni, quasi che la loro "estraneità" alla politica fosse un dato naturale. E' un miracolo che in questi tempi di spericolato biologismo, insieme al "gene" della gelosia e della timidezza, non sia stato ancora trovato quello che definisce le attitudini femminili. Nelle metafore politiche correnti va di moda, da un po' di tempo, dire che "bisogna fare un passo indietro", oppure, al contrario "uno avanti". Stando a questa accreditata deambulazione, propongo allora di farne uno "a lato", e di provare a uscire dall'insopportabile e inutile rimando tra esclusione e autoestraniamento.
L'intuizione per cui il movimento delle donne degli anni '70 si può a ragione considerare uno di quei rivolgimenti profondi della coscienza storica che accadono raramente - come le "scoperte" di Marx sul rapporto capitale e lavoro, di Freud sul rapporto inconscio e coscienza- è stata quella di spostare l'analisi del sessismo dal versante sociale al terreno tradizionalmente più lontano dalla politica: storia personale, corpo, sessualità. E' scavando in quelle "acque insondate", che hanno continuato a scorrere minacciose sotto la pòlis, che si è fatto evidente come l'estensione del dominio maschile vada ben oltre la divisione sessuale del lavoro e il confinamento della donna nella sfera domestica. Maschile è la visione del mondo - incorporata sia nel "vissuto" del singolo che nei saperi, linguaggi e istituzioni della vita pubblica - che ha definito che cosa è "maschile" e "femminile", dettato gerarchie di potere e configurazioni simboliche. La stessa sorte - insignificanza storica ed esaltazione immaginativa - è toccata a tutto ciò che col femminile è stato identificato: sessualità, sentimenti, cura della vita, infanzia, dolore, morte, cioè esperienze essenziali degli esseri umani che hanno subìto una "messa al bando", di cui i linguaggi e le istituzioni sociali non potevano non portare il segno. In primis, la politica che, posta al vertice del controllo e del dettato normativo sulla vita, ha creduto di potersi spogliare del mondo caotico e imprevedibile dell'esperienza soggettiva, mettendo confini tra pubblico e privato, tra il cittadino e l'individuo, quelle barriere che oggi stanno cadendo sotto i colpi del mercato e dell'industria dello spettacolo, ma anche di un processo di allargamento democratico, di individualizzazione e di ripensamento del rapporto vita e politica.
Come disse Rossana Rossanda già più di venti anni fa ("Le altre", Feltrinelli, 1989) la cultura delle donne non è "una miniera da cui attingere per arricchire una civiltà che finora l'aveva ignorata", ma "una critica vera, e perciò unilaterale, antagonista, negatrice della cultura altra. Non la completa, la mette in causa. Non si tratta di allargare le maglie della città".
Questo percorso all'indietro, questa rivisitazione di una storia segnata dal dominio, ma anche dai sogni, dai desideri e dalle paure dell'uomo, dagli adattamenti e dalle resistenze delle donne, è un compito che non può non impegnare entrambi i sessi. Come nell'amore, l'incontro in una prospettiva nuova di impegno politico, ha bisogno che ci si muova incontro, da una parte e dall'altra. E qualcuno, rompendo un separatismo che sta diventando grottesco, ha cominciato a farlo. In un articolo, pubblicato sull'ultimo numero della rivista "Pedagogika" (n.6, dicembre 2004), Gli uomini, il desiderio e la crisi della politica, scrive Marco Deriu: "Nell'arena politica si affacciano soggetti ‘neutri' e razionali che si attribuiscono il compito di dirigere o trasformare il mondo. Queste persone immaginano probabilmente di trovarsi di fronte a un mondo esterno, una brutta scenografia che esiste "là fuori" e su cui credono di poter intervenire, cambiandola e modificandola in base ai propri giudizi e calcoli. Invano si cercherebbe nei discorsi degli uomini politici uno sprazzo di consapevolezza riflessiva che riconosca il legame tra sé e il mondo (n. s.), tra la propria esistenza e l'esistenza di altri esseri… In altre parole quello che ci manca più di ogni altra cosa non è un nuovo progetto politico, o una nuova formazione. Ci manca invece una politica che sia il riflesso di un desiderio autentico e radicale di vivere, di vivere insieme con gli altri. Da questo punto di vista, oltre al dualismo tra privato e pubblico e all'opposizione tra sé e mondo, la politica maschile si fonda su un'opposizione tra politica e passioni esistenziali".
Yahoo! Notizie
AIDS, negli Usa dilagano le teorie del complotto
giovedì 27 gennaio 2005, Il Pensiero Scientifico Editore
di David Frati


Un notevole numero di afroamericani crede in varie teorie del complotto riferite all’AIDS. Questo sentire diffuso preoccupa le autorità sanitarie, perché potrebbe portare ad una diminuzione dell’uso del preservativo. Il dato è emerso da uno studio pubblicato sul Journal of Acquired Immune Deficiency Syndromes.
Intervistando 500 afroamericani dai 15 ai 44 anni, i ricercatori hanno scoperto che più della metà di loro crede che le informazioni sulla vera natura del virus HIV siano tenute segrete, e che esista già una cura per l’AIDS, volutamente inaccessibile per i poveri. Quasi la metà del campione ritiene che il virus sia stato costruito dall’uomo in laboratorio e un 15 per cento che sia una forma di genocidio pianificato dei neri. Non sono mancate teorie estreme, come le convinzioni che ‘i dottori mettono l’HIV nei preservativi’ o che i farmaci anti-AIDS siano in realtà veleni. Tutte queste convinzioni sono solitamente associate nei maschi al mancato uso del preservativo.
“Queste idee sono molto diffuse e dimostrano una radicale sfiducia verso il sistema sanitario tra gli afroamericani”, spiega Laura M. Bogart, psicologa dell’istituto di ricerca RAND. “Affinché gli sforzi per la prevenzione dell’AIDS abbiano successo, queste credenze devono essere discusse apertamente, perché le persone che non hanno fiducia nel sistema sanitario ne hanno ancora meno nei messaggi di Salute pubblica”.
Il pessimo rapporto tra Sanità Usa e comunità afroamericana ha radici profonde ed è stato alimentato, oltre che da tensioni politiche, sociali e razziali, da episodi infami come lo studio Tuskegee. Nel 1932 il Public Health Service e il Tuskegee Institute arruolarono 400 afroamericani poveri e malati di sifilide. Non fu loro mai rivelato di che malattia soffrissero né fu mai somministrata loro alcuna cura (nel 1932 non erano disponibili terapie efficaci, ma a partire dal 1947, con la scoperta della penicillina, sì). I ricercatori del Tuskegee volevano scoprire come il morbo si diffondesse e come uccidesse i malati. L’orrore proseguì fino al 1972, quando un giornalista scoprì la faccenda e scoppiò un grande scandalo. A quel punto, moltissimi pazienti erano già morti, e molti loro familiari erano stati ormai contagiati. Nel 1973, la National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) citò in giudizio gli organizzatori dello studio Tuskegee ottenendo un rimborso di 9 milioni di dollari per i sopravvissuti e cure mediche gratuite per i loro familiari. Solo nel 1997, grazie al presidente Bill Clinton, il governo degli Stati Uniti prese una posizione ufficiale, definendo lo studio ‘una vergogna’ e chiedendo scusa alle vittime.

