lunedì 14 marzo 2005

storia e medicina
Ignac Semmelweis e Jakob Moleschott

La Stampa TuttoLibri 12.3.05
Vienna 1848, il cloro in soccorso delle culle

CHE moti rivoluzionari possano costringere la storia a sobbalzi e scompigliamenti è nell'ordine delle cose. Meno consueto è che le barricate sulle strade possano fermare - per settimane e settimane - il procedere di una terribile patologia come quella che, nei reparti ostetrici dei grandi ospedali costruiti tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento in tutta Europa, uccide le puerpere in percentuali impressionanti. Eppure - come ricostruisce Sherwin B. Nuland nel suo ottimo libro Il morbo dei dottori. La strana storia di Ignac Semmelweis, appena pubblicato da Codice edizioni - a Vienna, nel marzo del 1848, accade proprio questo. Mentre tutti gli studenti e buona parte dei professori (anche quelli della facoltà di Medicina) accorrono sulle barricate contro l'odiato governo di Metternich nei due reparti dell'Allgemeines Krankenhaus «non ci fu un singolo caso di febbre puerperale per tutto un mese...». Va rammentato che in quello che era l'ospedale più vasto di Vienna i decessi delle ricoverate in ostetricia andavano dal mezzo migliaio al migliaio ogni anno, con una una media letale complessiva del 7 per cento, che superava la quota già impressionante del 5 per cento che si registrava a Londra e a Parigi. La terapia apparente che aveva momentaneamente sconfitto il morbo era stata - semplicemente - l'assenza dei professori e degli studenti di medicina. Una constatazione che aveva rafforzato in modo definitivo la convinzione maturata nel dottor Semmelweis, medico ungherese in servizio nel reparto, circa l'origine della «febbre puerperale». A far da tramite dell'infezione, che nel giro di pochi giorni portava a morte, dopo il parto, le donne ricoverate, erano - secondo Semmelweis - gli studenti e i professori che, dopo aver dissezionato cadaveri per le lezioni di anatomia patologica, passavano a prestare assistenza alle partorienti. Senza darsi cura alcuna di una scrupolosa antisepsi. Del resto i parti in casa, o nei reparti dove le cure erano prestate da ostetriche e infermiere, non conoscevano le percentuali di decessi che si registravano nelle corsie universitarie. E a lungo la scienza medica si era interrogata sulle ragioni della stagionalità della virulenza della febbre puerperale, ipotizzando l'effetto di miasmi ambientali, del caldo o del freddo, mentre invece dipendeva semplicemente dal calendario delle lezioni di anatomia. Infatti bastò l'obbligo, imposto da Semmelweis ai suoi colleghi e agli studenti, di lavarsi accuratamente le mani in una soluzione di cloro, per abbattere drasticamente la mortalità nel reparto. Ma se l'intuizione del medico ungherese costituiva una grande vittoria della scienza, rappresentava, al tempo stesso, una dolorosa ammissione di responsabilità per la corporazione medica. E molti, a cominciare dal conservatore Klein, primario del reparto, non ne vollero sapere e brigarono fino a quando Semmelweis, penalizzato peraltro da un carattere impossibile, fu cacciato da Vienna. E condannato ad una miserabile fine. Ucciso, massacrato di botte, nel manicomio di Vienna dove venne ricoverato dopo aver perso la ragione. Sempre sotto il cielo tempestoso del 1848 prende avvio la diversa e ben più fortunata parabola esistenziale di un altro luminare della medicina ottocentesca, che - come va a ricostruire Giorgio Cosmacini nell'accurata biografia appena pubblicata da Laterza, Il medico materialista. Vita e pensiero di Jakob Moleschott - tanto influirà sulla scienza medica dell'Italia appena unificata. Nato in Olanda nel 1818, quattro anni prima dunque di Semmelweis, Moleschott prima della bufera del quarantotto ha fatto in tempo a laurearsi, a salire in cattedra e a riconoscersi saldamente nei «giovani hegeliani», e soprattutto in Feuerbach, presi di mira nel 1845 dal giovane Marx ne La sacra famiglia e ne Le tesi su Feuerbach. Quando nel marzo del '48 scoppiano i moti studenteschi, il professor Moleschott, passato da alcuni anni da Utrecht a Heildelberg, condivide entusiasticamente gli obiettivi dei contestatori anche se, al momento, è impegnato in una sua personalissima, duplice rivoluzione. Il primo passo, fatto in quella primavera cruciale, è dato dal matrimonio; il secondo è l'acquisto del miglior microscopio disponibile, comprato grazie alla dote della consorte. Il materialismo scientifico con cui Moleschott caratterizzerà nei decenni successivi l'insegnamento della fisiologia e la sua scuola medica comincia da qui, da un gesto innovatore e eversivo nei confronti delle gerarchie accademiche poiché, come scrive Cosmacini, «il laboratorio da luogo collegato alla didattica e infeudato al cattedratico, si rende via via più autonomo, diventando luogo di ricerca dove il leader emergente non è necessariamente il professore titolare della cattedra...». Moleschott, a differenza del geniale Semmelweis, è più divulgatore e didatta che scienziato ma, soprattutto, sa affrontare la conservazione accademica - scatenata contro di lui dopo il vasto successo de La circolazione della vita, vero e proprio manifesto del materialismo scientifico - con mosse mai autolesioniste. Messo alle strette in Germania, emigra verso l'università di Zurigo, dove conosce e stringe amicizia col nostro Francesco De Sanctis, allora docente al Politecnico. Quando nel 1861 De Sanctis diventa ministro dell'istruzione del Regno d'Italia offre subito la più prestigiosa cattedra di fisiologia, quella torinese, a Moleschott che si trasferisce in Italia. Nonostante durissime opposizioni la sua ascesa sarà forte e costante, sino ad approdare alla cattedra presso la «Sapienza» di Roma e al laticlavio. Il materialismo scientifico di Moleschott «non costituiva - scrive Cosmacini - una fede cieca, ma una ragione produttiva di sapere e di progresso». Forse per questo plasmerà in modo significativo una pattuglia di allievi - da Lombroso, primo traduttore della Circolazione a Mosso, suo erede nella ricerca fisiologica - che cambieranno volto alla cultura e alla scienza medica, non solo italiana. Il Nobel per la medicina, che nel 1906 viene assegnato a Camillo Golgi, è il frutto più significativo del magistero esercitato da Moleschott, l'«olandese volante» tra le cattedre, fattosi, già nel 1862, cittadino italiano.

Sherwin B. Noland, Il morbo dei dottori. La strana storia di Ignac Semmelweis, Codice Edizioni, p. 146 €18
Giorgio Cosmacini, Il pensiero materialista. Vita e pensiero di Jakob Moleschott, Laterza, p. 189 €18

Einstein e le immagini
«libere creazioni della mente umana»

L'Unità 14 Marzo 2005
Il 14 marzo di cento anni fa, il grande fisico scrisse uno degli articoli che rivoluzionarono il modo di vedere il mondo. In un libro di Michio Kaku si ipotizza come potesse lavorare la sua creatività
Il segreto di Einstein: un’immagine mentale che lo seguiva fin da bambino
Pietro Greco

Il 14 marzo del 1905, un giovane impiegato dell'Ufficio Brevetti di Berna di 26 anni, Albert Einstein, termina un articolo scientifico che invia alla rivista tedesca Annalen der Physik col il titolo «Su un punto di vista euristico circa la generazione e la trasformazione della luce». L'articolo è a dir poco rivoluzionario. Einstein propone l'esistenza dei «quanti di luce» e con essi di una nuova fisica: una fisica in cui le onde elettromagnetiche si comportano come particelle. Per questo lavoro Albert Einstein otterrà il premio Nobel e sarà considerato, insieme a Max Planck e a Niels Bohr, uno dei tre «padri fondatori» della fisica quantistica.
Tuttavia quell'articolo non è l'unico che il giovane scrive nel 1905. Nei mesi successivi ne scriverà altri quattro e, inoltre, scriverà una tesi di dottorato. Con due di quegli articoli Einstein getterà le basi della relatività ristretta, ovvero una nuova teoria dello spazio e del tempo da cui deriva la formula più famosa del mondo (E = mc2) che contiene in sé l'eguaglianza tra materia ed energia. Con altri due articoli sul cosiddetto moto browniano e con la tesi di dottorato Einstein contribuirà a corroborare e a far accettare ai fisici la teoria atomica della materia.
Il 1905 è davvero l'annus mirabilis di Einstein. L'anno in cui, per dirla con Louis de Broglie, il giovane impiegato dell'Ufficio Brevetti di Berna lancia «tre razzi fiammeggianti» che improvvisamente illuminano una parte buia della fisica. Come è stato possibile che una simile impresa riuscisse a uno sconosciuto giovanotto fuori dall’accademia?
Einstein vanta biografi in gran numero. E tutti, in un modo o nell'altro, hanno cercato di rispondere a questa domanda. Alcuni sostengono, per esempio, che i «tre razzi fiammeggianti» sono parti indipendenti di un unico progetto scientifico, unificare la fisica mediante un'unica grande teoria, che a sua volta deriva da una precisa visione del mondo metafisica: la realtà naturale è unitaria e questa sua intima unità può essere colta dall'uomo per mezzo della ragione. Tuttavia, molti hanno una visione del mondo compiuta e molti cercano di tradurla in un progetto scientifico. Ma solo Einstein è riuscito a ottenere così tanti risultati. Qual è il segreto di una così straordinaria creatività? A questa domanda fornisce una possibile risposta il libro, Il cosmo di Einstein, che il fisico di origine giapponese Michio Kaku ha appena dato alle stampe in edizione italiana per i tipi della Codice Edizioni.
La risposta fornita da Michio Kaku attiene alla particolare psicologia della ricerca di Einstein. Il quale ha sempre sostenuto che le teorie fisiche non sono «scoperte», ma sono «libere creazioni della mente umana» che descrivono in modo progressivamente più rigoroso la realtà naturale. Ebbene, nell'elaborare queste «libere creazioni della mente» gli scienziati possono procedere, diceva il matematico Jacques Hadamard, attraverso due diverse strade: quella dell'intuizione e quella della deduzione analitica (la strada matematica).
Michio Kaku descrive nel suo libro come Einstein procedesse secondo la prima strategia, quella intuitiva. Egli si crea un'immagine, vivida, del problema fisico che intende descrivere e risolvere e poi, quando ha tutto chiaro, cerca di formalizzarlo. L'immagine che lo porta alla relatività ristretta, per esempio, è quella che lo vede correre con un'onda elettromagnetica alla velocità della luce. Einstein cerca di immaginare come gli apparirebbe quell'onda osservata in quella singolare situazione. E deduce che gli apparirebbe come congelata. Sulla base di questa intuizione visiva, che lo ha seguito fin da bambino, il giovane scardina la concezione dello spazio e del tempo assoluti di Newton e ne costruisce un'altra, relativistica appunto. Ha poi facile gioco nell'utilizzare una matematica elementare per formalizzare la sua intuizione. Con un'altra immagine, quella dell'ascensore in caduta libera, intuisce una nuova teoria della gravitazione universale: la relatività generale. Avrà bisogno di alcuni anni per trovare la matematica adatta a formalizzarla. Quando, poi, cerca di giungere al traguardo scientifico del suo weltbild e di elaborare una teoria unitaria dei campi, sostiene efficacemente Michio kaku, Einstein non riuscirà a intuire un'immagine potente del problema fisico che vuole descrivere. Né tanto meno riuscirà a trovare la matematica adatta. Per questo, probabilmente, fallirà. E il suo progetto metafisico non si tradurrà in un risultato fisico.

le donne

L'Unità 14.3.05
Sesso, lavoro, sogni. Le donne italiane, quelle vere
Maria Serena Palieri

