lunedì 21 marzo 2005

VELÀZQUEZ A NAPOLI
con una recensione di Simona Maggiorelli
E PABLO PICASSO

ANSA.it
Mostre: 30 opere di Velàzquez al Museo di Capodimonte di Napoli
Dal 19 marzo, in esposizione per tre mesi

NAPOLI. Velàzquez a Capodimonte per tre mesi: presentata il 19 marzo la mostra dedicata al grande maestro spagnolo. Esposti circa 30 dipinti che aiuteranno a ricostruire le fasi salienti della sua produzione: dagli esordi caravaggeschi con 'la Vecchia che frigge uova' della National Gallery of Scotland di Edimburgo e 'l'Adorazione dei Magi' del Museo del Prado, ai ritratti ufficiali della maturità, fino alla 'Venere allo specchio' della National Gallery di Londra.

info: http://www.pierreci.it/do/show/article/01104
Da Europa 19 marzo 2005
VELÀZQUEZ TORNA A NAPOLI
di Simona Maggiorelli


Un nudo di donna; lei volta le spalle allo spettatore, guardandosi nello specchio che cupido le porge. L’eleganza sinuosa della linea del corpo e la pienezza di una figura che si staglia contro il rosso scuro delle cortine. Un’immagine femminile che dà la sensazione di essere al centro del proprio mondo; che irradia sensualità e grazia. Così, al suo secondo viaggio in Italia intorno al 1650, Velàzquez rilesse il genere veneto e tizianesco dei nudi femminili, dipingendo un quadro come la Venere allo specchio della National Gallery di Londra che, con piglio leggero, va oltre i capolavori di Tiziano. Per il movimento interno che Velàzquez sa dare alla scena, e per quel sottile gioco di sguardi con lo spettatore imbastito attraverso l’immagine vaga, indefinita, del volto di lei, riflesso nello specchio. Una triangolazione che dà profondità al quadro e evoca ulteriori livelli di significato, che suggerisce allusivi slittamenti verso altri piani. In sintonia con quello che forse è il capolavoro assoluto di Velàzquez Las Meninas.
Proprio scegliendo la celebre Venere allo specchio come immagine guida si apre oggi a Napoli la mostra che il Museo di Capodimonte dedica, fino al 19 giugno, a Diego Velàzquez (1599- 1660). Con un vertiginoso confronto di bellezze a dare il la al percorso, mettendo accanto alla Venere del pittore spagnolo l’opulenta bellezza della Danae di Tiziano conservata dal museo partenopeo. Quella del 1545, brillante di luce dorata, lo sguardo lungo e fiammeggiante sotto una pioggia di monete d’oro, simbolo della ricchezza di Venezia. Due opere che rappresentano un passaggio di svolta importante nella rappresentazione del nudo femminile, un filone con cui poi si confronterà anche Goya con la sua Maya desnuda. (Come aveva raccontato qualche anno fa una interessante mostra del Museo del Prado dedicata al nudo).
Ma a Napoli non c’è solo il Velàzquez più intrigante, quello che sapeva raccontare oltre al corpo anche uno spessore, un’interiorità femminile. La rassegna curata da Alfonso E. Pérez Sánchez e da Nicola Spinosa con la collaborazione di Benito Navarrete e Salvador Salort Pons, attraverso una trentina di opere provenienti dai musei spagnoli, ma anche da Londra, da Berlino, da Vienna e da Boston e Washington (dove sono conservati il celebre ritratto di Gongora e La cucitrice) offre una panoramica completa della pittura del grande pittore di Siviglia che nella capitale del viceregno spagnolo, dopo tappe a Venezia, a Roma e Parma per approfondire le sue conoscenze dell’antico e della pittura veneta del Cinquecento, soggiornò in due occasioni, nel 1630 e nel 1649, per conoscere più da vicino le opere di Caravaggio, dei pittori naturalisti napoletani e di Jusepe de Ribera. Così, un capitolo importante della mostra “Velàzquez a Capodimonte” è dedicato proprio agli esordi caravaggeschi di Velazquez con un quadro emblematico come la Vecchia che frigge le uova della National Gallery of Scotland di Edimbrugo. Un quadro che ancora rientra nell’esempio dei bodegones, scene quotidiane con inserti di natura morta che Velàzquez aveva imparato a comporre quando, giovanissimo, era entrato a bottega da Pacheco, ma che si distingue dalla tradizione proprio per la forza del realismo e per l’uso della luce mutuato da Caravaggio. Anche nelle tele di soggetto sacro come L’adorazione dei magi proveniente dal Museo del Prado si avverte questo passaggio. Velàzquez si stacca dalla tradizione spagnola, tormentata, cupa, dominata sempre dalle note scure del dolore e della espiazione. Si stacca dai rigidi dettami accademici della pittura ufficiale. Prova ne è un quadro singolarissimo come Interno di cucina con la Cena di Emaus detto “La mulatta”, del 1617 e proveniente dalla National Gallery of Ireland di Dublino: un quadro quasi eterodosso nel suo posizionare l’episodio religioso in secondo piano rispetto all’immagine di una giovane donna mora che, in primissimo piano, sbriga delle faccende domestiche. Interessantissima anche la scelta dei ritratti con cui i curatori hanno deciso di raccontare la maturità di Velàzquez: dal poco noto Autoritratto della Galleria degli Uffizi ( poco noto perché conservato nel corridoio vasariano, purtroppo da tempo chiuso al pubblico) agli impietosi ritratti di corte, di Filippo IV, di Maria d’Austria, ma anche dell’ L’infanta Margherita e del principe Filippo Prospero provenienti dal Kunsthistorisches di Vienna, raffigurati nelle sfarzose vesti regali e che ne facevano dei costipati e malinconici re e regine in miniatura, fino a i penetranti ritratti di nani e buffoni di corte come il drammatico Calabacillas .

per vedere le immagini:
(se necessario, clicca una volta sull'immagine per ingrandirla)

Diego Velàzquez. Venus at Her Mirror ("The Rokeby Venus") c. 1644-48.
Oil - 122.5 x 177 cm. National Gallery, London

http://www.artchive.com/artchive/V/velazquez/velazquez_venus.jpg.html

Diego Velàzquez. Las Meninas.1656
Oil on canvas.10'5" x 9'1". Museo del Prado, Madrid

http://www.ibiblio.org/wm/paint/auth/velazquez/velazquez.meninas.jpg

Pablo Picasso. Les Demoiselles d'Avignon. 1907.
Oil on canvas, 8' x 7' 8" (243.9 x 233.7 cm). Acquired through the Lillie P. Bliss Bequest. © 2002 Estate of Pablo Picasso/Artists Rights Society (ARS), New York

http://www.moma.org/collection/depts/paint_sculpt/blowups/paint_sculpt_006.html

Pablo Picasso. Las Meninas (after Velàzquez), 17 August 1957.
Oil on canvas, 194 x 260 cm. Museu Picasso, Barcelona. Zervos XVII, 351
http://www.artchive.com/artchive/P/picasso/meninas.jpg.html

Picasso a Villa Olmo di Como

La Provincia 20.3.04
PICASSO A Como la rinascita del Minotauro
Un corridoio angusto si schiude di colpo sul monumentale sipario: ecco il pezzo forte della mostra aperta da ieri nelle sale di Villa Olmo

Silvia Bernasconi
info:
http://www.corriere.it/promotion/Picasso/

http://www.picassocomo.it/

Un corridoio angusto, con fotografie d'epoca sull'arte del toreare, si apre all'improvviso sulla monumentale Deposizione del Minotauro in costume di Arlecchino, un sipario in tela grezza dipinta a tempera di tredici metri di lunghezza e otto di altezza. È il pezzo forte della mostra Picasso. La seduzione del classico curata da Massimo Bignardi, Maria Luïsa Borràs e Luigi Fiorletta, che ieri ha aperto al pubblico negli spazi di Villa Olmo. Realizzato da Pablo Picasso nel 1936 per uno spettacolo teatrale, Quatorze Juillet di Romain Rolland andato in scena al Théatre du People il 14 luglio di quell'anno, e rimasto a lungo arrotolato, oggi conservato al Museo d'Arte Moderna e Contemporanea "Les Abattoirs" di Toulouse che lo espone solo sei mesi all'anno per non comprometterne l'integrità, qui ritrova la sua dimensione scenografica. Una possente figura mitologica dal volto d'aquila tiene fra le braccia un Minotauro morto con indosso un costume da arlecchino, mentre un uomo barbuto, avvolto in una pelle di cavallo e con un giovane sulle spalle, si fa loro incontro minaccioso. Sullo sfondo un paesaggio desolato e una torre in rovina. La drammaticità della scena, giocata sui toni dei grigi e degli azzurri, e i riferimenti alle vicende storiche contemporanee trovano conferma nelle Minotauromachie degli stessi anni - in mostra tra le altre Minotaure aveugle guidé par une fillette dans la nuit del 1934 - e anticipano Guernica, che Picasso avrebbe dipinto l'anno successivo per gridare il dolore della cittadina basca bombardata.
Capolavoro indiscusso, esposto in Italia solo due volte - la prima otto anni fa al Castello di Rivoli -, il sipario racchiude in sé i principali temi della rassegna comasca: il classico e il mito. È qui che idealmente si ricongiungono le opere esposte, centotrenta in tutto tra dipinti, disegni, incisioni, arazzi, sculture e ceramiche, che ripercorrono le tappe della vita e della produzione artistica del maestro spagnolo lungo un percorso suddiviso in quattro sezioni: L'incontro con la figura: gli anni della formazione 1895-1903, Figure della mitologia, Figure dell'inconscio, Nuove figure, nuove forme del Mediterraneo. L'allestimento sapiente valorizza i pezzi e crea un gioco di richiami tra le opere d'arte e le stanze della villa. Niente è lasciato al caso. I reperti archeologici di Paestum sono ambientati in uno spazio raccolto e tappezzato in velluto rosso, memore dello studiolo dell'umanista. Le ventisei Tauromachie del 1957 con i momenti salienti della corrida, dall'entrata dei toreri, al picador che pungola il toro, fino alla stoccata, sono disposte a semicerchio in una sorta di plaza de toros ricostruita per l'occasione. Il primo Picasso è il meno conosciuto, ma anche il più scontato. È il Picasso accademico. È l'artista che guarda alla centralità della figura umana, che appena tredicenne segue gli insegnamenti del padre, anch'egli pittore, e impara dalle lezioni di copia dal vero a scuola, che si esercita nel disegno e nella stesura del colore, che assorbe la tradizione, ma nello stesso tempo nel 1900 compie un primo viaggio a Parigi alla ricerca della modernità. Si susseguono in questa sezione ritratti, tra cui il toccante Ritratto del padre avvolto in una coperta del 1895, nudi maschili e scene di vita della capitale francese che ricordano Toulouse-Lautrec. Niente periodo blu, né rosa, né cubismo.
La mostra si concentra sulla seduzione che la mitologia classica ha avuto sull'immaginario dell'artista, in particolare i miti del Mediterraneo. Una volta Braque mi disse: "In fondo tu hai sempre amato la bellezza classica". È vero. Anche oggi per me è così. Non si inventa una bellezza ogni anno», ha dichiarato Picasso. Ed ecco gli affreschi pompeiani e i vasi di Paestum, che ha scoperto in Italia nel 1917, messi a confronto con le incisioni da lui realizzate tra il 1930 e il 1937 per la cosiddetta Suite Vollard con nudi femminili, bagnanti, scene di baccanali e del riposo dell'artista. E ancora la corrida, che a partire dal primo acquerello con El Picador del 1900 rappresenta il legame con la terra natia, la Spagna, e con l'infanzia, e la mitica figura del Minotauro che si carica di significati autobiografici e simbolici. Convince meno l'ultima sezione dove sono raggruppate le opere dagli anni Quaranta agli anni Sessanta. Testimonianza di una vivace fase creativa sono gli arazzi e la scoperta della ceramica come forma tradizionale della cultura mediterranea che l'artista fa nel 1947 a Vallauris, antico centro di arte vasaia nella Francia meridionale. È con l'argilla, che lavora con le mani, graffia e dipinge, che Picasso, ormai settantenne, dà vita a nuove forme di mitologia classica.