Fonte: Journal of Acquired Immune Deficiency Syndromes, 2005.
lescienze.it 26.01.2005
La proteina della schizofrenia
La forma breve di DISC1 è maggiormente presente nei nuclei dei neuroni


Una forma abbreviata di una proteina chiamata DISC1 (Disrupted-In-Schizophrenia-1) risulta distribuita in maniera unica e caratteristica nelle cellule cerebrali dei pazienti che soffrono di gravi disturbi psichiatrici. Lo sostiene una ricerca pubblicata sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences".
Studi precedenti avevano associato il gene DISC1 alla schizofrenia, ma la proteina prodotta dal gene non era stata ancora studiata negli esseri umani. Esaminando la corteccia orbitofrontale, una regione del cervello coinvolta nelle emozioni e nel meccanismo di ricompensa, Akira Sawa della Johns Hopkins University di Baltimora e colleghi hanno analizzato la proteina DISC1 durante l'autopsia di individui normali e di pazienti che soffrivano di schizofrenia, disturbo bipolare, e depressione. Alcuni di essi soffrivano anche di abuso di droghe e di alcool.
Gli autori hanno identificato una forma breve della proteina DISC1 nei cervelli di tutti i gruppi. Tuttavia, pur non rivelando variazioni nei livelli totali di DISC1 fra un gruppo e l'altro, i ricercatori hanno scoperto distribuzioni alterate della proteina DISC1 breve nelle singole cellule cerebrali. Nei neuroni dei pazienti di depressione e schizofrenia, ma non in quelli con il disturbo bipolare, una percentuale più alta delle proteine si trova nei nuclei. Questo arricchimento nucleare aumenta proporzionalmente alla gravità dell'abuso di alcool o di droga del paziente. Anche se la funzione della forma breve di DISC1 è sconosciuta, i ricercatori sospettano che possa provocare un'errata espressione genica, forse danneggiando i circuiti cerebrali e creando suscettibilità ai disturbi mentali e all'abuso di sostanze pericolose.
Naoya Sawamura, Takako Sawamura-Yamamoto, Yuji Ozeki, Christopher A. Ross, Akira Sawa, "A form of DISC1 enriched in nucleus: Altered subcellular distribution in orbitofrontal cortex in psychosis and substance/alcohol abuse". Proceedings of the National Academy of Sciences (2005). Yahoo!Notizie
Mercoledì 26 Gennaio 2005, 18:29
MEDICINA: IDEATA MACCHINA 'MISURA-LIBIDO'


(ANSA) - ROMA, 26 GEN - Si basa sullo studio delle onde cerebrali quella che, al 7/o congresso della European Society for Sexual Medicine, e' stata presentata come la prima macchina per la misura della libido.
Sviluppata in Israele da Yoram Vardi del Rambam Hospitalad Haifa, l'idea, gia' testata su 30 individui, potrebbe essere usata per misurare effetti collaterali dei farmaci come gli antidepressivi sulla libido e anche stabilire su base certa e oggettiva la presenza di problemi conseguenti a incidenti.
Secondo l'esperto, che ha preso spunto da una tecnica gia' molto usata in neurologia per misurare la soglia di attenzione degli individui, questo potrebbe diventare il primo metodo quantitativo di misurare la libido.
La macchina e' semplice, si basa su un elettroencefalogramma che misura le onde 'p300' e le variazioni in ampiezza di queste onde in seguito a stimoli. Le onde p300 sono quelle che il nostro cervello produce 300 millisecondi dopo un evento e la loro ampiezza varia se intervengono altri stimoli che ci distraggono dall'evento iniziale. Secondo quanto osservato nei test su 14 uomini e 16 donne sessualmente sani, Vardi ha notato che gli stimoli che sono maggiore fonte di distrazione sono proprio quelli sessuali.
I volontari, indotti a produrre p300 attraverso stimoli di varia natura, mentre erano monitorati con l'elettroencefalogramma sono stati messi di fronte a uno schermo che proiettava vari tipi di film tra cui alcuni a contenuto erotico.
I diversi film, ha riferito Vardi, determinavano modifiche delle onde p300. Ma piu' di tutti erano i film erotici a determinare le variazioni piu' consistenti delle p300.
Inoltre gli stessi individui, sottoposti a questionari di autovalutazione della propria libido dopo la visione, hanno sempre dato risposte in perfetto accordo con le informazioni offerte dallo strumento. Ovvero piu' i soggetti si dichiaravano 'eccitati' dallo spettacolo, piu' le loro onde p300 ne erano state modificate.
Il prossimo passo, ha concluso Vardi, sara' di testare la macchina su individui con disturbi sessuali.

corriereadriatico.it
26 gennaio 2005
Il primario di Psichiatria “Molti arrivano in reparto dopo avere assunto stupefacenti. Le droghe hanno effetti devastanti”
Sempre più ragazzi soffrono di disturbi psichici come schizofrenia, depressione e nevrosi
Nei giovani cresce il “male dell’anima”


Schizofrenia, depressione, nevrosi. Malattie che colpiscono nell'ombra, spesso dentro le mura di casa. Qualcosa succede dentro l'animo e nella mente di chi soffre di disturbi psichici, qualcosa di inspiegabile per i familiari che lo circondano, qualcosa di terribile per chi lo vive. Aumentano i casi di disagiati psichici a Senigallia, ma non ce ne accorgiamo, perché sono dolori che non si mostrano. Soprattutto cresce il numero dei giovani con disturbi della personalità, patologie più sfumate e difficili da trattare rispetto alle più tradizionali, eppur drammatiche, schizofrenia o depressione. Il dirigente medico di Psichiatria, dott. Andrea Arduini, ci spiega come sta operando il Dipartimento di salute mentale di fronte a queste emergenze: "Seguiamo regolarmente 854 pazienti. Se fortunatamente diminuiscono i ricoveri e le degenze, il numero dei pazienti regolarmente seguiti è aumentato”.
“Così come sono cresciute le visite ambulatoriali, soprattutto per patologie meno note come i disturbi della personalità. Questi disturbi consistono in ritardi del processo di maturazione della personalità, in difficoltà nell'adattamento sociale che possono sfociare anche in comportanti asociali. Sono patologie più complesse e sfumate, per questo abbiamo attivato un ambulatorio dedicato, specifico per il trattamento di questi casi. Spesso i ragazzi colpiti da disturbi della personalità assumono anche sostanze e droghe, da loro ritenute innocue, che non fanno che alimentare i loro comportamenti devianti”.
“La cultura della droga ritenuta inoffensiva - sostiene il dottor Paolo Pedrolli, braccio destro del primario Arduini - sta andando a inficiare sulla pericolosità dei disturbi mentali. L'abuso di cannabis e cocaina è esponenziale”. E in questi casi la linea di confine tra Psichiatria e Sert è difficile da tracciare in modo netto, così come c'è difficoltà a capire se un senzatetto ha più bisogno della cura di uno psichiatra o di un assistente sociale, se un violento possiede un disturbo psichico o se andrebbe piuttosto richiamato dalle forze dell'ordine, se un marito abbondato dalla propria moglie sia caduto nel baratro della depressione o se stia solo vivendo un momento duro della propria vita, superabile in breve tempo e senza terapie mediche.
Sono confini labili, delicatissimi, fili di funamboli sui quali camminano persone la cui personalità è difficile da capire. Tutte persone che una volta venivano coattamente spedite negli ospedali psichiatrici, senza tanti approfondimenti. Così l'idea è stata quella di stilare dei protocolli.
“Oltre a collaborare con l'associazione PrimaVera - afferma il dottor Arduini - abbiamo realizzato protocolli comuni di intervento con Caritas, enti locali e assessorato ai servizi alla persona, con forze dell'ordine, con medici di base, che spesso possono intervenire su quelle che comunemente definiamo "psicosi minori" o segnalare con più rapidità gli eventuali disagi di natura psichica fin dal loro esordio. Attacchi di panico, insicurezze, paure: anche il medico di famiglia sa come trattare queste lievi patologie. E sempre nel campo della collaborazione abbiamo organizzato un corso di formazione per le famiglie dei pazienti secondo la tecnica psicoeducazionale”.
Di fronte al male dell'anima che aumenta il dottor Arduini conclude: "Sappiamo con certezza che un'assistenza psichiatrica più efficace ed efficiente non sarà comunque possibile senza una maturazione generale verso modelli più evoluti di collaborazione tra tutti i referenti del disagio mentale".