Gli anni Sessanta e Settanta - cioè la liberazione sessuale, la modernizzazione del diritto di famiglia e il femminismo - quali effetti concreti hanno prodotto nelle vite delle italiane? Se lo chiedono due libri-inchiesta che escono in prossimità di questo 8 marzo: entrambi realizzati da giornaliste, con linguaggio svelto e fresco, entrambi con la tecnica dell’«io», cioè della raccolta di storie raccontate in prima persona dalle intervistate. Già, una cosa è sicura: quei due decenni segnano una cesura, il passaggio da un universo femminile ingabbiato in pochissimi destini (mogli, madri o zitelle, casalinghe, cameriere, insegnanti, segretarie o suore) a un universo dove la possibilità di scegliere produce infinite storie femminili individuali. Siamo così di Alice Werblowsky, redattrice di Canale 5, e Carla Chelo di Studio Aperto, di questi nuovi destini ne raccoglie ventiquattro. Il primo fatto che questo libro racconta è che le italiane sono, spesso, innamorate. Non di un uomo. Sono innamorate del proprio lavoro: perché hanno conquistato una professione che prima era solo maschile, come Elisabetta, trentunenne camionista del Biellese; perché fanno un lavoro «da maschi» ma lo piegano al proprio stile, come Franca, poliziotta calabrese laureata in Lettere, che oggi opera nel Nucleo antiviolenza e si occupa degli abusi in famiglia; perché hanno recuperato un mestiere femminile che la tecnologizzazione della medicina ha cancellato, come Marta, «ostetrica delle nevi» che da più di vent’anni va per baite alpine facendo partorire le donne in casa. L’oggi affiora poi in altri modi: con una novità buona, il melting pot e i primi matrimoni misti, con una fatica nuova, quella di tenere insieme i cocci di figli e lavoro in epoca di neoliberismo e precarietà, e con una patologia emergente che nasce in zone oscure, cioè i disturbi alimentari di anoressiche e bulimiche. Sono libere le ventiquattro donne che questo libro racconta? In certi casi sì, lo sono con una sfrontatezza che a noi sembra tipicamente femminile: come Gabriella che a meno di quarant’anni di vite già ne ha vissute quattro, cassiera in un supermercato, moglie e madre di una figlia, fino alla sera in cui lavando i piatti si è chiesta se le andava ancora di fare la serva di un marito Peter Pan, poi madre single, poi compagna insoddisfatta di un uomo benestante, ora assistente sociale agli anziani in un quartiere degradato, di nuovo single con figlia, ma con una vita, dice, «piena di leggerezza, di felicità». In altri no, come Valentina, madre sola che lavora nei call center, in angoscia permanente per la precarietà e il terrore che la burocrazia le levi la figlia perché «non ce la fa». Chissà se è libera Anna, chiusa nel suo casello d’autostrada, dove lavora otto ore al giorno sognando di essere altrove.
S’addentra in un territorio meno dicibile Ilda Bartoloni, giornalista del Tg3: la sessualità delle ragazze figlie della generazione che, per prima, si è «liberata». Ragazze? Si va dalle post-adolescenti, 17 anni, alle quasi quarantenni. Raccontate con una penna che aderisce a ognuna: ne riproduce il periodare, l’accento, il tic linguistico. In senso tecnico, naturalmente, l’indagine non può riservare sorprese: il sesso è sempre quello, masturbazione, petting, rapporti, cunnilingus, la sodomia sì, la sodomia no, l’orgasmo, e quale? clitorideo o vaginale?, con uno solo o con cento in sequenza, il sadomaso mi piace, no, a me no. Con una frequenza statistica maggiore, oggi, forse, di tendenza ai rapporti di gruppo. E con una dichiarazione meno ideologica di curiosità omosessuali. Con la consueta storia - non finirà mai? - della ragazzina che racconta che «non ce la fa» e non sa perché ma poi aggiunge che a dodici anni è stata violentata. Però con la limpidezza nuova della ventenne che dice di se stessa «mi piace stare sopra, mi sa che sono una dominatrice», ma senza spirito rivendicativo, solo come un dato. Perché la sessualità, qui, è il tema attraverso il quale si cerca di raccontare come stanno, le italiane, figlie e madri, in quel continente di cui la politica non parla, l’affettività, i sogni, l’alternanza tra depressione e desiderio.
Un pregio di tutte e due queste raccolte: Gabriella Parca nella prima, Elettra Deiana, Edda Billi, Lea Melandri, Emma Baeri e la stessa Ilda Bartoloni in prima persona nella seconda ci raccontano come andavano le cose «ieri». Dipingono lo sfondo privato e politico, un «c’era una volta», su cui spicca la novità di queste storie di oggi.

unabomber

L'Unità 14 Marzo 2005
Lo psicopatologo forense Vincenzo Mastronardi, della Sapienza: «Probabilmente ha subito soprusi che hanno lasciato un forte segno sia sul suo corpo sia nella sua psiche»
Lo psichiatra: l’attentatore da bambino vittima di violenze

ROMA Unabomber potrebbe essere stato egli stesso vittima, da bambino, di vessazioni e sofferenze fisiche che hanno lasciato un forte segno sia sul suo corpo sia nella sua psiche. È questa l’ipotesi sostenuta dallo psichiatra e psicopatologo forense Vincenzo Mastronardi, dell’Università La Sapienza di Roma, secondo il quale la presenza di mutilazioni fisiche potrebbe aiutare gli inquirenti ad arrivare al colpevole.
Nel tentativo di dare un volto al misterioso attentatore che sin dai primi anni ‘90 terrorizza le regioni del Nord-est, l’esperto avanza dunque un’ipotesi precisa: «È probabile che lo stesso unabomber, che a questo punto sarebbe però più corretto definire “serial bomber”, abbia sofferto di vessazioni fisiche durante l’infanzia. Vessazioni che abbiano in qualche modo lasciato un segno corporale e non solo emozionale. Potrebbe, ad esempio - afferma Mastronardi - essere rimasto egli stesso vittima di un’esplosione: un petardo scoppiato in mano, un incidente di caccia, uno scoppio di qualunque genere che gli abbia causato una mutilazione fisica». Un soggetto che, oggi, agirebbe mettendo in atto lo stesso tipo di vessazione di cui egli stesso è stato vittima: «Provocando delle esplosioni - spiega lo psichiatra - riesce cioè ad esorcizzare il terrore di essere nuovamente colpito in prima persona. Ed il fatto che in qualche modo metta in atto scenari che il più delle volte finiscono per coinvolgere dei bambini, è legato proprio alla sua personale esperienza e alla circostanza che egli stesso ha vissuto tali sofferenze durante l’infanzia».
Unabomber potrebbe dunque essere segnato da una qualche visibile cicatrice fisica e questo, secondo Mastronardi, potrebbe rappresentare un’ipotesi di indagine e un possibile indizio nelle ricerche per cercare di stringere la cerchia attorno all’attentatore.

Gazzetta del Sud 14.3.05
il parere del criminologo Francesco Bruno
La modalità con cui ha colpito sembra una provocazione nei confronti degli investigatori
Un attentato che ha sapore di sfida
Aldo Blemenza

TREVISO – Il primo ritorno in dodici anni, se si esclude Pordenone, su uno dei luoghi minori dei suoi delitti, la scelta per la seconda volta di una chiesa come teatro della sua follia e di una candela come trappola esplosiva. Unabomber sembra ripetersi in questo suo ultimo attentato a ridosso di Pasqua, che arriva a solo un mese e mezzo dal precedente, quando un ovetto di plastica, preso a calci da una scolaresca, esplose fortunatamente senza conseguenze nei pressi del tribunale di Treviso. Quasi una sfida agli investigatori, alle loro indagini sempre più serrate, alle recentissime notizie di stampa su presunti sospettati, «come se – ha ipotizzato il procuratore di Venezia Vittorio Borraccetti – avesse voluto farsi vivo per dirci che ci stiamo sbagliando, che lui è sempre vivo e attivo». E capace di tornare anche su un luogo del delitto dopo l'ultimo «fallimento» a Treviso. Questa volta, purtroppo, l'ordigno, nascosto in una candela elettrica di plastica, ha ferito una bambina di sei anni (gravemente) ad una mano e (lievemente) all'arcata sopraccigliare, come capitò alla piccola Francesca di Oderzo (Treviso) quando, il 25 aprile 2003, raccolse un pennarello esplosivo sul greto del fiume Piave che le mutilò tre dita della mano destra e le fece perdere la vista all'occhio destro. Un'esplosione, quella di ieri, che ha lasciato lievemente ferita ad uno zigomo anche Michela Lenza, 34 anni, che aveva aiutato la bimba ad inserire la candela nel candelabro verso la fine della messa, mentre i suoi genitori si trovavano a 20 metri di distanza. A Motta di Livenza Unabomber aveva già colpito, il 2 novembre (altro periodo festivo) del 2001, quando un'anziana, Anita Buosi, 63 anni, era rimasta ferita gravemente accendendo un lume cimiteriale, un oggetto sacro che simbolicamente ritorna anche nell' attentato di oggi. Unabomber, inoltre, aveva già violato, nel 2002, la sacralità di una chiesa, il duomo di Cordenons (Pordenone), ferendo due persone con due bombolette di gas imbottite di esplosivo e dotate di timer. Sempre in un giorno di festa, la notte di Natale. L'affacciarsi di analogie e ripetizioni, secondo il criminologo Francesco Bruno, è un elemento «fondamentale» che gli inquirenti dovranno approfondire perché potrebbe rivelare indizi importanti per arrivare alla cattura del serial killer che terrorizza il nord-est. «Rispetta sempre i suoi tempi e le sue abitudini – sottolinea Bruno – oggi è domenica e ci stiamo avvicinando alla Pasqua. In passato aveva già colpito sia di domenica sia in giorni di festa: alla vigilia di Natale, il 25 aprile, il 2 novembre». È poi la seconda volta che Unabomber colpisce in chiesa. «È un elemento forte – ragiona il criminologo – un atteggiamento rituale su cui noi analisti dovremo lavorare. Perché due sono le possibilità: o si tratta di una persona convinta di essere il depositario della “vera fede” e di dover punire quegli atteggiamenti della Chiesa che lui ritiene inutili, oppure siamo di fronte ad un “senza-Dio”, un mangiapreti. In entrambi i casi comunque quello tra Unabomber e la religione è un rapporto difficile».