La Gazzetta del Sud sabato 19 marzo 2005
A Como una mostra sui miti mediterranei nell'intero arco creativo del celebre pittore spagnolo
Picasso e la seduzione del classico
Un tema ricorrente in varie espressioni artistiche del maestro
Renato Colonnese

Centoventi opere tra dipinti, disegni, arazzi, incisioni e ceramiche per la mostra dedicata a «Picasso: La seduzione del classico» organizzata dal Comune di Como e che è stata inaugurata ieri a Villa Olmo. La particolarità dell'esposizione è data dalla scelta tematica. Pablo Picasso fu sempre affascinato dai miti mediterranei, un soggetto privilegiato dal maestro e sempre ricorrente nell'intero arco creativo come conferma proprio questa mostra comasca. All'inaugurazione hanno partecipato la figlia di Picasso, Maya, il presidente di Regione Lombardia Roberto Formigoni, i ministri Giuliano Urbani (Cultura) e Lucio Stanca (Innovazione), il presidente Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti, il sindaco di Como Stefano Bruni e l'assessore alla Cultura Sergio Gaddi. Al pubblico la mostra sarà aperta da oggi a domenica 17 luglio. A Villa Olmo si potranno ammirare dipinti, disegni, arazzi, incisioni, linogravure, sculture e ceramiche, opere che indagano l'esperienza giovanile figurativa del maestro spagnolo. Concesso un eccezionale prestito proveniente dal Museo d'arte moderna e contemporanea «Les Abattoirs» di Toulouse: il monumentale sipario (13x8m) «La deposizione del Minotauro in costume da Arlecchino». La rassegna, curata da Maria Lluisa Borras, Massimo Bignardi e Luigi Fiorletta, presenta centoventi opere. L'importanza del progetto è testimoniata dal fatto che, dopo la tappa comasca, in agosto l'esposizione si trasferirà a Valencia e in settembre a Malaga, città natale di Picasso. La prima sezione – «L'incontro con la figura: gli anni di formazione 1895-1903» –, unicamente strutturata da dipinti e disegni, è dedicata ai «luoghi» del Mediterraneo e si apre con le opere giovanili eseguite a Malaga e a Barcellona. Il secondo segmento espositivo, «Figure della mitologia», pone l'attenzione al rapporto con l'iconografia della mitologia classica e, soprattutto, con i miti del Mediterraneo. Nella parte centrale si colloca la sezione «Figure dell'inconscio: il toro, il Minotauro» dedicata alla «tauromachia». Qui vengono accolte le opere eseguite dai primi anni Trenta al 1960. In questo àmbito viene presentato il grande sipario (13 x 8 metri) «La deposizione del Minotauro in costume da Arlecchino», la cui visione è consentita al pubblico solo sei mesi all'anno. «Nuove figure, nuove forme del Mediterraneo» analizza il periodo degli anni Quaranta che la critica definì di «ritorno al Mediterraneo» di Picasso.

un piano del Governo contro la depressione...

ANSA Giovedì 17 Marzo 2005, 15:07
SANITÀ: UN PIANO NAZIONALE CONTRO EPIDEMIA DI DEPRESSIONE


(ANSA) - ROMA, 17 MAR - Un piano strategico nazionale per contrastare la depressione, in continua crescita nel nostro paese con in tutti quelli industrializzati. E' questo l'obiettivo di un incontro interministeriale che si e' svolto oggi a Palazzo Chigi, presieduto dal Sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, per mettere a punto una strategia operativa contro la depressione. Hanno partecipato alla riunione il Ministro della Salute, Girolamo Sirchia, il Ministro delle Comunicazioni, Maurizio Gasparri, il Ministro per gli Affari regionali, Enrico La Loggia, e rappresentanti delle Regioni, del mondo della scuola, dell'università', delle società scientifiche di psichiatria, pediatria, neuropsichiatria dell'infanzia e gerontologia, dei medici di medicina generale e delvolontariato.
La depressione è una patologia in preoccupante crescita che rischia di trasformarsi in una vera e propria epidemia e il lavoro è partito dall'analisi di uno schema di azioni per sostenere proprio le parti della società più a rischio, con il Piano strategico di contrasto della depressione in bambini e adolescenti, adulti, anziani e donne in gravidanza.
IL PIANO - Si tratta di uno schema operativo piramidale, ha fatto sapere il ministero della Salute, che identifica le azioni degli operatori responsabili dell'assistenza e si articola su cinque livelli di intensità di cura (prevenzione, riconoscimento precoce, trattamento casi lievi, trattamento casi moderati, trattamento casi gravi). Dal punto di vista organizzativo, l'azione si svilupperà in ambito centrale, regionale e locale. I Ministeri (Salute, Istruzione, Welfare e Comunicazioni) dovranno definire il Piano nei suoi particolari, realizzare una campagna informativa, elaborare le Linee guida e mettere a punto un sistema di monitoraggio. Alle Regioni sarà invece affidato il compito di definire, attraverso piani regionali, le reti dei Centri di riferimento. Medici di medicina generale, pediatri, geriatri, dipartimenti di salute mentale (DSM), consultori pre-parto e Utap si occuperanno invece dei programmi di prevenzione, di assistenza primaria, degli screening sui gruppi a rischio e del trattamento dei casi lievi. Un ruolo centrale, in particolare nella prevenzione fra bambini e adolescenti, sarà svolto dalle scuole, che saranno impegnate nel coinvolgimento di insegnanti e famiglie.
LA MALATTIA IN ITALIA - Sono almeno 1,5 milioni gli adulti che soffrono di depressione, mentre quasi 5 milioni, oltre il 10% della popolazione, ne hanno sofferto almeno una volta nel corso della vita. Sono depressi 6 bambini su mille, mentre le donne sono colpite tre volte più degli uomini. L'aumento dei ricoveri ospedalieri e l'incremento nell'uso dei farmaci specifici dimostrano che il fenomeno è in crescita progressiva e necessita di un'attività di prevenzione e cura a tutela dei quattro gruppi più a rischio: anziani, bambini ed adolescenti, donne in gravidanza e individui esposti ad eventi traumatici. (ANSA).

il referendum sulla fecondazione e la ricerca sulle staminali

L'Unità 21 Marzo 2005
Singolare posizione del quotidiano cattolico: la ricerca sulle staminali è inutile e illusoria mentre il referendum è «inappropriato» perché la materia è troppo complessa per i cittadini
Le Tesi infondate dell’Avvenire
Pietro Greco

