mercoledì 5 gennaio 2005

i crimini cattolici
non si salva neanche Roncalli: anticomunista, fascista e filonazista!

Corriere della Sera 5.1.05
IL CASO
Il papa buono
Il vero volto di Roncalli al tempo della Shoah
di DARIO FERTILIO


E adesso vacilla il mito di Giovanni XXIII. La polemica sui battesimi forzati dei bambini ebrei, dopo aver coinvolto la figura già discussa di Pio XII, lambisce persino il Papa buono. Prima ancora che un beato, tanti fedeli vedono in lui una figura rassicurante, l’incarnazione della chiesa dal volto umano, l’immagine popolare del nonno che benedice i nipotini. E naturalmente ricordano l’autore del magistrale discorso dal balcone, quello della «magnifica luna» e della «carezza del Papa» da portare a casa e dedicare ai bambini. Come si concilia questa figura con l’altra, antecedente di vent’anni, ai tempi della nunziatura a Istanbul durante la guerra, così ossequiosa e addirittura allineata alla propaganda fascista? Come spiegare che l’uomo del Concilio e dell’apertura a sinistra, dell’amicizia con Kennedy e del dialogo con i marxisti, potesse ammirare la Germania hitleriana ancora negli anni in cui si preparavano i campi di sterminio per gli ebrei? Possibile che lo stesso personaggio, incarnazione già nei tratti fisici campagnoli della tolleranza religiosa e dell’indulgenza cattolica, avesse sintetizzato di suo pugno, in francese, la direttiva vaticana che prevedeva di non restituire alle famiglie ebree i bambini ebrei sottratti ai nazisti, e battezzati?
Questo Giuseppe Roncalli uno e due, contraddittorio almeno in apparenza, dal comportamento addirittura inspiegabile, emerge da nuove testimonianze storiche che sembrano mutarne il profilo. E dunque suggeriscono una diversa lettura della sua figura: ortodossa, allineata alle direttive vaticane, diplomatica e astuta, prigioniera dei pregiudizi antigiudaici del tempo. E soprattutto vittima del mito «buonista» che, quando era ancora in vita, gli era stato costruito attorno.
Ripercorriamo la vicenda. Lo storico Alberto Melloni pubblica sul «Corriere», nei giorni scorsi, il documento vaticano dell’ottobre 1946, avallato da Pio XII, dedicato ai «piccoli giudei» che «se battezzati, devono ricevere un’educazione cristiana». Immediatamente la stampa internazionale, non solo europea, scatena una polemica sulle effettive responsabilità di Papa Pacelli, quasi a rinfocolare antiche accuse sul suo «antisemitismo» connivente con il regime nazista. Storici come Goldhagen si spingono fino a chiederne la condanna, escludendolo da qualsiasi futuro processo di beatificazione; ieri, invece, lo studioso Matteo Luigi Napolitano, sul Giornale, ridimensiona la portata del documento, negando che si riferisca a singoli casi di bambini ebrei sottratti ai genitori, se mai alle organizzazioni sioniste che intendevano fare emigrare i piccoli (compresi quelli battezzati) in Israele.
Nemmeno il tempo di rifiatare, ed ecco su Avvenire il padre gesuita Peter Gumpel, relatore della causa di beatificazione di Pio XII, esporre i suoi dubbi. Uno, in particolare: perché mai il documento al centro della polemica è scritto in francese, dal momento che si tratta di una comunicazione rivolta dal Sant’Uffizio romano al nunzio di Parigi, l’italiano Giuseppe Roncalli? Già, perché nel fervore della polemica è scivolato in secondo piano un particolare importante: colui che avrebbe dovuto seguire le indicazioni vaticane a proposito dei bambini ebrei altri non era se non il futuro Giovanni XXIII (all’epoca già intorno ai 65 anni), il famoso «Papa buono». Domanda pertinente, quella di Gumpel, che oggi trova risposta: probabilmente era stato proprio Roncalli a redigere quella sintesi in francese (esagerando forse nella semplificazione) per informare delle direttive vaticane la chiesa di Francia.
E dunque? Come è possibile continuare a contrapporre Pio XII a Giovanni XXIII, dal momento che quest’ultimo ne era il subordinato, e fedele collaboratore? Ecco il punto, già sottolineato da Matteo Luigi Napolitano sul Giornale: come mai Roncalli non annotò, nelle agende cui affidava i suoi pensieri, nemmeno una riga sulla questione delle persecuzioni naziste, né tanto meno sulla sorte dei «piccoli giudei»? È vero che, da Istanbul, si era adoperato per assistere praticamente molti ebrei perseguitati. Ma perché, quando osò manifestare le sue perplessità alla Santa Sede durante la Shoah, fu soltanto a proposito della emigrazione degli ebrei in Palestina e della pericolosa utopia sionista, cioè la ricostruzione del «regno d’Israele»?