Repubblica 14.3.05
Gli ordigni controsenso
Umberto Galimberti

Quel che colpisce nel comportamento di Unabomber sono gli oggetti di cui si serve per seminare morte e mutilazioni. Sono oggetti della vita quotidiana: un giocattolo di poco conto, una confezione da supermercato, una candela come ce ne sono tante in una chiesa. Cose che abbiamo tra le mani tutti i giorni, che trattiamo abitualmente senza particolari precauzioni, cose di nessuna importanza che, opportunamente confezionate, spezzano una vita, la interrompono bruscamente o con la sua fine, o con l´invalidità permanente. Quasi un´antiretorica della morte e un tributo al mito nichilista dell´insignificanza della vita. Conosciamo infatti la morte eroica, la morte drammatica, la morte dolente dell´infermità che non guarisce.
Rifiutiamo invece la morte casuale dove non è reperibile alcuna traccia di senso, alcuna motivazione, dove il perché resta inevaso e l´insignificanza dilaga più crudele del dolore perché, a differenza del dolore, non trova neppure un frammento di spiegazione.
Non c´è odio nella morte casuale, non c´è risentimento, non c´è passione per negativa che possa essere. Non c´è obiettivo. Non una persona determinata con cui si ha una qualche relazione, sia essa d´amore o di rancore. Non c´è neppure un´arma (un coltello, una pistola, un fucile) che al solo prenderla tra le mani rivela un´intenzione. Nel comportamento di Unabomber manca tutta la trama del senso, collassano tutti i nessi di causalità, perché tra l´impulso distruttivo nascosto nella soggettività di Unabomber e il destinatario a cui capita di morire o di essere per sempre invalidato non c´è nessuna correlazione, nessuna intenzionalità, neppure quella che può trasparire dall´oggetto impiegato per offendere, perché questo oggetto è prelevato dall´uso quotidiano delle cose più abituali.
Siamo al di là della pazzia, perché anche nel delirio del folle c´è un disegno, che ha le sue motivazioni profonde in quegli abissi biografici che, scoperchiati, mettono capo ad azioni riconducibili a vissuti drammatici, che non hanno avuto la possibilità di essere elaborati. E perciò esplodono in modalità tragiche, che però non sfuggono al senso, alla spiegazione causale, alla comprensione psichica.
Unabomber si sottrae al senso. La sua mente e i suoi gesti celebrano l´assoluta equivalenza della vita e della morte, del positivo e del negativo, del bene e del male, della pericolosità e dell´innocuità di qualsiasi oggetto, che da familiare diventa inquietante, da disponibile angosciante.
Se proprio vogliamo trovare uno scopo, perché non riusciamo proprio a sfuggire alla logica del senso e ai nessi di causalità a cui è abituata la nostra mente, allora dobbiamo dire che, se non proprio lo scopo, l´effetto che il comportamento dell´Unabomber produce è lo «spaesamento».
Un-heimlich lo chiamavano Heidegger e Freud, il «non-familiare», l´inquietante, che non è l´omicidio, la strage, la guerra. Lo spaesamento è la sospensione di ogni senso e si verifica là dove ciò che era familiare (heimlich) diventa inquietante (un-heimlich), ogni cosa, anche la più innocua, improvvisamente diventa minacciosa. Nulla è più rassicurante, non il volto della persona conosciuta, non il contorno delle cose e la loro disponibilità, non la semplicità di un gesto o la quiete di una parola. Nulla più rassicura e acquieta. È la fine della continuità del vivere in una logica del senso e dei nessi di causalità.
Uomini e cose sono consegnati alla loro originaria ambivalenza. Indifferentemente materiali d´uso del vivere quotidiano e insieme minacciosi oggetti di morte.
Lo spaesamento è più tragico della follia che, per quanto tortuosa, sa seguire un suo percorso. Lo spaesamento è la cancellazione di ogni via, quindi di ogni direzione, di ogni rintracciabile senso. Afferra la mente degli uomini non nel deragliamento della ragione come nella follia, ma nel suo collasso.
Non ha un incedere drammatico, ma semplicemente indifferente, perché indifferente alla distinzione tra la vita e la morte, tra il bene e il male, tra ciò che vale e ciò che non vale. Il paesaggio perde i suoi contorni e non c´è una via che indichi una direzione. Siamo all´indifferenza esistenziale, più tragica della follia, perché la follia è almeno sostenuta dalla logica della passione, che lo spaesamento, neppure tragicamente, ma indifferentemente ignora.
Bisognerà studiarlo questo stato della mente. Non ci è del tutto sconosciuto. Per brevi attimi l´abbiamo provato noi tutti nel corso della nostra esistenza, quando il senso latitava e tutto cadeva nella più assoluta insignificanza, in quella luce nera e così poco naturale che è sconosciuta persino agli abissi della follia.

psicologia in tavola

La Stampa 14 Marzo 2005
Psicologia in tavola
Per ogni carattere c’è il piatto giusto

Un cuoco e un terapeuta hanno analizzato nove diversi caratteri
e forniscono in un libro la correlazione con le scelte gastronomiche
Raffaella Silipo

Al tipo protettivo si addicono gli gnocchi di bottarga e patate, mentre lo spirito condottiero sceglie il vitello al forno, che si mastica bene e in fretta, dopo di che si può tornare a comandare. Dimmi chi sei e ti dirò che mangi, è la filosofia di Marco Miglio, proprietario del ristorante «Alle grazie» di Monza con lunga esperienza nella catena «Bice» da Melbourne a New York. Da tempo, insieme allo psicologo Roberto Provana, Miglio esplora la correlazione tra tipi psicologici e gusti gastronomici, per spiegare come di fronte a uno stesso cibo ognuno reagisca in modo diverso. «Ristorare - sostiene Miglio - vuol dire regalare un’emozione culinaria che duri nel tempo. Per questo ho deciso di puntare sulla gratificazione personale: non è il cliente che si deve adattare al menu ma è il menu che si adatta al cliente. In un'epoca di globalizzazione, un riconoscimento così marcato delle esigenze individuali crea sicurezza, favorisce l'identità ed è anche una buona strategia imprenditoriale».
Miglio e Provana hanno raccolto il loro metodo, con tanto di ricette, nel libro La cucina delle identità (Lupetti). Punto di partenza è l’osservazione attenta dei clienti di un ristorante, perché «la tavola è un luogo ideale e strategico per capire le persone». «C’è il tipo ”antilope stanca” - scrivono - che esprime un istinto vitale depresso: per lui mangiare sembra una condanna, tranne quando si rianima alla vista di un alimento che rappresenta un’attrazione fatale, come certi dessert. C’è il ”formichiere” che prima di mangiare sfiora l’alimento con la lingua come per saggiarlo. O la ”giraffa”, con il corpo immobile e il collo sempre in movimento, ponte somatico che separa la bocca dalla zona cardiaca delle emozioni».
Per sistematizzare le loro osservazioni, i due autori hanno poi incominciato a raggruppare i clienti secondo il metodo dell’«enneagramma», che identifica nove tipi fondamentali di caratteri. Il «riformatore»? «Insegue un ideale di perfezione, è moralista, ipercritico, tenace e nel suo menu c’è posto solo per le cose ben fatte». Per il «protettivo» il cibo è «qualcosa di rassicurante, che rimanda alla mamma. Ama cucinare per sé e per gli altri». L’«autorealizzatore sociale» tende a mettersi in vista, è attento agli effetti del cibo sul rendimento professionale. «Anche la tavola per lui è una sfida: controlla, calcola, sospetta». L’«artista», solitario, vulnerabile e instabile, «va pazzo per i dolci, in particolare il cioccolato. Preferisce i primi piatti ai secondi, ed è interessato più alla persona che cucina che al cibo in sé».
C’è poi quello «capace di consultare per ore un menu e poi chiedere qualcosa che non c’è»: è il «pensatore», uno che teorizza, intellettualizza il cibo, sovente polemico se viene contraddetto. Il «fedele» è il tipo più tradizionale: ricerca sempre nei piatti il sapore del passato e delle cose che gli preparava mamma. Avete presente George W. Bush alla disperata ricerca di un cuoco che ci sappia fare con il tex-mex della sua giovinezza? Completamente diverso il «generalista», uno che può bere un vino a occhi chiusi e dire subito che cos’è (genere «Michele intenditore di whisky» in uno spot di tanti anni fa...): ama tutto ciò che non conosce, è un grande sperimentatore, un po’ farfallone. Cosa si mangia importa poco per il «capo»: basta essere serviti, che si rispettino i suoi tempi, che non ci si debba adattare alle preferenze degli altri. «E’ lui a tagliare la testa al toro, ma poi mangerà un filetto». Infine il «pacificatore», quello che non si accorge mai quando la vita gli mette in serbo un bel boccone, «low profile» e fatalista. Ha grande capacità di adattamento e ama la cucina etnica.
Per chi non si riconosce in nessuno di questi caratteri, c’è anche la classificazione secondo il gruppo sanguigno. Il gruppo 0 è «il cacciatore», più vicino all’uomo primitivo: preferisce le proteine animali e un’attività fisica intensa. Il gruppo A è l’«agricoltore» e ottiene maggiori benefici da una dieta vegetariana con cibi naturali e freschi. Il gruppo B è il «nomade», quello che meglio si adatta alle nuove culture e ha quindi un’alimentazione variata. Infine il gruppo AB, l’«enigmatico»: è il più difficile da accontentare, più raro e biologicamente complesso. Se neanche con i gruppi sanguigni si trova il profilo, e il cibo, ideale, Miglio e Provana non sdegnano il ricorso ai test da fare ai clienti o alle teorie omeopatiche del dottor Bach. Sempre alla ricerca della «ricetta della felicità», quella promessa fin dagli albori del mondo nel dialogo tra una donna e un serpente con il menu più semplice e delizioso. Una mela.

«la Settimana del cervello»

Il Messaggero Domenica 13 Marzo 2005
LE CELEBRAZIONI
di FABRIZIO MICHETTI

SU una verdeggiante baia a trentacinque miglia da Manhattan ha sede il Cold Spring Harbor Laboratory, che da oltre un secolo ospita scienziati dalle menti aperte che hanno saputo cogliere e sviluppare i temi centrali della ricerca sulle basi molecolari della nostra vita. E’ qui che nel 1953 James Watson presentò la struttura a doppia elica del Dna, scoperta insieme con Francis Crick nell’altrettanto prestigioso Cavendish Laboratory di Cambridge, che doveva valergli il premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia. Ed è qui che, all’inizio degli anni Novanta, lo stesso James Watson, divenuto nel frattempo direttore della prestigiosa istituzione, riuniva trenta scienziati di varia estrazione e di riconosciuta autorevolezza, al fine di stabilire la necessità che gli studi sul cervello fossero considerati una assoluta priorità, che avrebbe comportato “pubblici e personali benefici”. Furono allora identificati dieci obiettivi prevalenti per la ricerca neurobiologica, da raggiungere entro il duemila, ma poi realisticamente aggiornati; fra questi la prevenzione e la cura delle malattie neurodegenerative, la comprensione dei meccanismi che portano a tossicodipendenza, l’identificazione di geni coinvolti nello sviluppo delle principali malattie mentali, la comprensione dei processi di apprendimento nell’adulto e nel bambino, fino all’obiettivo finale e totalizzante: “come realmente funziona il cervello”.
La riunione, promossa dalla Dana Foundation, istituzione filantropica nata negli anni Cinquanta su iniziativa dell’industriale newyorkese Charles A. Dana, e che tuttora ha sede al numero 745 della Quinta Strada, dava origine alla Dana Alliance for Brain Initiatives, che riunisce ormai circa duecento scienziati, fra cui nove premi Nobel, accomunati dall’intento di promuovere e diffondere gli studi che portano alla conoscenza del cervello. Verso la fine degli anni Novanta questa forte volontà si diffondeva al di qua dell’Oceano, con la nascita della European Dana Alliance for the Brain. La “Settimana del Cervello”, che si svolge in tutto il mondo civilizzato dal 14 al 20 marzo, e in Europa è alla sua settima edizione, è figlia di questa iniziativa, e soltanto lo scorso anno ha coinvolto cinquantasette paesi nei cinque continenti, dove si sono svolti seicentosessantuno manifestazioni con l’intervento di millesettecento scienziati. Questi hanno aperto le porte dei laboratori, sono saliti sui palcoscenici, sono andati nelle scuole, hanno dato nuova vita alla vecchia tradizione dei dibattiti culturali nei caffè, abbandonando per una volta la tradizionale riservatezza di chi pratica la buona scienza per aprirsi alla spiegazione di questo intreccio di miliardi di cellule, del peso di circa un chilo e mezzo che, dalla sua sede nel nostro cranio, governa movimenti, volontà, emozioni.
Non è soltanto una promozione a favore della ricerca scientifica, di cui certo c’è bisogno, soprattutto da noi in Italia: non occorre sottolineare quanto siano bene spese risorse destinate alla comprensione dei processi cerebrali e alla cura delle malattie che li colpiscono. Mentre vengono diffuse le conoscenze più recenti sul modo di operare del nostro cervello, dall’evidenza delle cose a poco a poco emerge il ruolo delle neuroscienze come naturale cerniera tra la cultura scientifica e quella umanistica: la conoscenza dei processi cerebrali come una stele di Rosetta che ci aiuti a comprendere i nostri pensieri e le nostre azioni col linguaggio del cervello. Nella vicina Svizzera, ad esempio, la manifestazione di quest’anno è specificamente orientata al confronto dei contributi offerti dalla scienza del cervello e dall’arte alla formazione e alla percezione della coscienza. Scienziati e artisti si interrogheranno sulla vera natura della coscienza, dagli aspetti cognitivi a quelli morali, confronteranno le loro responsabilità e le reciproche legittimazioni. E questo avverrà in piazza, per così dire, davanti alla cittadinanza, che potrà giudicare e intervenire. E da noi, l’Università di Roma “La Sapienza” tra le altre iniziative promuoverà a Viterbo una tavola rotonda in cui neurobiologi, esperti di intelligenza artificiale e teologi faranno confluire le loro diverse culture alla ricerca di una risposta all’antico quesito dei rapporti tra mente e cervello.
Questo passaggio dai laboratori alla società trova oggi un fondamento soprattutto nelle ricerche, sempre più numerose, che consentono di seguire momento per momento l’attivazione delle diverse regioni del nostro cervello mentre svolgiamo diverse attività cerebrali. Davanti agli occhi dei ricercatori, le nuove metodologie che offrono immagini funzionali del cervello, come la risonanza magnetica funzionale o la più recente topografia ottica, di volta in volta accendono un gruppo di cellule nervose quando ci innamoriamo, un altro quando abbiamo paura, un altro quando ci impegniamo in un calcolo aritmetico e ancora un altro, diverso dal precedente, quando ci addentriamo in un ragionamento logico deduttivo. E le immagini che ci consentono di osservare momento per momento le attività delle diverse regioni del nostro cervello ormai si addentrano fra le cellule e inseguono i percorsi di alcune fra le molecole che trasmettono il messaggio nervoso da un neurone all’altro - i neuromediatori - alcune delle quali, come la serotonina e la dopamina, svolgono un ruolo centrale nei processi mentali e nei loro disturbi, dall’ansia fino alla schizofrenia. Il nostro cervello, a poco a poco, diventa trasparente e, con esso, le sue funzioni. Forse è giunto il momento che cominciamo a rendercene conto, senza dimenticare, però, che la conoscenza di dove e come si svolgono i nostri processi mentali potrebbe non bastare per conoscere davvero che cosa sono, e valicare il confine che separa i meccanismi cerebrali dal nostro vissuto.

sinistra
Ingrao, e Rossanda vs Sansonetti

Corriere della Sera 14.3.05
DOPO IL CONGRESSO
Sansonetti-Rossanda, sfida sul Prc
L’amarezza di Ingrao

G.G.V.