Sono almeno tre le tesi infondate che ci ha proposto, due giorni fa, l’Avvenire nel presentare in prima pagina, come notizia d’apertura, un’intervista al professor Bruno Dallapiccola sulle ultime novità offerte dalla ricerca scientifica sulle cellule staminali.
La prima tesi, dell’Avvenire, è che i giornali italiani, con fare omertoso, tacciono sulle ottime prospettive di cura di molte malattie degenerative offerte dalle ricerche sulle cellule staminali somatiche (adulte) che non comportano la distruzione di embrioni. Mentre concentrano la loro attenzione in modo esclusivo sulle cellule staminali embrionali, il cui utilizzo comporta la distruzione di embrioni.
La seconda tesi, sempre dell’Avvenire, è che i fautori (scienziati, politici, mass media) della ricerca sulle cellule staminali embrionali tendono a presentare questi studi come taumaturgici e, quindi, illudono i cittadini ignari.
La terza tesi, espressa dal professor Bruno Dallapiccola, è squisitamente politica e riguarda direttamente il referendum sulla legge che regolamenta la procreazione assistita. Il professor Dallapiccola, genetista di grande vaglia, sostiene che i cittadini italiani sono disinformati su temi come le staminali, l’eterologa, la diagnosi preimpianto. Che «non si può chiedere al cittadino di esprimere un voto competente su temi di questa complessità». Che il referendum sulla legge 40 «è uno strumento inappropriato, nella rudimentalità dei suoi quesiti, per ridisegnare una legge delicata come quella sulla procreazione assistita». E che pertanto è meglio non andare a votare.
La prima tesi è infondata. Non perché sia falso l’assunto (ha ragione l’Avvenire: i media parlano più delle staminali embrionali che delle staminali adulte). Ma perché il quotidiano della Conferenza episcopale italiana (Cei) nel proporre la sua tesi, sembra accreditare l’idea della sostanziale equivalenza scientifica tra ricerca sulle staminali adulte e ricerca sulle staminali embrionali. L’idea della sostanziale equivalenza, a sua volta, porta a una scelta scontata: poiché la prima funziona senza distruggere embrioni, mentre la seconda distrugge embrioni e non sappiamo neppure se funziona, è la prima - quella sulle cellule staminali somatiche (adulte) - l’unica pista di ricerca razionalmente oltre che eticamente possibile. Mentre, al contrario, la ricerca sulle staminali embrionali sarebbe razionalmente, oltre che eticamente, immotivata.
Ebbene è questa idea della sostanziale equivalenza scientifica tra ricerca sulle staminali adulte e ricerca sulle staminali embrionali che non è fondata. Le due piste di ricerca, come ha ribadito ieri su l’Unità Carlo Alberto Redi, non sono affatto completamente sovrapponibili. Il loro rapporto è molto più complesso. Da un lato abbiamo una pista di ricerca - quella sulle staminali adulte - che si fonda su una solida tradizione (di quasi quarant’anni), e che offre prospettive relativamente concrete. Dall’altra abbiamo una pista di ricerca - quella sulla staminali embrionali - che è stata aperta solo di recente (un lustro o giù di lì) e che non offre ancora prospettive concrete. Le prospettive (relativamente concrete) dell’una, però, non sono le medesime prospettive (ancora lontane dall’essere concrete) dell’altra.
Entrambe, inoltre, hanno dei limiti tecnici. Ma, ancora una volta, i limiti tecnici relativi all’utilizzo sull'uomo di terapie fondate sulle staminali adulte non sono i medesimi relativi all’uso delle staminali embrionali.
Da un punto di vista strettamente scientifico conviene battere, con pari determinazione, entrambe le piste. Perché è lecito attendersi non solo che entrambe daranno buoni risultati. Ma anche che i buoni risultati che darà l’una saranno, almeno in parte, diversi dai buoni risultati che darà l’altra.
Certo, c’è un’ulteriore differenza tra la ricerca con le staminali somatiche e quella con le embrionali. La prima non solleva problemi etici, la seconda sì. E questo è già un primo motivo che spiega perché i media parlino più della seconda che della prima pista.
Ma di causa ce n’è un’altra, ancora più vistosa. Non c’è nessuno - né in Italia, né all’estero - che ostacoli in maniera preventiva la ricerca sulle cellule staminali adulte. Mentre c’è chi - in Italia e all’estero - in virtù di una visione etica legittima ma non universale, chiede e (in Italia) ottiene di bloccare per legge la ricerca sulle cellule staminali embrionali. In altri termini chiede e (in Italia) ottiene, di imporre per legge la sua visione etica, legittima ma non universale. E questo è un fatto eclatante. Che fa, per fortuna, discutere. Che fa, per fortuna, notizia.
La seconda tesi forte proposta dall’Avvenire riguarda il problema, non banale, delle illusioni. I fautori della ricerca sulle cellule embrionali, sostiene il quotidiano della Cei, illudono la gente, facendo credere che battendo questa pista - e solo battendo questa pista - sarà possibile curare malattie gravissime, come l’Alzheimer o il Parkinson. Ora, chi propaganda le virtù taumaturgiche delle cellule staminali embrionali si macchia effettivamente del peccato, gravissimo, di illudere la gente. Non sappiamo se, quando e in che misura queste ricerche otterranno dei risultati che i medici potranno utilizzare per curare gravi malattie. Quindi nessuno può legittimamente vantare le proprietà taumaturgiche delle staminali embrionali. Ma la domanda (all’Avvenire) è: chi, tra gli uomini di scienza (ma anche tra i politici), ha mai vantato queste capacità taumaturgiche? Nessuno. La verità è che tutti gli scienziati e la gran parte dei politici che chiedono di poter studiare le staminali embrionali dicono che non vogliono spegnere una fiammella, magari tenue, di speranza. Non che vogliono accendere il faro delle certezze. Al contrario, chi nega per legge la possibilità di studiare le staminali embrionali impone ad altri di spegnerla in via preventiva quella fiammella, magari tenue, di speranza.
Veniamo, in ultimo, alla questione - quella del voto consapevole - sollevata in maniera esplicita dal professor Bruno Dallapiccola, secondo cui la materia fecondazione assistita è troppo complessa per poter essere risolta con un referendum. Ora, non c’è dubbio che i cittadini italiani siano poco informati su cellule staminali, fecondazione eterologa, analisi preimpianto. Ma come ci si deve porre di fronte al problema del voto consapevole in una società sempre più informata dalla scienza e dalla tecnologia: restringendo o ampliando gli spazi di democrazia? Cedendo alla seduzione elitaria e chiedendo che ad assumere decisioni in materie complesse come la biomedicina (ma anche l’ecologia, il clima, l’energia e l’intera materia tecnoscientifica) siano gruppi ristretti di esperti o non piuttosto chiedendo che aumenti il grado di consapevolezza critica di tutti i cittadini?
Questa domanda, in un regime democratico, ammette una e una sola risposta. Tutti hanno il diritto - costituzionale e inalienabile - di partecipare alle scelte. Sia perché nella nostra società l’intera materia tecnoscientifica è ormai una parte notevole e persino decisiva della vita sociale e individuale di tutti. E nessuno può - deve - rinunciare a prendere decisioni in merito a una parte così grande della sua vita individuale e sociale. Sia perché la complessità intrinseca della materia (ove si intrecciano e si interpenetrano le fila della scienza, dell’etica, della religione, della politica e, come ricorda lo stesso Dallapiccola, dell’economia) esclude la possibilità di discernere in maniera netta e trasparente chi è esperto e chi no. Chi è in grado di compiere scelte consapevoli e chi no. D’altra parte il professor Bruno Dallapiccola è un esperto di grande valore quando parla di biologia. Ma è un cittadino come gli altri quando si pronuncia sulla legittimità democratica di un referendum.
Cosicché l’unica strada - forse stretta, ma senza alternative - è quella della partecipazione di massa. Che, nel caso specifico, significa partecipare, col voto, al referendum. E chiedere al sistema dei media - in particolare al sistema pubblico radiotelevisivo - di rompere davvero l’omertà, quella intorno ai temi referendari, e di aumentare la quantità e la qualità dell’informazione (scientifica, culturale, sociale) in modo da rendere più consapevole il nostro irrinunciabile voto.

Pietro Ingrao
un'intervista sul Corriere

Corriere della Sera 21.3.05
«Resto comunista. Ma non tollero Castro e di Mao ebbi paura»
Ingrao: evitai di difendere i compagni del «manifesto»
L’amarezza più grande
Aldo Cazzullo

Sono novanta gli anni che compirà il 31 marzo Pietro Ingrao, decano del comunismo italiano. Ma è del 1868 la prima cospirazione familiare. «Mio nonno Francesco era nato a un passo da Agrigento, a Grotte, paese di zolfatari, contadini e proprietari terrieri, come era appunto per la famiglia Ingrao. Francesco è una figura del Risorgimento: cospiratore antiborbonico dagli anni del liceo, e mazziniano: combatte con Garibaldi a Varese, poi tesse congiure repubblicane contro i moderati, e nel '68 sta per essere ammanettato dalla polizia regia sabauda. Riesce a fuggire nascondendosi nelle campagne di Caltanissetta; poi risale la penisola fino a Napoli, quindi a Lenola, dove vive uno zio, cospiratore anche lui ai tempi della Carboneria. Lenola è a un passo dal confine dello Stato Pontificio; quando c'è odore di sbirri, Francesco scavalca la frontiera e trova salvezza a Roma, ancora papalina. Ma a Lenola s'innamora della cugina Marianna, giovanissima. Quell'amore viene scoperto dal padre di Marianna; mio nonno fa atto di pentimento e torna in Sicilia. Ma dopo lunghe traversie quel matrimonio si farà. Francesco resterà a Lenola e diventerà sindaco». Contò nella sua vita questo nonno garibaldino?
«Quando morì avevo tre anni. Mi pare di ricordare un pomeriggio in cui mi vengono a prendere all'asilo. Sul viottolo che porta a casa, mi dicono: "E' morto il nonno". Di lui mi è rimasta la leggenda, e il ricordo del suo studio rimasto intatto e serrato: come una pagina di memoria intoccabile. Io vi entrai da grande. Avrò avuto diciotto anni».
Dove ha studiato?
«A Formia, splendida città di mare, in un liceo dal nome antico: Vitruvio Pollione. Lì ho avuto la fortuna di incontrare due professori di filosofia giovanissimi e antifascisti: prima Pilo Alberelli e poi, in terza liceo, Gioacchino Gesmundo. E Gesmundo sceglierà come libro di testo il Breviario di estetica di Croce, un autore allora quasi proibito. Ambedue quei miei maestri, di cui poi fui anche amico, cospirarono nella Resistenza romana e periranno alle Ardeatine. Al liceo però io ero ancora lontano dall'antifascismo. Avevo scoperto, nelle terze pagine dei giornali, Ungaretti, Montale, Saba, Quasimodo. Quei lirici nuovi mi affascinavano".
E partecipò ai Littoriali della Cultura del 1934.
«Sì. A quelli di critica teatrale, con la proposta di un Teatro sperimentale: avevo in mente le esperienze di un regista di genio, Anton Giulio Bragaglia. E alla gara di poesia, con una breve lirica che si intitolava Coro per la nascita di una città : esaltava Littoria e la bonifica delle Paludi pontine fatta dal regime. Era una poesia francamente brutta, ma a quei Littoriali di Firenze arrivò terza, dopo i testi di Sinisgalli e Bertolucci. Anni più tardi, quando ormai lavoravo all' Unità dopo la partecipazione alle dure lotte della Resistenza, quella poesia su Littoria mi fu rinfacciata da un giornale di destra, Il Tempo mi pare. Arrossii di vergogna. Chiesi a Togliatti se dovevo lasciare quel giornale di Gramsci. Togliatti mi rispose con una sghignazzata: "Perché vuoi fare questo favore a dei balordi reazionari?"».
Chi c'era con lei ai Littoriali?
«Giovani che mi aiutarono a entrare nel mio tempo: Antonio Amendola, figlio di Giovanni, che si può dire mi trascinò nella cospirazione, e Gianni Puccini, che mi insegnò quasi tutto sul cinema. Con Antonio, Achille Corona e altri della mia generazione - da Bufalini, ad Alicata, a Lombardo Radice, a Trombadori e soprattutto a Bruno Sanguinetti - il tema della cospirazione divenne un discorso assorbente. Poi giunse quel fatale 1936 e la guerra di Spagna. E tutto si accelerò».
Pensò di andare a combattere contro Franco?
«Sì, e ne parlammo anche in quel gruppo iniziale di comunisti romani. Ma dal partito venne l'indicazione che bisognava restare e lottare in Italia».
Dove conobbe sua moglie.
«Ci faceva da staffetta una ragazza, Laura Lombardo Radice. C'era sempre il timore di essere seguiti dalla polizia fascista: prendevamo i tram al volo per sottrarci ai pedinamenti, e avevamo concordato una copertura: Laura e io dovevamo fingere di essere fidanzati. Un giorno le feci una carezza, e lei mi fermò: "Che credi di fare? Ricordati che siamo fidanzati solo per finta". Siamo stati insieme tutta la vita. Abbiamo avuto cinque figli, otto nipoti, tre pronipoti, più un quarto in arrivo».
Avevate guide nelle generazioni precedenti?
«No. I capi comunisti erano quasi tutti esuli. Ci rivolgemmo a Croce con una lettera in cui chiedevamo sostegno nella cospirazione contro il regime. Ci rispose: studiate. Noi invece volevamo costruire la lotta concreta, tra la gente».
Dopo la Resistenza, lei per un decennio diresse l’Unità . Com'era il Togliatti «editore»?
«Rispetto ad Amendola, Alicata, Pajetta, con cui ebbi scontri politici duri, Togliatti era più aperto all'ascolto e al dialogo: comunicavo più con lui di quanto non sia accaduto poi con Berlinguer. Una grande figura: si impicciava molto nella fattura del giornale. Mi mandava bigliettini per criticare certi nostri articoli; mi indicava come modello editoriale un testo di Léon Daudet che cominciava spiegando tre modi di fare la frittata; ma io non leggevo Daudet, lo consideravo un odioso reazionario. Aveva poi una simpatia per Gorresio, con cui gareggiava in citazioni letterarie, e una grande ammirazione per Missiroli, che a me pareva noiosissimo. Anche gli articoli di Togliatti avevano certe pedanterie: per esempio sosteneva che si scriveva "arme" e non "arma". Quando parlava alla Camera, la sera veniva in redazione a rileggere la stesura del testo, a correggere, a limare. Nella polemica con Vittorini scrisse cose non buone; la letteratura del '900 non la capiva e non gli piaceva. Andavo a trovare Togliatti nella casa a Montesacro che divideva con Nilde Iotti; avevano un mastino terribile, per entrare dovevo attendere che uscisse Togliatti ad ammansirlo. Nel partito c'era stata ostilità perché egli si era separato dalla Montagnana, e lui soffriva per quella meschina bigotteria».
Molti dirigenti del Pci soffrirono per amore, in quel periodo.
«Li si può capire. Avevano passato la giovinezza in carcere e in esilio, quasi senza famiglia. Nella libertà riscoprirono la passione amorosa».
L'XI congresso fu segnato dal suo scontro con Amendola; riformista, ma sempre schierato con l'Urss.
«Amendola non era amico dell'Urss, però sosteneva che non dovessimo impicciarci nelle sue vicende. Più che un esito socialista, aveva in mente la modernizzazione del capitalismo. Ed era un tipo molto imperioso, che mi combatté in modo pesante. Avemmo faccia a faccia talora drammatici, talora comici. Un giorno mi chiude in un angolo e mi dice: guarda che se fai così finisci male. Risposi con una parolaccia. Un'altra volta, prima della riunione della segreteria che deve decidere la successione a Longo, mi prende da parte, nell'anticamera del grande salone di Botteghe Oscure - un palazzo che non mi affascinava, con quei corridoi interminabili -, e mi fa: io non mi candido se mi prometti che non ti candidi neppure tu. Ma era un accordo privo di senso: si sapeva già che nessuno di noi due sarebbe diventato segretario».
Si è mai pentito di essere diventato comunista?
«Assolutamente no. Resta il meglio della mia vita: ciò che ho cercato di dare al mondo degli oppressi e degli sfruttati. Mi sono pentito, se si può dire così, di pesanti errori che ho compiuto nella mia lunga vita di militante comunista».
Quali errori?
«Forse il più grave fu nell'autunno del '56, quando sull' Unità scrissi un pessimo articolo che attaccava gli insorti di Budapest che si ribellavano ai sovietici. E un errore persino assurdo fu quando approvai la radiazione dal Pci del gruppo di compagni e compagne che avevano fondato il manifesto. Con quei compagni avevo condotto tante lotte insieme. Eppure esitai a rompere una gretta e anche stupida disciplina di partito».
Lei aveva sostenuto il «diritto al dissenso».
«E il dibattito su quel tema mi ha lasciato una grande amarezza. Io rivendicavo il diritto al dissenso. Ma ho sempre temuto la frantumazione della sinistra. Non volli rompere l'unità del partito di classe, sapevo che i miei amici avrebbero costituito un nuovo soggetto fatalmente minore. Questo non mi ha impedito di lavorare in seguito al loro fianco. In certe cose avevano ragione loro, e io sbagliavo. Ricordo tra l'altro una riunione cui partecipò anche il giovane Bertinotti, con Santonastasi, Tortorella e Rossana Rossanda».
Le critiche della Rossanda al congresso di Rifondazione sono state interpretate con malizia. Quasi ci fosse tra voi un'ombra di rivalità.
«Non è così. La Rossanda, come gli altri amici del manifesto , non mi ha mai fatto pesare quel mio errore. Sono sempre stati gentili con me. Rossana l'ho conosciuta a Milano, alla fine degli anni Cinquanta, e ne ho sempre apprezzato l'intelligenza e anche il fascino».
E' d'accordo con lei anche quando include le Br nell'«album di famiglia» del comunismo italiano?
«No, su questo no. Io ho sempre pensato che le Br non avessero nulla a che fare con noi. Quel Moretti, ad esempio, che la Rossanda ha intervistato in un libro, mi sembrava una figura dubbia. Ho sempre ritenuto possibile che le Br fossero infiltrate e strumentalizzate; e Moro non era simpatico né ai servizi americani né a quelli sovietici. Lo dissi anche a mia moglie: questa non è gente nostra. Lei però mi rispose: e chi te lo dice? Magari sei tu che sbagli».
Quando uscì il Libro nero del comunismo , lei non fu tra chi lo criticò.
«Nel '57 a Mosca sentii parlare Mao. Diceva che il comunismo avrebbe prevalso, a prezzo di milioni di morti. Mi parve un'affermazione spaventosa».
Neppure Castro l'ha mai affascinata.
«Quando prese il potere passai un mese a Cuba. E Castro non mi piacque per nulla. Parlava per ore, senza ascoltare mai. Incontrai Che Guevara: emanava un fascino grande, ma fu sprezzante verso la sinistra europea, che gli pareva "imborghesita". Si andava in spiaggia e ci spiegavano che tutto, anche le sedie a sdraio, apparteneva allo Stato. Ma il comunismo non poteva essere lo Stato bagnino».
Ora, a 90 anni, si è iscritto a Rifondazione. Perché?
«Prima di tutto sono e mi sento ancora comunista. E poi cerco di parlare ai giovani, ai movimenti. Cerco di dire che non bastano le grandi manifestazioni. Bisogna colpire i luoghi del potere; pessimo potere, oggi in Italia. E per questo bisogna incidere sullo Stato, che oggi più che mai decide sulla vita e sulla morte».

