sabato 27 dicembre 2003

visioni: Ildegarda di Bingen

Corriere della Sera 27.12.03
Esce il «Libro delle opere divine», il più importante tra i testi profetici della mistica cattolica che fondò, nel XII secolo, il monastero di Bingen
Le visioni di Ildegarda. E l’uomo si fa Dio
di GIORGIO MONTEFOSCHI


Vorremmo annullare il tempo e, con un salto all'indietro, tornare nella Germania del XII secolo dopo Cristo, soltanto per entrare nelle gelide aule del convento benedettino di Rupertsberg, nei suoi corridoi bui profumati di lievito e di incenso, e assistere al grande esorcismo che, nel 1169, Ildegarda di Bingen, badessa di quel convento, ordinò nei confronti della monaca Sigewize di Colonia, posseduta dal demonio. Sette sacerdoti percossero la sventurata con una verga, uno dopo l'altro, mentre intorno si intrecciavano le preghiere; ma tutto fu inutile, perché il diavolo non la abbandonò. Così, Ildegarda chiese e ottenne di tenere la monaca vicino a sé. Passò del tempo. Poi, non sappiamo come, attraverso quali sortilegi, alla vigilia del Sabato Santo, il demonio sparì.
Chi era Ildegarda di Bingen? Chi era la donna che nel 1169 aveva settantatré anni, scriveva ai papi e a Federico Barbarossa, era in contatto con Bernardo di Chiaravalle, aveva predicato - fatto assai insolito per quei tempi - nelle cattedrali di Colonia e di Treviri, di Liegi e di Magonza? La monaca aristocratica che paragonava se stessa a una poverella, a una «piuma abbandonata al vento della fiducia di Dio», possedeva uno sguardo che andava ben oltre i confini della vita monastica; una cultura che certamente non si limitava alle Sacre Scritture; e, a dispetto delle malattie che la tormentarono tutta la vita, una tempra d'acciaio. Lo sguardo ampio le permetteva di avere un sentimento cosmologico pari a quello che, non molti anni più tardi, ispirò Dante: accompagnato dalla consapevolezza dei molti problemi che travagliavano la chiesa, a cominciare dai rapporti con i movimenti eretici e riformatori, per finire ai dissidi con l'impero. L'amore per il sapere fortificava la sua fede nelle fonti dell'enciclopedismo medievale, nei testi di Dionigi Areopagita e Agostino: e di molti altri, forse letti in segreto, come Seneca con ogni probabilità. Il carattere forte la sorreggeva nella volontà, impedendole di cedere alle debolezze del corpo, nonostante le emicranie fortissime, gli squassanti dolori alle ossa: infatti, viaggiava; predicava; interpellava abati e principi; curava i malati; come le streghe della tradizione contadina, faceva magie con le erbe; coltivava la musica e il canto.
Ebbe visioni fin dall'infanzia - motivo per il quale i genitori, ritenendola diversa dagli altri, la fecero entrare bambina nel convento di Disibodenberg. Tuttavia, per lunghi anni, le tenne segrete. Solo nel 1136, quando aveva quarant'anni, una voce misteriosa le impose di mettere per iscritto quello che vedeva nel silenzio della mente. Nacquero, in tal modo, i suoi libri profetici: il Liber Scivias, il Liber vitae meritorum; e il Liber divinorum operum, il Libro delle opere divine, la sua opera più importante, che oggi leggiamo nei Classici dello Spirito della Mondadori.
Com'erano le visioni di Ildegarda, queste visioni tenute nascoste perché, come tutte le cose eccezionali, si temeva fossero ispirate dal demonio? Lo spiega lei stessa. «Queste cose - scrisse - non le ascolto con le orecchie del corpo e neppure nei pensieri del mio cuore... ma unicamente all'interno della mia anima, con gli occhi aperti, per cui nelle visioni non subisco il venir meno dell'estasi: le vedo in stato di veglia, di giorno e di notte». C'è una voce misterica così terrena, infatti così superbamente carnale, una seduzione «stregonesca» così profonda in questo libro visionario ma «vigile», scritto «a occhi aperti» - sottratto alle tenebre che avrebbero invaso il cuore di Santa Teresa e di San Juan de la Cruz, scandito, rispetto ai tremori di Angela da Foligno, ai deliri cantilenanti di Maria Maddalena de' Pazzi, nella luce ferma del cristallo - che lascia il lettore moderno sbalordito. Perché, se è vero, come diceva Bernardo di Chiaravalle, che nelle visioni divine le immagini sopraggiungono non solo per attenuare lo «splendore insopportabile» della luce divina, ma anche per «rendere possibile la comunicazione agli altri uomini», è altrettanto vero che la quantità di carne e sangue, di scienza e pensiero, di natura e di mondo che queste immagini riflettono, non ha confini.
