giovedì 9 ottobre 2003

matricidio a Milano e impotenza della psicoanalisi:
Vegetti Finzi si dice priva di«spiegazioni esaustive»

Corriere della Sera 9.10.03
«La perdita del senso della vita conduce alla banalità del male»
di SILVIA VEGETTI FINZI


In un libro ormai storico, «La banalità del male», Hannah Arendt si interroga su come fosse possibile che i nazisti accusati di genocidio ne parlassero in termini di quotidiana normalità, come se niente fosse. La risposta si concentra in quel «niente» che sintetizza tante cose: la perdita del senso della vita, la riduzione dell'altro a cosa, la sostituzione del pensare con l'agire. Il paragone tra un dramma epocale e una vicenda di locale cronaca nera, quale il matricidio di Pozzuolo Martesana, s'impone nonostante l'evidente dissimmetria dei due eventi. Entrambi accomunati da una dimensione d'inspiegabilità.
Di fronte a un delitto così efferato, forse il più grave che possa esistere perché annienta con la morte la fonte della vita, siamo spinti a cercarne la causa, il movente, magari solo il pretesto, quanto basta perché ci consenta di capire, relativizzare, circoscrivere l'accaduto. Vorremmo attribuire un fatto abnorme a una causa eccezionale come la miseria, il degrado sociale, l'abbruttimento morale, la solitudine, la follia, la droga.
Tanti giri di chiave per chiuderlo fuori dalla porta della nostra serena esistenza. Tuttavia, quando un legame causa-effetto non si trova perché vi sono molti motivi di malessere ma nessuno in grado di dar conto della trasgressione estrema, stiamo sperimentando i limiti del nostro pensiero.
Probabilmente, in questo caso, una lenta erosione dei rapporti familiari ha finito per annientare la vitalità degli affetti. Se viene meno l'identificazione con le persone che ci stanno accanto, se non siamo più in grado di attribuire loro i nostri stessi vissuti, i loro volti diventano maschere impersonali sulle quali proiettare le angosce che non siamo più in grado di padroneggiare. Poiché le loro reazioni appaiono persecutorie, eliminarle può apparire un gesto ovvio di legittima difesa come schiacciare una zanzara molesta.
Non ci stupisca pertanto che il giovane Paolo racconti con straordinaria lucidità il suo delitto perché la mente priva di emozioni funziona come un impersonale, meccanico congegno. Probabilmente l'omicida era moralmente morto quando ha ucciso sua madre e credo che neppure lui sappia perché. Solo col tempo potrà forse, attraverso il dolore, riconnettere i brandelli della sua storia e ritornare ad essere soggetto della sua vita. A noi, in mancanza di una spiegazione esaustiva, resta comunque la compassione, intesa nel senso etimologico di «patire insieme», l'ultimo baluardo della ragione che sa ammettere, quando è tale, un margine di imponderabilità e di mistero.