Fausto Bertinotti
un'intervista sul Corriere e una sulla Stampa

Corriere della Sera 21.3.05
Bertinotti: Maastricht era una prigione, Prodi guardi avanti
Il leader del Prc: sarebbe stato suicida pensare di convivere ancora con politiche rigoriste in tempi di recessione
Monica Guerzoni

ROMA - Fausto Bertinotti giura di non aver gioito per le bacchettate di Eurostat, che non è «un tribunale indiscutibile». Si dice europeista ma sogna un’altra Europa, che butti a mare la «prigione» di Maastricht e il trattato costituzionale. E se gli dite che contro il Patto di Stabilità è sulla linea di Berlusconi (nelle premesse, almeno) vi risponderà di sentirsi in buona compagnia con Schröder, Chirac e Zapatero. Quanto a Prodi, la smetta di guardare agli anni della sua Commissione. Vuole ancora buttare a mare Maastricht?
«Sì e siamo in buona compagnia. Prodi definì "stupido" il trattato e ora anche i governi dicono che è una prigione».
La Cdl sospetta che dietro l’affondo di Eurostat ci sia la manina di Prodi .
«Questo non sta né in cielo né in terra».
Berlusconi ha parlato di burocrati, di ominidi...
«Non mi convince l’invettiva contro l’intervento dell’Europa quando è contrario alle proprie politiche. La critica al governo può anche appoggiarsi alle indicazioni di Eurostat, ma non lo consideri un tribunale indiscutibile».
Ha ragione chi definisce «ossessiva» la stabilità che l’Europa ci chiede?
«Maastricht è claudicante dall’inizio e noi l’abbiamo detto da sempre. Avrebbe dovuto definire parità di bilancio e, simmetricamente, occupazione e lotta alla povertà. Ma poi quella parte del trattato a cui Jacques Delors teneva molto fu depennata. La politica che ha ispirato il Patto è fallita».
Le piace il supereuro?
«È evidente che una politica di euro forte e dollaro debole indebolisce la competizione delle merci. L’Europa potrebbe fare invece politiche di sviluppo in grado di compensare e persino sormontare questo differenziale determinato dalla moneta. Una politica di accrescimento di salari e pensioni».
A Bruxelles in 60 mila hanno detto no alla direttiva che liberalizza i servizi. Cresce una critica da sinistra?
«Sta crescendo nella società una critica che, per la prima volta da sinistra, propone non una resistenza nazionalista ma un’altra Europa. La Sinistra europea dà voce a questa grande novità che incontra anche posizioni di governi nazionali. Chirac ha definito la direttiva Bolkestein inaccettabile».
E in Francia i no al trattato sono più dei sì.
«Non sarò così propagandista da dire che le diverse forme di opposizione sono tutte dello stesso segno, ma in Francia la maggioranza delle forze che si battono per il no alla Costituzione lo fa in nome di una critica da sinistra. Una parte importante del Partito socialista francese, il Pcf, la sinistra antagonista... Non è euroscetticismo, è una critica a un trattato senza democrazia, che non fa della pace un elemento costitutivo e che subordina i diritti dei lavoratori alla competitività».
Auspica la bocciatu ra?
«Sì, certo. Se in un grande Paese il trattato sarà sconfitto si aprirà, sia pure in maniera traumatica, la strada a una costituzione costruita dai popoli».
Lei sarà l’unico a sinistra a votare contro.
«In Italia sì. Mentre il trattato in un giudizio referendario si-no divide, la prosecuzione della battaglia per riformarlo unisce, perché lo schieramento dei critici è molto ampio».
Con Berlusconi che dà addosso alla vecchia Europa, Prodi avrà bisogno dell’intero centrosinistra per difendersi...
«Se prende le distanze Delors, che fondò Maastricht, non vedo perché non possa farlo Prodi. Restare inchiodati al passato è cosa intimamente contraddittoria con una cultura riformatrice».
Consiglia a Prodi di guardare avanti?
«Sì, assolutamente. L’esistente è Berlusconi, l’esistente è questa precarietà nel lavoro, questo disarmo del pubblico nell’economia, è la crisi delle grandi industrie nazionali. Questo è l’esistente e questo è Berlusconi, la cui chiusura conservatrice antieuropea esprime una crisi di prospettiva».
Questa Europa somiglia più a Berlusconi o a Prodi?
«Questa Europa è parte di questo esistente, naturalmente senza l’estremismo delle destre».
Berlusconi ha combattuto il Patto proprio come lei.
«Solo un suicida può pensare che in tempo di recessione debbano vivere politiche rigoriste. A partire dal fatto che uno non è suicida c’è poi una destra e una sinistra e su questo sono d’accordo, in forme diverse, Chirac, Schröder, Zapatero e Berlusconi. Tutti, perché non vogliono morire. Poi gli uni pensano di tagliare le tasse, gli altri di ridistribuire il reddito».
Se l’Unione andrà al governo potrebbe convenire anche a Prodi avere parametri più elastici .
«Avere parametri più elastici è la riduzione del danno. Quel che converrebbe a Prodi è un nuovo trattato sociale che dia obiettivi condivisi a tutti i Paesi».
Per governare col Prc, Prodi dovrà rivedere il suo europeismo?
«Nessuno gli chiede una conversione, dovrà mettersi nella condizione di poter dialogare con questo nuovo europeismo che cresce da sinistra. Un politico riformatore dovrebbe vedere in questo una grande occasione».

