martedì 14 ottobre 2003

Marco Bellocchio:
una nuova breve intervista è andata in onda su RaiTre

CINEMA: BELLOCCHIO ANNUNCIA NUOVO PROGETTO CON CASTELLITTO
Adnkronos 13/OTT/03 - 16:49
(ricevuto da Andrea Mancini e Simonetta Pitzalis)

Roma, 13 ott. (Adnkronos) - Si intitola ''Il regista di matrimoni'' il nuovo progetto cui sta lavorando Marco Bellocchio. Il regista lo ha rivelato nel corso di un'intervista a ''Off Hollywood- Rai Educational'', in onda domani [oggi, per chi legge. ndr] alle 0.36 [o 0.50] su Raitre. Il film avra' per protagonista Sergio Castellitto, gia' attore per Bellocchio di 'L'ora di religione". Nel corso dell'intervista, il regista ha anche spiegato di aver accantonato il progetto del "Mercante di Venezia". Il regista e' tornato poi a parlare delle polemiche sulla Mostra del cinema di Venezia che ha lasciato senza premi il suo "Buongiorno, notte". Bellocchio, rispondendo alle accuse di Nanni Moretti all'amministratore delegato di Rai Cinema, Giancarlo Leone, ha detto: «Moretti e' un bravo politico ma lasci perdere i moralismi. Io e Nanni siamo divisi da molte cose. Io non appartengo a nessuna lobby e non partecipo neppure alle votazioni per i David di Donatello». (Ken/Cnz/Adnkronos)

Libertà 14.10.03
Rivelazione a Rai educational
Bellocchio: mai più a un concorso


ROMA. «Mai più ad un concorso». Lo dice Marco Bellocchio, nonostante la calorosa accoglienza ricevuta da Buongiorno, notte al New York Film Festival, in un'intervista esclusiva che sarà proposta oggi a “Off Hollywood”, il programma di Rai Educational in onda alle 0.36 [o 0.50] su Raitre che in occasione delle celebrazioni del Columbus Day proporrà una puntata speciale da New York. «Aveva ragione il mio amico Bertolucci quando mi consigliò di lasciar perdere la gara», sottolinea Bellocchio in gara alla Mostra di Venezia. «Se ho perdonato i giurati di Venezia? Delusione grande ma per me il caso è chiuso. I riscontri da Rio, Londra, Toronto e New York contraddicono chi sostiene che la storia è solo “italiana”».

che cosa aveva detto Moretti:

Yahoo Notizie, giovedì 2.10.03
Cinema, Moretti: ''Vergognosa la dichiarazione di Leone a Venezia''
di Marcello Giannotti


Roma, 2 ott. - (Adnkronos) - Un po' in ritardo ma alla fine gli strali di Nanni Moretti sulla Mostra del cinema di Venezia sono arrivati. Non sui film presentati o sull'organizzazione ma sul doppio concorso, sulla cerimonia di premiazione e, soprattutto, sulle proteste di Rai Cinema rispetto al verdetto della giuria che ha 'bocciato' 'Buongiorno, notte' di Marco Bellocchio. ''Sono particolarmente imbarazzato -spiega Moretti in un'intervista al mensile 'Ciak'- perche' ho sempre lavorato bene con Rai Cinema avendo per di piu' scelto, per principio, di non lavorare con Mediaset o Medusa. Ma trovo la dichiarazione di Leone ridicola e vergognosa'', dice il regista che e' stato presidente della Giuria a Venezia nel 2001. All'indomani del verdetto, l'amministratore delegato di Rai Cinema, Giancarlo Leone, ha detto che dal prossimo anno i titoli di Rai Cinema non andranno piu' al Lido. ''Non so con quale giravolta fara' l'inevitabile marcia indietro -dice Moretti riferendosi a Leone- ma purtroppo ha appannato l'immagine non solo della Mostra appena finita ma anche delle prossime edizioni. Se in futuro ci dovesse essere un premio importante a un film italiano ci si chiedera' infatti se sara' stato assegnato perche' lo meritava veramente o perche' gli apparati statali e parastatali avranno definitivamente 'italianizzato' la Biennale con quel che ne consegue. Da regista, produttore e spettatore -spiega Moretti, impegnato nella scrittura del suo nuovo film con Heidrun Schleef- resto comunque per la competizione, in concorsi garantiti da giurie qualificate e indipendenti''. Poi l'attacco a come la Mostra e' stata vista dai media e al doppio concorso: ''Ho visto in tv qualche trasmissione pietosa con ospiti che dicevano insensatezze sul cinema, sui giornali poco spazio per i film e troppo per le cavolate -dice Moretti in un'intervista pubblicata sul mensile 'Ciak'- E la peggior premiazione da molti anni a questa parte. E poi i premi sono troppi, eliminerei il secondo concorso''.

citati al Lunedì

(...oltre alla bella trasmissione "Ritratto d'Autore" con Marco Bellocchio, di venerdì 10.10 su Skay - adesso disponibile, oltre che in visione presso la libreria AMORE E PSICHE di Roma, anche sul web all'indirizzo http://www.mawivideo.it -, e al pessimo inserto su "Buongiorno, notte" pubblicato sul supplemento (Alias) del manifesto dell'11.10)

Repubblica sabato 11.10.03
L' orribile commedia dell' affare Moro
FRANCO CORDERO


L' affare Moro, evocato da "Buongiorno, notte", ha riacceso vecchie dispute, placate le quali, mi permetterei di fissare qualche punto. Cominciando da uno incontrovertibile: la colpa dello Stato nell' avvenimento che insanguina via Fani, angolo Stresa, giovedì mattina 16 marzo 1978, ore 9.15, quando nove brigatisti l' aspettano al varco: eccolo sulla solita 130 blu, seguito dall' Alfetta bianca; una 128 le supera, converge a destra, frena; gli otto appostati sparano sulle vetture imbottigliate ammazzando l' intera scorta con ragguardevole precisione, visto che lui esce incolume; se ne impadroniscono; lo portano via in barba alle polizie che accorrono inutilmente sul luogo, anziché sciamare sui possibili percorsi della fuga. Gli uccisi erano bersaglio d' un tiro a segno, sagome inerti. Quanto al rapito, sarebbe stato meno pericoloso andare in taxi o sull' autobus. Le Brigate rosse appartengono al bestiario italiano: uccidono da qualche anno; Aldo Moro costituiva la massima preda, fautore d' intese larghe fino alla graduale inclusione del Pci nell' area governativa, quindi odiato dagli estremisti hinc inde, 10 anni prima che cada il Muro; e non dimentichiamolo, presidente in pectore della Repubblica. Insomma, era molto esposto; bisognava difenderlo; quanto male vi provvedessero i responsabili, consta dall' assurda strage. Altrettanto ovvia la seconda conclusione: non l' hanno protetto; sta in mano ai sequestratori; lo salvino. L' indomani nasce un comitato interministeriale, le cui 7 riunioni pesano meno d' una giaculatoria. Nel Viminale un' équipe presieduta dal ministro tiene riunioni quotidiane, poi trisettimanali, senza verbali né appunti: anziché agire, gli apparati inscenano le frenesie d' un corpo senza cervello; spiegamenti pour épater le bourgeois; viene il dubbio che non lo cerchino. Esce una fotografia dalla "prigione del popolo". Terzo capitolo. Nella prima lettera, giovedì 29, il recluso ventila negoziati. No, esclamano i virtuosi: lo Stato non siede al tavolo dei terroristi assassini, e commettono una cosiddetta "ignorantia elenchi": vizio piuttosto diffuso, consiste nell' evadere dai termini della causa; "prouver autre chose que ce qui est question" (Arnauld e Nicole, Logique de Port-Royal, III.19.1). L' argomento varrebbe se, trattando, l' autorità abdicasse: ad esempio, quel telegramma 28 ottobre 1922 dal Quirinale a Benito Mussolini; ma le Brigate rosse non la riconoscono né chiedono riconoscimenti. Nel loro universo fantasmagorico l' unico rapporto possibile con le diaboliche sovrastrutture borghesi è guerra senza quartiere: avendo sequestrato un nemico importante, intendono scambiarlo con dei detenuti, uomini loro; altrimenti morrà. Dal punto di vista dello Stato, classica estorsione: può resistere o subirla, riservandosi il rendiconto; vince il più forte; sono partite tra ordinamenti incompatibili. Il giovane Cesare ne sbriga una, anno 75 a.C.: navigando verso Rodi, alla scuola del retore-grammatico Molone (rectius Apollonio), cade in mano ai pirati; la sua vita vale 50 talenti; li paga sull' unghia; riparte, arma una piccola flotta, insegue i rapitori, li cattura e impicca. A parte il supplizio, così agiscono gli Stati rispettabili, dove manchino alternative. Inutile dire quale sia l' auspicabile, irrompere nel covo. Se al Viminale sedesse Giolitti (s' era sempre tenuto gl' Interni), non vi penserebbe due volte. In spregio alle norme? Nossignori, nel codice penale esiste l' art. 54: fatti previsti come reato (a esempio, aprire le porte ai detenuti fuori dei casi legittimi) diventano leciti ("scriminati") ogniqualvolta l' autore vi sia "costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale d' un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile". Come minimo, i negoziati mangiano tempo, guadagno netto dove esistano organi efficienti. Qui non lo sono. Dura 55 giorni la bancarotta poliziesca. L' ex-oratoriano Fouché, ministro napoleonico, risolveva casi simili in poche ore. Siamo al quarto punto, orribile commedia. Moro penalista era scrittore nebuloso. L' uomo politico coltivava un lessico ermetico in frasi lunghe, sinuose, a taglio multiplo, sul filo del nonsense (le famose "convergenze parallele"). Nella "prigione del popolo" cambia stile. Sono chiarissime le 8 lettere edite, l' ultima all' allora presidente della Repubblica, 4 maggio, quando gli restano solo più 5 mattine. Sciolti i sottintesi, il discorso suona così: "Possibile che nessuno scovi la mia prigione?; allora riscattatemi; il mio sangue non giova a nessuno; lo espiereste". Non è più lui, rispondono i santoni: l' autentico Aldo Moro era uno statista; i verbi all' imperfetto mandano rintocchi funebri; e quanto più disperatamente ragiona, tanto meno l' ascoltano; lo seppelliscono vivo. Hieronymus Bosch ha dipinto tali maschere nella salita al Calvario. Mentre i Tartufi fingono compassione, dei rigoristi gliela negano: non piagnucoli come un povero diavolo qualunque; gli uomini al potere hanno privilegi e responsabilità. Massima romana, ma diversamente da Attilio Regolo, costoro fanno gli eroi sulla pelle altrui. Fioriscono vari teoremi. A esempio, deve morire perché sono morti i cinque: "le mort saisit le vif"; discorsi degni delle Erinni, spiriti infernali incombenti su Oreste prima che Atena l' addomestichi. «Il contrappasso non c' entra», direbbe la dea protoilluminista: «avevano un compito, difenderlo dalle aggressioni; non era comoda sinecura; sia colpa loro o dei superiori, non l' hanno adempiuto; riposino in pace; salvate lui piuttosto». Nella primavera italiana 1978 rombano retoriche funeree sorde all' intelligenza illuministica. Poi, articolo quinto, vengono i brigatisti. Il colpo in via Fani era una quaterna al lotto. Hanno l' occasione irripetibile: l' establishment svela miserie, infamie, stupidità; che colpo sarebbe dire al prigioniero «sei libero», gratis. Paolo VI li esorta nell' appello 21 aprile: "Restituite l'onorevole Aldo Moro; liberatelo semplicemente". Anche Sua Santità avalla la linea dura? Sarebbe un avallo incongruo e l' espertissimo curialista non commette gaffes simili. Se vuol persuadere i brigatisti, l' appello va letto così: sinora hanno tenuto lo Stato in scacco; non buttino via la vittoria. L' enorme prestigio acquisito con una mossa da signori benevoli vale più d' ogni riscatto. Dicono d' essere in guerra con gl' imperialismi: liberando Moro, scatenano pandemoni nei santuari del potere; l' atto omicida serve solo a chi, avendo giocato la carta mortuaria, sbiancherebbe vedendoselo davanti, altro che Lazzaro. Discorso molto persuasivo se i destinatari capissero. Che teste abbiano, lo dicono i 32 capitoli della "Risoluzione strategica" annessa al comunicato n. 4, 4 aprile, asfissiante logorrea sulla guerra civile antimperialista. Nessun dubbio sull' anamnesi: discendono dal chiericato marx-leninista, un filone eretico, onniscienti come ogni chierico; senonché l' infallibile dottrina non spiega come gestire Moro, né possono insistere nel sequestro; faute de mieux, l' ammazzano. Stupidità macabra. L' ultimo capitolo tocca l' attuale teatro italiano dell' assurdo. L' allora ministro degli Interni era irremovibile sulla linea ferma, uno dei due nella Dc (lo ricorda senza pentimenti: intervista al Corriere, Sette, 18 settembre). Cosa v'aspettereste? Che esca umilmente dal giro, e altrove succede. Qui no: l' enorme défaillance lo lancia alle stelle; nei 7 anni seguenti presiede il consiglio, poi la Camera alta, infine sale al Quirinale, eletto trionfalmente. Svanisce l' equivoco "compromesso storico": Spadolini, Craxi, ancora gabinetti democristiani, equilibrio instabile, finché il sistema consociativo implode, consumato dal malaffare (i processi sono effetto, non causa); e dal rimescolìo salta fuori l' affarista plutocrate, creatura della defunta consorteria. L' Italia riaffonda, stavolta sotto un regime personale la cui bancarotta politica appare prossima, ma la ronda seguiterà se non cambia qualcosa nei cromosomi.