Quando Rossana Rossanda, sul Manifesto, ha liquidato l’ultima assise di Rifondazione come «un brutto congresso», non è un mistero che ci sia rimasto male. Anche se lui, Pietro Ingrao, decano del Pci che a novant’anni ha aderito al partito di Bertinotti con l’entusiasmo di un ragazzino, si è ben guardato dall’intervenire nelle discussioni politiche di questi giorni, «in fondo sono l’ultimo arrivato», raccontava, «mi parrebbe presuntuoso». Però il problema politico resta, riassunto dall’editoriale che il direttore Piero Sansonetti, su Liberazione, ha dedicato ieri alla faccenda come un controcanto esplicito all’articolo della Rossanda, a cominciare dal titolo: «È stato un buon congresso». Perché tra il congresso «brutto» e quello «buono» passano i tanti temi che hanno diviso la sinistra radicale e la stessa Rifondazione negli ultimi mesi, i conti con il passato in casa comunista, i rapporti con i movimenti, soprattutto la scelta di Bertinotti di «non fare i parenti poveri» e «uscire dall’angolo»: per andare al governo. Il segretario alla fine l’ha spuntata e la Rossanda ha commentato: «Ci sarebbe stata vasta materia da discutere, se Bertinotti non avesse finito con l’annunciare che (...) alla maggioranza sarebbero andate tutte le redini operative del partito».
Del resto la chiusura della «rivista del Manifesto», a dicembre, era stata una sorta di prologo: da una parte Ingrao, dall’altra la Rossanda e Lucio Magri. Non era questione di vendite (arrivava ad ottomila copie) né di difficoltà economiche. Come ammetteva lo stesso Magri nell’ultimo editoriale: «È emersa una divergenza pesante tra noi». Per dire: «C’è chi ha legittimamente sentito l’esigenza di una rottura e di un’autocritica molto più esplicita e radicale rispetto a un passato nel quale eravamo comunque compromessi», scriveva citando l’ultimo libro-intervista di Ingrao. E poi «altri», aggiungeva Magri, «e paradossalmente io, da sempre comunista anomalo, per una fase scismatico», che al contrario «sentono l’esigenza, il dovere di non varcare la soglia che divide la critica anche più dura dalla liquidazione».
Poi, il 3 marzo, Bertinotti si è presentato a Venezia leggendo la lettera di Ingrao, lacrime e applausi alle righe sull’elogio della non violenza, «è davvero la prima volta che vinco un congresso!», commentava ironico l’ex presidente della Camera. Alla Rossanda e alle sue considerazioni sul «congresso brutto» avevano già replicato, su Liberazione, Salvatore Cannavò e Rina Gagliardi. Finché ieri il direttore Sansonetti ha riassunto il caso, oltre le polemiche sulla «linea di maggioranza che si è imposta» e che «secondo Rossanda è una specie di strappo alla democrazia, un gesto di arroganza di Bertinotti». Perché costruire «una sinistra vincente», scrive, significa «essere capaci di imporre i propri punti di vista». E allora la questione è semplice: «Cosa vogliamo fare: ricominciare da capo la discussione congressuale o invece ci decidiamo, ciascuno con le sue posizioni, a gettarci nella mischia, a uscire per il mondo, a navigare in mare aperto?».

Liberazione 13.3.05
Le polemiche su Rifondazione comunista
È stato un buon congresso
Piero Sansonetti

E' stato un buon congresso. Lo dico con un po' di pudore, perché non mi piace usare una espressione che è l'opposto di quella usata recentemente - in un articolo sul manifesto - da Rossana Rossanda, visto che considero Rossanda una delle menti pensanti della sinistra (e non è che poi ce ne siano tantissime…) e visto che le sue analisi, da diversi anni, ci aiutano a capire come va il mondo. Però sono convinto di aver ragione: il congresso di Rifondazione comunista, che si è chiuso una settimana fa a Venezia, è stato importante, ricco, vivace, pieno di idee. E siccome è stato anche capace di scegliere una linea politica e di prendere atto di vari e chiarissimi dissensi a questa linea politica, non capisco come non lo si possa considerare un buon congresso. I congressi servono a questo: a definire la direzione di marcia di un partito e a capire chi si oppone, quanto si oppone, perché si oppone. Spesso succede che si esca da un congresso senza che nessuna di queste cose sia stata chiarita. Quelli sono cattivi congressi. Dal congresso di Rifondazione invece si è usciti in un quadro di grande chiarezza. Si conosce la linea di maggioranza, sono limpide le critiche delle minoranze.
Non voglio fingere di non capire qual è l'obiezione di Rossana Rossanda, anche perché di quella obiezione hanno discusso nei giorni scorsi, su queste pagine, Rina Gagliardi e Salvatore Cannavò, cioè due compagni con i quali tutti i giorni io faccio il giornale, e discorro di politica, e con i quali confronto opinioni che non sempre coincidono ma che generalmente convergono, si intrecciano, interagiscono. Rossanda ha fatto notare - riassumo e semplifico un po' - che nel congresso si è imposta una linea di maggioranza, e che questa maggioranza ha voluto anche modificare lo statuto e ha rifiutato la ricerca di una sintesi con la minoranza e la composizione di organi dirigenti (esecutivi) comuni. Ha preferito assumersi da sola le sue responsabilità di maggioranza. Secondo Rossanda questo è una specie di strappo alla democrazia, un gesto di arroganza di Bertinotti. Secondo Rina Gagliardi invece è una scelta che permette alle minoranze di continuare ad avere tutto lo spazio e la visibilità necessari, e permette alla maggioranza di fare politica a tutto campo, cioè di esercitare il proprio diritto-dovere e il ruolo del quale, in questo momento, la sinistra italiana ha molto bisogno. Secondo Cannavò, la maggioranza del partito avrebbe potuto garantirsi la piena autonomia delle proprie scelte e della propria iniziativa politica, pur trovando spazi di gestione comune del partito con le minoranze.
La sinistra, spesso, concentra le sue notevoli forze, energie e intelligenze nell'esercizio di attività interne ai partiti e alle proprie correnti, che riguardano non la politica attiva ma le regole della politica, e le regole - credo - sono un aspetto importante della politica, ma non esclusivo.
Io penso che sarebbe più ragionevole considerare conclusa, almeno per un po', questa discussione e questa battaglia, e utilizzare i risultati del congresso per tornare tutti al centro dell'arena e tentare la sfida della costruzione di una sinistra vincente. Naturalmente, prima bisognerebbe intendersi su cosa vuol dire vincente. Non significa - credo - semplicemente prendere voti. Vuol dire essere capaci di imporre i propri punti di vista su come si riforma la società, lo Stato, il lavoro, il mercato, le relazioni internazionali.
La nostra sfida, in fondo, è tutta qui. Bertinotti ha indicato una strada da percorrere che a me sembra molto suggestiva. Difficile, ardua, ma suggestiva. Ha detto che si è aperta una vera e propria crisi delle classi dominanti - della borghesia - e questa crisi determina una incertezza sul modello di sviluppo del paese e sul sistema di comando, e questa incertezza comporta lo sbalestramento del liberismo e un forte indebolimento dell'identità e delle ricette riformiste: in questo quadro lo spazio per la sinistra è grandissimo, e diventa più grande se si riesce a definire un progetto di società alternativo a quello attuale, che è fondato sulla precarizzazione, sul rifiuto dell'innovazione, sulla compressione dei diritti e dei beni comuni, sulla globalizzazione guidata dal capitalismo. E dunque - riducendo tutto in arida formula - la sinistra deve andare al governo.
Bertinotti ha detto che non è giusta una politica dei due tempi: prima si fa un programma e poi si fa politica. Ha detto che il programma è politica, e cioè che va costruito, ottenuto, conquistato, imposto, nel fuoco di una battaglia fatta di conflitto, di rapporti e di mescolamenti con i movimenti, e anche di collaborazione con gli altri partiti della sinistra, del centrosinistra e di una parte del centro.
Le minoranze si sono presentate al congresso su una posizione di contrasto aperto alla linea di Bertinotti e con obiezioni molto ben articolate. Una parte delle minoranza, quella più di sinistra - scusate anche qui la semplificazione - sostiene che la crisi della borghesia non c'è, è illusione, è semplice e secondario dissidio tra ali diverse delle classi dominanti. E quindi ha detto che l'operazione Bertinotti rischia di concludersi con una specie di sottomissione della sinistra al potere dei conservatori e ai loro disegni. Un'altra parte dell'opposizione, la più consistente - l'area dell'Ernesto, ma non solo - ha detto che il progetto di Bertinotti è giusto e mette in movimento forze nuove e importanti, ma che nessun progetto di governo può essere fatto se prima non si definisce un programma politico, non lo si negozia con gli alleati, non lo si fa accettare e non si trovano precise garanzie di attuazione. Quest'area dell'opposizione ritiene che dal centro-sinistra ex Ulivo non giungano affatto segnali di apertura sul programma, anzi ci siano degli arretramenti rispetto a qualche anno fa. E dunque che la maggioranza deve fare un passo indietro: non si può parlare ancora di ingresso nell'area di governo e l'averlo fatto è stato un errore grave di Bertinotti.
La discussione è arrivata a questo punto e la differenza delle posizioni appare chiarissima. Chiari appaiono anche i punti di convergenza, che sono due: la volontà comune di mettere la forza di Rifondazione sul piatto della bilancia, per battere il governo Berlusconi, e la scelta - a questo scopo - di alleanze elettorali con il centrosinistra. Ora cosa vogliamo fare: ricominciare da capo la discussione congressuale o invece ci decidiamo, ciascuno con le sue posizioni, a gettarci nella mischia, a uscire per il mondo, a navigare in mare aperto? Se non lo facciamo perdiamo una grande occasione. Ci sono pezzi grandissimi della società italiana - del mondo vasto della protesta, della ribellione, dell'opposizione al conformismo e al potere cieco del mercato - che aspettano una sponda politica, per potersi organizzare, per potere contare, per ricominciare ad agire e produrre lotte e azioni positive. Se ci decidiamo, con coraggio, a incontrare questi pezzi della società e a fare politica con loro, mettendo a frutto la linea politica del partito di Rifondazione e anche le obiezioni delle minoranze, può darsi che in un tempo abbastanza breve scopriremo che i dissensi al nostro interno sono meno rilevanti di quel che credevamo, e allora sarà più facile anche risolvere il problema delle regole e del rapporto fra le componenti e le correnti. Se non faremo questo, perdiamo la grande occasione. Lasciamo ai riformisti, e anche alla destra, lo spazio per riorganizzarsi e superare la loro crisi. Sarebbe un suicidio, mi pare.