La Stampa 21 Marzo 2005
IL CAPO DI RIFONDAZIONE: NON MI CONVINCE IL RAGIONAMENTO DEL SEGRETARIO DELLA QUERCIA
Bertinotti: un grave errore avallare la politica degli Usa
«La democrazia non può essere portata con i carri armati
Così si finisce per appoggiare la tesi della guerra preventiva»

ROMA. La campagna elettorale ha le sue regole. E Fausto Bertinotti, che ovviamente le conosce, gira da giorni e giorni come una trottola. Il tempo, a volte, non è neanche sufficiente a leggere con attenzione i giornali. E tuttavia al segretario di Rifondazione comunista e leader della sinistra radicale non è sfuggita l’intervista sugli Stati Uniti, la guerra e la democrazia che Piero Fassino ha rilasciato a La Stampa. Non gli è sfuggita e non gli è andata giù. E così, tra una intemerata contro il Mose a Venezia e una stoccata contro Massimo Cacciari, non nega al cronista che lo intercetta prima di un comizio in Emilia Romagna qualche riflessione.
«Non sono assolutamente d’accordo con quanto sostiene Fassino. Non mi convince affatto il fondamento teorico del suo giudizio sul rapporto tra la politica di Bush e i processi di democratizzazione in Medio Oriente e altrove. Come non mi convincono le conseguenze del suo ragionamento, perchè temo che attribuendo una virtù “democratizzatrice” a una strategia fondata sui conflitti armati si finisca per configurare un appoggio alla tesi dell’utilità della guerra preventiva. Che invece è un’idea sciagurata, un’idea che si colloca al cuore di una teoria imperiale, quella dell’amministrazione Bush, di una visione che prevede un mondo unipolare e che, al limite, può condurre anche a un devastante scontro di civiltà».
Naturalmente, il segretario dei Ds non avalla la guerra preventiva. Anzi, parla esplicitamente di una «politica preventiva» da contrapporre all’uso delle armi. Però, obietta Bertinotti, offrire una legittimazione alla politica di Bush in Medio Oriente «è un grave errore». Perchè significa aprire un varco all’idea che i conflitti possano, in sè e per sè, fungere da levatrici di regimi democratici. «Il che non è. Non credo che che la democrazia possa essere un effetto collaterale della guerra. Perchè non credo che si possa sfuggire alla lezione del ‘900 sulla coerenza che deve esistere tra mezzi e fini. In altre parole, è difficile pensare che la democrazia portata con i carri armati o, come si diceva una volta, sulla punta delle baionette possa attecchire in maniera davvero feconda. Al contrario, se devo identificare un motore della diffusione di democrazia, lo vedo nel movimento per la pace. Non direttamente, senza alcun automatismo, ma nel senso che il movimento pacifista favorisce il diffondersi di rapporti di fiducia tra popoli e civiltà diverse e della rivendicazione dei propri diritti e dell’autogoverno». Non solo. Legittimare la politica dell’amministrazione americana e dei suoi ideologi neocon, secondo il segretario di Rifondazione comunista, è un grave errore anche perchè le si attribuisce una «nobiltà di intenti» che non trova riscontro nella realtà dei fatti: «Mi sembra che Fassino sbagli anche sulle motivazioni che hanno portato alla guerra in Iraq. Perchè quel conflitto non è stato intrapreso dall’amministrazione Bush per portare la democrazia in Medio Oriente, quanto piuttosto per eliminare armi di distruzione di massa che peraltro non sono state poi trovate. Fassino attribuisce perciò all’amministrazione americana una nobiltà di intenti che è invece una giustificazione del conflitto costruita ex post. Fra l’altro, che non sia centrale nel progetto di Bush un autentico processo di democratizzazione del Medio oriente come di altre aree del terzo mondo, è dimostrato dal fatto che quella amministrazione intrattiene rapporti, a volte molto stretti, con regimi autoritari grandi e piccoli. Trovo questa incoerenza rivelatrice».
Bertinotti non vuole parlare di “strappo” da parte di Fassino, nè ha alcun motivo per esasperare quella che è una profonda differenza di posizioni. Tantopiù durante una difficile campagna elettorale. Si limita, con la consueta pacatezza di ragionamento, ad osservare che non è proprio d’accordo. «Come non mi convince l’altra affermazione del segretario dei Ds secondo la quale l’Europa dovrebbe liberarsi dal relativismo culturale per poter prestare più attenzione ai diritti umani e alle libertà. Il vero vizio dell’Occidente, quello che ha favorito l’oppressione, non è stato il relativismo culturale. E’ stato il colonialismo».

i lebensborn
questa sera in tv

Reportage sui lebensborn
Effetto reale La 7, ore 24


Da Oslo: i lebensborn, 12 mila persone nate tra il ’40 e il ’45 dall'unione tra ragazze norvegesi e soldati nazisti per sperimentare quella razza ariana sognata dal Führer. Una follia che ha segnato le loro vite.

Liberazione: «dare un nome alle cose»

una segnalazione di Sandro Belloni

supplemento libri di Liberazione di domenica 13/3/05

La parola patria? È realista: di destra
di ALDO NOVE

Il dibattito filosofico europeo, alla fine del medioevo, verteva su una questione oggi per noi di difficile recezione, eppure ancora valida, nella sua impostazione, per comprendere temi di stretta attualltà. E' la disputa tra "realisti” e "nominalisti" che animò e portò alla ribalta della storia del pensiero intellettuali dei calibro di Ockham e Bacone. La lettura, durata secoli, dei "testi sacri" di Aristotele, anche attraverso la loro determinazione in chiave teologIca operatala dai padri della Chiesa, aveva spinto a considerare delle realtà fondamentali per la conoscenza della struttura del mondo che oggi sussistono in altra maniera, occultate da altri fini. Si tratta degli "universali".
Prima di Ockham, I filosofi "reallsti" sostenevano che alle parole corrispondono delle entità reali, gli "universali", appunto, di cui le cose sensibili sono una sorta di pallido riflesso. E' la concezione ultramondana della vita, quella che aveva caratterizzato i secoli precedenti. I nominalisti, invece, sostenevano semplicemente che gli "universali" non esistono. Esistono le cose e non gli altissimi concetti spirituali che le cose e le parole che li manifestano esibiscono in tono minore. Sembrano questioni lontane e bizzarre, come quelle sulla transustanziazione o sulla natura una doppia o trina del Cristo che oggi sentiamo (e sono) lontane ma che hanno invece una sconcertante attualità.
Oggi, aggiornando i termini della questione, potremmo tranquillamente dire che i realisti erano (sono) di destra, i nominalisti di sinistra. I realisti fondano il linguaggio sul mito («Mito vuoi dite parola - sosteneva Roland Barthes - ed ogni parola è espressione di potere. Il mito è una parola ''gonfiata" di significato»). I nominalisti fondano il linguaggio sulla necessità di dare un nome alle cose. Insomma due concezioni del linguaggio, e del mondo che esprimono, opposte.
Ma veniamo al presente. Chi si appella a parole "mitiche" come "patria" è realista in senso medioevale. Cosa significa "patria" se non "territorio di provenienza" gonfiato però di valori aggiunti di tipo teologico, di un teologismo residuale che si è trasformato in oculato marketing politico? Se nel medioevo si vendevano indulgenze e ossa dei santì come feticci di un altrove evocato da cose e nomi, ma comunque altrove, oggi si vendono (svendendo il linguaggio in toto) parole che evocano grandi e gonfiate realtà che, nel 1300, un filosofo come Ockham avrebbe vanificato.

«Ermeneutica della morte»
i ds pensano di con-vincere con questi attrezzi culturali?

L'Unità 21 Marzo 2005
Filosofia.
In lotta contro il Nulla e la morte
con Parmenide e Baudelaire

Bruno Gravagnuolo

Testi agili e densi, di non più di cento pagine. Copertina in cartoncino blu inchiostro. E una batteria di saggi in preparazione, con autori tra i quali Gennaro Sasso, Franco Rella, Gianni Vattimo, Peter Sloterdjik. È la nuova collana filosofico della Aragno di Torino, diretta da Giacomo Marramao. Che intende lanciare una saggistica filosofica rigorosa e al contempo dialogante con i linguaggi delle altre scienze umane, incluse arte e teologia. Tra i libri in arrivo ci sono L’etica del pensiero debole. Scritti in onore di Gianni Vattimo, a cura di Santiago Zabala. Con scritti di Derrida, Eco, Vattimo, Nancy, Rovatti, Rorty, Savater, Taylor. E ancora Teologia e politica, a cura di Mauro Ponzi, con saggi di Marramao, Agamben e altri. Spazio infine a due esordienti, Emanuela Fornari e Anna Squarzina. La prima con Modernità fuori luogo. Democrazia globale e valori asiatici in J. Habermas e A. Sen. La seconda con Anatomia del dolore. Saggio su Proust. Prezzo di copertina contenuto, da 10 a 12 euro. E tanto costano le prime due uscite della Aragno, Gennaro Sasso, Il principio e le cose (pagg. 154, euro 12) e Franco Rella, Pensare e cantare la morte (pagg. 95, euro 10). Sasso, tra i massimi studiosi teoretici in Italia, nonché grande studioso di Machiavelli, affronta il tema classico del principio veritativo di non-contraddizione. Tra Parmenide e Aristotele e all’interno di una radicale ermeneutica del Nulla. L’espulsione del Nulla dalla pensabilità delle cose mette capo al principio incontraddittorio dell’Essere. Che però, benché insuperabile in ogni argomentare e confutare, non è spendibile sul piano del tempo, dell’esperienza, del divenire e della storicità. Tra principio e cose non v’è perciò relazione alcuna, nella prospettiva di Sasso. Poiché se vi fosse, il Principio ne verrebbe toccato e contaminato, all’insegna del divenire e dell’opinione (la doxa) che muta. Situazione paradossale questa, che lascia il divenire a se stesso e consegnato all’arbitrio. E la Verità dall’altra parte. In una dimensione inattingibile e inerte, ma altresì logicamente inconfutabile. Come sorta di originario senza origine. Quello di Rella invece è un tentativo di «Ermeneutica della morte», che solo in senso psicologico e poetico forse può avvicinarsi al tema logico del Nulla. La domanda di Rella è infatti: qual è la parola che parla la morte? Come guardare il passaggio vitale e impercettibile tra l’essere e la morte? E la risposta si fa strada in Rella attraverso i testi di Levinas, Baudelaire, Rilke e Valéry. Ben più che attraverso Heidegger, che lascia viceversa per Rella scivolare la morte «al di fuori della filosofia».

L'Unità 21 Marzo 2005
i libri
Dizionario di psicanalisi

Il Dizionario di psicanalisi a cura di Roland Chemama e Bernard Vandermersch esce in edizione italiana per la cura di Carlo Albarello e del Laboratorio Freudiano per la formazione degli psicoterapeuti (Gremese editore, pagine 370, euro 30).
È uscito di recente in Italia, poi, per i tipi di Einaudi, I complessi familiari nella formazione dell’individuo (Pbe, pagine 104, euro 13,50, a cura di A. Di Ciaccia), che riporta la voce «famiglia» che il giovane Jacques Lacan stese nel 1936 per l’Encyclopédie Française. Lì, sei anni dopo la sua tesi di laurea e due dopo la sua prima comunicazione a un congresso internazionale di psicoanalisi, Lacan, futuro maître a penser, tra i più controversi del Novecento, anticipava alcuni dei suoi temi futuri.
Il nemico di ogni istituzione strutturata e dell’analisi intellettualizzante e medica, il cantore del soggetto dell’inconscio, a suo parere indescrivibile col linguaggio della scienza, dedicava non a caso i suoi primi sforzi teorici e interpretativi alla famiglia. Ovvero a quel luogo (istituzione in cui l’elemento cultura domina su quello della natura) che, sosteneva, «prevale nella prima educazione, nella repressione degli istinti e nella acquisizione della lingua». Dà vita alla «continuità psichica tra le generazioni» ma sarebbe il primo ostacolo alla manifestazione dell’inconscio. In questo contesto, seguitava, un ruolo fondamentale viene giocato dai complessi, che proprio nella famiglia prendono corpo, sono cioè un fattore concreto della psicologia familiare: il complesso di svezzamento; il complesso di intrusione; il complesso di Edipo.
Questi complessi, spiegava poi Lacan, svolgono un ruolo determinante nelle psicosi e nelle nevrosi. Ma non solo: dalla frigidità materna alla omosessualità, in quel testo Lacan tocca molti dei temi «scandalosi» caratteristici della clinica freudiana.