Repubblica sabato 11.10.03
Il regista esplora i meandri dell' amicizia e dell' erotismo negli anni della contestazione
Bertolucci, il Sessantotto dedicato a chi non c' era
Tre ragazzi scoprono l' amore, mentre in strada scoppiano le prime molotov
di PAOLO D' AGOSTINI


L' ha fatto per sé e per chi era giovane nel ' 68, oppure per i ragazzi di oggi? Non importa tanto rispondere a questa domanda (ma l' autore vuole interessare la gioventù odierna, stimolarne la curiosità: e ci riuscirà, perché il tema universale è quello dell' essere giovanissimi), quanto dire che Bernardo Bertolucci ha fatto un film importante. Denso, profondo, poetico: come, così compattamente, non gli accadeva da un pezzo. I sognatori racconta il "prima" di ciò che ha portato a quel "dopo" le cui estreme conseguenze stanno dentro il film fratello Buongiorno, notte del regista fratello Marco Bellocchio che dal 4 settembre raccoglie allori in giro per l' Italia e il mondo. Neanche quest' accostamento - quello tra le prime molotov e le Brigate rosse - piace a Bertolucci. Ma non racconta né mostra, se non al minimo indispensabile, cortei né bandiere, slogan né sassaiole. Ha scelto, per questo suo prima della rivoluzione 39 anni dopo il film giovanile così intitolato, una chiave intimista, ossessivamente "chiusa" all' esterno (alla strada: lo slogan che alla fine gridano i manifestanti del Maggio sorgente è "dans la route") e claustrofobica. Torna in mente Ultimo tango? Non a torto: i due appartamenti si somigliano, ma non c' è ombra di cinica ricerca di rilancio dello scandalo di allora. Nella primavera parigina dell' anno che nessuno sapeva ancora destinato a diventare "il ' 68" si conoscono lo studente americano che più americano di provincia non si può Mathew, e la coppia di fratello e sorella parigini Theo e Isabelle. Li unisce la passione viscerale per il cinema, la frequentazione - primissime file, come si conviene a un cinéphile doc - della mitica Cinématèque diretta dal mitico Langlois. Che proprio sotto i loro occhi, e furono i prodromi del "Maggio", viene rimosso dall' incarico provocando un imponente schieramento di solidarietà da Godard a Carné. I due ragazzi borghesi, legati da un amore morboso ma anche da un' intelligenza vivida, una sensibilità speciale, un vitalismo incoercibile, coinvolgono lo yankee in una convivenza scioccante e rivelatrice. L' esplorazione dei meandri dell' amicizia e dell' erotismo farà di lui un' altra persona, spregiudicata e più matura. Ma, quando alle ultimissime battute la "strada" non potrà non richiamarli, sarà lui a capire subito, e non i due sofisticati intellettuali (e, ahinoi, quanti come loro), che le barricate e le bottiglie incendiarie non promettono nulla di buono, a sapere che il rifiuto dell' autoritarismo e la non violenza si fanno ottima compagnia.

Repubblica mercoledì 8.10.03
"Contro i revisionisti racconto il meglio del '68"
Il regista parla di "The Dreamers" che uscirà venerdì in 350 sale
compromessi Ideologia oggi è una parolaccia, riformismo da insulto è diventato il target da raggiungere
L'atmosfera Allora la politica si legava al sesso, al cinema, al rock'n'roll e ai primi spinelli
di Paolo D'Agostini


(già citato anche al Mercoledì)

ROMA - Si poteva coltivare un pregiudizio negativo su I sognatori, si poteva pensare a un film preoccupato soprattutto di rinnovare il sapore della provocazione e dello scandalo di Ultimo tango, una brutta copia, invece la nuova opera di Bertolucci è molto bella, densa, poetica. «E autonoma. Mi fa piacere di aver deluso questo pregiudizio. Non c'è niente di vicino se non il fascino che hanno per me gli interni delle case haussmaniane a Parigi. Lì come qui sono importanti: i muri fanno parte del racconto».
Il '68 del film è la scoperta del sesso e del cinema, della libertà nei comportamenti. Molto meno della politica.
«La politica accade fuori da loro, per le strade. In quelle poche uscite dalla claustrofobia sentiamo che qualcosa sta nascendo ed esploderà. Non potevo immaginare di fare un film sul '68 con le assemblee e gli slogan. A me interessava l'atmosfera che io sentii allora. La politica era una delle cose insieme a cinema, rock, sesso, le prime "canne". Nel mio '68 non c´era il predominio della politica».
È l'aspetto che è sopravvissuto meno, il resto ha lasciato il segno.
«Quando qualcuno dei protagonisti di allora deluso parla del fallimento del '68 si riferisce al sogno della rivoluzione. Mentre tutti questi revisionisti che vogliono buttare il '68 nell´immondizia non ricordano che tutto il mondo che viviamo oggi è stato immaginato nel '68. Dove è cominciata la trasformazione totale dei rapporti tra le persone? Io ero già adulto e ricordo bene un'Italia di piccole autorità, dovunque c'era qualcuno che ti diceva "silenzio, torna a posto"».
Un messaggio da trasmettere ai ragazzi di oggi, a chi non c'era?
«Assolutamente sì. Proprio perché dal momento in cui è caduto il Muro di Berlino si è cominciato a disprezzare la parola ideologia, c'è stata anche la caduta di interesse per la politica. Se la politica viene privata dell'ideologia diventa una disciplina per tecnici, e interessa molto meno. Oggi ideologia è una parolaccia. Mentre quello che era l'insulto del '68 è diventato il target da raggiungere, il riformismo. Madonna mia, quanti compromessi».
Come in Prima della rivoluzione anche qui si racconta una vigilia. Un "prima" il cui "dopo" ha condotto a ciò che racconta Bellocchio.
«Non mi sembra giusta l'equazione molotov-terrorismo. Non identificherei la molotov del finale del film con le Br. Marco non lo dice ma è tutto ancora terribilmente oscuro quello che è accaduto in quei giorni del rapimento, del processo, dell'esecuzione di Moro, io sento tremenda la presenza di servizi segreti. Qualcuno tra i brigatisti ha preso una strada molto losca. Io ero a Valle Giulia. Abitavo al Babuino, guardo giù e vedo il corteo avviato ad Architettura, scendo e mi unisco. Ho visto bruciare i pullman della Celere, ho visto i "cari studenti vi odio cari studenti" di Pier Paolo, ho preso una sassata da un poliziotto. Sarebbe come dire che non si può usare il fornello a gas perché è stato usato per l'Olocausto. Quelli che di più demonizzano il '68 lo fanno per ragioni strumentali legate al presente politico».
Quale dei suoi film più ha espresso lo spirito di quel momento?
«Credo proprio Prima della rivoluzione, che è del ´64. Per questo io nel '68, avendo vissuto quel tipo di emozione qualche anno prima, non potevo partecipare come hanno fatto amici e colleghi, quel tipo di estremismo era già consumato. Questo mi ha portato a momenti di tensione con Godard e con Bellocchio che erano procinesi militanti - La chinoise, La Cina è vicina - ed ero così irritato dal loro anticomunismo da sinistra che mi sono iscritto al Pci».
Quanto è significativo che alla fine quello dei tre personaggi che fa proprio il più autentico spirito del '68 sia proprio l'americano, in partenza è il più distante ed estraneo?
«Perché la sua non violenza era quella degli hippies ed era tipicamente americana. I loro falò dove bruciare le cartoline di richiamo per il Vietnam. Sorprende perché oggi gli americani appena possono dichiarano guerra a un paese, i francesi invece si tirano fuori. Io credo che questo sia anche un film sul presente. Tenevo molto che questi tre ragazzi, gli attori, restassero loro stessi. Un giovanissimo giornalista mi ha detto: questo è un film su di noi, io con Internet sto sempre in casa, come vorrei anch'io vivere quelle emozioni. Mi piace se i giovani lo sentono così».
Quindi il film soddisfa il desiderio che a varie riprese aveva espresso di tornare al presente: a partire dal suo giudizio sull'Italia politica di oggi, e sui movimenti di dissenso del presente?
«Io avevo molto desiderato di chiudere Novecento con un terzo atto sull'Italia dalla fine della guerra alla fine del secolo. Ma mi sembrava un falso. Novecento era nato in un momento speciale, di tensione ideale, che sarebbe stato stroncato dalla morte di Berlinguer e dal delitto Moro. Ho deciso di lasciar perdere. Quando ho letto questo libro di Gilbert Adair mi sembrava che contenesse una visione poetica così affascinante di quegli anni, quasi a riempire in me un buco lasciato dalla rinuncia a Novecento. Ho una specie di frenesia di fare un film sul presente, anche se il prossimo sarà quello su Gesualdo, finalmente. Ma anche lì giocherò molto sul presente-passato. C'è Stravinsky nel '51 a Napoli con sua moglie Vera che va a visitare i luoghi di Gesualdo, la casa di Napoli e il castello a Venosa. Per lui ascoltare Gesualdo nel contesto della musica del '500 è come, dice, vedere Picasso sulle mura della Sistina. Più sono attratto da storie che avvengono tanto tempo fa e più sento che devo arrivare a quel tanto tempo fa attraverso un cordone ombelicale legato all'oggi. Mi sono completamente arreso al fatto che l'unico tempo del cinema è il presente, perché la macchina filma il presente anche se davanti cè limperatore della Cina. Ti trovi davanti il presente di quei visi, quei corpi, quel giorno. Il cinema si coniuga solo al presente».