Il Mattino 13.3.05
Le passioni di Ingrao: io, il politico delle sconfitte
Raffaele Indolfi

Santa Maria Capua Vetere. Bandiere e fiori tricolori per Pietro Ingrao, da ieri cittadino onorario di Santa Maria Capua Vetere, la sua città degli anni della scuola media che quando lui la frequentava si chiamava ginnasio. Di bandiere rosse ce n’è una sola. E non sventola come quelle tricolori all’aperto, nello spiazzo fra il liceo «Nevio» e il teatro «Garibaldi», i luoghi del ritorno di Ingrao a Santa Maria Capua Vetere e anche quelli della cerimonia per il conferimento della cittadinanza onoraria. Ma all’interno del teatro. La bandiera è quella con il simbolo del vecchio Pci, un partito che già non esisteva più quando sono nati quei due ragazzi che la sventolano, uno dei quali si è fatto crescere la barba per nascondere il suo viso da bambino. Ma gli occhi del vecchio comunista sono calamitati e si emozionano per altri colori, il nero e il celeste della maglia del «Gladiator», la squadra di calcio di Santa Maria Capua Vetere della quale lui era «tifosissimo», il cui capitano è fra i primi che Ingrao abbraccia e saluta. E al quale non esita a confessare di aver rubato, ragazzo, dalle tasche del suo severo genitore i soldi per andare a vedere le partite. Il vecchio comunista che, nonostante il 30 di questo mese compia 90 anni, non conosce parole come riposo, disimpegno, ritiro e che recentemente ha abbracciato Rifondazione con Bertinotti, non è a Santa Maria per una manifestazione elettorale in favore della campagna di Bassolino a presidente della Regione, come pure la presenza del governatore della Campania fa supporre. Ingrao non è a Santa Maria per sostenere l’ex giovane «ingraiano», Bassolino appunto. «Antonio - dice - diversamente da me che nella vita politica non ho fatto altro che assommare sconfitte, è ora nel giro del potere». A Santa Maria Ingrao è per rivivere, con emozione profonda, gli «anni belli» vissuti in una città che, dice, gli ha indicato la strada che poi lui ha percorso, cioè il suo impegno di vita: la politica. Una scelta nella quale, sostiene, non hanno pesato maestri, che pure c’erano, ma l’intera città. «Una città di balconi e di cortili dove la gente si parlava, un luogo che favoriva la comunicazione e la partecipazione», ricorda, chiarendo quello che per lui è l’essenza stessa della politica, cioè il dialogo. «Un dialogo - aggiunge - che non mi ha fatto mai sentire solo nei momenti brutti delle mie sconfitte che, in politica sono state tante». Ma lui non è a Santa Maria per fare un bilancio della sua lunga vita pubblica, bensì per ritrovare i ricordi della sua fanciullezza, le partite con la palla di stracci, i compagni e i luoghi dei suoi giochi di ragazzo. Dell’Ingrao «patrimonio del movimento operaio e della democrazia» parlano Giovanni Cerchia, il senatore Abdon Alinovi, il sindaco Vincenzo Iodice, che gli conferisce la cittadinanza onoraria, e Antonio Del Vecchio, il preside del liceo «Nevio» che ricorda i voti di quando il primo comunista che diventerà nel 1976 presidente della Camera frequentava il ginnasio. «Ottimi in tutte le materie, fuorché in educazione fisica», precisa con pignoleria professorale il preside. Antonio Bassolino che cura il suo vecchio leader e maestro con amore filiale (gli aggiusta il microfono, lo accompagna porgendogli il braccio), lo definisce «un grande innovatore». E mette l’accento sul suo impegno regionalista, cioè sul «federalismo che unisce, non sulla devolution che divide». E gli fa come tutti gli auguri per i suoi 90 anni. Ingrao ringrazia, lancia baci con la mano, commosso non per le parole dei politici, ma per il tifo da stadio con il quale viene salutato dagli alunni di oggi della sua vecchia scuola.

post-umano

L'Unità 14 Marzo 2005
i lunedì al sole
Bondi, l’Embrione e il Robot
Beppe Sebaste

Sarà perché una delle mie letture preferite in questi giorni, nel senso del divertimento, sono i sudati mini-saggi di Sandro Bondi, il portavoce di Forza Italia, che nel vano tentativo di inseguire un dibattito tra sé e sé polemizza con Giovanni Sartori sull’embrione e cita San Tommaso nell’edizione Utet, ma ho cominciato anch’io a pormi qualche domanda. Non che abbia dubbi sul prossimo referendum, votare «sì» per abrogare la legge in vigore sulla procreazione e la fecondazione assistite - una legge raffazzonata e ingiusta che toglie libertà ai soggetti (soprattutto le donne) e pretende di decidere astrattamente sull’indecidibile. Ma mi chiedo di cosa sia segno questa - appunto - astrazione vertiginosa del dibattito in corso.
Non credo per esempio che la voga recente dei robot, dal cinema ai giochi per bambini, sia estranea al dibattito sull’embrione, né che le strategie dell’apprendimento e le politiche educative (la scuola) siano disgiunte da entrambi. La loro comune appartenenza alla sfera della bio-politica mostra che le frontiere di ciò che viene definito «umano», da secoli innalzate per differenziarlo dall’animale (e in generale dalle «anormalità» e devianze) si aprono invece smisuratamente nei confronti del post-umano, fino a poco fa categoria estetica dell’arte d’avanguardia. In parole povere, spostare la questione dell’embrione dal grembo materno, pontificare al posto della donna e del suo corpo mi sembra già un’enormità; e avrete notato che la parola «embrione» già nasconde, in qualche modo, la parola «feto»: come se il dibattito sull’aborto già affrontato a suo tempo dal legislatore fosse regredito, e questa regressione è in realtà una progressiva astrazione, cioè de-realizzazione, del concetto di vita. E lo stesso si dovrebbe dire sull’astrattezza del concetto di conoscenza nelle attuali pratiche educative. La cosa che noto maggiormente è infatti la svalutazione, fino alla rimozione, del ruolo dei contesti, della fisicità e della carnalità nelle definizioni di «vita» da parte di chi si oppone, con argomenti «cattolici», alla libertà di fecondazione - per esempio eterologa, come ha da essere in generale tutto quanto pertiene alla sessualità e alla relazionalità. Colpisce il coincidere di cartesianesimo e fondamentalismo in chi difende un concetto di vita avulso e immunizzato: un concetto, appunto, post-umano, anche a parte le spericolate acrobazie sulla «coscienza di sé» del portavoce Bondi.
Post-umano è il robot, in tutte le sue forme, cioè il tentativo di isolare l’intelligenza dal corpo, di portare all’estremo il mito dell’intelligenza astratta avviato da Cartesio. Dalla solitudine del Cogito in poi, la vicenda dell’Occidente è un progressivo dualismo che si confonde fino a sovrapporsi con quanto Carl Marx ha descritto sul piano socio-economico: alienazione dell’individuo, poi della specie, a partire dallo spossessamento di sé nel lavoro e nei gesti, privi di finalità. Il soggetto di Cartesio implode nel soggetto descritto da Marx, e l’uomo contemporaneo è la sintesi di entrambi, tanto più sperduto quanto più arrogantemente convinto di essere padrone delle proprie azioni.

le donne escluse dalle sperimentazioni

L'Unità 14.3.05
L'esperta
Ceci, farmacologa: «Così venimmo escluse dalle sperimentazioni»
Silvia Bencivelli


Di fronte a una ricerca biomedica che per decenni ha consapevolmente dimenticato le donne, imporre di allargare la sperimentazione sui farmaci anche all'altra metà del cielo non basta. «Perché - spiega Adriana Ceci, direttore del Consorzio valutazioni biologiche e farmacologiche di Pavia - dopo aver condotto lo studio è necessario esaminare le differenze che esistono tra maschi e femmine per quanto riguarda l'efficacia e il rispetto alla sicurezza». Cioè è necessario ricordarsi delle diversità fisiche e metaboliche che esistono tra uomini e donne e quindi valutare l'interazione con il farmaco, separatamente, negli uni e nelle altre. «Se correggessimo il difetto della ridotta sperimentazione dei farmaci nelle donne, limitandoci ad aumentare la componente "rosa" del campione di pazienti, faremmo un altro errore madornale». E alla fine avremmo dei risultati calibrati su un individuo inesistente, metà uomo e metà donna. Così i farmaci di cui oggi conosciamo il funzionamento, almeno nei maschi, non sarebbero più buoni per nessuno.
Il punto, però, è che questa situazione deriva da un errore del passato, commesso in assoluta buonafede, ma non facile da correggere. «Il percorso che ci ha portato alla consapevolezza dell'esistenza di differenze importanti tra uomini e donne - spiega Ceci - è stato un percorso alla rovescia». All'inizio, cioè, le donne furono escluse volontariamente dalle sperimentazioni, a partire da linee guida pubblicate dalla Food and Drug Administration americana e scritte, teoricamente, per proteggere la gravidanza. «Solo più tardi ci si è accorti dell'errore, perché le donne in gravidanza prendono ugualmente le medicine. Quindi, per evitare un rischio teorico in fase di sperimentazione, abbiamo esposto milioni di donne a un rischio sconosciuto». E allora sono cominciati i provvedimenti in senso opposto: negli Stati Uniti si è arrivati all'obbligo di legge di studiare i farmaci anche sulle donne. In Europa, però, siamo ancora molto indietro e ci sono solo delle recentissime linee guida, che non sono nemmeno vincolanti.
«La situazione odierna è un retaggio del passato, - prosegue Ceci - anche se, nel frattempo, sono arrivati nuovi strumenti scientifici, che ci permettono di studiare la tossicità di un farmaco anche prima della sperimentazione». Come gli studi di genotossicità (cioè la tossicità sui geni) o di embriotossicità (la tossicità sull'embrione), che negli anni Settanta non esistevano ancora. Ma è proprio il fatto di poter disporre di nuove tecnologie che alimenta un paradosso: «oggi si sta sempre di più lavorando allo sviluppo di sistemi che ci permetteranno di mirare il farmaco sul singolo individuo, come la farmacogenomica grazie alla quale avremo farmaci su misura dei nostri geni. Però, mentre ci stiamo avvicinando all'individuo, continuiamo a dimenticare un'intera popolazione: quella femminile».

domenica 13 marzo 2005

Pietro Ingrao

Repubblica, Napoli 13.5.05
A Santa Maria Capua Vetere il leader comunista ha ricevuto la cittadinanza onoraria
Ingrao: "Ho sempre perso, come Ettore"

«Mi sono sempre sentito come Ettore, un eroe perdente, ma non ho mai rinunciato a portare avanti le mie idee». Pietro Ingrao, novant'anni il 30 marzo prossimo, riassume così la parabola politica della sua vita di militante comunista. Lo fa davanti al pubblico numeroso che ieri mattina gli ha tributato un omaggio, invadendo il teatro Garibaldi di Santa Maria Capua Vetere, dove il sindaco Enzo Iodice gli ha conferito la cittadinanza onoraria. Ingrao, nato a Lenola (Latina) il 30 marzo 1915, arriva a Santa Maria a dieci anni, seguendo il padre, avvocato Francesco Renato, che nel 1925 aveva vinto il concorso per segretario comunale. Il giovane Pietro compie in città gli studi classici (fino al 4° liceo), con ottimo profitto. Ma frequenta anche gli studi di violino nel locale conservatorio. «Fu lì - ha raccontato Ingrao - che cominciai ad acquisire la formazione politica perché i miei maestri di musica, al pari di mio padre, erano tutti antifascisti». L'anziano esponente politico è arrivato a Piazza Bovio alle 11, accompagnato dalla sorella. Subito dopo c´è stato l'incontro con gli studenti del «suo» liceo classico. Ad accoglierlo il preside e i ragazzi che gli hanno donato i registri di quando era anche lui alunno. Tutti otto e nove, solo in educazione fisica una stentata sufficienza. Al Teatro Garibaldi il sindaco Iodice ha consegnato all'ospite una pergamena. Per Ingrao ha avuto parole commosse anche il presidente della Regione Bassolino.