Yahoo!Salute
Depressione giovanile: migliorare l'approccio
martedì 25 gennaio 2005, Il Pensiero Scientifico Editore


La depressione giovanile è un fenomeno in crescita che necessita di un approccio efficace nelle strutture di base; questo approccio può essere migliorato da un adeguato programma di supporto. Un progetto sperimentato con successo alla David Geffen School of Medicine della University of Californiadi Los Angeles è descritto sulle pagine del Journal of American Medical Association.
Le formi più gravi di depressione giovanile interessano, secondo le stime, dal 15 al 20 per cento dei soggetti colpiti; la depressione giovanile, se non trattata, può portare al suicidio (ed è in questo senso la principale causa di morte fra i giovani fra i 15 e i 24 anni) o può sfociare in altre forme di disagio giovanile. Grande importanza riveste la capacità, per le strutture e i medici di base che per primi avvicinano il ragazzo, saper riconoscere e affrontare questo disagio. Gli approcci che si sono dimostrati più risolutivi sono la terapia cognitivo-comportamentale e alcune forme di terapia farmacologica. Le strutture di base hanno il potenziale per migliorare il loro approccio in modo da ottimizzare l’efficacia degli interventi; l’obiettivo dev’essere quello di orientare il giovane ai servizi specifici che possano essergli di sostegno e guidarlo verso una scelta personalizzata della terapia.
Questo studio ha verificato l’efficacia di un intervento della durata di sei mesi, volto ad offrire sostegno e formazione ai medici di base, tramite il supporto di care manager che fornissero consulenza al medico, organizzando per gli operatori training sulla terapia cognitivo-comportamentale, e corsi che insegnassero a gestire al meglio la scelta fra le varie terapie. I medici inclusi nel gruppo sperimentale hanno anche ricevuto formazione per la valutazione della depressione giovanile, la sua gestione e le terapie farmacologiche e psicosociali. I ragazzi seguiti nello studio sono stati suddivisi in modo casuale in due gruppi: il primo, di 207 pazienti, ha ricevuto l’assistenza usuale mentre l’altro (211 pazienti) è stato seguito dai sanitari oggetto del training sperimentale. I sintomi depressivi e la qualità della vita sono stati misurati con test specifici, e il paziente ha anche espresso la soddisfazione per le cure ricevute, rispondendo a un questionario basato su una scala a cinque punti.
Dopo sei mesi è stata effettuata una verifica per vedere se l’intervento aveva prodotto risultati positivi. I pazienti del gruppo sperimentale hanno riportato, rispetto a quelli del gruppo di controllo, un numero significativamente inferiore di sintomi depressivi, una maggiore qualità della vita rispetto alla loro salute mentale e più soddisfazione per le cure psicologiche ricevute. I giovani del gruppo sperimentale inoltre si sono rivolti più facilmente alle cure dei centri per la salute mentale e ai servizi di psicoterapia e di consulenza.
Gli autori osservano che l’intervento di sostegno e formazione effettuato per sei mesi presso le strutture sanitarie di base ha reso possibile una risposta più valida al problema della depressione giovanile, orientando le scelte di sanitari e pazienti verso gli approcci alla depressione di comprovata efficacia, e attivando meglio le risorse disponibili per la cura di questo disturbo.
Fonte. Rosenbaum Asarnow J, Jaycox LH, Duan N et al. Effectiveness of a quality improvement intervention for adolescent depression in primary care clinics. JAMA 2005;293(3):311-19.
Libero 26 gennaio 2005
NON È VERO CHE IL TUMORE COLPISCE DI PIÙ I DEPRESSI


Copenaghen - È scientificamente provato che non esiste relazione tra lo sviluppo dei tumori ela personalità. Lo dicono alcuni studiosi dell'Istituto di epidemiologia dei tumori di Copenaghen, dopo aver condotto le ricerche, per 15 anni, su 30 mila gemelli. Lo studio, pubblicato sulla rivista specializzata Usa "Cancer", parte dal presupposto che si è sempre pensato che in qualche modo potesse esserci un legame tra psiche e patologie neoplastiche. In partitolare numerosi scienziati hanno suggerito che le persone che si ammalano di tumore possiedono una personalità cosiddetta di Tipo C (Cancer Prone Personality). Si tratta di persone che tendono a negare, a rimuovere e a minimizzare i propri conflitti, le esperienze spiacevoli, gli avvenimenti dolorosi. Inoltre, presentano un'incapacità di esprimere apertamente i propri sentimenti, e mancano di spirito di lotta. Gli esperti danesi hanno infine concluso che l'origine dei tumori è sempre plurifattoriale e che quindi con i soli fattori emozionali e caratteriali non è possibile spiegare in nessun caso la complessa eziopatogenesi delle neoplasie.

omicidi

Liberazione 22.1.05
Sussurri, grida, giarrettiere
... e colpi di pistola
Maria R. Calderoni


"Ammazzo tutti". Un libro sugli assassinii di massa in Italia. Modello Usa, dove un'arma è sempre a portata di mano
Il serial killer molto spesso «si serve di armi da taglio, perché vuole il contatto fisico con la sua vittima, vuole "sentire" la morte, il mass murderer si serve quasi sempre di pistole e fucili mitragliatori, armi asettiche che gli garantiscono un ampio potere distruttivo». E questo perché, «nella mente del mass murderer la società vive in uno stato patologico, aberrante, e per questo va punita e soppressa».
Lettura con brivido. In questo libro non voluminoso di 188 pagine (Ammazzo tutti. I mass murders italiani, Stampa Alternativa, euro 10), il criminologo Francesco Bruno, in collaborazione con Marco Menicangeli, fa scorrere sotto i nostri occhi la moviola dei fatti di sangue che ci hanno lasciato ogni volta storditi, senza fiato, ogni volta fissi sulla domanda che non ha risposta: «Come è possibile?» (domanda inutile e anche stupida, visto che la cosa è così possibile da essere, appunto, avvenuta).
La "cosa", l'orrore, la mostruosità. Da Doretta Graneris a Erika e Omar, il libro ci obbliga a un ripasso eclatante, a rivedere immagini, scene e particolari che avevamo dimenticato, il film delle pulp fiction nazionali. E a riaggiornare i concetti.
Mass murder, secondo la definizione del Crime Classification Manual, è l'evento nel quale un individuo uccide minimo quattro persone in un solo luogo e nello stesso tempo. Ma non occorre che siano proprio "almeno quattro". Il Fbi, ad esempio, fa rientrare la categoria nell'Authority Killing, l'omicidio compiuto «a scopo di rivendicazione contro la società». Il mass murderer è infatti convinto di aver subito dei torti da parte dell'autorità e per questo è deciso a vendicarsi. «Imbracciando il fucile o la pistola l'omicida diventa così una sorta di missionario: la sua dovrà essere un'azione esemplare, un evento che deve stamparsi col fuoco».
È stata approntata una statistica. Nella loro Encyclopedia of Mass Murder, Brian Lane e Wilfred Greg analizzano tutti i casi fino al 1994 e le cifre raccolte dai due studiosi inglesi dicono con sufficiente chiarezza che l'omicidio di massa «è una patologia del primo mondo. Stati Uniti e Europa totalizzano oltre l'85 per cento dei casi analizzati».
Primo mondo, con gli Usa che primeggiano: per esempio, nel triennio 1990-93, sui 199 casi di mass murder, ben 108 sono avvenuti in terra statunitense (23 in Inghilterra,13 in Australia, 12 in Canada e 5 in Nuova Zelanda). Tra le altre, sono raccontate due stragi che fecero scalpore: quella di Charles Manson (nella villa al numero 10050 di Cielo Drive a Bel-Air, Los Angeles, il 9 agosto 1969 sono uccise 6 persone, tra le quali l'attrice Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski); e quella di Eric Harris e Dylan Klebond (i due ragazzi che, il 20 aprile 1999, penetrati nella "Colombine High School", hanno fatto fuoco con due fucili mitragliatori, massacrando nella biblioteca dieci studenti e suicidandosi subito dopo: il sanguinario episodio dal quale Michael Moore ha tratto il suo film, Bowling for Colombine). «Qualcosa non va in questo paese se un bambino può prendere un fucile tanto facilmente e sparare una pallottola in mezzo al volto di un altro bambino come è successo a mio figlio», sono state le parole del padre di uno studente morto nel massacro.
Naturale domandarselo: perché questa patologia ha intaccato in modo così feroce il tessuto sociale americano? "Spara, cowboy, spara", si intitola il capitolo che Bruno e Menicangeli dedicano alle possibili risposte. «Difficile pensare a un solo movente: più logico pensare che esistano varie concause». Nella rosa delle quali, appare difficile non stabilire «una correlazione tra il numero di armi che circolano negli Stati Uniti e il fenomeno dei mass murders».
Dati alla mano, una famiglia americana su due possiede un'arma, e oltre due milioni e mezzo l'hanno utilizzata per difendersi. Ogni anno sono da 20 a 25mila i morti ammazzati. «L'amore che i cittadini americani hanno per le armi è scritto nel Dna di questa nazione: è sancito dal secondo emendamento di Jefferson e fa riferimento al vecchio mito della frontiera».
Jefferson a parte, ad alimentare la micidiale passione ci pensa la Nra (National Rifle Association), la onnipotente lobby delle armi «finanziata dalla Colt, dalla Smith&Wesson, dalla Beretta»: sono almeno 200 milioni le armi che circolano negli Usa. Facile che qualcuna finisca nella mano sbagliata, che uno di questi fucili a pompa venga imbracciato dall'individuo con personalità disturbata. Meglio non dimenticare American Beauty, un film molto "americano", e non dimenticare Charles Graner, il marine dal sorriso sadico, torturatore ad Abu Ghraib; e magari non dimenticare nemmeno le statistiche: dato che, secondo l'Istituto nazionale di salute mentale Usa, tra il 15 e il 20 per cento della popolazione adulta americana presenta turbe psichiche da gravi (ossessione) a gravissime (schizofrenia).
Sempre in materia di concause, è anche facile, inoltre, che il gran numero di "pistole fumanti" in libera uscita porti «inevitabilmente a delle storture nel concetto di legittima difesa».
Più che di mass murder, in Italia si deve parlare, invece, soprattutto di family murder. Famiglia assassina. L'omicidio all'interno delle pareti domestiche. Parenti, genitori e figli, mogli e mariti che uccidono. Il libro abbonda della casistica che, di volta in volta, ci ha sgomentato.
Quanti? Per esempio, nel 2002 si sono registrati in Italia 634 omicidi all'interno dei così chiamati "rapporti di prossimità": famiglia, parenti, amici, vicinato, ambito lavorativo. Ebbene, il ruolo preminente «lo ha avuto la famiglia, che con le sue 223 vittime (35,2% del totale) si conferma come il primo tra gli ambiti in cui matura l'omicidio».
Nelle statistiche criminali si evidenzia un "problema famiglia", soprattutto al Nord, dove si colloca il 50,9% di tutte le morti riconducibili a motivi familiari.
Sussurri e grida e colpi di pistola. Dalla attenta analisi del furore domestico viene fuori anche l'allucinato identikit dell'omicida di casa. Grosso modo, a dare la morte sono esclusivamente gli uomini (91,3%), mentre le età sono le più varie. Colpisce però l'alta percentuale degli uomini al di sopra dei 60 tra coloro che uccidono: «Questi dati ci dicono che la famiglia è diventata il luogo dello scontro, più si sta insieme e più si uccide».
Conflitti di coppia, moventi passionali, drammi del divorzio e della separazione, liti per ragioni economiche sempre più spesso finiscono in tragedia.
Casa color rosso sangue, casa ad alto rischio. Secondo le statistiche citate nel libro «vittime della famiglia assassina sono soprattutto casalinghe (27%) e pensionati (23%), cioè quelle categorie che passano più tempo in casa».
Ultimo tocco di noir familistico. «All'interno dell'abitazione, il luogo con il più alto numero di omicidi (26,9%), è la camera da letto».