"psicoterapia" di guerra

Corriere della Sera 14.10.03
AL FRONTE
Il Pentagono arruola psicologi per curare il male oscuro dei soldati
Dopo 13 casi di suicidio, allarme per la stanchezza delle truppe in prima linea


(...)
C'è il fuoco nemico. Quello «amico» di chi uccide per errore un compagno in combattimento. E quello «molto amico» di chi decide di farla finita. E' la piccola storia di Corey Small, 20 anni, sposato, con una figlia di due. L'ha raccontata Usa Today: il 3 luglio in una base di Bagdad il soldato Small si è sparato un colpo alla testa dopo aver chiamato casa, davanti ai commilitoni in coda al telefono. Come lui, secondo i dati diffusi dallo Stato Maggiore della Difesa, negli ultimi sette mesi almeno 10 soldati e tre marines si sono tolti la vita in Iraq. Altri dodici decessi «sospetti» sono sotto inchiesta. Su base annua corrisponde a 17 suicidi ogni 100 mila militari. Di solito nelle forze armate (come nella popolazione civile) il tasso è di 10-13.
Nel 2002 è stato di otto. Quest'anno il doppio. L'Iraq peggio dell'Afghanistan. Dati che hanno indotto il Pentagono a inviare un team di dottori per indagare sul morale delle truppe. Un contingente di psicologi, psichiatri, assistenti sociali ha fatto parlare a ruota libera un campione di 700 soldati.
(...)

grandezza della psicologia anglosassone:
no all'innatismo, in un mese tutti ottimisti!

Gazzetta del Mezzogiorno 14.10.03
Lo psicologo inglese Richard Wiseman: bisogna alimentare un “circolo virtuoso” dell'ottimismo
Fortunati non si nasce, si diventa
Una scuola insegna a interpretare positivamente gli eventi
di Luisella Seveso


Fortunati si diventa: nessuno nasce con la camicia, ma si comporta in modo tale da “attirare” gli eventi positivi. Cosa aiuta? L'intuito, la serenità, la socievolezza e anche un bel sorriso. Lo sostiene (e lo motiva) un autorevole psicologo inglese, Richard Wiseman, dell'Università dell'Hertfordshire. Autore di importanti ricerche in campo psicologico (solitamente pubblicate da riviste del calibro di “Nature” o “Science”), Wiseman non è nuovo a esperimenti originali. Ha, tra l'altro, realizzato un “laboratorio della risata” on line , raccogliendo tra i navigatori oltre 100.000 barzellette per scoprire l'essenza dell'umorismo. Insieme con un altro grande divulgatore, Simon Singh, ha scritto e portato in scena uno spettacolo a metà tra scienza e cabaret: «Il teatro della Scienza». In questi anni Wiseman si è fatto inoltre promotore di un curioso esperimento scientifico condotto con il suo staff su oltre un migliaio di «sfortunati Paperini» e «fortunatissimi Gastoni» (nella foto gli straordinari personaggi Disney) . L'esperimento si è tradotto in un saggio di grande successo: «Fattore fortuna» (Sonzogno). Wiseman svela quelli che lui considera i quattro princìpi per imparare a essere fortunati (cogliere le opportunità offerte dal caso; seguire l'istinto; essere ottimisti; trasformare la sfortuna in fortuna). Un vero e proprio corso con esercizi, questionari, schemi e verifiche. Provare per credere. – Come è nata, dottor Wiseman, questa “scuola di fortuna”? «È successo che mi sono accorto che in tutti i colloqui che facevo emergeva spesso il fattore fortuna, al quale le persone davano un gran peso. Al contrario né la psicologia né la scienza gli attribuivano invece qualche importanza. Ho deciso allora di indagare». – Perché sostiene che non si nasce fortunati? «Ho iniziato questa ricerca perché volevo far piazza pulita di un'idea molto diffusa tra la gente: che la fortuna sia un fatto genetico e che non si possa far niente per modificare questo stato. Invece con un po' di impegno si può fare moltissimo». – Che significa «trasformare la sfortuna in fortuna»? «Le persone fortunate, quando parlano della propria vita, sostengono di non aver mai vissuto eventi fortemente negativi. Indagando ci si accorge invece che anche loro ne hanno avuti, ma che hanno saputo tradurli in qualcosa di positivo». – L'ottimismo è fondamentale, evidentemente, ma per un pessimista cambiare è molto difficile. «Vero. Ecco perché, come dico nel libro, ci vuole almeno un mese per ottenere i primi risultati. La cosa importante però è che il cambiamento si autoalimenta, l'importante è fare un primo sforzo. Basta in effetti cercare di vedere con più ottimismo anche una piccola parte della propria vita, e le cose lentamente cambiano. L'ho verificato nella mia “Luck school”: un piccolo lento cambiamento alimenterà un circolo virtuoso dell'ottimismo».

Ernesto De Martino

Il Mattino di Napoli 14.10.03
CICLO DI INCONTRI A MATERA E POTENZA
De Martino,
le apocalissi a Mezzogiorno
di Corrado Ocone


A cinquant’anni esatti dalla missione di Ernesto De Martino (1908-1965) nelle terre di Lucania, l’Università della Basilicata ha avuto la splendida idea di ricordare il grande antropologo con una serie di conferenze che si si svolgeranno fino al 7 novembre fra Matera e Potenza (con Massimo Cacciari, Ernesto Galli Della Loggia, Antonino Buttitta e Giovanni Jervis). Il titolo del ciclo, «Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche», riproduce fedelmente quello di un saggio che De Martino pubblicò nel 1964 su «Nuovi argomenti». È certamente un titolo pregnante, che testimonia una precisa scelta prospettica da parte degli organizzatori. Tanto più necessaria nel caso di una personalità poliedrica e non facilmente riducibile quale è stata quella dello studioso napoletano.
Al tema dell’apocalissi, cioè dell’attesa di un cambiamento radicale del mondo, De Martino lavorò nella fase più matura della sua vita di pensatore, quella che comincia nel 1959, l’anno in cui diventò professore di ruolo di Storia delle religioni nell’Università di Cagliari. È una tematica particolarmente attuale anche perché mette in gioco il rapporto fra la civiltà occidentale e le culture altre. È essa che permette a De Martino di elaborare la prospettiva dell’«etnocentrismo critico», che, con i dovuti accorgimenti, è sicuramente valida ancora oggi. Essa consiste in un modo di guardare la realtà che evita sia l’etnocentrismo classico di chi ritiene che i valori della nostra cultura siano da considerarsi «superiori» in assoluto e vadano senz’altro imposti alle altre civiltà, sia il relativismo di chi ritiene che ogni civiltà abbia valore in sé e vada rispettata e non giudicata con parametri di valore suoi non propri. Per de Martino è necessario certamente, da una parte, che la civiltà occidentale si storicizzi e faccia costantemente autocritica, ma anche, dall’altra, che essa non rinunci a denunciare le culture che contraddicano palesemente quei valori umanistici e di tolleranza che sono iscritti nel suo Dna.
De Martino, come ha messo in evidenza magistralmente Giuseppe Galasso, aveva subito profondamente, da giovane, attraverso Adolfo Omodeo, l’influsso crociano. Egli tuttavia, troppo curioso del mondo quale era, non si pose come epigono o ripetitore. Con la sua trasversalità di interessi, anche metodologici e disciplinari, De Martino andò anche oltre l’immagine crociana del «discepolo non inerte». Prese semplicemente altre strade. E discusse da pari a pari col Maestro, che, ormai vecchissimo, cominciò a dubitare, grazie anche all’influsso del giovane allievo, della saldezza e universalità delle sue categorie. Il ragionamento di De Martino era suppergiù questo: le categorie individuate da Croce, lungi dall’essere delle strutture universalmente umane, sono storicamente condizionate e determinate. E, prima dell’ambito razionale, c’è il campo prelogico della vita vissuta. In questa dimensione, l’umanità ha vissuto per lungo tempo, agli inizi della sua avventura, e vive oggi ancora in molte civiltà non occidentali. Non solo: la stessa nostra civiltà conserva tracce di «primitivismo», che vanno studiate e capite se si vuole afferrare veramente l’umano.
Il Sud, da questo punto di vista, offriva a De Martino un privilegiato terreno di indagine. In esso persistono vecchie tradizioni magico-religiose, di origine probabilmente pagana, che il cattolicesimo non ha saputo superare e ha dovuto, in qualche modo, integrare. Utilizzando strumenti di documentazione e analisi di tipo moderno, De Martino compì, negli anni Cinquanta, con una équipe di studiosi di varie discipline, tre missioni scientifiche nelle terre del Sud: una nel Salento, per cercare di capire il tarantismo, due in Lucania per studiare il complesso mitico-rituale delle fascinazione e le persistenze del pianto funebre. Il documentario «Nei giorni e nella storia», realizzato dalla Rai e presentato ieri pomeriggio all’Università di Matera, dà testimonianza proprio degli «itinerari lucani» dell’antropologo.