la malattia del «troppo sentire»
i mali dei nervi, Anton Mesmer, Charcot, l'isteria

La Stampa TuttoLibri 12.3.05
Ieri isterici, oggi sonnambuli
LE CORDE SONORE DEL CORPO, UN TEMPO INDICE DI FORZA E VIGORE, NELL''800 INCARNANO LE MALATTIE DEL «TROPPO (O TROPPO POCO) SENTIRE», SONO LA PELLE DELL’IO

Marco Belpoliti

NEL 1920 Man Ray ritrae Mina Loy in un'istantanea. Di profilo, occhi chiusi, espressione intensa, Mina è l'immagine perfetta dell'isteria femminile. Appeso al suo orecchio c'è un termometro. È una delle macchine del sentire, icona del corpo neurologico, la medesima che compare nel racconto di Hoffmann, L'uomo della sabbia, su cui è modellato il "perturbante" freudiano: Coppola, il genio del male e della simulazione, commercia in "corpi nervosi", barometri, termometri, automi. Il ritratto di Man Ray, artista d'avanguardia, sembra concludere un lungo secolo dominato da quello che Alessandra Violi in un libro ricchissimo e fascinoso ha definito Il teatro dei nervi (in uscita da Bruno Mondadori, pp. 249, e23). È l'età che inizia coi primi anni dell'Ottocento, con l'epidemia nervosa, la cosiddetta "malattia inglese", che attacca i ceti più elevati, i nobili, e si conclude nei primi decenni del XX secolo con la diffusione dell' "esaurimento nervoso" nel corpo stesso della società in una progressiva democratizzazione delle malattie di nervi. Lo shock nervoso, su cui si sofferma Walter Benjamin nella descrizione della Parigi baudeliariana, è tutt'uno con l'affermarsi della modernità, e riguarda lo sviluppo stesso della società di massa. Nella sua Storia della follia nell'età classica Michel Foucault ha osservato che la malattia contemporanea si chiama "troppo sentire": «si soffre di una solidarietà eccessiva con tutti gli esseri circostanti». Sino a un certo punto - grosso modo sino alla fine del Settecento - è plausibile supporre che i mali dei nervi siano rimasti associati, scrive Foucault, alle parti inferiori del corpo umano, controllati e disciplinati da un'etica del desiderio: la malattia come effetto di una violenza eccessiva. È l'epoca del "corpo grossolano", mentre quella che si apre con la rivoluzione industriale è invece l'epoca dei "corpi sottili", di cui i nervi sono la perfetta immagine metaforica, tanto da far ritenere ad alcuni autori del periodo l'isteria responsabile degli esiti sanguinosi della Rivoluzione francese: malattia che si diffonde nel corpo sociale come eccesso provocato dalla presenza di neuropatici in balia delle loro convulsioni. Nel 1780 a Parigi, Anton Mesmer, proveniente da Vienna, esibisce in pubblico la sua macchina nervosa. Le sue sedute, simili a uno spettacolo, diventano un vero e proprio teatro clinico, un'attrazione pubblica: i pazienti isterici trasferiscono la loro energia, che si manifesta in attrazioni magnetiche, perdita della percezione, trance, come momento della crisi indispensabile alla guarigione. Mesmer e i suoi numerosi seguaci esibiscono casi sonnambulismo magnetico che rendono consueta ai parigini le loro idee sul magnetismo animale: l'universo intero è intriso di un fluido simpatetico che permea i corpi terrestri e quelli astrali, così da garantire la circolazione armoniosa di spiriti vitali lungo il suo reticolo. Robert Darnton, lo storico americano dei Lumi, in un libro di alcuni anni fa, Il mesmerismo e il tramonto dei Lumi (appena tradotto dalle Edizioni Medusa, pp. 240, e22), ha mostrato come questo fenomeno parascientifico sia l'esatto opposto delle teorie di Rousseau, del suo Contratto sociale, oltre che il segno eclatante della fine del progetto illuminista di abbattere ogni forma di superstizione. Darton ci ricorda come il mesmerismo sia connesso alla scoperta dell'elettricità, il nuovo fluido vitale che pervade mondo organico e mondo inorganico. I nervi, nel passato indice di forza e di vigore, diventano nell'Ottocento i filamenti corporei responsabili della sensibilità, della scarsa come della eccessiva sensibilità. Alessandra Violi traccia dunque una dettagliata mappa dell'età della sensibilità, definendone i confini interni ed esterni, dalla letteratura al cinema, dall'arte alla psicologia, età che coincide, non a caso, con la meccanizzazione del mondo. Man mano l'elemento tecnologico pervade ogni aspetto della vita collettiva, nelle arti visive e nella letteratura affiorano personaggi isterici, nevrotici e nevrastenici, figure che diventano la forma attraverso cui s'incarna nella modernità la figura dell'artista, ovvero colui che possiede per natura una grande capacità di sentire. I nervi, sorta di corde sonore del corpo, segnano l'interfaccia tra l'esterno e l'interno, sostituendo nella visione della vita umana e animale la funzione solitamente assegnata alla pelle. Jonathan Crary in Suspensions of Perception (MIT Press, 1999) ha descritto questa trasformazione come la disintegrazione del confine tra interno ed esterno, come la strada attraverso cui si afferma la cultura moderna fondata sulla spettacolarizzazione e sulla dilatazione della sfera estetica. In questo contesto il mesmerismo, l'attenzione al sonnambulismo, le pratiche dell'ipnotismo, e persino la stessa psicoanalisi freudiana, che muove da queste pratiche e dal loro rifiuto, provocano la nascita del teatro della malattia psichica. Il corpo isterico, indagato e guarito attraverso tecniche al limite dello stregonesco, diviene il nuovo prototipo del rapporto tra l'io e il mondo. L'intero sistema della percezione, sottolinea Alessandra Violi, del pensiero e dell'azione, trova la propria collocazione nel corpo nervoso. Ma che cos'è esattamente l'isteria? «Forse lo sono stata anch'io», scrive George Sand a Flaubert, dal momento che si tratta di un'angoscia causata dal desiderio di qualcosa d'impossibile. Ce la abbiamo tutti, conclude la scrittrice, dato che tutti abbiamo un po' d'immaginazione. L'isteria come necessità della fantasia? L'elenco degli autori, delle poesie, dei racconti e dei romanzi, esibito da Alessandra Violi è impressionante, a partire da Des Esseintes, il personaggio di A Rebours di Huysmans, che trasforma la sua malattia in uno stato creativo, per arrivare a Francis Bacon, letto da Gilles Deleuze come il pittore dell'eccesso di presenza: impone la propria presenza e insieme percepisce la presenza degli altri, uomini, animali, cose. L'isteria appare in Dickens, in Eliot, in Coleridge, in Poe, attraversa opere e situazioni letterarie, e traccia un grande diagramma di un'intera epoca affascinata dalle sedute spiritiche - anche Darwin ne faceva - dai fantasmi che appaiono nella fotografia - Balzac ne parla a Nadar - ma anche da eroine ed eroi che incentivano il proprio "vero sentire". Il teatro dei nervi getta una luce nuova su un intero periodo della storia letteraria occidentale chiamato Simbolismo, oppure Decadentismo, mostrando come "l'età della sensazione" che sembrerebbe dominare ancor oggi sorga contemporaneamente alla nascita dell'indagine sul mondo dell'invisibile - elettricità e telefonia - e all'avvento dei mezzi che rendono riproducibile il reale - fotografia e cinema. Esiste una storia parallela, e spesso rimossa, dell'immagine a cui, qualche anno fa, in una mostra parigina, poi veneziana, L'âme au corp (1994), Jean Clair diede provvisoria forma. Lì, accanto alle fotografie delle isteriche e degli isterici di Charcot, comparivano le immagini di fantasmi ed ectoplasmi vagolanti nell'aria, catturati dalla lastra sensibile, vicino al resoconto di esperimenti telepatici si dava conto della comunicazione a distanza della voce, o s'affiancava l'iconografia dell'invisibile, i raggi X, ai collage surrealisti. Questo universo, dai confini incerti e dalle ripartizioni interne sovente instabili, è quello che ha prodotto la nostra età la quale ha avuto nel cinema il suo punto culminante, ma anche il suo strumento privilegiato di lettura. Il Gabinetto del Dottor Caligari (1920) di Robert Wiene, uno dei film attraverso cui Kracauer ha letto l'avvento del nazismo, mostra in modo evidente l'analogia tra l'ipnosi medica, praticata nell'Ottocento, e l'ipnosi cinematografica. Il dottor Caligari è la reincarnazione del medico mesmerista, insieme psichiatra e ipnotizzatore da fiera. Il film ci introduce all'interno di quel fenomeno di isteria collettiva che ha colpito la Germania e il Vecchio continente dopo la fine della Prima guerra mondiale. Oggi che l'età dell'eccitazione sembra aver toccato l’apice, l'isteria tramonta negli studi degli psicoanalisti come nelle immagini in movimento. La nostra, pur essendo ancora un'età che predica l'eccitazione, la auspica, la stimola, e cerca di mantenerla più a lungo possibile, sia nella camera da letto sia negli stadi, in realtà è un'età della sonnolenza progressiva. Alessandra Violi cita uno dei film chiave del contemporaneo, brutto film, ma immaginoso: Matrix. L'opera dei fratelli Wachowski, del 1999, ci presenta un universo incerto tra il bi e il tridimensionale, spazio virtuale, illusionistico. Il capo dei ribelli, che si propongono di abbatterlo, porta il nome di Morfeo. In questo mondo della manipolazione di ogni immagine lo stato catatonico, e la sonnolenza dominino incontrastati: una società di sonnambuli. Se Mesmer voleva, a suo modo, risvegliare gli istinti animali, controllarli e dirigerli, oggi, invece, i nuovi mesmerizzatori sociali puntano sull'ipnotismo. La spettacolarizzazione del reale, la mediazione dell'immagine, come aveva ben compreso decenni fa Guy Debord ci induce un insopprimibile "desiderio di dormire", magari seduti in poltrona, o sdraiati sul sofà, mentre, mentre il televisore emana i suoi immancabili effluvi serali.

un libro
in critica del riduzionismo e del cognitivismo

ilmanifesto.it12 marzo 2005
Dov'è il luogo delle nostre intenzioni
Un nuovo capitolo nella critica al congnitivismo, già annunciato nel titolo dell'ultimo libro di Felice Cimatti, Il senso della mente, appena uscito da Bollati Boringhieri
MARIO DE CARO