L'Unità 21.3.05
Dizionario di psicanalisi
Jacqueline Risset

È uscita in questi giorni, a cura del Laboratorio Freudiano, la traduzione italiana del Dictionnaire de la Psychanalyse di Roland Chemama e Bernard Vandermersch (pubblicato in Francia nel 1993 e nel 1998). Si tratta del primo grande dizionario dopo il Vocabulaire de la Psychanalyse di Laplanche et Pontalis, che risale al 1967 - un anno dopo gli Écrits di Jacques Lacan. E sebbene Laplanche e Pontalis fossero entrambi suoi allievi, il Vocabulaire introduceva accanto alla terminologia freudiana soltanto alcuni concetti lacaniani. L’avanzamento straordinaria degli Écrits e dei Séminaires (questi ultimi non ancora pubblicati integralmente in Francia) diventa ora tangibile con questo dizionario, che costituisce anche uno strumento prezioso per la comprensione del pensiero lacaniano, oltre che freudiano.
«Ritorno a Freud», così Lacan definiva il fine della sua opera, «restituire la lama tagliente del pensiero di Freud». Una lama allora smussata da consolatorie sintesi junghiane o da approssimazioni empiriche volte al semplice riadattamento sociale. Tornare a Freud significava fornire al pensiero psicanalitico la possibilità di articolarsi secondo una logica di differenze. La celebre formula lacaniana «L’inconscio è strutturato come un linguaggio» non era espressione di moda strutturalista. Nasceva da una meditazione e da un ritorno alle radici del pensiero di Freud, costituitosi attraverso l’interpretazione dei sogni e del motto di spirito.
Il Laboratorio Freudiano (corso quadriennale di specializzazione per gli psicoterapeuti) è sorto a Roma in anni recenti dall’Associazione Cosa Freudiana, fondata da Muriel Drazien su suggerimento di Lacan, in riferimento al suo testo La Chose freudienne o il senso del ritorno a Freud in psicanalisi. Di questo offre una traduzione collettiva e molto attenta. La talking-cure, come si ricorda nell’edizione italiana, rivela tratti affini al lavoro di traduzione (lo accennava anche Simona Argentieri nel corso della recente presentazione del volume al Centro di Studi Italo-francesi della Università di Roma III). Ogni nuovo testo di psicanalisi si presenta come parziale ricapitolazione di esperienze; e la novità dei termini traducenti può aprire accessi sorprendenti al sistema teorico generale.
È il caso di questo dizionario, che introduce parole nuove, e anche cambiamenti lievi e significativi. Ad esempio «psicanalisi» in luogo dell’usuale «psicoanalisi» sta a sottolineare una precisa autonomia rispetto alla psicologia. Oppure «après coup» - termine importante in Freud come in Lacan - sostituisce il generico «posteriore» o «a posteriori». Peraltro, come è noto, la terminologia lacaniana è ricca di neologismi che hanno talora il significato di «produzioni dell’inconscio», come ad esempio «desêtre» tradotto con «disessere». Si tratta infatti - mostrano di averne piena consapevolezza i traduttori del Laboratorio Freudiano - di introdurre una teoria che, più delle altre, passa attraverso la lingua che la esprime, attraverso una lingua che segue la pratica di un analista all’ascolto.
Il lessico di Lacan comprende, oltre ai molti termini venuti da Freud, altri presi a prestito dalla linguistica, dalla filosofia, dalla letteratura, dalla matematica, dalla biologia, ecc.. È interessante scoprire in questo Dizionario le presenze nuove rispetto al Vocabulaire di Laplanche e Pontalis, e interrogare le assenze e le differenze. Ad esempio, alla lettera a, colpisce la comparsa della parola Altro, che corrisponde al «Grand Autre» di Lacan, e viene definito qui «luogo in cui la psicanalisi situa, al di là del partner immaginario, ciò che, anteriore o esterno al soggetto, nondimeno lo determina». Definizione seguita, come nella maggior parte dei casi, da un lungo commento che illustra con chiarezza il senso e il ruolo del concetto rispetto all’insieme della teoria.
Altra nuova presenza, la parola analizzante, che indica di per sé un cambiamento nella concezione della cura. Non più paziente, o «analizzato»: colui che intraprende un’analisi è considerato ormai parte attiva, non passiva; assume egli stesso il lavoro condotto a partire dal proprio discorso. Significativa, nella stessa direzione, l’assenza della parola abstinence, (astinenza) che indicava nella clinica freudiana l’esigenza di ricreare nel soggetto in analisi una frustrazione (essenzialmente sessuale) tale da rilanciare l’analisi giunta ad una fase di rallentamento. Il Vocabolario del 1967 includeva ancora questa parola, prendendo tuttavia le distanze dalla pratica direttiva e repressiva che esprimeva. Sempre alla lettera a, appare una parola del tutto estranea alla terminologia psicanalitica come «agalma», esempio della vastità del campo semantico esplorato e usato da Lacan: parola greca usata da Omero e da Euripide, agalma significa splendore, ornamento, e designa nella costellazione lacaniana la «brillanza fallica dell’oggetto del desiderio», collegata nel commento al lavoro di Lacan sul transfert. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, tutti rivelatori di una pratica e di una teoria in progress.
Il Dizionario assolve quindi una funzione precisa, ed esce al momento giusto. Infatti, in Italia come in Francia, si può ormai parlare di «ritorno a Lacan». In Francia, dopo gli anni di sconcerto e di conflittualità seguiti alla sua morte, si moltiplicano studi ed edizioni di testi ancora inediti. Ad esempio Il Triomphe de la Religion, che raccoglie due conferenze antiche, l’una tenuta a Bruxelles nel 1961, l’altra a Roma nel 1079. Quest’ultima, che ebbi allora modo di ascoltare, colpiva per sovranità intellettuale e humour. Ora, appare anche profetica, mentre allora, nel ‘79, sembrava alquanto pessimistica.
Rispondendo alle domande del pubblico, Lacan evocava «tre funzioni impossibili», «analizzare, governare, educare» e chiariva il senso della funzione analitica, la più impossibile delle tre: «illuminare di luce radente le altre funzioni»- la più impossibile perché, diversamente dalle altre, non possiede una tradizione, e inoltre perché, suo malgrado, si trova a competere con la religione, che «secerne senso a volontà», che «dà senso a qualunque cosa», e quindi offre gratificazioni che la psicanalisi non dà, ne si sogna di dare.
Sicché, continuava Lacan malinconico, «la religione vincerà», e un giorno si parlerà della psicanalisi «come di un breve istante, come di un lampo di verità»

insegnanti
lo stress e la perdita di autocontrollo

Corriere della Sera 21.3.05
Scarsa retribuzione, troppe responsabilità, scontri con colleghi e genitori: dalle materne alle superiori aumentano lo stress e la perdita di autocontrollo
Stanchezza e depressione, insegnanti con il «mal di cattedra»
Indagine su mille docenti milanesi: rispetto agli altri dipendenti pubblici raddoppiato il rischio di patologie psichiatriche e tumori
Annachiara Sacchi

Sono stanchi, apatici, hanno disturbi relazionali e soffrono di affaticamento mentale e fisico. Si ammalano di laringite e sono esposti al rischio di neoplasie. E sì che vengono accusati di lavorare poco. Insegnanti sotto stress. Perché a soffrire di mal di scuola non solo i bambini e gli adolescenti. Anzi. I docenti sono i più colpiti dalla sindrome del burn out tra i dipendenti della pubblica amministrazione. Lo rivela lo studio «Golgota» della Fondazione Iard che ha messo a confronto circa mille professori milanesi con altre tre categorie professionali (impiegati, personale sanitario, operatori manuali). Risultato, gli insegnanti sono i più soggetti alle psicopatologie psichiatriche (il rischio è doppio rispetto agli altri lavoratori).
A spiegare le ragioni di questo fenomeno è Vittorio Lodolo D’Oria, responsabile dell’area scuola e sanità della Fondazione Iard e ideatore dello studio «Golgota». «Il vero problema - dice - è che la famiglia è stata smantellata e tutte le responsabilità, ormai, pesano sulle spalle degli insegnanti. Alla scuola viene delegata l’intera crescita dei ragazzi, dalla prima infanzia all’adolescenza».
Altre cause del burn out , la retribuzione insoddisfacente, il precariato, la conflittualità tra colleghi, il susseguirsi di riforme, la bassa considerazione sociale da parte dell’opinione pubblica, l’alleanza genitori-figli a danno dell’asse genitori-insegnanti. Tutti fattori che portano ad affaticamento, a un atteggiamento distaccato nei confronti della classe, alla diminuzione dell’autocontrollo.
Non solo problemi psichiatrici, però. Le patologie laringee si verificano nei professori venti volte di più rispetto agli altri lavoratori e alta è la frequenza di tumori nei docenti (14,2 per cento) rispetto a impiegati (9,2) e agli operai (7,2). «Dove c’è ansia e depressione forte - continua il medico - c’è anche un forte abbattimento delle difese immunitarie e un maggiore emergere di tumori».
Secondo lo studio, il burn out colpisce gli insegnanti di tutti i livelli, dalle materne alle superiori. Uomini e donne, poi, soffrono di patologie psichiatriche nella stessa percentuale. «Vuol dire - continua Lodolo D’Oria - che il fattore insegnamento è così forte che azzera le differenze tra i due generi».
Milena Ancora, professoressa di lettere allo scientifico Vittorini, racconta la sua esperienza: «Anche a me è capitata qualche laringite, fa parte dei mali della professione. È vero che c’è poco riconoscimento per il nostro lavoro. E che è faticoso più di quanto la gente immagini».
Guido Panseri, docente di storia e filosofia al liceo classico Berchet, sottolinea un paradosso: «La scuola è spesso pensata come luogo che dà soluzione a tutto, mentre il docente verifica lo scompenso tra i troppi compiti che deve svolgere e le aspettative nei confronti dell’istituzione scolastica sviluppando patologie legate alla disaffezione. La cura? Bisogna riuscire ad acquistare coscienza della propria professionalità e avere la capacità di ridiscutere il ruolo di insegnante».
È d’accordo Laura Colombo, maestra all’elementare Dante Alighieri di via Mac Mahon: «Si è sempre sotto stress. Le famiglie delegano molto, ma se non si risponde alle loro esigenze sono pronte a metterti alla gogna. Rispetto a quando ho cominciato questo mestiere all’insegnante vengono chieste sempre più competenze, dall’educazione stradale al computer. Ma non possiamo essere tuttologi. Serve molto equilibrio e solidità, altrimenti il nostro è un lavoro veramente duro».

domenica 20 marzo 2005

biologi e neurologi anglosassoni
le connessioni tra i neuroni

Corriere della Sera 20.3.05
Le connessioni non sono casuali: prevalgono le più forti