Manoel de Oliveira è a Roma

il manifesto 14.10.03
Manoel de Oliveira, il cinema e l'utopia
Un secolo di grande cinema, dal muto alla «globalizzazione». Premio Filmcritica 2003, il regista portoghese Manoel de Oliveira è a Roma. Ha affascinato l'Europa cercando di emulare, nella scrittura visiva, Camoes e Pessoa. E, a 95 anni, sarà presto sul set
di ROBERTO SILVESTRI


ROMA. Ogni film realizzato, dal `31 ad oggi, da "Aniki Bobo" a "Un film parlato", una sorpresa. Difficile intrappolarlo in una definizione, come quasi tutti i cineasti ribollenti che piacciono a Filmcritica, la più eccentrica rivista italiana, a tutt'oggi, di cinema. E che, dopo Clint Eastwood e Paul Scharder, assegna domani il suo premio annuale a Manoel de Oliveira, portoghese di Porto, classe 1908, autore di capolavori come "Il passato e il presente", "Amore di perdizione", "Benilde o la vergine madre". Oggi, alle ore 12, in cerimonia solenne al Campidoglio (nella adattissima sala Pietro da Cortona dei musei Capitolini, dedicata a uno dei tre grandi architetti della Roma barocca) l'assessore Gianni Borgna (è un cinephile poco hard il sindaco-critico Walter Veltroni?) gli consegnerà il premio Filmcritica. La vacanza romana del cineasta (ex atleta, per anni campione di canotaggio) è iniziata il 12, al teatro Argentina, quando ha presentato, applauditissimo sia prima che dopo la proiezione, la sua ultima opera, "Un filme falado" (Un film parlato) reduce dal concorso di Venezia e acida e crudele metafora della globalizzazione criminale.

Cineasta di idee e di passioni forti, Manoel de Oliveira è forse il più rosselliniano dei cineasti europei di oggi, per la serietà e libertà con la quale costruisce, sempre come «work in progress», i suoi elaborati giochi, «play» elisabettiani di straordinaria tensione e, coraggiosamente, sempre sull'orlo dell'abisso. Forse fin troppo emozionante la sua tastiera creativa, almeno per il pubblico accecato da piaceri schermici piccoli piccoli....

Diciamo che Manoel de Oliveira fa film d'avventura. Ma per adulti. E piuttosto profondi per i cine-burocrati che ci circondano abitualmente tra Rai e Cinecittà. In Italia non farebbe un film. Le sue sono avventure di profondità nella cultura e nella storia lusitana, nei riti popolari, nella fatica del lavoro salariato (Douro), nell'anarchia dei poetici ragazzi portegni, nella insorgenza delle donne (Benilde), nella scrittura sopraffina che cerca di emulare, con immagini degne di Camoes, Camilo Castelo Branco, Pessoa... Mai esotico, mai fiabesco, mai consolatorio. Artista concettuale? No, sarebbe troppo limitativo per una carriera sfavillante durante gli anni settanta, ma iniziata con il muto e ammutolita dal fascismo salazariano illetterato, e molto segnata dal formalismo sovietico e dalle avanguardie storiche, poi dispiegata interamente, dopo la rivoluzione dei garofani, al ritmo di un film all'anno, fino a oggi. Grazie anche all'appoggio di un produttore mecenate del calibro e dell'intelligenza di Paulo Branco.

Arzillo novantacinquenne, oggi, de Oliveira è in già procinto di tornare sul set, argomento il «mito di re Sebastiano», il sovrano scomparso sul campo di battaglia per difenderci dai Mori....Certo che i suoi film rischiano sempre di essere «troppo» letterari, teatrali, addirittura operistici, «fredde riproduzioni», fiancheggiatori, come sono, di drammi, melodrammi, classici, rappresentazioni sacre o romanzi di alta qualità. E invece Manoel de Oliveira, nato in una metropoli dall'architettura granitica e barocca, è proprio così, un regista contemporaneamente rarefatto e disumano, fino alla trascendenza formale, e contemporaneamente sensuale, passionale, commuovente, ironico, sarcastico, di umorismo «celtico»: un alchimista che lavora i materiali di partenza trasformando e «reificando» tutto, fino a renderle «il verbo carne cinematografica».

Insomma è indocile alle imbragature d'autore, alle costanti stilistiche d'origine controllata, alla rendita parassitaria dei tanti artisti di regime che controllano in Europa i finanziamenti pubblici. De Oliveira infastidisce i burocrati perché è un regista commerciale. È amato dal pubblico (certo, di tutto il mondo). Lo rispetta. Ha maltrattato le ipocrisie e i crimini della classe politica portoghese di centro destra e di centro sinistra molto prima che i recenti scandali (pedofilia) distruggessero il partito socialisto di Sampaio. Ha conquistato come pochi la fiducia di chi va al cinema per ripetere un rito sempre differente. Conoscere le cose dal di dentro. Attraverso documentari, propri e impropri.

a Ravenna un Corso sul cinema di Marco Bellocchio,
con qualche evidente limite però...

CORRIERE Romagna martedì 14 ottobre 2003
Edizione di: RAVENNA
Il cinema nella storia Corso su Bellocchio


Ravenna - Lezioni di cinema in vista del Festival dei registi emiliano-romagnoli. La quinta edizione della manifestazione ravennate, in programma dal 7 al 13 novembre, sarà dedicata a marco Bellocchio. Contemporaneamente il Comune di Ravenna, in collaborazione con la Provincia e la regione Emilia Romagna, organizza un ciclo di lezioni dedicate all’aggiornamento e alla qualificazione professionale in campo didattico. Il calendario delle lezione prevede quattro appuntamenti - tutti in programma in via di Roma 69 dalle 17 alle 19 - a partire da giovedì prossimo quando il critico cinematografico Pierpaolo Loffreda terrà la prima lezione sul cinema di Bellocchio da "I pugni in tasca" a "La Cina è vicina". Seguirà il 23 ottobre un incontro con Tiberio Pedrini che illustrerà l’impegno intellettuale-politico del regista piacentino. Giovedì 30 ottobre Chiara Pioppo commenterà “La Balia: la novella di Pirandello e il film di Bellocchio”. Il giovedì successivo il critico Loris Lepri presenta “Un salto nel vuoto”, mentre il giorno successivo, il 7 novembre, si terrà l’incontro conclusivo che vedrà la partecipazioni dei critici cinematografici Tullio Masoni, Gualtiero De Santi e Giacomo Gabetti, e dello stesso regista Marchio Bellocchio. Per iscrizione ai corsi è possibile telefonare, entro domani, allo 0544 35142.

il cinema di Bellocchio a Caracas a Dicembre, e in India:
ma perché non "Buongiorno, notte"?

Liberazione 14.10.03
Il nuovo cinema italiano a dicembre a Caracas


Presso la Cinamateca Nacional di Caracas, Venezuela, si aprirà il prossimo 2 dicembre la prima rassegna cinematografica sul Nuovo Cinema Italiano. La rassegna comprenderà alcune fra le opere del nostro cinema piò premiate in ambito europeo come ad esempio "Respiro" di Emanuele Crialese che sarà presente alla rassegna, "Il mestiere delle armi" di Ermanno Olmi e "L'ora di religione" di Marco Bellocchio. Aprirà la rassegna "Il mio viaggio in Italia" di Martin Scorsese.

The Times of India
TIMES NEWS NETWORK [SUNDAY, OCTOBER 12, 2003 03:28:21 PM]
The Italian connection


He’s an Indian film aficionado with a difference. Luca Marziali, the director of the River to River Indian film festival in Florence, discusses the magic of the movies. (...)
Marziali, who first came to India in 1984, has been here at least 15 times since. He was recently in the country to scout for Indian feature and documentary films for his festival, as well as to coordinate "New Italian Eyes", a package of Italian films that will travel to India for the international film festivals of India (Delhi, Mumbai, Kolkata and Thiruvananthapuram). Besides, he coordinated a package of Indian films at the recent Namaste India programme held during the Fashion Week in Milan. (...)
The New Italian Eyes package coming to the Indian festivals include Marco Bellocchio’s "L’ora di religione" (My Mother’s Smile), Gabriele Muccino’s Come te nessuno mai (But forever in my mind), Ettore Scola’s Concorrenza Sleale (Unfair competition), and two films by the maestro Pietro Germi – A Bad Swindle and Ladies and Gentlemen. (...)

domenica 12 ottobre 2003

sul Domenicale de Il Sole 24ore (in edicola domenica 12.10):

Una lettera di Paolo Izzo dal titolo "Ridare dignità ai sogni", pag. 2.

