sabato 17 luglio 2004

filosofia antica
i Cinici

Il Giornale di Brescia 17.7.04
Antistene di Elide e Diogene di Sinope: due «cani sciolti» per le strade di Atene
I MASSIMI RAPPRESENTANTI DELLA SCUOLA DI PENSIERO CINICA
Maestri di saggezza, non sempre di vita
di Maria Mataluno


«Su, non fare il cinico!». Quante volte ci capita di dire così a un amico, accusandolo di demolire convenzioni e valori condivisi dai più solo per il gusto di andare controcorrente. Eppure non sono molti coloro che usano l’aggettivo «cinico» a proposito, consapevoli del suo significato. Di certo c’è un fondo di verità nella tendenza ad associare al cinico l’immagine dell’outsider, di colui che rifiuta di sottostare a qualsiasi norma imposta dall’alto: proprio da outsider si comportarono Antistene di Elide e di Diogene di Sinope, i due massimi rappresentanti della scuola cinica, protagonisti della vita intellettuale ateniese tra il V e il IV secolo a. C. Una scuola che si chiamò così dal nome del ginnasio in cui Antistene teneva le sue lezioni ad Atene, il Cinosarge - che in greco significa «cane agile», - ma forse anche perché i seguaci di questa corrente di pensiero predicavano una vita sciolta da ogni vincolo familiare, sociale o politico, in tutto e per tutto simile a quella di un cane (kynòs in greco) randagio, e «abbaiavano» contro ipocrisia, mediocrità e conformismo; tanto che Diogene è sempre raffigurato con un cane al suo fianco. Una conseguenza di una precisa concezione morale: per i cinici la virtù si può apprendere solo con un costante esercizio interiore - l’ascesi - che allena lo spirito nello stesso modo in cui la ginnastica educa il corpo alla fatica. E la virtù dei cinici ha molto a che fare con la fatica, perché si esprime nelle opere e non nel pensiero, tanto che il modello etico di riferimento fondamentale per Antistene era Ercole, l’eroe delle dodici fatiche. Tanti sforzi, ovviamente, devono avere uno scopo preciso, che per i cinici non è una felicità materiale quale può essere offerta dai sensi, dal potere, dalla ricchezza. Né il sommo bene può consistere nella conoscenza: il rifiuto delle convenzioni spingeva Antistene a negare persino la possibilità di formulare definizioni, perché queste non colgono la natura delle cose, ma si limitano a stabilire analogie tra di esse. L’unica conoscenza possibile, perciò, è quella dei nomi, e le uniche frasi che abbiano un senso sono simili a queste: «l’uomo è uomo», «il cane è cane». Scartato anche il sapere, non rimane, come massimo ideale del saggio, che l’autosufficienza, l’indipendenza tanto dagli altri esseri umani quanto da se stesso, dai desideri e dalle passioni che ingombrano l’animo. Nasce da qui l’insofferenza dei cinici alle leggi e alla loro natura convenzionale, la scelta di vivere al di fuori da ogni regola di convivenza sociale. Diogene Laerzio racconta che Antistene «diceva queste cose, ma dava anche l’esempio facendole: di fatto falsificava monete, non concedendo nulla né alle regole morali, né a quelle naturali. Egli diceva di vivere secondo il modello di vita che era stato proprio di Ercole, senza dare la preferenza a nulla rispetto alla libertà». Quanto a Diogene di Sinope, non era da meno del maestro in fatto di stravaganze: è passato alla storia come colui che disprezzava talmente i beni materiali da preferire a una casa una botte e andare in giro vestito di stracci; e non per nulla nella Scuola di Atene Raffaello ce lo presenta disteso sui gradini dell’Accademia, fra gli altri pensatori dai drappeggi e le pose solenni, lacero e scarmigliato. Convinto assertore della libertà di parola ma nemico della democrazia come di qualunque altra forma politica - troppo angusta è, per il saggio, la vita da membro della polis: il vero filosofo è cittadino del mondo -, Diogene è celebre per le sue sentenze lapidarie e folgoranti. Spesso quegli apòphtegma erano ispirati al comportamento di bambini e animali, che considerava depositari di quella particolare forma di sapienza derivata da un rapporto privo di filtri con la natura. Così, fu un topo a insegnargli il segreto della felicità - gli bastò vederlo correre qua e là senza meta, senza affannarsi a cercare un luogo per dormire, senza temere né desiderare alcunché, per capire che quello era l’atteggiamento giusto nei confronti della vita -, mentre fu un fanciullo a dimostrargli come il saggio non debba provare alcun bisogno, neanche il più elementare: quando vide un bambino bere nell’incavo delle mani e mangiare lenticchie dentro una crosta di pane, non esitò a gettare via la ciotola e il catino che portava sempre nella sua bisaccia e che costituivano i suoi unici beni. La proprietà, amava ricordare Diogene, non deve rientrare tra le preoccupazioni del saggio, perché «tutto appartiene agli dei; i sapienti sono amici degli dei; i beni degli amici sono comuni. Perciò i sapienti posseggono ogni cosa». La vera felicità consisteva, per Diogene, nell’avere un animo allegro e sereno: senza la pace dello spirito, nemmeno le ricchezze di Ciro avrebbero potuto riparare gli uomini dalla tristezza. Quando un giorno Alessandro Magno gli disse «chiedimi ciò che vuoi, io te lo darò», Diogene non si sognò di chiedere oro o ville, ma si limitò a invitarlo a restituirgli il sole, dal momento che Alessandro, in piedi di fronte a lui, gli faceva ombra. Non fu l’unica volta in cui il grande conquistatore fu beffeggiato dal lacero filosofo: quando Alessandro, prendendosi gioco di lui e del suo «cinismo», gli fece portare un piatto pieno di ossi, non si scompose e gli mandò a dire: «Degno di un cane il cibo, ma non degno di re il regalo». Arguto indagatore dell’animo umano, Diogene non era tipo da provare soggezione per chicchessia, come dimostra un altro famoso aneddoto riportato da Diogene Laerzio. Navigando verso Egina, egli fu catturato dai pirati, portato a Creta e messo in vendita. Quando un araldo gli domandò cosa sapesse fare, lui rispose: «Comandare agli uomini». E additò un uomo di Corinto che indossava una ricca veste di porpora, Seniade, dicendo: «Vendimi a quest’uomo: ha bisogno di un padrone». Seniade lo comprò e lo portò a Corinto, dove gli affidò l’educazione dei figli e l’amministrazione familiare. Diogene fu talmente abile nei suoi compiti che in breve tempo Seniade cominciò a ripetere a tutti gli amici: «Un demone buono è venuto a casa mia». Diogene invecchiò presso Seniade e, quando morì, fu seppellito dai suoi figli. Prima che spirasse, Seniade gli aveva domandato come volesse essere seppellito. «Sulla faccia - aveva replicato Diogene -, perché tra poco quel che è sotto si sarà rivoltato all’insù». Con questa frase sibillina intendeva riferirsi probabilmente ai Macedoni, che da umili si erano tramutati in potenti. Più in generale, alludendo alla mutevolezza della sorte umana, essa compendia il massimo insegnamento lasciatoci in eredità dai cinici: a nulla serve affannarsi dietro consolazioni materiali, perché nella vita non c’è niente di eterno, e ciò che è vero oggi potrebbe non essere più vero domani. Stando così le cose, l’unico vero bene, come già aveva capito Aristotele, non è tanto il piacere, quanto l’assenza di dolore.