mercoledì 26 gennaio 2005

citato al Lunedì
chi volesse riceverne la versione integrale in PDF
può richiederla per e.mail

ringraziando Fabio Virgili e Annalina Ferrante
e, per il testo integrale dell'articolo che si può richiedere con una e-mail, Maria Letizia Riccio

Lo sviluppo della retina nel feto, l'articolo del 2000

«Questo è un riassunto dell'articolo apparso su Journal Neuropathology and Experimental Neurology che tratta dello sviluppo della retina nel feto di cui si è parlato ai seminari. Ringrazio Fabio Virgili per averlo messo a disposizione».

Annalina Ferrante

l'home page della rivista citata può essere raggiunta cliccando QUI

1: J Neuropathol Exp Neurol. 2000 May;59(5):385-92.Development of connections in the human visual system during fetal mid-gestation:
a DiI-tracing study.
Hevner RF.


Department of Psychiatry, Langley Porter Psychiatric Institute, University of California San Francisco, 94143-0984, USA.

Animal studies have shown that connections between the retina, lateral geniculate nucleus (LGN), and visual cortex begin to develop prenatally. To study the development of these connections in humans, regions of fixed brain from fetuses of 20-22 gestational weeks (GW) were injected with the fluorescent tracer DiI. Placement of DiI in the optic nerve or tract labeled retinogeniculate projections. In the LGN, these projections were already segregated into eye-specific layers by 20 GW. Retinogeniculate segregation thus preceded cellular lamination of the LGN, which did not commence until 22 GW. Thalamocortical axons, labeled from DiI injections into the optic radiations, densely innervated the subplate, but did not significantly innervate the cortical plate. This pattern was consistent with observations of a "waiting period" in animals, when thalamocortical axons synapse in the subplate for days or weeks before entering the cortical plate. Cortical efferent neurons (labeled retrogradely from the optic radiations) were located in the subplate and deeplayers of the cortical plate. In summary, human visual connections are partially formed by mid-gestation, and undergo further refinement during and after this period. The program for prenatal development of visual pathways appears remarkably similar between humans and other primates.
__________________________

«...come dice lo psichiatra Massimo Fagioli»

una segnalazione di Roberta Mancini

sabato 22 gennaio 2005
nel corso della seconda giornata del
Terzo Congresso Nazionale dell'Associazione Luca Coscioni


“LIBERA CONOSCENZA CONTRO LA MALATTIA”

Milano, 21-22-23 gennaio

(il programma del Congresso può essere letto QUI)

Giulia Simi
dell'Università di Siena
intervenendo verso le 12.20

ha basato il proprio intervento, citandola,
sulla teoria di Massimo Fagioli


chi volesse riascoltare questo intervento, che è stato trasmesso in diretta da Radio Radicale,
può farlo collegandosi alla seguente pagina

http://servizi.radioradicale.it/ondemand/

scegliendo poi la data del 22.1.05
e quindi la fascia oraria 12.00 - 13.00

(occorre avere installato RealPlayer)
una segnalazione di Sergio Grom

Il Venerdì di Repubblica del 21.1.05, pagg. 80/83
L'Italia vuole tornare in Cina e investe un milione, quello di Marco Polo

CON L'INTERVENTO DEL PROF. FEDERICO MASINI

Il Venerdi di Repubblica
L'ITALIA VUOLE SFONDARE IN CINA E INVESTE UN MILIONE.
QUELLO DI MARCO POLO
Le celebrazioni dei 750 anni dalla nascita del grande viaggiatore veneziano (che continueranno per tutto il 2005) sono una ghiotta occasione culturale. Ma anche l'opportunità per iniziare una nuova ricerca. Di mercato
Antonella Barina