(qui di seguito la lettera di Paolo Izzo al prof. Paolo Rossi pubblicata oggi, la risposta di quest'ultimo apparsa anch'essa oggi, e la recensione del 28.9 alla quale questo carteggio si riferisce)

la lettera pubblicata oggi:

Egregio Paolo Rossi,

dal momento che Lei accenna alle “timide riserve” concesse ai “non specialisti”, mi permetto di proporLe un punto di vista intorno al Suo commento del libro di Luciana Repici e non, come sarebbe più ovvio, intorno al libro stesso. Anzi, Le dirò di più: non leggerò il saggio in questione soprattutto perché è stato Lei, Suo malgrado(?), a sconsigliarmelo.
Innanzitutto per parlare di sogni non ha utilizzato mai la parola “inconscio”, ripiegando su un’anima… buona per tutte le stagioni! Delle due l’una: o questo semplice termine non è proprio presente nel testo di Repici oppure Lei non si è lasciato andare abbastanza, rimanendo su un piano tutto razionale (il che, per l’onirico, non va bene).
Secondo, non mi ha mai sedotto l’idea di Platone circa l’invio dei sogni da parte di un dio, né quella di Aristotele per cui sarebbero “demonici” gli influssi che inducono a sognare: le considerazioni a proposito degli animali essendo ancor più fuorvianti dal momento che nessun animale ha mai dichiarato di aver fatto un sogno! Non mi lascio ingannare dal Suo riferimento alla pratica dell’incubazione per colmare “la distanza che ci separa dal mondo antico”, né mi intimidisce l’accenno all’immancabile Freud e a come egli sia rimasto affascinato dall’affermazione di una sostanza demonica della natura: che cosa aspettarsi da uno che considerava il neonato come un perverso e l’inconscio come un mondo inconoscibile?
In ultimo, non riesco a concordare con chi alluda ai sogni come a qualcosa di dipendente dal caso, ossia da cause accidentali e indeterminate”, lasciando credere che causale è uguale a casuale…
Credo, piuttosto, che lo studio della psiche umana non abbia fatto e non faccia grandi passi proprio perché si porta dietro questi concetti vetusti e astrusi (che Freud in primis ha avallato e enfatizzato)!
Fino a quando si parlerà dei sogni come qualcosa che arriva dall’ultraterreno; fino a quando l’inconscio rimarrà uno strumento perverso nelle mani di una natura demonica, preda di visioni, divinazioni e cause accidentali; fino a quando si preferirà credere che i sogni siano buoni soltanto per giocare i numeri al lotto, allora la psichiatria rimarrà nelle sabbie mobili dell’impotenza.
Per contro, preferisco stare con chi considera i sogni come immagini che nascono nell’inconscio -  prerogativa dell’essere umano - e che sono il frutto dei rapporti interumani.
Paolo Izzo

la risposta di oggi del prof. Paolo Rossi:

Egregio Paolo Izzo,

la ringrazio molto per il suo intervento e le dico subito che sono del tutto d’accordo con la preferenza che lei esprime al termine della sua lettera. La sua scelta finale è anche la mia. Tra la convinzione che i sogni arrivino dall’al di là e servano per giocare al lotto e, all’opposto, la convinzione che si tratti di immagini che nascono nell’inconscio, anch’io non ho dubbi e decisamente e senza tentennamenti “preferisco stare” con coloro che sostengono quest’ultima tesi. Sia detto fra parentesi: avrei qualche dubbio solo sull’espressione finale «e che sono il frutto dei rapporti interumani». Non credo infatti che allo stato attuale delle nostre conoscenze sui sogni si possa senz’altro affermare che quelle immagini siano sempre e comunque espressione o frutto di quei rapporti.
Sul resto della sua lettera cercherò di esporre il mio punto di vista. In primo luogo mi dispiace di aver distolto qualcuno dalla lettura di Aristotele. Perché il libro di cui ho parlato sul Sole-24 Ore è stato scritto da Aristotele e non da Luciana Repici che lo ha tradotto, annotato e introdotto. Lei mi critica per non aver mai usato la parola inconscio e per aver «ripiegato» sul termine anima. Quando ho usato questa parola, l’ho fatto in un contesto che diceva: «Platone pensa che nel sonno l’anima percepisce cose che non sapeva prima eccetera». Perché mai avrei dovuto usare il termine inconscio per dire che cosa pensava Platone? La nozione di inconscio si affaccia nella storia della filosofia a partire da Leibniz e diventa esplicita con Schelling e i filosofi e gli scienziati del Romanticismo. Fra Platone e Leibniz intercorrono venti secoli ovvero duemila anni. Credo che molte delle sue impressioni negative nascano da un equivoco che dipende (sono senz’altro disposto a riconoscerlo) da insufficiente chiarezza da parte mia.
Debbo tuttavia correggere un punto: non ho mai parlato della pratica dell’incubazione «per colmare la distanza che ci separa dal mondo antico». Al contrario. Ho infatti scritto che, se pensiamo a quella pratica, «giungiamo a percepire la incolmabile distanza che ci separa dal mondo antico». Tutta la prima parte della mia recensione non parlava del testo curato da Luciana Repici, ma era precisamente diretta a chiarire questo punto. Voleva servire a dare a un lettore non specialista in psicologia o in storia antica, il senso di una distanza. Chiarivo che nel nostro passato (nonché in molte altre civiltà) i sogni sono stati interpretati non come fatti privati o espressioni di una coscienza singola, ma come racconti che contengono verità o previsioni. Per questo avevo accennato a Ernesto De Martino (un autore di cui Repici non parla) e alla sua definizione della nostra civiltà come una «civiltà della veglia». Tra i padri fondatori della civiltà della veglia va annoverato proprio Freud (sul quale, probabilmente, abbiamo idee molto diverse). Freud scrisse: «Il sogno è un prodotto psichico assolutamente asociale; non ha niente da comunicare ad altri; sorto all’interno di una persona come compromesso tra le forze psichiche che vi si combattono, resta incomprensibile anche a questa persona e pertanto è privo di qualsiasi interesse per gli altri».
Un conto è leggere un nostro contemporaneo e un altro conto è leggere un testo del passato. Quando leggiamo Platone o Aristotele o un altro classico dobbiamo sapere in anticipo che vi troveremo affermazioni molto distanti dal nostro modo di pensare e anche affermazioni che ci colpiranno per la loro inattesa attualità. La storia nasce dalla curiosità di sapere da dove vengono le cose che pensiamo e di capire che molte cose pensate sono state poi abbandonate. Serve a dare, insieme, il senso della distanza e della vicinanza. Come aveva capito molto bene René Descartes assomiglia molto al viaggiare in un Paese straniero. Ma viaggiare non è obbligatorio e si può egregiamente vivere anche senza aver mai letto un testo di Platone o di Aristotele.
Paolo Rossi

la recensione del 28.9 alla quale il carteggio precedente si riferisce:

STORIA DELLE IDEE / Quando i sogni erano veri
di Paolo Rossi
“Domenica” de Il Sole 24 Ore – 28 settembre 2003


Quando, nel sogno di Penelope, l’aquila (che è il simbolo di Ulisse) piomba sulle oche (che sono il simbolo dei Proci) e le stermina, è indubbio che né l’autore di quei versi, né il lettore facevano riferimento a processi soggettivi presenti nella mente di Penelope. La nostra, diceva Ernesto De Martino, è una civiltà della veglia. Siamo così fortemente abituati a pensare al sogno come espressione di una coscienza singola, a considerare i sogni un fatto privato che facciamo fatica a renderci conto del fatto che non solo il sogno di Penelope, ma innumerevoli altri sogni, in un passato non troppo lontano e all’interno di una straordinaria pluralità di culture, furono concepiti come racconti che contengono verità o attendibili previsioni di eventi futuri. I sogni, come è scritto nel settimo dell’Eneide consentono di entrare a colloquio con gli dèi e di interrogare Acheronte nel profondo Averno.
Giungiamo a percepire la incolmabile distanza che ci separa dal mondo antico se pensiamo alla pratica della incubazione che ha remotissime origini e si diffuse in Grecia a partire dalla fine del quinto secolo. Consisteva nel sottoporsi a pratiche di purificazione per poi addormentarsi in un recinto sacro destinato a questo scopo, nell’attesa di essere visitati in sogno dal dio o dall’essere sovrannaturale legato al luogo prescelto.
Platone pensa che nel sonno l’anima percepisce cose che non sapeva prima, sia nel passato e nel presente, sia nell’avvenire. Riconduce le immagini dei sogni ad apparenze prodotte dalla divinità, crede che i sogni abbiano valore profetico e divinatorio. Come lucidamente spiega Luciana Repici nella Introduzione, Aristotele adotta invece un modello meccanico di tipo democriteo e si distacca con forza da queste posizioni. C’è un passo, nel testo intitolato La divinazione durante il sonno del quale molti hanno sottolineato la “modernità”. Dato che anche gli animali sognano, scrive Aristotele, i sogni non possono essere inviati dalla divinità. Uomini del tutto semplici sono capaci di previsioni, non perché la divinità ha inviato loro dei sogni, ma perché tutti coloro che hanno natura ciarliera e melancolica hanno una grandissima quantità di visioni. Per questo, così come capita di imbroccarla a coloro che giocano a pari e dispari, hanno, ogni tanto, visioni che corrispondono agli eventi reali. I sogni non sono mandati da un dio, ma - afferma Aristotele in quelle stesse righe (e l’affermazione piacque molto a Freud) - «sono tuttavia demonici, perché la natura è demonica, non certo divina».
Repici ritiene che “demonici” significhi «dipendenti dal caso, ossia da cause accidentali e indeterminate». Se anche ai non specialisti è concesso di avanzare timide riserve, ho l’impressione che in questo caso si vogliano troppo rapidamente eliminare ambiguità. In uno dei testi qui contenuti Aristotele afferma che sugli specchi molto lucidi si produce una macchia rossastra quando vi gettano sopra lo sguardo donne nei giorni delle mestruazioni. Ma Repici conosce molto bene i testi e conclude una delle due preziose appendici con questa affermazione: «dalla tradizione emerge un Aristotele dai molteplici volti, che pone problemi non indifferenti a chi voglia tentare di ridurne le diverse immagini a unità». In questa edizione, che ha il testo a fronte, Luciana Repici ha accuratamente tradotto e ampiamente commentato altri due testi di Aristotele: Il sonno e la veglia, I sogni. Il tutto seguito da un’ottima bibliografia. Un’impresa meritoria.

Aristotele, Il sonno e i sogni, a cura di Luciana Repici, Venezia, Marsilio, pagg. 206, € 12,00.