«La scienza è la misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono e di quelle che non sono per ciò che non sono». Parafrasando il motto di Protagora, Wilfrid Sellars compendiava brillantemente, alcuni anni fa, una concezione filosofica divenuta poi molto comune, soprattutto nei paesi anglosassoni: il naturalismo scientifico. Questa prospettiva - condivisa, sia pure con accenti diversi, da Quine e Dennett, Nozick e Fodor, Chomsky e Kim - si regge su tre assunzioni fondamentali: che non esistono entità e proprietà soprannaturali, che la filosofia non è una forma privilegiata di sapere in grado di fondare tutte le altre (inclusa la scienza) e che l'indagine filosofica va pensata in continuità con quella scientifica. Naturalmente, questi punti generali sono stati variamente argomentati. Né si può dire che il naturalismo scientifico sia unanimente accettato dai filosofi di orientamento analitico o post-analitico: Davidson, McDowell e Putnam, ad esempio, hanno proposto forme di naturalismo moderato che, pur rispettose della conoscenza scientifica, non negano affatto la legittimità, e anzi l'indispensabilità, delle altre forme di comprensione della realtà. Sulla questione del naturalismo è dunque in corso da decenni uno dei più importanti dibattiti filosofici contemporanei. Non in Italia, però, o almeno non sino a tempi molto recenti. A lungo, infatti, il duplice retaggio di irrazionalismi di vario genere e di uno storicismo teoreticamente rinunciatario ha inibito da noi ogni seria discussione sul naturalismo e, più in generale, sulla relazione tra filosofia e scienza. Se, infatti, tradizionalmente la maggior parte dei filosofi italiani si è arroccata su posizioni di retriva antiscientificità, in genere chi ha difeso il naturalismo ne ha, per reazione, accettato acriticamente le tesi, senza preoccuparsi di articolarle e di irrobustirle. A lungo, dunque, la filosofia italiana si è mossa all'interno della mesta alternativa tra un antinaturalismo irrazionalistico e un acritico scientismo.
Ora però le cose stanno cambiando e sul naturalismo si è ormai avviato un serio dibattito, nel quadro del quale si inserisce il nuovo volume di Felice Cimatti, Il senso della mente. Per una critica del cognitivismo, appena uscito da Bollati Boringhieri. Cimatti propone una via intermedia tra l'anti-naturalismo degli ermeneuti - e, a fortiori, degli spiritualisti - e il naturalismo scientistico (o «riduzionismo», come egli preferisce dire) di molti filosofi contemporanei, in particolare di quelli influenzati dal cognitivismo - il programma di ricerca che ponendosi all'incrocio di psicologia, filosofia della mente, linguistica e intelligenza artificiale intende spiegare i processi cognitivi in termini di meccanismi di computazione dell'informazione. Al di là delle differenze, per Cimatti antinaturalismo e riduzionismo condividono l'incapacità di articolare un discorso sensato sulla mente umana: «una descrizione scientifica della mente umana non può essere né riduzionistica, perché in questo modo quel che si spiega non è la mente, né ... antinaturalistica [perché così] si salva l'autonomia della mente solo al prezzo di trasformarla in una entità misteriosamente separata dal mondo naturale: la mente è naturale ma non è una cosa».
Cimatti accenna a un altro possibile modo di studiare la mente umana, per mezzo di «una biologia inseparabile dalla più tipica delle caratteristiche della specie umana, il suo linguaggio». Resta il fatto, però, che Il senso della mente è soprattutto una serrata critica del cognitivismo: molti tra i suoi seguaci presuppongono il funzionalismo - ossia la tesi per cui gli stati mentali non sono individuati dalle loro proprietà intrinseche, ma dalle relazioni causali in cui figurano. Per il funzionalismo, il pensiero è una proprietà astratta; ma questo, secondo Cimatti, significa che se la mente «vuole essere qualcosa di reale deve diventare concreta, deve cioè diventare una cosa»; dunque, «la mente esiste, in questo modo di studiarla, solo come non mente, come cervello ad esempio, ossia come una cosa». Per Cimatti, dunque, il cognitivismo «ha molto da dirci sul cervello, ma nulla sulla mente», perché - ed è questo uno degli argomenti del libro - in primo luogo non è in grado di spiegare la costitutiva normatività del mentale ovvero il fatto che i pensieri, oltre ad essere cause delle nostre azioni, possono fungere anche da ragioni che le giustificano. In effetti, questo è un punto nevralgico del cognitivismo, come peraltro riconoscono alcuni dei suoi fautori e influenti critici come McDowell e soprattutto Putnam, che pure del cognitivismo fu uno dei fondatori. Per Cimatti, da ciò segue che «le pratiche umane che si occupano della materia non possono vantare alcuna supremazia ontologica rispetto alle pratiche che cercano di dare conto dei fenomeni mediante un perché diverso, non quello causale, bensì quello delle ragioni». Un diverso argomento è accennato fin dalla prima pagina del Senso della mente. Secondo Cimatti, sostenere che il pensiero è una parte del mondo fisico, come fa il cognitivismo, implica chiedersi «dove sta, perché soltanto le cose stanno da qualche parte - allora è sensato interrogarsi anche sul suo colore, o il suo peso, o addirittura il suo odore». Tale domanda è ovviamente assurda ma per Cimatti il cognitivismo la renderebbe lecita: e questa è una vera e propria reductio ad absurdum di tale concezione.
A questo argomento i naturalisti più riduzionisti - quelli che ammettono solo entità e proprietà fisiche - risponderebbero concendendo a Cimatti che i pensieri non hanno colori o odori; ma ciò solo in quanto nulla ha veramente colore o odore: colori e odori sono infatti proprietà secondarie ossia mere apparenze (che, notava Galileo, «rimosso lo animale sieno levate e annichilite»). La maggior parte dei cognitivisti, però, negherebbe la tesi che Cimatti attribuisce loro, ovvero che il pensiero sia materiale, che sia una cosa - e che per questo debba avere peso e colore. Affermerebbero, invece, che il pensiero è e rimane astratto, anche se ha bisogno di una base materiale per essere implementato (con la classica metafora del computer: il pensiero è il software e, come tale, ha bisogno di un hardware materiale; ma ciò non significa che il software diventi hardware).
Infine i cognitivisti più avvertiti, come Fodor, Block e Kim, accetterebbero un'altra critica di Cimatti, secondo la quale il cognitivismo non può spiegare l'aspetto fenomenico dei pensieri ovvero il modo in cui, ad esempio, si prova dolore o si esperisce piacere. Il carattere fenomenico, tuttavia, non è l'unico aspetto del pensiero: c'è anche il carattere intenzionale. E la maggiore ambizione del cognitivismo è proprio quella di spiegare quest'ultimo aspetto del mentale. È controverso, naturalmente, se tale ambizione sia ben riposta: secondo Cimatti, e gli altri naturalisti moderati, non lo è affatto.

Ritalin

una segnalazione di Francesco Borgese

tiscali.it
Psicofarmaci per bambini iperattivi: è polemica sul Ritalian

Vostro figlio è distratto a scuola o mentre gioca? Ha difficoltà a mantenere la concentrazione mentre fa i compiti o è iperattivo e si muove in continuazione? "Mio figlio è sveglio e vivace", direte voi. Oppure soffre di una patologia individuata come propria dei bambini, la "sindrome da deficit dell'attenzione e iperattività infantile". Una patologia che, dopo aver creato un vespaio di polemiche negli Usa, sembra colpire almeno il 4 per cento dei bambini italiani.
"Adhd" è l'acronimo della malattia che negli Stati Uniti sembra creare un vero e proprio allarme sociale. Il numero di bambini americani che sarebbero affetti da questa patologia è tra i quattro e i sei milioni. Verificare se la malattia è presente è semplice: basta compilare un banalissimo test e verificare il punteggio conseguito. Quindi l'intervento dello specialista sarà necessario per la diagnosi della malattia. Il farmaco, prodotto dalla Novartis (una multinazionale svizzera), è accusato di dare assuefazione e di provocare stati depressivi e istinti suicidi. Chiamata anche la "pillola dell'obbedienza" o la "pillola del manganello", il "Ritalin", questo il nome del farmaco, è oggetto di critiche e accuse da parte di associazioni di consumatori e genitori americani che denunciano un vero e proprio abuso del farmaco.

lo smemorato di Collegno

La Stampa 13 Marzo 2005
A QUASI OTTANT’ANNI DA QUANDO LA VICENDA PRENDE LE MOSSE, LA CITTÀ GLI DEDICA UNA MOSTRA
Il ritorno dello «smemorato»
Collegno non dimentica il caso Bruneri-Canella
Patrizio Romano

Collegno ricorda il suo «smemorato». A quasi 80 anni da quando, nel marzo 1926, la vicenda di Bruneri e Canella prende le sue mosse, la città dedica a quel caso giudiziario, tra i più noti nel mondo, una mostra. «Sappiamo che un autore americano, Glenn Novarr - spiega l'assessore Carla Gatti -, sta finendo un libro sul nostro smemorato, ci sembrava giusto ripercorrerne, anche noi, la storia e il giallo». Quotidiani dell'epoca, foto dei protagonisti, perizie di psichiatri e investigatori, documenti e reperti dell'ex manicomio e la cartella clinica, per la prima volta saranno esposti dal 24 marzo.
«L'uomo che smarrì se stesso», questo il titolo scelto, che poi altro non è se non quello dato al primo articolo sul caso, del giornalista Ugo Pavia, apparso su «La Stampa» il 5 febbraio 1927. «C'era già stata un evento su questo fatto nell'88 - aggiunge la Gatti -, ma questa volta tutto si svolgerà nelle stesse mura del manicomio: una storia vista da dentro». A dare il la all'iniziativa anche la recente edizione del volume «Indagine sullo Smemorato di Collegno», per i tipi della Ananke, scritto da quattro esperti: Milo Julini, Paolo Berruti, Maurizio Celìa e Massimo Centini.
«Un'opera nata per dare finalmente il giusto risalto al lavoro svolto dalla polizia scientifica di allora - ammette Julini -, e specialmente a Ugo Sorrentino e Giovanni Gasti, che hanno contribuito a svelare che lo smemorato era Mario Bruneri». Una verità che non sbiadisce il fascino del personaggio. «A me è particolarmente simpatico, uno sbandato, ma geniale» confessa Julini. «Un uomo intrigante - sostiene il sindaco Silvana Accossato -, che suscita ancor oggi curiosità. E questo può essere un elemento per la promozione di Collegno. Non l'unico, ma il più importante».
Un caso che fece scalpore e ancor adesso tiene banco. «E' uno strano meccanismo - confessa Julini -, quello scattato per questo caso: di sicuro il fatto che la moglie di Canella si sia portata in casa un uomo, che non era suo marito, o finiva in tragedia o si doveva trovare una soluzione». E cosa se non il dubbio di un giallo? Registe di questo mistero due donne. «La Canella, che con lui ha trovato una forte intesa, che non aveva neanche con il marito - ammette Julini -, e la mamma di Bruneri che, pur avendo delle lettere in cui il figlio confessava di essere lo smemorato, ha taciuto».
Poi c'è la genialità di Bruneri, alias Canella, che per anni ha giocato, «con pochi errori, una lunghissima partita a scacchi», come scrive Paolo Berruti. Lui, tipografo torinese con velleità socialiste, per caso si ritrova nei panni di un noto e stimato docente veronese: un sogno, per quest'uomo dalla forte ambizione. Una storia che ha coinvolto scrittori del calibro di Pirandello e Sciascia e registi come Corbucci e Festa Campanile. «Chissà che non venga fuori un altro film - si augura l'Accossato -, sarebbe bene accetto». Scaltri come il loro «smemorato».

la storia dell'India

Domani con il «Corriere» la «Storia dell’India» di Michelguglielmo Torri, con una presentazione di Ettore Mo
Il Paese di Gandhi riconquista il suo passato
di GIORGIO MILANETTI
Docente di Storia dell’India moderna e contemporanea, Università «La Sapienza» di Roma