Aveva 17 anni Marco Polo quando nel 1271 lasciò Venezia, affascinato dai racconti dei mercanti che approdavano in laguna carichi di seta e di spezie, e con il padre Niccolo e lo zio Matteo andò a cercar fortuna in Oriente. Ci vollero tre anni e mezzo per percorrere più di 12 mila chilometri sull'antica Via della Seta, fino a raggiungere Shangdu, la sontuosa capitale estiva di Kublai Khan, signore di un impero immenso, che si estendeva dal Fiume Giallo a tutta l'Asia centrale.
E una volta in Cina i Polo si fermarono 17 anni: Marco divenne corriere di fiducia di Kublai, inoltrandosi in terre inesplorate. Per fare infine ritorno a Venezia via mare, costeggiando Sumatra e l'India. E attraccare in laguna 24 anni dopo la partenza.
Marco Polo fu tra i primi a spingersi così lontano per riportare mercanzie e conoscenza. E il solo che al ritorno scrisse un libro come Il Milione quello straordinario racconto delle sue avventure Marco lo dettò allo scrittore Rustichello da Pisa, quando entrambi finirono prigionieri nel carcere dì Genova, per aver combattuto nelle battaglie tra Repubbliche marinare. Memorie di viaggio, raccolte per ammazzare il tempo in cella. Eppure svettate tra i bestseller di tutti i tempi. E rimaste per secoli la più preziosa fonte di notizie sulla Cina. Il Paese che oggi si prepara a diventare la principale potenza economica del mondo. Quello da cui sarà impossibile prescindere in futuro; quello che l'Italia si pente d'aver trascurato, rimanendo indietro rispetto al resto dell'Occidente in fatto di grossi investimenti.
Ed ecco allora che le celebrazioni dei 750 anni dalla nascita di Marco Polo, antesignano dei pionieri in Cina, diventano l'occasione per intensificare gli scambi culturali con la nuova tigre dell'economia mondiale. Inaugurate da un convegno nel novembre scorso (Marco nacque nel 1254), le iniziative continueranno tutto quest anno e per metà del 2006 con mostre e spettacoli a Romatro, Venezia e Pechino, programmi per le scuole e le università, congressi internazionali, seminari, pubblicazione di libri (vedi riquadro).
«Ma riscoprire Marco Polo non è solo una celebrazione» spiega Mario Sabattini, docente di Lingua e letteratura cinese all'Università di Venezia e direttore dell'Istituto italiano di cultura a Pechino fino al 2003. «Benché fosse un uomo del Medioevo, il suo approccio alla Cina era estremamente moderno. Perché lui descrive le meraviglie che incontra senza esprimere giudizi o pregiudizi; né quel senso di superiorità che invece caratterizzò i rapporti occidentali con Pechino nell'Otto-Novecento. Marco dimostra un rispetto e una disponibilità a comprendere le culture diverse, che è importantissimo rilanciare nel periodo multiculturale odierno».
I Polo, solida famiglia di mercanti, si spingono a Levante «per guadagno» (parole di Marco). Capostipiti dei tanti commercianti italiani che ancor oggi contano sulle risorse e l'industriosità cinese per irrobustire i propri affari. «In realtà gli scambi economici con la Cina sono iniziati almeno duemila anni fa, all'epoca degli antichi romani» racconta il sinologo Federico Masini, preside della Facoltà di Studi orientali di Roma e vicepresidente del Comitato nazionale per le celebrazioni dei 750 anni di Marco Polo. «Ma allora i rapporti erano indiretti: mercanti persiani e dell'Asia meridionale fungevano da intermediari. Solo all'epoca dei Polo si arriva direttamente alla fonte. Grazie alla pax mongolica: al fatto che quasi tutta l'Asia era controllata dall'impero mongolo del Gran Khan, che garantiva la sicurezza dei traffici lungo le piste carovaniere. Ma la Via della Seta torna a essere a rischio nel Tre-Quattrocento. E gli scambi si diradano. Per riprendere soprattutto via mare dopo le grandi scoperte geografiche, quando in Cina arrivano i gesuiti»
L'anima commerciale dei cinesi è ben radicata, da sempre. «La loro scarsa propensione per la religiosità li spinge soprattutto a cercare di migliorare la propria realtà terrena» continua Masini. «Se l'agricoltura serve a sfamare tante persone, il commercio serve ad accumulare ricchezza. E ieri come oggi la Cina è il Paese con il più alto tasso di risparmio».
Dopo quasi quarant'anni di steppe, montagne, deserti battuti dal vento e dalle tempeste di sabbia (quelle "voci" e "visioni" che, racconta Marco, si levavano dal terribile deserto del Gobi, disorientando i viaggiatori), i Polo raggiungono una civiltà stupefacente. Proprio come quella che oggi sbalordisce chi atterra a Pechino, Shangai, Nanchino: selve di grattacieli che in dieci anni hanno sostituito i vecchi quatieri fatiscenti, battendo ogni record mondiale con la più alta torre della tv o il più esteso centro commerciale. Dice Sabattini «La Cina che incantò Marco Polo era un Paese in continua trasformazione, assai più avanzato dell'Europa sul piano tecnologico: aveva già la carta, la stampa, la bussola, la polvere da sparo, la cartamoneta.... Invenzioni che in Occidente saranno all'origine dell'era moderna. E la capitale di allora, l'attuale Xian, era una città cosmopolita con due milioni di abitanti, mentre Venezia ne aveva poche decine di migliaia».
La Cina era al centro di un impero ben più vasto di quello romano all'apice della sua espansione. Un'alleanza con Kublai Khan faceva sognare il papato con il disegno strategico di prendere in una tenaglia il mondo musulmano che da due secoli minacciava la cristianità. «Anche oggi è importantissimo, per l'Occidente, allearsi con la Cina» continua Masini. «E non solo perché nella lotta al terrorismo islamico Pechino condivide i valori occidentali. Anche perche la Cina finirà per sopravanzare gli Usa sul piano economico e militare: con un tasso di sviluppo del 10 per cento annuo ha già un effetto traino sull'economia mondiale; e prima o poi modernizzerà anche il suo arsenale militare. La vera sfida? Sarà vedere se riuscirà a imporsi come potenza culturale»
Masini conclude. «Riproporre oggi la figura di Marco Polo, che fu tra i primi a riconoscere le enormi potenzialità cinesi, è un invito a riprendere un'antica tradizione. Tra i Paesi occidentali, l'Italia poteva vantare in passato una storia di rapporti con la Cina unica al mondo: grazie all'antica Roma, alla Venezia di Marco Polo, ai gesuiti... Poi, a partire dall'Ottocento, ha incominciato a perdere i vantaggi storici acquisiti. Per finire in coda negli ultimi anni, da quando Stati Uniti, Francia, Germania e Gran Bretagna hanno fatto grossi investimenti produttivi. E culturali: offrendo a quella che poi è diventata la nuova classe dirigente cinese la possibilità di studiare nelle loro università. Insomma, è ora che l'Italia recuperi il tempo perduto. E Marco Polo e un ottimo spunto: lui era all'avanguardia».
Il Messaggero mercoledì 26 Gennaio 2005
Delitto di Cogne
Parla lo psichiatra Fornari

IL PERITO CHE VISITÒ LA FRANZONI: «NELLA SUA MENTE C’È IL CAOS»


Milano - «Annamaria Franzoni è malata, c'è il caos nella sua mente». Lo rivela in un'intervista al settimanale “Oggi” (che ne ha fornito un'anticipazione) il professor Ugo Fornari, docente di psichiatria forense all'Università di Torino, uno dei nove psichiatri che, nel luglio 2002, sottoposero la Franzoni al test per capire se fosse capace di intendere e di volere. Fu proprio Fornari - consulente del pm - che si dissociò dalle conclusioni raggiunte dai periti nominati dal Gip e dai periti della difesa: quando loro conclusero che la signora Franzoni era sana di mente e aveva piena capacità di intendere e di volere, lui contestò punto per punto le loro valutazioni. A distanza di tre anni, per “Oggi” (in edicola oggi) il professor Fornari ha accettato di rileggere la perizia e di circostanziare le contestazioni e le osservazioni che mosse al lavoro dei suoi colleghi. «La signora Franzoni - dice Fornari - ha un evidente disturbo nel funzionamento e nella struttura della sua personalità, un funzionamento borderline: offre di sé un'immagine ordinata, precisa, ineccepibile ma dietro questa facciata c'è il caos. Fa fatica a stabilire i confini, a distinguere tra mondo esterno e mondo interiore, tra realtà e fantasia. Il test di Rorschach, dieci tavole che indagano nel profondo la struttura e il funzionamento della personalità, evidenziò con chiarezza questo disturbo. Inoltre la Franzoni era una persona depressa, da mesi». Sul motivo che avrebbe indotto la Franzoni ad un gesto estremo, il professor Fornari spiega, secondo quanto anticipato: «La signora Franzoni, che è una persona molto attenta alla perfezione formale, molto controllata, posto che come dice la sentenza di primo grado abbia ucciso suo figlio, potrebbe aver voluto eliminare l'elemento imperfetto, il suo prodotto “mal riuscito”. La testa grossa, la testa calda di Samuele, era lo specchio della sua fallibilità». E Fornari contesta anche il comportamento tenuto dai suoi colleghi durante il test: «Tutti, persino il professor Barale, stimato psichiatra con un curriculum di alto profilo, invece di indagare dentro quell'angoscia preferirono fermarsi, essere cauti. Prevalse un atteggiamento protettivo, quando lei pianse ci fu chi le prese la mano. Secondo me, i periti dell'ufficio l'hanno trattata da paziente, non da perizianda. Hanno temuto di scatenare scompensi emotivi gravi cosa che, in effetti, sarebbe potuta succedere. Non andare sino in fondo però ha penalizzato il risultato degli incontri, che non avevano come obiettivo un progetto terapeutico, ma la valutazione di uno stato di mente».