La scoperta appena pubblicata sull’ultimo numero dell’autorevole mensile elettronico «Public Library of Science Biology» sull’organizzazione anatomica e funzionale della corteccia cerebrale sconvolge non pochi preconcetti. Un’équipe mista, inglese e americana (del Cold Spring Harbor Laboratory, nello Stato di New York, del Dipartimento di Biologia e del Volen National Center for Complex Systems, della Brandeis University, a Waltham, Massachusetts, e del Wolfson Institute for Biomedical Research e il Dipartimento di Fisiologia dell’University College, a Londra), guidata da Dmitri B. Chklovskii, ha scoperto che le connessioni tra i neuroni non seguono uno schema casuale, ma sono pilotate da un piccolo numero di connessioni forti. Le parole testuali di questi autori sono: «La rete di connessioni della corteccia cerebrale deve essere concepita come uno scheletro di connessioni forti in un mare di connessioni deboli». Occorre fare un passo indietro, per apprezzare la novità di questa scoperta. Il passo è che, in media, nel cervello di un mammifero, uomo compreso, ogni neurone è in contatto con mille altri neuroni, ma vi sono anche molti neuroni che sono in contatto con centomila altri neuroni. Il numero totale di contatti tra neurone e neurone (chiamati in gergo tecnico sinapsi) in un cervello umano è 1 seguito da ben quattordici zeri (un milione di miliardi). Nessun sistema nell’universo è complesso quanto un cervello umano (ma nemmeno quanto il cervello di un topo). Nemmeno i più potenti calcolatori si avvicinano a questo record naturale.
SINAPSI - Supponiamo pure che ogni contatto, ogni sinapsi, «conti», in qualche modo, nel funzionamento di ogni singolo cervello e che una qualche minima diversità tra le mie e le vostre sinapsi faccia sì, per esempio, che io ricordi cosa ho fatto ieri, mentre voi ricordate cosa voi avete fatto, che voi riconosciate vostra zia, mentre io riconosco la mia. E’ ovvio che il patrimonio genetico della nostra specie basta solo a precisare una infima minoranza di questi contatti, diciamo l’anatomia globale del cervello e alcune direttive di massima su come stabilire questa immensa rete. Tutto il resto è frutto, in parte, dell’esperienza individuale e in parte di fattori spontanei e aleatori che hanno sì dei nomi, ma non una vera teoria. I nomi sono «rumore dello sviluppo», «leggi della forma», «auto-organizzazione», «stabilizzazione selettiva» e altri ancora.
FASI - Fino ad ora, l’idea prevalente era che sbocciassero a caso mille e mille fiori (si creassero spontaneamente tante sinapsi) e che poi sopravvivessero solo quelle che venivano attivate spesso nel tempo. Se così davvero fosse, si dovrebbero osservare nelle prime fasi di sviluppo della corteccia cerebrale tutti i tipi di contatti possibili, con la stessa frequenza statistica. I tipi di contatti possibili tra tre neuroni sono tredici, tra quattro neuroni centonovantanove e così via, in un crescendo esponenziale. Ebbene, Chklovskii e collaboratori hanno definitivamente mostrato che questa idea è falsa. Con l’osservazione diretta e con modelli matematici sofisticati si è potuto concludere che solo poche delle possibilità di contatto tra neurone e neurone sono veramente presenti e sono loro a fare la parte del leone, cioè sono loro a pilotare lo sviluppo dell’intero sistema. Guarda caso, questi «moduli» di connessione sono anche quelli entro i quali i segnali nervosi sono più intensi, ma viene prima la gallina dell’uovo, cioè prima si creano queste connessioni robuste (lo scheletro o impalcatura, secondo le metafore usate da questi autori) entro le quali poi circolano intensi segnali nervosi. E’ l’inverso si quanto si era fino ad ora supposto. La domanda adesso aperta è: cosa determina la costituzione di questa impalcatura? La risposta ancora non è nota, ma si sa che questi «moduli» funzionali si ripetono e si ripetono in diverse parti del cervello, in ogni specie vivente, dall’umile verme al più intelligente essere umano.
MECCANISMI - Sono geneticamente determinati, oppure sono il frutto di meccanismi cellulari e inter-cellulari spontanei, di un qualche principio di organizzazione che emerge quando un apparato come un cervello si sviluppa? Forse l’opera dei geni, il lavorio raffinato del Dna, cavalca (per così dire) la tigre di fattori chimici fisici e organizzativi indipendenti, contribuendo solo, ma in modo cruciale, di volta in volta, a indirizzare il percorso della tigre in uno o due tra i possibili sentieri. Il matematico inglese Alan Mathison Turing, più noto per la sua teoria degli automi, aveva anche pubblicato un articolo teorico, oggi rispolverato, sui principi dello sviluppo dell’embrione. In essenza, una delle sue riflessioni era che l’evoluzione darwiniana classica può solo selezionare la struttura più adatta tra quelle che possono esistere. Non può certo selezionare delle strutture anatomiche e fisiologiche che la fisica e la chimica della vita escludono come impossibili. In tempi più recenti, simili considerazioni sono state ribadite con forza da due grandi evoluzionisti: il compianto Stephen Jay Gould e Richard Lewontin. Un semplice esempio, da loro spesso usato a lezione, è che nessun gene specifica la forma delle nostre ascelle. La dinamica dello sviluppo delle braccia e del torso, e i fattori genetici che pilotano questo sviluppo, producono inevitabilmente anche le ascelle. Nessun gene in un batterio determina la sua forma (grosso modo) sferica in condizioni di riposo. Il batterio la assume perché la sfera ha la massima superficie a parità di volume. Il Dna non determina le leggi della geometria, nè quelle della fisica, ma le sfrutta in modo abile. Il succo dell’articolo di Chklovskii sull’impalcatura modulare del cervello è che qualcosa di simile potrebbe essersi verificato anche per la corteccia cerebrale, la parte più nobile del cervello. Si tratta ora di scoprire quali leggi determinano l’impalcatura, un compito non facile. Abbiamo sentito dire, fino alla nausea, che l’evoluzione darwiniana ha scolpito il cervello delle diverse specie secondo la legge della sopravvivenza del più adatto. E che la nostra intelligenza, il prodotto del nostro cervello, è il risultato di questa lenta evoluzione. Probabilmente, ma selezione di che cosa?
POSSIBILITÀ - L’evoluzione non ha pescato in un mare di contatti deboli, tra tutte le possibilità casuali, ma ha piuttosto colto al volo una buona impalcatura tra le poche possibili, già ben organizzate da altri tipi di forze naturali. Due illustri immunologi, Antonio Coutinho e Pierre-Andrè Cazenave, amano raccontare la seguente istruttiva barzelletta. Pinocchio chiede a Geppetto: "Babbo, come mai i sassi, quando cadono, vanno tutti in basso?". Geppetto, che è un darwiniano perfetto, risponde: "Semplice, perché tutti i sassi che tendevano ad andare in alto sono stati eliminati dall’evoluzione naturale milioni di anni fa".

la manifestazione per la pace di ieri a Roma

L'Unità 20.3.05
A Roma «Bella ciao» per dire «no war». Tensione con la polizia
Associazioni, centri sociali, Prc, Pdci e Verdi: sfilano in 15mila. «Verità e giustizia per Sgrena e Calipari». Vietato arrivare a Palazzo Chigi
Wanda Marra

ROMA La musica scandita dai tamburi, un gruppo di ragazze vestite in azzurro e arancione eseguono una coreografia scatenata e decisa. C'è anche la «Malamurga», danza di protesta argentina, nel corteo pacifista che ieri ha sfilato a Roma. Come ci sono le note di «Bella Ciao» e del «Pueblo Unido», il sound dei Centri sociali, la musica delle bande popolari. È stata una manifestazione rumorosissima e colorata quella di ieri nella Capitale, a due anni dall'inizio della guerra in Iraq, per chiedere ancora una volta il ritiro delle truppe, per dire l'ennesimo no alla guerra. Come a New York e a Bruxelles. Come in tutto il mondo. In Italia, però, la manifestazione indetta dai Cobas e dai Cub, da Action, dal Comitato per il ritiro dei militari in Iraq e da numerosi centri sociali, alla quale hanno aderito il Prc, il Pdci e i Verdi, ha anche un significato in più: chiede «verità e giustizia» per Giuliana Sgrena, chiede il perché della morte di Nicola Calipari. Così in testa al corteo c'è uno striscione che recita «Il 70% degli italiani vuole: ritiro delle truppe subito! L'Iraq agli iracheni», preceduto da un camion che mostra le foto dei bambini colpiti dalle cluster bomb, scattate dalla Sgrena, alcune di quelle mostrate durante la manifestazione per chiedere la liberazione dell'inviata del Manifesto. Ai due lati del camion, una frase commenta queste immagini eloquenti «Missione di pace».
Il corteo parte alle 15 e 20, mentre i fotografi fanno a gara per fotografare una bambina piccolissima su una carrozzina, che si guarda intorno un po' spaurita. Tra i circa 15mila manifestanti ci sono anche Paolo Cento dei Verdi, Elettra Deiana e Giovanni Russo Spena del Prc. E i Direttori di Liberazione, Piero Sansonetti, e del Manifesto, Gabriele Polo. «Siamo qui per manifestare contro la guerra che è la morte della politica e della democrazia, ma anche per chiedere di conoscere la verità su ciò che è successo la sera del 4 marzo, quando è stata liberata Giuliana. Temo però che non ce lo diranno mai», dichiara Polo.
Tantissime le bandiere dei Cobas, molte anche quelle della pace. E tante anche le bandiere rosse del Prc e del Pdci. E poi ci sono gli striscioni per il popolo curdo, come quelli che chiedono la pace in Medio Oriente. Sono moltissimi i giovani, in primis quelli dei Collettivi Studenteschi. «Noi paghiamo le tasse universitarie. E i soldi servono anche a finanziare la missione in Iraq», spiega Marco. Nutrito anche il gruppetto di americani contro la guerra. «Vogliamo ribadire che non tutti gli americani stanno con Bush», spiega Barbara. Tantissimi i bambini. E appare anche uno striscione tutto loro: «La vita è bella, ma non la guerra». Nel frattempo, i Disobbedienti dal loro camion, preannunciano battaglia. Infatti, era stata chiesta l'autorizzazione ad arrivare a Palazzo Chigi. Ma è stata negata. «Non accettiamo zone rosse. Vogliamo dare un segnale in questa direzione», spiega uno dei leader, Francesco Caruso.
Sono le 16 e 20, quando la testa del corteo arriva a Piazza Venezia. La presenza di forze dell'ordine schierate è imponente: presidiano tutta la piazza, ma in particolare sono concentrare all'imbocco di via del Corso, strada diretta per Palazzo Chigi. Il camion dei Disobbedienti si porta proprio davanti agli uomini schierati. «Stop stop stop the war», continuano a scandire i microfoni. E: «Questo è l'unico paese dove non si può manifestare sotto i palazzi del potere». In mezzo, i parlamentari presenti tentano una trattativa per convincere le forze dell'ordine a far passare il corteo. Ma non c'è niente da fare. I manifestanti spingono da una parte, vengono contrastati. C'è un breve fuggi fuggi, non succede niente. I Disobbedienti e gli altri che vogliono forzare il blocco sono troppo pochi. «Andiamo a Largo Argentina, e cerchiamo delle strade alternative», dice Guido Lutrario dal camion. Così in un migliaio si dirigono verso la fine del corteo autorizzato, a piazza Navona. Mentre percorrono Corso Vittorio arriva la notizia che qualcuno sta sotto Palazzo Chigi a manifestare. Molti si infilano nei vicoli del centro per raggiungerli alla spicciolata. In via degli Orfani, prima di Piazza Capranica, vengono bloccati dalla polizia. Anche se la Questura di Roma racconta che non c'è stata alcuna carica, i manifestanti raccontano che in realtà le cariche ci sono state, anche se leggere. Alla fine due gruppetti separati riescano ad arrivare sotto Palazzo Chigi, ai due lati di piazza Colonna, ma la polizia impedisce tutte le entrate alla piazza. Quando loro «festeggiano» l'obiettivo centrato cantando «Bella ciao», sono quasi le 19.