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dallo stesso supplemento del Sole di oggi, di qualche interesse sono anche questi altri articoli (per la disponiblità dei quali ringrazio Paola D'Ettole):

Dalle riflessioni settecentesche alla psicologia cognitiva, un fenomeno centrale della percezione
Quelle ombre illuminano il pensiero
Importante saggio di Michael Baxandall
Roberto Casati


Michael Baxandall è uno storico dell'arte che fa dell'interdisciplinarità uno stile di lavoro rigoroso. I suoi contributi interessano non solo gli storici dell'arte, ma chiunque si occupi di immagini da un punto di vista scientifico. Nella sua ricerca ha tentato da un lato di situare la produzione delle immagini in contesti sociali ed economici ampi, in cui si dà il giusto peso alla nozione di abilità pittorica e di controllo da parte della committenza, e d'altro lato ha trattato dell'ascrizione di intenzioni al pittore (che cosa voleva dire dipingendo quel quadro in quel modo?) e del metodo in cui controlliamo questa ascrizione, ovvero di che cosa permette di dire che si è interpretato correttamente un quadro. In un certo senso Baxandall ha ripreso e approfondito la lezione di Gombrich, e come accadeva per quest'ultimo, i suoi testi contengono ricchissimi spunti di riflessione filosofica.
Ombre e lumi è la traduzione di un magnifico libro del 1995, "Shadows and Enlightenment". Completa una piccola collezione di opere oggi disponibili al lettore italiano sull'ombra nella pittura, una collezione che include "Ombre" di Gombrich (sempre da Einaudi) e "Breve storia dell'ombra" di Victor Stoichita (Il Saggiatore). Si distanzia da questi due contributi soprattutto per l'approfondimento del versante cognitivo della percezione dell'ombra; tanto di quella reale che di quella raffigurata nei quadri. In effetti le ombre e le loro raffigurazioni costituiscono un caso privilegiato per lo studio dei rapporti tra arte e scienze cognitive. Si tratta di fenomeni relativamente semplici dal punto di vista fisico e geometrico e relativamente ben studiati dal punto di vista psicologico (a differenza di fenomeni più complessi, come l'espressione delle emozioni) e per i quali esistono una ricca casistica e una altrettanto ricca trattatistica.
I pittori, almeno dal Rinascimento in poi, sono stati affascinati dalle ombre. Baxandall racconta questa fascinazione seguendone delle tracce relativamente tarde: le discussioni illuministiche sulla percezione visiva - se la percezione della forma sia innata o acquisita -, e in che modo le ombre vi contribuiscano; gli studi attuali di visione artificiale; e i percorsi figurativi e teorici di pittori come Piazzetta, Tiepolo, Chardin e Leonardo.
Uno dei meriti non secondari del libro è di offrire una sintesi molto chiara di quanto è stato scritto in visione artificiale sul problema della ricostruzione di una scena visiva a partire da un semplice disegno al tratto. Il disegno al tratto di uno spigolo è ambiguo: lo spigolo potrebbe apparirci come visto indifferentemente dall'interno o dall'esterno: puntare verso di noi o aprirsi davanti ai nostri occhi. Aggiungere un'ombra e localizzare la fonte di luce risolve l'ambiguità, e per questo gli studiosi di visione artificiale hanno dedicato tanta importanza alle ombre e al loro potenziale di informazione. Baxandall mette a confronto questo tipo di studio dell'informazione con i primi incerti tentativi, da parte dei filosofi del Settecento, di render conto della complessità del contenuto visivo scomponendolo nei suoi ingredienti atomici. Come si fa a capire che una certa regione del quadro è un'ombra, se in fondo è solo una macchia di colore come ogni altra? In entrambi i casi Baxandall mostra in modo convincente come il terreno per questi studi sia stato dissodato dai pittori che hanno saputo analizzare la complessità della scena visiva riducendola a un gioco di modificazioni locali di luce. Il modello pittorico, potremmo dire, è ben presente nella mente del filosofo; con tutti i vantaggi e gli svantaggi che possono derivare dall'assimilazione della percezione visiva alla contemplazione di un'immagine.
Il capitolo più affascinante del libro è l'ultimo, che esplora l'aspetto paradossale delle ombre, da sempre condannate a un ruolo subalterno per l'attenzione visiva a dispetto del fatto che sembrano essere così importanti per la percezione della forma. In pratica il sistema visivo, una volta utilizzate le ombre per risolvere le ambiguità di forma, le abbandona a se stesse, e solo dirigendo l'attenzione su di esse riesce a farle affiorare alla coscienza. É anche qui che si mostrano i limiti dell'analisi di Baxandall, che peraltro sono solo i limiti temporali della sua ricerca. Negli ultimissimi anni gli psicologi della percezione hanno mostrato che, nonostante vi sia la possibilità di utilizzare le ombre per ricostruire le forme, non è questa la strada che il sistema visivo segue di preferenza; a volte percepisce le forme a dispetto di quanto suggerito dalle ombre. In questo senso l'insistenza sul modello della visione artificiale è fuorviante. Il sistema visivo umano non funziona come un sistema artificiale, e le soluzioni ottimali di un problema cognitivo dal punto di vista ingegneristico possono non trovar riscontro nel relativo disordine della macchina che abbiamo ereditato dai nostri antenati biologici.
Questo appunto non toglie nulla alla ricchezza del testo di Baxandall, che in alcuni passaggi, non solo quando descrive con maestria le opere d'arte, si fa latore di una tradizione di analisi fenomenologica oggi dimenticata, in cui la resa accurata di ogni dettaglio è un'arte prima ancora che un imperativo scientifico.
Michael Baxandall, «Ombre e lumi», traduzione di Michele Dantini, Einaudi, Torino 2003, pagg. 218, 28,00.

Evoluzionismi - Il saggio di uno dei maggiori esperti mondiali sulle origini degli esseri viventi sulla Terra
La vita (forse) è nata così
Il ritrovamento delle tracce di organismi cellulari microscopici antichi di più di 3 miliardi di anni permette di formulare nuove ipotesi affascinanti
di Gilberto Corbellini


Nell'edizione del 1859 dell'Origine delle specie, Charles Darwin riconosceva che la principale sfida alla sua teoria dell'evoluzione era rappresentata dal fatto che i resti fossili più antichi erano forme di vita marina già piuttosto complesse. Darwin non era in grado di spiegare l'assenza di fossili precedenti a questi organismi, ma aveva ben chiaro che quella non era la vita nelle sue forme originarie. Quali caratteristiche avesse la vita sulla terra durante il cosiddetto Precambriano, cioè negli oltre tre miliardi e mezzo di anni precedenti il Fanerozoico, l'età della vita animale visibile compresa negli ultimi 550 milioni di anni, è stato a lungo considerato un problema insolubile.
Ne La culla della vita Schopf racconta in modo coinvolgente i tre decenni di ricerche che hanno consentito a lui e ad altri ricercatori di risolvere il dilemma di Darwin e portare alla luce forme di vita risalenti a circa tre miliardi di anni fa. E fornisce un quadro davvero ricco e soprattutto facilmente comprensibile dell'evoluzione della vita sulla terra. Più che sulle origini della vita, di cui Schopf comunque presenta le principali teorie, il libro si concentra su come la vita è cambiata e ha cambiato la terra nel tempo. Per la maggior parte del primo 85% della sua storia la terra fu popolata da microbi del tipo delle schiume che si vedono sugli stagni (pond scum). I fossili di questi antichi batteri erano ovviamente presenti nelle rocce, ma non si potevano osservare con gli strumenti convenzionali. Schopf e altri hanno trovato le tracce di organismi cellulari microscopici antichi di circa 3,5 miliardi di anni, aprendo la strada a una nuova fase della ricerca, in grado di riempire i vuoti per quanto riguarda diversi aspetti del come la vita si è evoluta sulla terra. Nel marzo del 2002 Schopf ha ulteriormente confermato, utilizzando una tecnica combinata del tutto innovativa che consente mediante un particolare laser allo stesso di visualizzare e analizzare chimicamente il contenuto delle rocce, la natura biologica di questi fossili microscopici.
Professore di paleobiologia e direttore dell'Igpp (Institute of geophysics and planetary physics) Center for the Study of Evolution and the Origin of Life, Schopf è diventato un punto di riferimento internazionale per le ricerche sull'origine della vita. Le sue competenze spaziano tra l'altro dalla geologia alla microbiologia alla chimica alle paleontologia e ha accumulato una quantità impressionante di cariche, onorificenze e premi.
La scoperta di queste prime forme organiche, per Schopf, dimostra che la vita non si è sempre evoluta come si è pensato e che l'evoluzione stessa è andata incontro a un'evoluzione. Il punto di svolta nell'evoluzione dell'evoluzione sarebbe stato l'arrivo del sesso, circa un miliardo e 100mila anni fa. Il primo organismo che intraprese un'attività sessuale era una cellula flottante di plancton che, diversamente dagli organismi che si riproducevano per divisione asessuale, come le cellule del nostro corpo, aveva un meccanismo in grado di rilasciare cellule sessuali nell'ambiente. I dati dei reperti fossili mostrano chiaramente che intorno allo stesso periodo comparvero nuovi generi e specie. Il sesso aumentò la variazione all'interno delle specie, la diversità tra le specie e rese più veloce l'evoluzione e la genesi di nuove specie, realizzando non solo l'emergere di organismi adattati in modo speciale a particolari contesti ma anche la prima apparizione di estinzioni di massa. Il mondo prima del sesso era più monotono, noioso e statico, secondo Schopf, mentre ogni organismo nato dalla riproduzione sessuale conteneva un mix che non era mai esistito prima.
La tesi che l'evoluzione sia stata estremamente più lenta nel Precambriano è in realtà un'ipotesi per nulla dimostrata e al momento non confutabile, dato che di quelle prime forme di vita restano solo tracce di forme e non siamo quindi in grado di misurarne il tasso di cambiamento evolutivo. Né possiamo assumere con troppa disinvoltura, come fa Schopf, alcune forme di vita esistenti e apparentemente primitive, come i cianobatteri, quali modelli di quelle più arcaiche. Cosa ci garantisce infatti che non esistessero organismi estinti e di cui non abbiamo tracce che evolvevano a ritmi simili a quelli del Fanerozoico?
Schopf cerca di mostrare anche il lato umano della scienza, dedicando in particolare due capitoli a due famose "stecche". Nel 1725 il medico e naturalista svizzero Johann Jacob Scheuchzer scopriva lo scheletro parziale di un grande animale vertebrato nella pietra calcarea, che secondo lui era la prova di un uomo affogato nel diluvio di Noè. La scoperta fu considerata la prova irrefutabile che la Bibbia aveva ragione fino a che, quasi un secolo dopo, ci si rese conto che si era scambiato per umano il fossile di una salamandra gigante. L'altra "bufala" riguarda la recente controversia, esplosa nel 1996, circa la pretesa prova dell'esistenza della vita su Marte in un meteorite caduto nell'Antartide 13mila anni fa. Schopf contribuì a smascherare il falso scoop.
Schopf ritorna spesso sul concetto che gli scienziati hanno le stesse debolezze di chiunque altro e le stesse capacità di fare errori. E nel libro lo dimostra in prima persona. Per esempio, quando giudica un fiasco la prima scoperta dei più antichi fossili che lui stesso effettuò in Australia nel 1983, insieme a due colleghi, per accreditare invece il suo articolo del 1993 come la vera scoperta. Sarebbe come affermare che la scoperta del Dna nel 1869 fu un fiasco perché solo nel 1944 si è potuto dimostrare a cosa serve! L'edizione italiana riproduce inoltre alcuni errori presenti nell'originale. Nella figura a pagina 63 la Nova Scotia e New Brunswick sono disegnate come se appartenessero agli Stati Uniti, mentre sono regioni canadesi. Inoltre, egli afferma che l'anidride carbonica funziona come i vetri di una serra, trattenendo il calore e immagazzinandolo nei legami chimici che saldano tra loro i suoi atomi: in realtà l'anidride carbonica assorbe la radiazione infrarossa e la converte in calore nell'atmosfera, mentre le finestre di una serra mantengono semplicemente l'aria calda all'interno.
J. William Schopf, «La culla della vita», Adelphi, Milano 2003, pagg. 500, 32,00.