Edoardo Boncinelli non sa delle scoperte sulla rétina

Corriere della Sera 26.1.05
Embrioni Non esiste l’ora X
di EDOARDO BONCINELLI


Non avrei mai immaginato che qualcuno si potesse interessare tanto al dettaglio cronologico delle prime fasi della formazione dell'embrione. Ma sento e leggo di continue dispute sull'argomento, tanto più accese quanto più confuse. Ci si chiede quando inizia la vita umana; se due giorni dopo la fecondazione si può già parlare di essere umano oppure no; oppure se occorre per questo aspettare la fine della seconda settimana; se l'embrione è un individuo in potenza o in atto e via discorrendo.
Antonio Socci, in un’intervista pubblicata dal Corriere lunedì scorso, vuole sapere in quale momento preciso l’embrione diventa essere umano («Da anni - dice Socci - noi cattolici poniamo una domanda: se l’embrione al primo stadio non è un essere umano, qualcuno dovrebbe dire in quale momento preciso lo diventa e non così, per convenzione, ma con un certo appiglio scientifico»). Si mischiano e si confondono in queste polemiche concetti molto diversi come quello di vita, di essere umano, di concepito, di embrione, di individuo e di persona, umana o giuridica.
Alcuni di questi termini hanno una definizione scientifica, altri sono di origine scientifica ma sono usati quasi quotidianamente nel parlare corrente, altri sono decisamente extrascientifici. Cercherò di chiarire alcuni punti, almeno quelli di più stretta pertinenza scientifica.
Cominciamo con l'inizio della vita di un organismo. Non c'è dubbio che la vita di un organismo specifico - ranocchio, gatto o uomo - inizia con la fecondazione, cioè con la congiunzione di un gamete maschile, lo spermatozoo, e uno femminile, la cellula-uovo o ovocita maturo.
Il processo dura diverse ore, per cui non è facile dire esattamente quando inizi la nuova vita, ma certamente una condizione necessaria per poter parlare di un nuovo organismo è che si combinino tra loro i Dna dei due genomi, quello paterno e quello materno, per dar vita ad un genoma nuovo e molto probabilmente unico.
L’uovo fecondato prende il nome tecnico di zigote. È una singola cellula, ma si mette subito in moto per duplicarsi e dare due cellule, poi quattro, poi otto, poi sedici. Fino a questo punto il tutto ha la forma di una minuscola mora e prende non a caso il nome di morula. A partire dallo stadio di 32 cellule, all’interno della massa compatta della morula si forma una minuscola cavità. Si è passati così allo stadio di blastula o più precisamente di blastocisti. Il numero di cellule continua a crescere, anche se lentamente; la cavità si espande e verso il quarto giorno al suo interno comincia a vedersi una masserella di cellule. Questa masserella è chiamata massa cellulare interna dagli autori anglosassoni mentre da noi viene detto in genere embrioblasto o, in una fase leggermente più avanzata, bottone embrionale. Da questa masserella e solo da questa trarrà origine il futuro embrione, mentre tutto quello che c’era prima e che c’è intorno ad essa a questo stadio contribuirà soltanto a formare le membrane delle quali l’embrione avrà bisogno per nutrirsi durante la gestazione, ma che alla fine del parto verranno gettate via. Occorre notare che questa caratteristica riguarda solo i mammiferi, mentre non ha l’uguale in altre categorie di animali. Sarebbe molto interessante soffermarsi su questa osservazione, ma non è ora il caso. Può accadere in questo stadio che all’interno della stessa blastocisti, di masserelle cellulari interne se ne formino due (o tre) invece di una sola. In questo caso si giungerà ad avere due (o tre) gemelli, cosiddetti identici, invece di un solo individuo.
Fino a questo punto tutto è avvenuto all’interno della tuba e la blastocisti è ancora libera di vagare. Non sopravvivrebbe però a lungo se non si impiantasse, attraverso una complessa successione di eventi, nel tessuto dell’utero materno, dal quale trarrà d’ora in poi il nutrimento. La fase dell’impianto nell’utero è una fase molto critica, passata la quale la blastocisti ce l’ha quasi fatta e l’embrioblasto che quella contiene può cominciare a nutrire qualche fiducia nella possibilità di dar luogo ad un bambino o ad una bambina.
È bene notare però che al suo interno l’embrioblasto non ha ancora una minima traccia di polarità. Non sa ancora, in parole povere, dove avrà la testa e dove la coda. I primi segni di questa polarità testa-coda compaiono all’interno dell’embrioblasto verso la fine della seconda settimana di gestazione. A circa tredici giorni si comincia a distinguere un asse corporeo principale e il giorno successivo, il quattordicesimo, i primi tenui segni di un sistema nervoso centrale e di una struttura spinale. A questo stadio il bottone embrionale, lungo poco più di un decimo di millimetro, comincia progressivamente a prendere una forma definita di embrione. Compariranno ancora altri organi e tutti quanti dovranno crescere di dimensioni e maturare, ma lo schema generale del corpo è già lì. Sullo sfondo di questa successione di eventi possiamo ora porci domande più specifiche.
Quando comincia la vita? Senza voler cavillare che la vita è cominciata una volta sola quasi quattro miliardi di anni fa, possiamo affermare, come già detto, che la vita di un particolare organismo comincia in condizioni normali con la fecondazione, cioè con l’unione del gamete paterno con quello materno. Non è un processo istantaneo per cui non ha senso chiedersi esattamente il momento di questa unione, ma certo questo cadrà all’interno delle ore della prima giornata. Lo zigote così ottenuto è un individuo? E, soprattutto, è un individuo la morula di otto o sedici cellule presente il giorno dopo, cioè il secondo giorno di gestazione, quando si può eseguire, volendo, una diagnosi preimpianto? È certamente un progetto di individuo, ma lo diverrà effettivamente soltanto nel 15-20% dei casi, perché la maggioranza delle morule non porterà, anche in condizioni normali, a nessun embrione e una percentuale non trascurabile di queste porteranno a due o più embrioni. È bene notare che è una fortuna che non tutte le morule giungano a dare un embrione. Si tratta infatti di un fondamentale «periodo di prova» durante il quale le morule che potrebbero dar luogo a embrioni difettosi vengono «saggiate» dalla natura e eventualmente scartate.
Quando comincia l’embrione? Se per embrione intendiamo l’insieme delle parti che formeranno il suo corpo, queste non compaiono prima del quarto-quinto giorno. Prima non ci sono e fino al dodicesimo giorno sono assolutamente informi. Quando è che l’embrione è un essere senziente? Non lo sappiamo con certezza, ma è difficile pensare che ciò possa accadere, anche solo potenzialmente, prima della comparsa di una minima traccia di sistema nervoso, comparsa che si registra il quattordicesimo giorno. Quando è che un embrione diventa persona e come tale gode dei diritti scritti e non scritti spettanti ad una persona? Questa è una domanda che esula dalla biologia e dalla scienza in generale e qui mi fermo. Ma non senza aver notato che alla fin fine è questa l’unica domanda rilevante, alla quale tutti siamo chiamati a dare una risposta, anche provvisoria e rivedibile. Per noi e per i nostri figli.
Dal punto di vista biologico non c’è in sostanza nessuna discontinuità dal concepimento alla nascita e oltre. Questo non significa che non si possano porre degli spartiacque, come quando si è deciso che a 18 anni una persona è maggiorenne. Non succede niente di particolare a 18 anni, ma la convenzione umana ha fissato questo limite e a volte lo ha anche cambiato. Una convenzione, appunto. Non possiamo chiedere alla natura o alla scienza di cavare le castagne dal fuoco al posto nostro. Occorre prenderci le nostre responsabilità e fissare dei limiti, che non potranno che avere una componente di convenzionalità. D’altra parte è una scelta che spetta all’uomo in una autentica prospettiva umanistica.
Le Scienze 24.01.2005
Combattere la depressione giovanile
Migliorando la qualità dei trattamenti, i sintomi diminuiscono più facilmente