Del resto, non potrebbe essere altrimenti, quando al centro di tutto stanno la creazione e l'uomo. Il disegno è complesso e semplice. Dio aveva creato gli angeli; ma uno di loro, il più bello, Lucifero, s'inorgoglì e pensò stoltamente di potersi equiparare a Lui. Dio, allora, lo cacciò negli abissi eterni e, per riparare a questa offesa della creazione, fece l'uomo. Lo fece a sua immagine e somiglianza, nella ragione e nella carne, perché il Figlio avrebbe dovuto rivestirsi con veste di carne, per la redenzione dell'uomo.
L'oggetto della contemplazione di Ildegarda, dunque, non è l'astratto generarsi del Verbo nell'intelletto, bensì, come scrive Marta Cristiani nella sua introduzione: «La concretezza del farsi carne del Verbo nella natura dell'uomo-microcosmo, sintesi di tutta la natura creata». Nella forma dell'uomo, Dio raffigura tutte le sue opere, infatti: l'universo e le sue energie, la terra e i pianeti, il caldo e il freddo, l'umido e il secco, il sole e la luna, l'acqua e il fuoco. Tutto è a servizio dell'uomo. E l'uomo non potrebbe vivere senza la creazione. Così come Dio non potrebbe vivere senza l'uomo.
Perché questa è la verità sconvolgente, colma di conforto, che ci propone Ildegarda: quanto, fino a che punto, Dio ama l'uomo. Un tempo, i profeti possedevano questa verità nel cuore. Ma non capivano ancora bene. La vedevano nell’ombra. Poi, quando il Figlio assunse la carne, la verità esplose come l'urlo di una partoriente. Traboccò nel Figlio. Come la gioia della madre trabocca nel figlio. E fu chiara ogni cosa.
Tuttavia, non è sempre così. L'uomo dimentica. Dimentica l'uomo medievale; quello d'oggi. Dimentica questa comunione della carne e dello spirito. Dimentica addirittura - ed è una immagine sublime, non visionaria, questa che ci propone Ildegarda - di essere, lui uomo, «madre di Dio», quando, seguendo le sue parole, lo genera dentro di sé. L'uomo è fatto di carne e d'anima. Il suo è, quindi, un continuo salire e scendere. Quando la debolezza della carne, «la seduzione immonda e viscida del piacere» trascinano l'uomo in basso, la cecità del cuore corrisponde a quella degli occhi.
Quando le energie dell'anima trasformano i desideri in virtù, l'oscurità scompare e, salendo la scala dell'umiltà, l'uomo si avvicina a Dio. Lo vedrà soltanto alla fine dei tempi. Per ora, deve limitarsi a vederlo riflesso nelle immagini, nelle parole. Lo può vedere nella bellezza del creato; nel firmamento; nel suo stesso corpo: tutto è a misura dell'uomo, tutto corrisponde all'uomo. Il cranio, il cuore, il fegato, i polmoni, le viscere, il reticolo delle vene, la misura delle gambe e delle braccia: come è possibile non riconoscere che il cranio è tondo perché rappresenta l'universo, che la bocca sostiene la verità della Parola, che le vene conducono l'amore, e ogni cosa, ogni cosa è misura, corrispondenza amorosa di Dio e l'uomo? Immagini davvero grandiose colmano questo libro dello spirito che continuamente torna su se stesso a ribadire una luce e una verità carnali che, a tratti, lo accostano alla scrittura di Montaigne.
Non sono, certo, le immagini delle visioni vere e proprie: quelle figure per metà animali, per metà umane; le simbologie grottesche e inquietanti che compaiono anche nei codici miniati, sui portali delle cattedrali romaniche, nei pavimenti delle chiese. Sono, queste immagini grandiose, quelle dell'uomo che Dio, per la voce di Ildegarda, espande nell'universo. Le immagini che ogni domenica, le consorelle di Ildegarda, vestite di abiti sfarzosi, coperte di gioielli splendidi, cercavano di evocare nella purezza del canto. In quel convento di Rupertsberg, nel quale Ildegarda non dimenticò mai le sue ascendenze aristocratiche. E di essere donna. Diceva, infatti, che nella creazione l'uomo rappresenta la divinità; la donna, l'umanità di Cristo.

Il libro: Ildegarda di Bingen «Il libro delle opere divine», a cura di Marta Cristiani e Michela Pereira, Meridiani dello Spirito-Mondadori pagine CLXXIV-1236, €49