Arti e scienze - Semir Zeki rilegge le principali correnti pittoriche alla luce degli studi sul cervello umano
Henri Matisse e altri neurologi
Vermeer, Leonardo, Michelangelo, i cubisti e i aiutano a capire i meccanismi attraverso cui la nostra mente conosce il mondo esterno isolandone i tratti essenziali
di Armando Massarenti


Quando Leonardo scriveva, nel suo "Trattato di pittura", che, tra tutti i colori, i più gradevoli sono quelli in contrasto tra loro, non sapeva di aver enunciato in questo modo una verità fisiologica. Egli, a dire il vero, non avrebbe saputo dire bene quali colori erano da considerarsi opposti tra loro. Ma l'intuizione era giusta. Nel 1956 infatti due studiosi (Svaetichin e Jonasson) scoprirono che le cellule cerebrali eccitate dal rosso sono inibite dal verde, quelle eccitate dal giallo sono inibite dal blu e quelle eccitate dal bianco sono inibite dal nero (e viceversa). Altre intuizioni generalissime, e condivise nella pratica dai pittori di ogni tempo, come quella per cui la percezione dei colori è influenzata dal contesto in cui si trovano, hanno avuto recentemente delle conferme empiriche. Così oggi è possibile vedere che le cellule sensibili ai colori modificano radicalmente le loro reazioni a seconda dello sfondo su cui è collocato un colore.
Un libro come quello di Semir Zeki sarebbe stato inconcepibile se negli ultimi decenni non si fosse assistito al moltiplicarsi degli esperimenti, molti dei quali condotti dallo stesso autore, volti alla scoperta dei meccanismi del cervello. Se fosse uscito vent'anni fa, La visione dell'interno, che si propone di abbozzare una neuroestetica, cioè una scienza dei rapporti tra arte e cervello, sarebbe stato salutato con un misto di sconcerto, di irrisione e di irritazione. Dato il clima "culturalista" e "relativista" di allora - ma che sopravvive ancora tra molti esponenti della cultura umanistica - l'idea di cercare delle vere e proprie leggi di natura capaci di spiegare su base biologica i meccanismi universali dell'apprezzamento estetico sarebbe stata vista come una folle ripresa di un positivismo ormai screditato da tempo. Ma, per fortuna, i tempi stanno cambiando.
Il libro di Zeki comunque non è che un «abbozzo», un tentativo di ordinare tutto ciò che si sa sul rapporto tra arte e cervello all'interno di una teoria aggiornata dei meccanismi della visione. Negli ultimi anni è stato dimostrato che la visione è un processo attivo e dinamico. Come del resto aveva intuito Matisse, «vedere è già un'operazione creativa che richiede uno sforzo». Questo sforzo è volto a identificare le caratteristiche specifiche e stabili del mondo, che sono le uniche che vale la pena di conoscere. «Il cervello - scrive Zeki - è interessato solo alle proprietà costanti, immutabili, permanenti e specifiche degli oggetti e delle superfici del mondo esterno, perché sono queste proprietà che gli permettono di ordinare gli oggetti per categorie. Ma l'informazione che arriva dal mondo esterno non è mai costante, anzi è in continua fluttuazione. Vediamo oggetti e superfici da distanze e angoli diversi e in differenti condizioni di luce»: il verde di una foglia cambia continuamente a seconda che la vediamo di mattina di pomeriggio o di sera, quando c'è il sole o quando piove, eppure riconosciamo che si tratta sempre dello stesso verde. La visione è un processo neurale "attivo" che . Per tale processo è stata individuata una specifica area del cervello, espressamente deputata alla visione. Accanto a un'area visiva primaria ne esistono anche altre (specializzate nel riconoscimento di forme, colori, movimento ecc. ) il cui coinvolgimento è essenziale per una visione normale degli oggetti in condizioni di continua variabilità. Il che dimostra ulteriormente il carattere dinamico della visione. «Il cervello - scrive Zeki - nella sua ricerca di conoscenza del mondo visivo, opera una scelta tra tutti i dati disponibili, e confrontando l'informazione selezionata con i ricordi immagazzinati, genera l'immagine visiva, con un procedimento molto simile a quello messo in atto da un artista».
Il quale è un neurologo senza saperlo, come Zeki cerca di mostrare analizzando, con esperimenti ingegnosi, le reazioni delle cellule cerebrali a diversi episodi della storia dell'arte, spaziando dalle interpretazioni neurobiologiche di Vermeer e Michelangelo alla critica del cubismo, dalla «neurofisiologia della linee orientate» e «dei quadrati e dei rettangoli» in Mondrian e Malevic a distinzioni quali quella tra arte astratta e figurativa, passando per l'analisi della capacità di riconoscere i volti e di percepire correttamente i colori, e degli effetti dell'arte cinetica e dei rapporti tra forma e colore.
Gli artisti sono dei neurologi tendenzialmente "platonici, come secondo Zeki è di fatto il nostro stesso cervello, ma talvolta si impegnano in progetti in contrasto con i normali meccanismi della visione. Come nel caso dei fauves, che hanno cercato di «liberare» il colore dalla «schiavitù della forma». Nella vita quotidiana il nostro cervello è abituato a vedere associati in certi oggetti un certo colore e una certa forma. Quando vede un oggetto o una forma di un colore non usuale - una banana blu, per esempio - si attivano delle parti del cervello che segnalano una contraddizione (che poi viene interpretata e corretta). Non è difficile immaginare dunque cosa potrà capitare davanti a un quadro di Matisse. Il progetto di una neuroestetica in fondo è indistinguibile dallo studio dei modi in cui il nostro cervello ci aiuta a conoscere la realtà che ci circonda.
Semir Zeki, «La visione dall'interno. Arte e cervello», Bollati Boringhieri, Torino 2003, pagg. 270, 45,00.

sabato 11 ottobre 2003

la mostra di Parma:
parla Marco Bellocchio

Libertà 11.10.03

«Una pratica che mi serve per catturare le immagini che ho in mente»
Tra gli schizzi anche quelli per un film sul Rigoletto mai girato: «Ma potrebbero servirmi per la regia teatrale al Municipale»


(o. m.) La sera dell'inaugurazione della sua mostra Quadri. Il pittore, il cineasta nella Galleria delle Colonne del parmense Centro Culturale Edison, Marco Bellocchio ha conversato con noi della sua precoce vocazione di pittore «continuata con altri mezzi» fra le pieghe della sua carriera cinematografica. Che lei avesse dipinto in gioventù, e che avesse realizzato di suo pugno i quadri attribuiti al protagonista di «L'ora di religione», era risaputo. Non tutti sapevano, però, che lei ha lavorato alla preparazione di tutti i suoi film stendendo disegni e bozzetti anche molto accurati come quelli esposti in questa mostra. «Quando sto progettando un film lavoro meglio disegnando che scrivendo: attraverso il disegno catturo le immagini che ho in mente, le elaboro, le sviluppo. E' un lavoro che finisco poi per dimenticare nel momento del ciak, nel senso che le sequenze girate possono discostarsi anche notevolmente dalle immagini fissate sulla carta, ma che mi è molto utile». In questi «cartoni» di pellicole future colpisce, comunque, l'evoluzione del segno e dell'invenzione attraverso gli anni: si va dagli schizzi elementari fatti per «I pugni in tasca» alle elaborate scene a colori che preparano «Il sogno della farfalla» e «Il principe di Homburg», fino alla fantasia a briglie sciolte dei disegni per «Buongiorno, notte». «E' vero. Il fatto è che, accostandomi al cinema, avevo dato un taglio netto alla pittura: era stato praticamente un rifiuto. Per questo, ai tempi di I pugni in tasca, disegnavo i bozzetti in fretta, quasi di malavoglia. Più avanti, invece, avrei riscoperto il piacere del disegno e della pittura. Anche se non mi considero un pittore e so benissimo che l'organizzazione di questa mostra dedicata ai miei lavori si deve precisamente al fatto che io non sono un pittore, ma un'altra cosa». Alla fine di questa piccola galleria di schizzi per film ci sono due disegni a penna intitolati «Rigoletto». Sono stati fatti per il film mai girato che voleva trarre dall'opera di Verdi o per la sua prossima regia teatrale a Piacenza? «Non lo so. O meglio, forse, per tutt'e due. Ho accarezzato a lungo l'idea di un film ispirato a questo “'melodramma della paternità”'. E in marzo, come sa, porterò in scena l'opera stessa al Municipale: può darsi che del mio film mai fatto, di questo Rigoletto solo schizzato su pochi fogli, qualcosa si veda in teatro».
(c) 1998-2002 - LIBERTA'

Marco Bellocchio - Inaugurata a Parma una interessante mostra di dipinti e disegni del regista piacentino
Autoritratto dell'artista da giovane
Quelle opere lievito segreto delle sue visioni cinematografiche
di Oliviero Marchesi