Secondo uno studio pubblicato sul numero del 19 gennaio 2004 della rivista "Journal of the American Medical Association", un particolare intervento mirato a migliorare la qualità dei trattamenti sarebbe efficace nel ridurre la depressione negli adolescenti.
La prevalenza della depressione grave nell'adolescenza è stimata dal 15 al 20 per cento, e il 28,3 per cento degli adolescenti riferisce di periodi, nell'anno precedente, caratterizzati da sintomi depressivi. Il disturbo, se non trattato, può condurre al suicidio (è la prima causa di morte fra i giovani di 15-24 anni) o avere altri sviluppi negativi, compreso l'abbandono scolastico, gravidanze indesiderate, l'abuso di droghe, e la depressione in età adulta.
Lo studio effettuato da Joan Rosenbaum Asarnow della David Geffen School of Medicine dell'Università della California di Los Angeles e colleghi intendeva determinare i risultati di un intervento di miglioramento della qualità dei trattamenti. Il trial è stato condotto fra il 1999 e il 2003 su 418 pazienti con sintomi depressivi, di età compresa fra i 13 e i 21 anni. L'intervento prevedeva la presenza di team di esperti presso i siti, care manager a sostegno dei medici nella valutazione dei pazienti, corsi di aggiornamento per il personale addetto ai trattamenti per la depressione, maggior scelta ai pazienti sul tipo di cura da seguire.
I sintomi della depressione sono stati misurati usando la scala CES-D del Center for Epidemiological Studies. Gli autori hanno valutato anche la qualità della vita associata alla salute mentale e la soddisfazione dei pazienti per il trattamento ricevuto.
I ricercatori hanno scoperto che i pazienti sottoposti all'intervento, sei mesi dopo la conclusione dei trattamenti, riferivano una quantità significativamente minore di sintomi depressivi (un punteggio CES-D medio di 19,0 contro 21,4), una qualità di vita superiore e una maggior soddisfazione per le cure ricevute. "Si tratta - commentano gli autori - della dimostrazione che migliorando la qualità dei trattamenti è possibile combattere meglio la depressione degli adolescenti".

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martedì 25 gennaio 2005


AMORE E PSICHE

Le Nuove Edizioni Romane informano che

il n.1/2005 della rivista
"Il sogno della farfalla"

è disponibile presso la Casa Editrice, la
libreria Amore e Psiche e negli altri abituali punti vendita

e a Firenze, come sempre:
è da STRATAGEMMA
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Libreria Amore e Psiche
via santa caterina da siena, 61 roma
info:06/6783908 amorepsiche2003@libero.it
i nostri orari: lunedi 15-20
dal martedi alla domenica 10-20

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guerra
nuovi barbari a Babilonia

La Stampa 25 Gennaio 2005
Quel che (non) resta di Babilonia
SULLE ROVINE DELL’ANTICA CITTÀ, IN IRAQ, UNA BASE MILITARE AMERICANO-POLACCA: ECCO L’ELENCO DEI DANNI IRRIMEDIABILI
Maurizio Assalto