Tra i pregiudizi che riguardano l’India ce n’è uno, assai radicato, secondo il quale la civiltà indiana, da sola, non ha mai prodotto una vera storiografia. Non è un’opinione recente. Se ne lamentava già lo studioso musulmano al-Biruni, che visitò l’India intorno all’anno 1000. Più tardi, nel periodo coloniale, questa presunta lacuna fu presentata, assieme a tante altre, come dimostrazione della superiorità dell’Occidente e, dunque, della sua idoneità a dominare e persino a educare il sub-continente. È pur vero che le prime date certe della storia indiana, secondo la cronologia occidentale, coincidono con la spedizione di Alessandro Magno. Persino il periodo della vita del Buddha, che viene preso come base per ulteriori datazioni, è ancora avvolto da dubbi. Bisogna dunque concordare con quei pareri? O si deve invece nutrire il sospetto che, se nell’India antica e medievale non si trova la «storia», è perché si cerca una cosa sbagliata?
Allarghiamo l’esame alla geografia, un altro campo in cui le pretese della scienza occidentale rimangono ampiamente deluse: nelle più antiche raccolte di testi, i Veda , i nomi di luoghi sono rarissimi. Dei fiumi e delle montagne si parla in modo generico o convenzionale. È evidente che le genti seminomadi di lingua indo-aria che composero queste opere, privilegiavano il movimento: un’estensione di terra, desha , è innanzitutto una direzione, dish ; lo spazio fisso, destinato allo stanziamento, è dominio di Yama, il signore della morte. Ne risulta un mondo fatto di forze, e non di oggetti, nel quale l’elemento fisso, singolare, localizzato, non suscita interesse. Un mondo in cui, come ha ben scritto Michel Angot in un recente articolo, vige «il primato della relazione su ciò che è messo in relazione», perché solo da questa relazione, e dai rituali che la istituiscono, gli uomini possono comprendere l’autentico senso delle cose.
Per la storia si può fare lo stesso discorso. La delimitazione del tempo, la sua scansione cronologica, in quanto successione di singoli eventi, non conferisce senso. Il tempo lineare, kala , al pari dello spazio fisso, è dominio, e persino sinonimo, della morte. Per questa ragione la «storia» che l’India si racconta non corrisponde a quella che noi in genere cerchiamo: come aveva già intuito Heinrich Heine, la memoria dell’India antica sono i suoi immensi poemi. Inserita in queste opere, all’interno di un quadro narrativo estremamente complesso, eppure coerente fino al dettaglio, ecco che la storia moltiplica i propri significati: è al tempo stesso mito e repertorio enciclopedico, epos e fondamento delle istituzioni sociali, emozione poetica e persino riflessione su se stessa. Ma la scienza occidentale, che non aveva gli strumenti per dipanare questa complessità, preferì affermare, con Hegel, che l’elemento indiano è oscuramente preistorico, o, con Ranke, che la cultura indiana è primitiva.
Nei due secoli del periodo coloniale, alcuni tra i migliori ingegni occidentali si preoccuparono di far uscire l’India da questa preistoria. Per compiere l’impresa, presero a scavare siti abbandonati e a decifrare testi dimenticati, ad analizzare lingue e religioni i cui nomi e le cui identità erano spesso creati dal processo stesso di analisi, a ricostruire cronologie dove cronologie non c’erano perché non erano mai servite. Impadronitosi del monopolio del sapere, l’Occidente lo impose, manu militari , come ermeneutica del «vero spirito» del Paese. Tutto ciò che non si conformava, snaturandosi, ai nuovi standard e alle nuove categorie, veniva marginalizzato, come le forme di istruzione tradizionale, o persino criminalizzato, come la danza. Emblema di questo sapere gerarchico e divisivo, le relazioni censuarie, dove tutto, dalle professioni ai misteri spirituali, doveva trovare posto in una riga, una colonna, una casella.
La storiografia nazionalista, figlia di tre concetti impiantati in India dai colonizzatori - quelli di storia, nazione e nazionalismo - non fece altro che adattare il medesimo processo alle esigenze delle nuove élite indigene. Anch’essa separò, categorizzò, stabilì primati e gerarchie. Prima dell’indipendenza, contribuì a legittimare l’ascesa delle classi che aspiravano a prendere il posto dei colonizzatori, e non fu estranea alla genesi dei massacri di hindu e musulmani a cavallo del 1947. Dopo quella data, continuò a escludere dalla lettura del processo di costruzione nazionale le classi subalterne e intermedie, le popolazioni tribali, le donne, la sterminata massa della gente comune.
Oggi, a questi limiti interni, si aggiungono quelli esterni: nell’era della mondializzazione, nessuna storia nazionale, da sola, appare idonea a spiegare, a dare senso. Le tendenze più recenti riscoprono l’ambito locale o regionale; compaiono eccellenti studi trasversali, come la storia agraria dell’Asia meridionale di David Ludden. Si tenta di tracciare schemi unificanti interdisciplinari, si utilizzano metodologie non convenzionali e materiali inconcepibili per lo storico tradizionale, quali la letteratura, il patrimonio orale, le arti e le tradizioni popolari, il cinema. La memoria torna finalmente ad assomigliare più a un poema che a una cronaca dinastica.

la ricerca sulle staminali

Tempo Medico n. 790 13 marzo 2005
Clonazione bandita, con riserva
Molti paesi andranno avanti con la ricerca sulle staminali embrionali, nonostante la presa di posizione contraria dell'ONU
di Donatella Poretti

Il 18 febbraio la Commissione affari legali dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato il testo di una dichiarazione politica sulla clonazione umana con 71 voti a favore (tra cui quelli di Stati Uniti e Italia), 35 contrari (Gran Bretagna, Belgio, Singapore, Cina, Corea del Sud) e 43 astenuti (i paesi islamici). Già in questi numeri c'è il senso di una battaglia portata alle estreme conseguenze per farne una bandiera ideologica. Nel testo, infatti, si dimostra la volontà di fare un manifesto contro la clonazione il cui rischio è quello di essere semplicemente ignorato. Nello strumento giuridico scelto, una dichiarazione d'intenti e non una convenzione internazionale da ratificare, c'è la conferma.
Si chiede di "proibire tutte le forme di clonazione umana in quanto incompatibili con la dignità umana e la protezione della vita umana"; adottare in tempi rapidi tutte le misure legislative necessarie "a proteggere adeguatamente la vita umana nell'applicazione delle scienze della vita" e a "proibire il ricorso a tecniche di ingegneria genetica contrarie alla dignità umana".
Il testo deve ancora passare il vaglio dell'Assemblea generale, ma la Cina e altri paesi hanno annunciato che andranno avanti con la ricerca sulle staminali embrionali, perché non si sentono vincolati. "La dichiarazione era imprecisa e la proibizione di qualsiasi tipo di clonazione umana contraria alla dignità può portare a fraintendimenti nel trattare la clonazione terapeutica" spiega il rappresentante cinese all'ONU, Su Wei. "Pertanto la dichiarazione non sarà legalmente obbligatoria per la Cina". Nella Repubblica popolare vi sono almeno 30 istituti statali che conducono ricerche di ingegneria genetica e che ricevono fondi dal Programma nazionale per la tecnologia.
Negli stessi giorni è arrivata dalla Spagna la notizia del via libera alle prime quattro ricerche con cellule staminali derivate da embrioni eccedenti dalla fecondazione assistita. I ricercatori festeggiano l'avvenimento e si accingono a lasciare il dibattito politico per poter finalmente tornare nei laboratori. Sono occorsi 5 anni di mobilitazioni di scienziati, malati, comunità autonome e partiti politici per arrivare a questo risultato. Per José Lopez Barneo, uno dei ricercatori autorizzati, con questo atto si chiude un capitolo politicizzato e se ne apre un altro ancora più difficile, quello della ricerca. E uno tra i protagonisti principali, il ricercatore Bernat Soria, che è stato autorizzato a realizzare un progetto sul diabete, ha commentato: "Credo che occorra far uscire questo tema dal dibattito politico e spero che la prossima notizia non riguardi le difficoltà che uno scienziato incontra per lavorare in questo campo, ma il fatto che stiamo facendo qualcosa di buono per le persone".

la passione d'amore è una droga

La Stampa 13.3.05
L’amore come il doping
Troppa passione provoca dipendenza


PARIGI — «Un filtro d'amore», si leggeva nelle favole, «un incantesimo»: per lo psichiatra francese, specialista in tossicodipendenze, Michel Reynaud, l'innamorato si comporta né più né meno come un drogato. E il doping che usa non è nemmeno dei più leggeri: crea dipendenza, se ne vuole sempre di più e fa rischiare l'overdose. In un libro a metà fra lo scientifico e il divulgativo - «L'amore è una droga leggera...in generale» - lo psichiatra descrive la passione che nasce fra due esseri umani come il consumo di una droga del quale si ha un bisogno sempre più smisurato: «Siamo drogati della pelle dell'altro - scrive - ci inebria, ci rende meravigliosamente felici e dipendenti. Lo si sospetta di averci somministrato un filtro, gli si ripete «mi manchi» e si soffre in sua assenza, basta rivederlo per tornare ancora meravigliosamente felici...si sfiora l'overdose di dolore e si ha paura che possa essere fatale». Reynaud e altri suoi colleghi sono rimasti colpiti nell'osservazione sistematica dei comportamenti degli innamorati e dei tossicodipendenti, dall'alternanza di esaltazione e disperazione a seconda della presenza o dell'assenza dell'essere o della sostanza desiderata. La differenza è nell'evoluzione: che nel rapporto fra due persone può diventare un rapporto più impegnativo e duraturo, ma che rischia talvolta di deviare verso passioni distruttrici, proprio come nel caso della droga. La neurobiologia dà man forte a Reynaud: «da pochi anni disponiamo - scrive lo psichiatra - di informazioni scientifiche che corroborano la tesi che il famoso «filtro d'amore» possa rendere schiavi come una sostanza stupefacente. A lungo abbiamo rifiutato di ammettere, per mancanza di dati scientifici, ma anche per questioni morali, che ciò che rende dipendenti, in entrambi i casi, è la dimensione del piacere». E la neurobiologia insegna che in entrambi i casi - amore e droga - interviene l'aumento di una sostanza nel cervello neuromediatore, la dopamina, che dà stimoli creativi, voglia di scoprire, di saperne di più, di provare ad andare oltre. In realtà, il corpo umano è «programmato» per il piacere, così come dimostrato dal complicato sistema di neurorecettori e neurotrasportatori chimici che esistono a tale scopo. Tutto, però, è già pronto per «tornare a uno stato di maggior neutralità - spiega lo studioso - qualora il piacere venga a mancare, senza soffrire di mancanza intollerabile». Al contrario, come nel caso di droghe e amore, quando il piacere arriva in «dosi massicce», impreviste dal sistema, la mancanza diventa «intollerabile».

La Gazzetta del Sud 13.3.05
Secondo lo psichiatra «crea dipendenza, se ne vuole sempre di più»
L'amore è come il doping: si rischia l'overdose
Aurelio Manenti

ROMA – «Un filtro d'amore», si leggeva nelle favole, «un incantesimo»: per lo psichiatra francese, specialista in tossicodipendenze, Michel Reynaud, l'innamorato si comporta né più né meno come un drogato. E il doping che usa non è nemmeno dei più leggeri: crea dipendenza, se ne vuole sempre di più e fa rischiare l'overdose. In un libro a metà fra lo scientifico e il divulgativo – «L'amore è una droga leggera... in generale» – lo psichiatra descrive la passione che nasce fra due esseri umani come il consumo di una droga del quale si ha un bisogno sempre più smisurato: «siamo drogati della pelle dell'altro – scrive – ci inebria, ci rende meravigliosamente felici e dipendenti. Lo si sospetta di averci somministrato un filtro, gli si ripete “mi manchi” e si soffre in sua assenza, basta rivederlo per tornare ancora meravigliosamente felici... si sfiora l'overdose di dolore e si ha paura che possa essere fatale». Reynaud e altri suoi colleghi sono rimasti colpiti nell'osservazione sistematica dei comportamenti degli innamorati e dei tossicodipendenti, dall'alternanza di esaltazione e disperazione a seconda della presenza o dell'assenza dell'essere o della sostanza desiderata. La differenza è nell'evoluzione: che nel rapporto fra due persone può diventare un rapporto più impegnativo e duraturo, ma che rischia talvolta di deviare verso passioni distruttrici, proprio come nel caso della droga. La neurobiologia dà man forte a Reynaud: «Da pochi anni disponiamo – scrive lo psichiatra – di informazioni scientifiche che corroborano la tesi che il famoso “filtro d'amore” possa rendere schiavi come una sostanza stupefacente. A lungo abbiamo rifiutato di ammettere, per mancanza di dati scientifici, ma anche per questioni morali, che ciò che rende dipendenti, in entrambi i casi, è la dimensione del piacere». E la neurobiologia insegna che in entrambi i casi – amore e droga – interviene l'aumento di una sostanza nel cervello neuromediatore, la dopamina, che dà stimoli creativi, voglia di scoprire, di saperne di più, di provare ad andare oltre. In realtà, il corpo umano è «programmato» per il piacere, così come dimostrato dal complicato sistema di neurorecettori e neurotrasportatori chimici che esistono a tale scopo. Tutto, però, è già pronto per «tornare a uno stato di maggior neutralità – spiega lo studioso – qualora il piacere venga a mancare, senza soffrire di mancanza intollerabile». Al contrario, come nel caso di droghe e amore, quando il piacere arriva in «dosi massicce», impreviste dal sistema, la mancanza diventa «intollerabile».