opposti estremismi?
Ariana Faranda e Francesco Cossiga

L'Unità 20 Marzo 2005
Adriana Faranda a colloquio con Francesco Cossiga
Va in onda domani sera, alle 22,50 su Raidue, il dialogo tra Francesco Cossiga e Adriana Faranda del quale, in questa pagina, anticipiamo una parte. «A risentirci più tardi» è il titolo di una trasmissione che ha per tema il sequestro Moro, realizzata da Alex Infascelli per la serie «La storia siamo noi» di Giovanni Minoli. A dialogare sono da un lato il politico che all’epoca ricopriva il ruolo di ministro dell’Interno, schierato per il «partito della fermezza», benché consapevole che questo, al 99%, avrebbe significato la condanna a morte del presidente della Dc, e dimissionario il giorno dopo quello in cui ne fu rinvenuto il cadavere; dall’altro una brigatista della colonna romana, partecipe di numerose iniziative terroriste, ma, durante il sequestro, ostile all’idea di uccidere l’ostaggio. Il terreno, talora assai scivoloso, sul quale il dialogo si svolge è appunto questo: a parlare sono un ex-ministro non a pieno convinto della linea che sostenne allora e una brigatista che durante il sequestro maturò la sua rottura con l’organizzazione. Faranda ha scontato 16 anni di prigione. Dal 1995 è libera ed esercita la professione di fotografa.
Faranda: «Come immaginava noi brigatisti?».
Cossiga: «Avevo una visione che poi mi è costata molte critiche. Io sono quello che insieme a Pecchioli ha fatto una propaganda con una truffa semantica; chiamandovi criminali, ma questo serviva per mobilitare maggiormente contro di voi l’opinione pubblica, ma non ci ho mai creduto».
F. «Come persone come ci immaginava: tristi, allegri?».
C. «Normali».
F. «Io la immaginavo estremamente austero».
C. «Io sono cresciuto a pane, latte e politica. Io sono nato in una famiglia antifascista, repubblicana, piuttosto massonica, ma della massoneria risorgimentale e anti-giolittiana e quindi sono nato con questa passione».
F. «Io non sono nata con questa passione, mi è venuta dopo, all’università».
(...)
C. «Lei se si fosse dovuta iscrivere ad un partito, a parte il fatto che lei ha fatto una scelta alternativa, in che partito si sarebbe iscritta? Il partito comunista?».
F. «Non ne sono così sicura perché io all’inizio non avevo una particolare attrazione per la politica».
C. «La sua è stata più una scelta civile che politica. Quello che gli amici ex Pci non vogliono sentirsi dire da me, o i santoni paracomunisti, è che in voi è stato fortissimo l’elemento della resistenza incompiuta».
F. «Sicuramente. C’era, ma culturalmente».
C. «Cioè la resistenza tradita».
F. «Si il fatto che non si era riusciti a concludere il sogno rivoluzionario durante la guerra. Ma questo è già un motivo più ragionato, intellettuale. Lo sa che una delle cose che mi avevano più colpito, un film: Cristo fra i muratori. Questa cosa dei morti del lavoro mi ha accompagnato sempre. Come fanno gli altri esseri umani e lo Stato a permetterlo».
C. «Le morti sul lavoro sono una delle colpe maggiori delle società borghesi. Cioè della scelta della produttività evitando il costo delle precauzioni per la tutela del lavoro».
F. «Sento difficoltà a parlare delle mie motivazioni politiche con il Presidente Cossiga, in parte perché le mie motivazioni sono personali. Ho paura che il Presidente possa scambiarle con quelle di gruppo e poi ho paura che ripercorrere le mie motivazioni possa dar l’impressione di giustificare. Io ero partita da sentimenti civili, ho sempre avuto con la violenza un rapporto contraddittorio. Pur abbracciandola come male inevitabile. Quando c’è stato il primo ferimento a cui ho partecipato, che era quello del marchese Teodoli, io l’ho sognato notti dopo vestito di bianco con i pantaloni insanguinati. Perche io non avevo visto nulla durante il ferimento, non avevo visto sangue. Soltanto che dopo avevo sentito alla radio che essendo lui seduto un colpo gli aveva reciso l’arteria femorale. Questa cosa mi sconvolse molto».
C. «In un conflitto due giovani sottufficiali dei Carabinieri ammazzarono due di voi di Prima linea. Vennero ricevuti da me e questo giovane Carabiniere era la prima volta che aveva sparato in vita sua e continuava a ripetermi “mi creda non volevo uccidere, ho sparato per difendermi”».
« Il giorno prima che Moro venisse rapito mi fece questa chiamata: “Ma tu sei ben tutelato? Ricordati che hai moglie e figli”. Il giorno prima, si rende conto?».
F. «Più preoccupato forse di quanto non lo fosse lei stesso. Ma Moro si sentiva protetto?».
C. «Moro non ha mai pensato di correre pericoli, mai. E non è vero che aveva chiesto la macchina corazzata, si figuri se gli avrei rifiutato la macchina, gli avrei dato la mia. Ad un certo punto gli ho detto prendi il telefono in macchina, lui prima mi ha detto di sì, poi quando è venuto il momento di istallargli il telefono ha detto di no, forse perché non voleva essere seccato in macchina».
«Io ho creduto per lungo tempo che le lettere di Moro fossero frutto di una coercizione psicologica e diretta dovuta all’isolamento. La frase di Andreotti “che le lettere non erano realmente autentiche” l’ho scritta io, e invece erano la proiezione della concezione che Moro aveva della società e dello Stato. Dopo molto e leggendo alcune sue opere di filosofia giovanile, ho capito che non vi era debolezza, ma…».
F. «Coerenza».
C. «Era la coerenza. Nella lettera che mi scrive “Se riuscissi a parlare con Cossiga, riuscirei a persuaderlo e però, non mi dice, lui è influenzato dal suo conterraneo e cugino Berlinguer e poi crede troppo nel compromesso storico».
F. «E dice anche un’altra cosa che aveva colpito molto, riguardo alla linea della fermezza, dice sicuramente c’è lo schiacciamento di questa situazione da una parte il Pci dall’altra la Dc, però c’è anche il suo essere sardo. Cosa intendeva?».
C. «Il suo essere sardo è il suo essere implacabile».
F. «Rispetto alla fermezza perché lei ha avuto questa posizione?».
C. «Io ho assunto questa posizione perché il nostro non era uno Stato forte, può trattare uno Stato forte. Uno Stato debole non è in condizioni di trattare, per me la linea della fermezza è stata molto dolorosa, mi è costata una depressione, io mi svegliavo dicendo: Io ho ammazzato Moro, ed era vero».
F. «Anche io mi svegliavo la notte e dicevo ho ucciso Moro, anche se mi sono sempre battuta per…».
C. «Si ma l’ho ucciso più io che lei! Perché lei si e’ dissociata ed era contraria alle esecuzioni».
(...)
C. «La sera prima che lui fosse ucciso andai da Andreotti e lo trovai ottimista perché come lui poi mi ha detto, la cosa era troppo delicata e lui ritenne di non dirla nemmeno al suo Ministro dell’Interno, lui seguiva trattative sbagliate, non sbagliate, ma che faceva il Vaticano che riteneva di essere arrivato attraverso i cappellani delle carceri alle Br. È un errore storico ritenere che una cosa del genere possa essere risolta con il denaro. Come quelli che pensano di liberare oggi in Irak un ostaggio con il denaro, lei pensi se un estremista islamico o uno che si sente occupato se vuole denaro per i prigionieri. Ma vuole un prezzo politico».
F. «A me devo dire che mi ha riportato indietro nel tempo perché l’uccisione di un prigioniero e una cosa che mi riscaraventa nell’angoscia».
C. «Sa una cosa che mi ha riscaraventato nell’angoscia è vedere i prigionieri torturati dai britannici e dagli americani».
«Avessero gli americani o i britannici preso dieci irakeni insorti e fucilati, siamo nell’ambito della guerra, ma torturare i prigionieri… no! La tortura è la cosa più infame che esista. Lei vuole sapere la cosa peggiore che le Br hanno fatto. La tortura e l’uccisione del fratello di Peci».
F. «Io ho dei rimorsi per non aver tentato di fare di più».
C. «Io ho il rimorso di non averlo saputo salvare trovandolo, con la forza. Di essere stato insufficiente come Ministro dell’Interno. Io mi sono dimesso perché ero colpevole della sua morte di non essere riuscito a trovarlo. Secondo, perché bisognava affermare il principio politico, che il politico deve rispondere se no, non risponde mai nessuno. Ed è vile far rispondere i propri dipendenti e non rispondere in prima persona. L’altro motivo, ed è quello meno nobile, è che non volevo far saltare il compromesso storico».
F. «C’è stato qualche spiraglio nella linea della fermezza?».
C. «C’è stato. Una delle domande che ho fatto a Gallinari era - ma non avete capito che avevate vinto? La mia impressione è che non avessero capito e questo è il deficit politico della gestione del sequestro. Su questa vicenda sono d’accordo con Andreotti tranne che su un punto: a mio avviso quelli di Via Fani non avevano capito di avere già vinto, se avessero ritardato di 24 ore l’uccisione di Moro, la Dc avrebbe convocato su proposta di Fanfani, il Consiglio Nazionale che aveva aperto le porte alle trattative. Non dimentichiamoci che le Br alla fine avevano chiesto il riconoscimento solo della Dc. Era sufficiente che era la Dc che avesse trattato con loro».
«Io le dirò che il giorno che c’era la Direzione della Dc, quando poi hanno ucciso Moro, ero andato con la lettera delle dimissioni perché se la Dc avesse preso questa decisione mi sarei dimesso non per protesta ma perché il Ministro dell’Interno, che aveva gestito la linea della fermezza, non poteva essere lo stesso che avrebbe gestito la linea delle trattative».
F. «Da parte nostra ci sentivamo il fiato sul collo».
C. La fretta nell’uccidere Moro è stata dovuta al fatto che avevate capito che eravamo vicino».
F. «Io ritenevo che andasse liberato e basta, perché questa era la prima prova di forza delle Br».
C. «Sarebbe stata la prova di umanità che avrebbe turbato i vostri avversari e l’opinione pubblica e poi sarebbe saltata l’alleanza tra Pci e Dc.
(...)
F. «Ma se lei avesse incontrato uno di noi?».
C. «Avrei dialogato. Ho parlato con molti di voi».
F. «Ma lei ha cercato queste persone, perché?».
C. «Perché ero spinto a capire quale fosse la causa di quello che era accaduto. Andai a trovare Gallinari. Il fatto che cercassi di spiegarmi perché è avvenuta questa sorta di guerra civile non mi ha fatto molti amici nella Dc e anche in alcuni settori della sinistra. Loro temono che se si trovasse una motivazione a questo movimento rivoluzionario, verrebbe meno la loro legittimazione e quindi tutte le invenzioni che voi eravate strumento della P2 e degli americani, degli israeliani, l’ultima sciocchezza del Kgb».
(...)
F. «In carcere ho riacquistato la mia libertà. Ho letto e ho ricominciato a dipingere in carcere. In clandestinità sono stata dal ’76 al ’79. Avevo 26 anni».
«La libertà può essere un dono individuale o una conquista personale».
C. «La libertà deve essere una conquista individuale. Può essere un dono, ma solo di Dio».
F. «Secondo lei ha un senso che adesso noi siamo qui?».