Perché un campo nel sito più importante? Invernizzi: «Faceva comodo così, è terreno demaniale, non si doveva espropriare i contadini»
Bergamini: «Ho visto le foto aeree: spaventose. Molto peggio della prima guerra del Golfo»
Un rapporto stilato dall’archeologo John Curtis, del British Museum, fa inorridire la comunità degli studiosi: descrive l’equivalente, sul piano culturale, delle teste mozzate esibite dai fanatici di al Zarqawi
«BABILONIA diventerà un monte di rovine, una dimora di sciacalli, un oggetto di stupore e di scherno, senza abitanti». Quando Jahvé degli eserciti dettava questo vaticinio al profeta Geremia, neppure la sua immaginazione onnisciente poteva prevedere che la vendetta divina si sarebbe consumata ancora a distanza di 26 secoli, mille e più anni dopo la scomparsa di ogni insediamento umano da quella che era stata la splendida capitale di Hammurabi e di Nabucodonosor e della leggendaria Semiramide, dei giardini pensili e della Torre di Babele. Quel che tutti temevano, da quando nell'aprile del 2003 il sito a pochi chilometri da Baghdad venne occupato dai «liberatori» americani per stabilirvi una base militare, è ovviamente avvenuto, e ora ci sono le prove, puntuali e documentate: un rapporto di 14 pagine fitte di accuse, anche se purtroppo non esaustivo, stilato dal responsabile del Dipartimento del Vicino Oriente al British Museum, John Curtis, che a fine dicembre è stato il primo archeologo occidentale a rimettere piede, su invito dei colleghi locali, nell'area riconsegnata formalmente all'autorità provvisoria irachena.
I soldati in armi, con i loro mezzi blindati, sulle rovine di Babilonia. Una follia, uno sfregio, «come impiantare una base militare intorno alla Grande Piramide in Egitto, o a Stonehenge in Gran Bretagna», si legge nel rapporto, che il quotidiano londinese The Guardian ha potuto esaminare in anteprima costruendovi un servizio in più pagine con foto e commenti. Babilonia, va ricordato, non è soltanto il sito più importante, per estensione e per quantità di strutture riportate alla luce, di tutto l'Iraq. È anche un simbolo, un nome dal suono magico e evocativo: per gli iracheni di oggi - tanto è vero che Saddam Hussein aveva costruito qui uno dei suoi innumerevoli palazzi, riedificando altresì, con criteri discutibili, le strutture antiche, in una sorta di Disneyland mesopotamica a uso dei turisti - come per la tradizione greca e ebraica e per quella islamica.
«Che il nemico non la traversi»
In una delle immagini a corredo del rapporto si vedono i soldati polacchi, che dal settembre del 2003 sono subentrati agli americani alla guida della forza multinazionale di stanza a Camp Babylon. Con i loro stivali martellano i mattoni del pavimento originale del VI secolo a.C. della Via delle Processioni (nei testi antichi, con involontaria ironia, Ai-ibur-shabu, «che il nemico non la traversi»), la strada che portava verso il tempio della divinità poliade Marduk, signore delle tempeste. In primo piano un cartello scritto a mano, con il pennarello: «Take care and protect Babylon, please». Una flebile supplica, lasciata lì dai responsabili del locale museo. Inutilmente. In un paio di zone in cui il pavimento è tornato alla luce i mattoni sono frantumati, intuibile effetto del passaggio di uno o più veicoli pesanti. «Se è così», aggiunge Curtis, «è probabile che anche i mattoni ancora ricoperti dalla terra siano ugualmente danneggiati». Senza contare che sono state riscontrate abbondanti tracce di perdite di carburante, che si infiltra nel terreno aggredendo le strutture sepolte più antiche.
Il rapporto si occupa anche della Porta di Ishtar, la replica in scala ridotta, voluta da Saddam, dell'antico accesso alla città dedicato alla grande dea dell'amore. Di qui transitano ogni giorno i militari - fino a seimila, su un campo arrivato a 150 ettari - dopo avere pericolosamente lambito la grande statua di basalto del Leone di Babilonia, che sta lì dalla metà del II millennio a.C. L'originale della Porta, con i suoi meravigliosi mattoni smaltati e invetriati nelle sfumature del verde, del giallo, del blu, è stato ricomposto al Pergamon Museum di Berlino - come molti dei reperti recuperati nell'antica città dall'archeologo tedesco Robert Koldewey, che la scavò tra il 1899 e il 1917 - ma in situ si trova ancora qualche cosa: le fondamenta sotterranee, che sebbene non fossero mai state visibili erano tuttavia ricche di iscrizioni e decorate con bellissime figure di draghi a rilievo (come quelli di Berlino) ottenute da mosaici di mattoni. Implacabile, Mr Curtis registra dieci differenti aree in cui le figure risultano danneggiate, «a causa di una o più persone che hanno cercato di rimuovere un mattone decorato».
Altro punto dolente, la ziqqurat Etemananki: ossia il colossale complesso a piattaforme quadrate sovrapposte, dedicato a Marduk, che ha originato il ricordo biblico della Torre di Babele. Fondato dai sovrani della prima dinastia babilonese, nel XII secolo a.C., ripreso 600 anni dopo dall'iniziatore dell'impero neobabilonese Nabopolassar e completato da suo figlio Nabucodonosor II - il sovrano che regnò dal 605 al 562, cambiando il volto della città e facendone la più splendida e più estesa capitale dell'antichità pre-ellenistica - l'Etemananki misurava 91,50 metri di lato per un'altezza all'incirca pari sviluppata su sette livelli uniti da un camminamento esterno. Ora non ne rimane quasi niente, fuori terra (forma e misure le dobbiamo alle accurate descrizioni di Erodoto e a un testo cuneiforme redatto in età seleucide): tutti i mattoni cotti sono stati depredati nel corso dei secoli e reimpiegati per costruire le città e i villaggi vicini, come Hilla; resta soltanto un nucleo di mattoni crudi, non riutilizzabili, circondato da un canneto. Però ci sarebbe ancora molto da scavare (i tedeschi sono tornati a lavorare nella ziqqurat per un breve periodo negli anni 70) e probabilmente molto da riportare alla luce. Non fosse che qui i militari hanno scavato diverse trincee. «Una grande quantità di vasellame e numerosi frammenti di mattone con iscrizioni cuneiformi di Nabucodonosor sono stati osservati sui bordi del materiale sterrato», annota Curtis.
Anche vicino al cosiddetto Warsaw Gate, dove passano quotidianamente le truppe polacche, sono state scavate un paio di trincee lunghe 20 metri, e anche qui l'archeologo del British Museum ha potuto notare i frammenti con le antiche iscrizioni. In uno di questi si legge: «Io sono Nabucodonosor re di Babilonia, figlio maggiore di Nabopolassar re di Babilonia, che provvede all'Esagil e all’Ezadil». Beffarda ironia dei nomi, ancora una volta: il grande sovrano Nabu-kudurri-usur - come suona in accadico, «o dio Nabu, proteggi la discendenza» - davvero non è riuscito a scongiurare la sorte più insultante per la sua città-capolavoro.
Sembra pazzesco. E lo è. Ma è incredibilmente vero. In tutta l'area di Babilonia migliaia di tonnellate di materiale archeologico mescolato alla sabbia sono servite a riempire i sacchi posti a difesa delle installazioni militari. E quando questa pratica sciagurata è stata fermata, altre migliaia di tonnellate di terra portata da fuori hanno irrimediabilmente contaminato il sito per le future generazioni di archeologi: forse non si potrà più ricavare niente dal Palazzo meridionale di Nabucodonosor, uno dei tre che il sovrano si fece costruire in città, né si potrà mai individuare il luogo dei famosi giardini pensili. Non basta. Intere zone sono state livellate e ricoperte di ghiaia - che, assicura il rapporto, sarà impossibile rimuovere senza provocare ulteriori danni - e quindi trattate con prodotti chimici, per impiantarvi parcheggi per gli automezzi blindati e eliporti.
Postazione strategica
Dall'Inghilterra all'America all'Italia, la comunità scientifica ha reagito inorridita alle rivelazioni di Curtis. Gli affronti al patrimonio archeologico sono l’equivalente, su un altro piano, delle teste mozzate esibite dai fanatici di al Zarkawi. Ancora una volta l'aspetto inumano - nel senso più profondo - della guerra si rivela emblematicamente nella sua insensibilità verso la cultura, nel suo accanirsi non soltanto contro gli individui in carne e ossa, ma contro l'umanità nella sua essenza.
In verità le voci filtravano da tempo. Giovanni Bergamini, direttore presso il Museo Egizio di Torino ma archeologo orientalista, aveva captato qualche cosa quando, in ottobre, aveva tenuto a Amman un corso per il personale iracheno che dovrà occuparsi del ripristino del patrimonio: «Ho visto una serie di immagini aeree, il confronto con le stesse zone fotografate nel '74 è spaventoso: colline spianate, terreni sforacchiati... Tutti si sono concentrati sul saccheggio del museo di Baghdad, nell'aprile del 2003, ma il dramma è più diffuso. Per quanto riguarda Babilonia, è molto peggio che dopo la prima guerra del Golfo: il sito era abbastanza tutelato, grazie anche alla presenza di una sede della Direzione delle Antichità. Praticamente non aveva subito danni: tanto è vero che negli anni successivi ha continuato a ospitare un festival artistico, ogni primavera, con cui il regime cercava di darsi un po' di prestigio».
Anche Roberto Parapetti, architetto del Crast di Torino che aveva avuto l’incarico di elaborare un progetto per la valorizzazione del Palazzo meridionale di Nabucodonosor e della Porta di Ishtar, era stato informato, durante un recente congresso a Boston dell'American Institute of Archaeology. «Ho incontrato Donny George, uno dei massimi rappresentanti delle Antichità di Baghdad. Mi ha parlato dei danneggiamenti, diceva che adesso la cosa più importante è tenere sotto controllo i siti, per impedire ulteriori saccheggi. Dai primi di gennaio a Babilonia c'è un corpo di guardia di 240 poliziotti locali». Basterà? Il peggio, comunque, è già accaduto. Gli strati più antichi della città, quelli risalenti all'epoca di Hammurabi (XVIII secolo a.C.) e prima ancora, sono sepolti a 40 metri di profondità sotto la falda acquifera e forse non si recupereranno mai, come teme Bergamini; quelli più recenti, relativi all'età neobabilonese, o sono già stati asportati o sono ora seriamente compromessi.
Ma, appunto, come è potuto accadere? Perché, con tanto territorio disponibile, gli Stati Uniti (che, come si ricorderà, non hanno mai sottoscritto la Convenzione dell'Aia del 1954 per la tutela del patrimonio culturale mondiale in caso di guerra) hanno stabilito una base militare proprio sul sito più significativo di tutto l'Iraq?
La risposta è semplice, secondo Parapetti: «Babilonia è considerata una postazione strategica, a metà strada tra Baghdad e Kerbala». Anche Antonio Invernizzi conosce bene la zona, per esservi stato spesso con le missioni del Crast, uno dei gruppi archeologici più attivi in Mesopotamia, apprezzato in tutto il mondo: «Si sono sistemati lì perché gli faceva comodo. Babilonia non ha villaggi a ridosso, è terreno demaniale, quindi non era necessario espropriare nessuno». In definitiva gli americani si sarebbero comportati come le antiche popolazioni della Mezzaluna fertile, che ricostruivano le loro città sulle rovine degli insediamenti precedenti, dando origine ai tell, per non sottrarre terreno alle coltivazioni circostanti.
Se Hammurabi vedesse
Uno scrupolo perfino lodevole, non fosse che... Lo stesso rapporto Curtis, del resto, riconosce che, almeno inizialmente, la presenza militare era servita a tenere lontani i predatori. E Invernizzi ricorda che a volte perfino le operazioni di guerra possono essere utili all'archeologia: come accadde durante il conflitto Iran-Iraq, a cavallo tra gli anni 70 e 80, quando le truppe di Saddam che avevano occupato il sito di Seleucia, scavando le trincee difensive, avevano sterrato una rara statua bronzea ellenistica di Eracle, subito affidata ai responsabili delle Antichità e nell’85-86 esposta a Torino, Firenze e Roma nella storica mostra «La terra tra i due fiumi». Però quella fu un'eccezione. La regola, in questi casi, è diversa.
Naturalmente gli interessati respingono le accuse. Il comando polacco, letto il rapporto di Curtis, ha ribadito di avere soltanto protetto il sito dai vandalismi, e subito il viceministro della Difesa iracheno, Ziad Cattan, ha fatto eco, confermando che «non sono stati provocati danni a Babilonia da truppe americane o polacche» e aggiungendo di avere chiesto a Varsavia di non ridurre di un terzo, come annunciato, il suo contingente di 2500 uomini dopo le elezioni del 30 gennaio. C'è da domandarsi, allora, che cosa abbia visto l'archeologo britannico, che cosa abbiano visto i suoi colleghi iracheni che ne hanno avvalorato la testimonianza, arricchendola di dettagli. Chissà se Hammurabi, il padre del celebre Codice, può osservare quel che accade, da qualche parte del gorgo buio in cui confluiscono gli uomini del passato e i loro dèi. Forse sta già brandendo il taglione.