Domande che sembrano già aprire un nuovo capitolo «revisionistico», questa volta su papa Giovanni. Del resto gli «elementi d’accusa» non sono di oggi: ne è testimone Pier Giorgio Zunino, che insegna storia contemporanea all’università di Torino, e che più di un anno fa ne La Repubblica e il suo passato (edito dal Mulino) portò alla luce alcuni documenti sorprendenti su Giuseppe Roncalli. Sono lettere spedite ai familiari in due periodi diversi quando era nunzio in Turchia: nel 1940, e tre anni più tardi. Nel '40 il futuro Papa dichiara la sua ammirazione non solo per Mussolini, ma anche per la Germania, che ai suoi occhi ha dato prova di ammirevole compattezza nazionale al momento della fulminea vittoria sulla Francia. La società tedesca, commenta, è fatta di uomini «pronti e forti», ben meritevoli di imporsi sulla «sfibrata democrazia francese». Di più: con un incauto parallelismo evangelico paragona i tedeschi di Hitler alle «vergini sagge» che conservano l’olio della fede, mentre i francesi aggrediti gli appaiono simili alle «vergini stolte» (ma i passi più delicati verranno significativamente soppressi nella prima edizione dell’epistolario giovanneo, curato da monsignor Loris Capovilla nel ’68). Tre anni più tardi, fra il luglio e l’agosto del ’43, quando dunque le notizie sugli orrori della guerra e dello sterminio ebraico si sono diffusi, Roncalli raccomanda ancora ai familiari di mantenere «fiducia immutata» nel regime fascista, con l’aggiunta della esortazione: «Voi lavorare, pregare, soffrire, obbedire, e tacere tacere tacere».
C’è qualcosa di cui meravigliarsi? Certamente no, secondo Pier Giorgio Zunino, convinto che «la visione religiosa di cui era imbevuto e portatore, l’età già avanzata e l’alto grado nella gerarchia ecclesiastica, la sua stessa cultura lo portavano a sposare l’idea di una Chiesa capace di acquisire il maggior numero possibile di fedeli e di anime». Ma l’appoggio al nazismo e al fascismo? «È l’esempio di una tradizione culturale che vedeva nell’obbedienza assoluta all’autorità, qualunque fosse, un valore assoluto. Dunque, una società gerarchica, in cui tenere nettamente separati gli obblighi di chi comanda e chi deve obbedire». Per cui, afferma Zunino, il messaggio di Roncalli ai familiari durante la guerra si può sintetizzare così: non preoccupatevi delle scelte politiche italiane, c’è chi ha scelto per voi.
Si profila, dunque, un Roncalli «perfettamente inserito nella cultura cattolica di maggioranza, allineato al fascismo, estimatore della Controriforma (di cui era stato uno studioso), pronto a riconoscere alla Germania il ruolo di nazione guida dell’Europa, nemico del comunismo sovietico ma anche sospettoso delle democrazie occidentali, considerate anticattoliche». E come si spiega il suo chiudere gli occhi di fronte alle persecuzioni naziste degli ebrei? «La domanda - secondo Zunino - non trova risposta sulla base dei documenti. Del resto, pochissime personalità cattoliche furono coscientemente antifasciste. Probabilmente - aggiunge - la dimensione apocalittica del nazismo per molto tempo non venne percepita». Nemmeno nel ’43, quando alla nunziatura di Istanbul molte cose dovevano essere note? «Direi che in quel caso si adeguò - risponde Zunino - con un atteggiamento da alto burocrate».
Resta da spiegare l’evoluzione del suo pensiero e il suo passaggio brusco da cardinale conservatore a uomo del Concilio, dell’apertura a sinistra, del dialogo. Ci fu, da parte sua, soltanto un adeguarsi, un cogliere «i segni del tempo»? Oppure, come ricorda Cesare Cavalleri, direttore di Studi cattolici, «tutti i documenti dottrinali e gli interventi di Giovanni XXIII attestano la sua stretta e rigorosa ortodossia»? Tanto è vero - ribadisce Cavalleri - che «il Concilio era stato affidato, nella fase preparatoria, al più che ortodosso cardinale Ottaviani» e nelle intenzioni del Papa tutto avrebbe dovuto concludersi «entro Natale».
Poi si sa come andarono le cose: lo Spirito soffiò dove voleva, e soprattutto nacque il mito del «Papa buono», con il contorno pittoresco di piatti, scialli e statuette che riproducevano un Roncalli pacioso e gioviale mentre stringeva la mano a John Kennedy, l’uomo della nuova frontiera, o riceveva nel suo studio il direttore della sovietica Isvestija. «Mito fasullo e posteriore - secondo Cavalleri - di cui finì col restare prigioniero quando era ancora in vita. E dire che la sua abilità diplomatica, molto poco campagnola, si era già vista a Parigi, quando aveva messo in campo mondanità, diplomazia e persino alta gastronomia (aveva assunto il miglior cuoco di Parigi) per servire la causa vaticana». E il suo vero spirito, fuori dalla mitologia? «Battagliero, addirittura ascetico».
E allora, a chi giovò la creazione di quel mito? «Fu contrabbandato come tale da teologi del nord, belgi olandesi e tedeschi, personaggi come Schillebeekx, Küng, Alfrink, e finì con l’intaccare l’impianto della morale tradizionale. Ebbe come conseguenza la chiusura dei seminari e la perdita delle vocazioni. E gli effetti di quella strumentalizzazione, l’immagine di un Papa dialogante e aperturista anche con i marxisti, portò a quella teologia della liberazione che ha devastato l’America Latina».
Prigioniero del mito o vittima del post Concilio? «Tutt’e due le cose», per Cavalleri. Ma proprio per questo, meritevole della beatificazione. E comunque, di fronte al giudizio della storia, «non colpevole».