Parma. «Da adolescente ho cominciato a dipingere, la cosa era grande ed era un modo di isolarmi ed esprimermi, solitariamente. Non ero il primo in famiglia, anche mia madre dipingeva da ragazza in modo molto diligente, poi smise, non so quando, certamente prima di sposarsi (suonava anche il pianoforte sempre prima di sposarsi). Ed anche Paolo, il fratello primogenito, si era diplomato al Liceo artistico di Piacenza, aveva facilità e gusto a dipingere, ma, dopo i vent'anni, non dipinse più. E anch'io smisi quando a vent'anni andai a Roma al Centro Sperimentale di Cinematografia. A Roma non portai il necessario per dipingere, lasciai tutto a Piacenza, dove ritornavo spesso. Ma, come mia madre e mio fratello Paolo, non toccai più un pennello, anche se poi la mia vita fu completamente diversa dalla loro». Sono estratti dallo scritto, pudicamente ma intensamente autobiografico come molte “confessioni” di questo artista, con cui il regista piacentino Marco Bellocchio (oggi sugli scudi con Buongiorno, notte, il suo fortunatissimo film ispirato al caso Moro) presenta la mostra intitolata Marco Bellocchio. Quadri. Il pittore, il cineasta, inaugurata l'altra sera a Parma nella Galleria delle Colonne del Centro Culturale Edison (“officina culturale” parmense che ospita l'omonimo cinema d'essai e il Teatro Cinghio). Promossa dalla Fondazione Edison e dal Comune di Parma, questa esposizione è dedicata al Bellocchio pittore (e poeta) adolescente e al sorprendente Bellocchio disegnatore degli anni a venire: un lato minore e “oscuro” della creatività di questo maestro, che ha agito però negli anni - un importantissimo merito di questa mostra è quello di offrirne dimostrazione - come il lievito segreto delle sue visioni cinematografiche (una vena che è venuta alla luce, nel modo più discreto, in un film del Nostro, L'ora di religione: i quadri che intravediamo nell'atelier del pittore Ernesto Picciafuoco, interpretato da Sergio Castellitto, sono dipinti dal regista).
Le 11 tele dipinte a olio (i cui numi ispiratori, chiaramente leggibili, sono dichiarati dallo stesso Bellocchio quarant'anni dopo: da Chagall - c'è pure un violinista verde - a Grosz, da Munch - l'influenza più evidente - al mondo letterario dell'amatissimo Pascoli) sono, nella loro acerba bellezza, un “autoritratto dell'artista da giovane” che già anticipa molte cose del genio che verrà. Introversione e autobiografismo: ecco la malinconica figuretta blu affacciata alla finestra di Il collegiale e i tre funerei Gruppi di famiglia, uno dei quali - un figlio che reclina la testa sulla spalla della madre con un gesto di innaturale violenza - ha suggerito al critico cinematografico Tullio Masoni (curatore del catalogo della mostra pubblicato da Falsopiano e moderatore l'altra sera dell'incontro pubblico con Bellocchio al cinema Edison di Parma che ha inaugurato l'esposizione) l'analogia con una scena famosa di I pugni in tasca, folgorante debutto bellocchiano.
Ma a far la parte del leone, nella mostra, sono gli schizzi preparatori dei film: I pugni in tasca, Nel nome del padre, Gli occhi, la bocca (che introduce una magnetica scansione “fumettistica” destinata a tornare), Enrico IV, Diavolo in corpo, La visione del Sabba, La condanna, Il sogno della farfalla, Il Principe di Homburg, La balia, L'ora di religione e soprattutto Buongiorno, notte (di cui la mostra espone ben 50 tavole preparatorie, che spesso superano le immagini del film per barocchismo e crudezza visionaria: politici che accarezzano prostitute vestite da suore, cani-giornalisti alle conferenze stampa). Nel caldo e complice incontro col pubblico (in prima fila il suo attore-feticcio, il bobbiese Gianni Schicchi), Bellocchio si è lasciato andare a una confessione illuminante: «Fare cinema ti spinge a un continuo scontro col mondo esterno per superare le difficoltà pratiche, ti dà un certo coraggio umano.
La pittura, invece, si esercita in solitudine. E io, che sono sempre stato incline all'introversione, a un certo punto ho decisamente ripudiato la pittura per il cinema anche per paura che la solitudine esercitasse su di me un'attrazione eccessiva. A Roma ho conosciuto molti grandi pittori che hanno finito per autodistruggersi, da Schifano a Festa: non volevo finire come loro».
La mostra parmense del Bellocchio pittore e disegnatore resterà aperta alla Galleria delle Colonne, in Largo 8 Marzo, fino a venerdì 7 novembre, dal lunedì al venerdì (orari: 9.30-13 e 15.30-18.30) e al termine delle proiezioni del cinema d'essai Edison. informazioni: 0521/964803 o info@edisonline.org.
© 1998-2002 - LIBERTA'

Quadri, disegni e bozzetti alla Galleria delle Colonne fino al 5 novembre
«Volevo fare il pittore»
Marco Bellocchio ha inaugurato la sua mostra
M. S.


«Mi è sempre piaciuto disegnare, dipingere. Mi rilassa mentre trovo molto faticoso scrivere. Da ragazzo pensavo che mi sarebbe piaciuto fare il pittore e quando sono andato a Roma per frequentare il Centro sperimentale di cinematografia ne ho conosciuti e frequentati molti. Poi il cinema ha assorbito tutte le mie energie perché penso sia un'arte più completa, che richiede coraggio, ti costringe a lavorare insieme ad altri, ti fa essere più umano, mentre dipingere è un'attività solitaria». Così si è presentato Marco Bellocchio l'altra sera all'Edison d'essai, in occasione dell'inaugurazione alla Galleria delle Colonne della mostra «Visioni pittoriche e Cinema», che rimarrà aperta fino al 5 novembre.

Del pittore mancato - e cineasta affermato, di passaggio a Parma prima di partire per New York in compagnia di Buongiorno, notte il film che tra mille polemiche sta ottenendo straordinari risultati al botteghino ed è invitato a numerosi festival internazionali - sono esposti quadri giovanili (se ne vedevano anche in L'ora di religione, come se fossero opera di Ernesto Picciafuoco) assieme a bozzetti, disegni, studi di inquadrature dei suoi film.

«Non faccio veri e propri story-board - ha detto Bellocchio - ma piuttosto fisso con i disegni delle suggestioni particolari, dei momenti fondamentali della storia che ho in mente. E poi non li porto sul set, sono dei divertimenti che mi aiutano a creare delle atmosfere. E anche ad occupare i tempi morti che nel cinema sono spesso lunghi: tra l'ideazione e la realizzazione di un film possono passare molti mesi. E a volte l'idea rimane solo sulla carta…»

La conduzione dell'incontro col pubblico nella sala stracolma (presenti anche alcuni amici d'infanzia del regista, tra cui Gianni Schicchi che compare in quasi tutti i film di Bellocchio, arrivati appositamente da Bobbio), è stata affidata a Tullio Masoni, critico e saggista, curatore del volume Marco Bellocchio. Quadri, Il pittore, il cineasta (edizioni Falsopiano, pagg. 112, euro 15), davvero molto ben realizzato, con riproduzioni fedelissime agli originali. Masoni ha ricordato come il regista sia arrivato al cinema dopo aver frequentato non solo la pittura ma anche la poesia ed ha poi riversato sulla pellicola le sue metafore, le sue tensioni e le sue rivolte che, come ha scritto Stefano Spagnoli, assessore alla Cultura del Comune di Parma, «sono in fondo ancora le nostre, anche se l'istituzione totale controlla più scientificamente le nostre vite». Una coerenza anche stilistica riconoscibile in tutte le tappe del suo percorso artistico.

Ma poteva un incontro con Marco Bellocchio non toccare il tasto di Buongiorno, notte? Ovviamente non e così, dopo che Masoni ha riferito un'obiezione-desiderio di Adriano Aprà - che avrebbe voluto un film ancora più sognato, al che il regista ha replicato di non aver fatto un film sognato ma piuttosto visionario - l'artista piacentino ha risposto ad alcune domande arrivate dal pubblico, ribadendo il carattere «non storico né cronachistico» dell'opera, spiegando il perché di alcune citazioni da classici muti sovietici, le intenzioni del canto partigiano, mostrandosi sorpreso di fronte all'accostamento tra il suo film e La caduta degli dei di Luchino Visconti.

Ha concluso lanciando un messaggio ai giovani aspiranti registi («Oggi per un ventenne è più facile fare un film rispetto ai miei tempi: la tecnologia era più complessa, più costosa… ma ovviamente occorre sempre avere una personalità, la voglia di raccontare») e ringraziando la Fondazione culturale Edison per aver allestito questa mostra, «che è più ricca e completa" di quella organizzata alcuni anni fa a Locarno».

venerdì 10 ottobre 2003

Buongiorno, notte al 41° NYFF:
la recensione del New York Times

e un lancio ANSA

MOVIE REVIEW
'GOOD MORNING, NIGHT'
With Hearts on Fire, Souls Dying of Thirst
By A. O. SCOTT


Published: October 10, 2003
Motion Pictures
New York Film Festival
Bellocchio, Marco, Italy


In his early films, like "Fists in the Pocket" (1965), "China Is Near" (1967) and "In the Name of the Father" (1971), Marco Bellocchio emerged as perhaps the most incisive and passionate cinematic witness to the social, political and spiritual upheavals that convulsed Italy in the 1960's and 70's.

His most recent movies, "My Mother's Smile" and "Good Morning, Night," struggle to make sense of the painful and ambiguous legacy of those years. The hero of "My Mother's Smile," shown at the New York Film Festival last year, was a left-wing, secular intellectual whose youthful faith in human progress withered into cynicism and solipsism after the future he had had once believed in failed to materialize.

"Good Morning, Night," showing at Lincoln Center tonight and tomorrow as part of this year's festival, reimagines the notorious kidnapping and murder of former Prime Minister Aldo Moro by the Red Brigades in 1978, one of the ugliest and most senseless episodes in modern Italian political history and in the annals of the Western European left.

Moro was the leader of the center-right Christian Democrats and one of the architects of a power-sharing arrangement with the Italian Communist Party, a historic compromise intended to bring a measure of normalcy to the nation's fractious and chaotic political order. His kidnappers, self-proclaimed proletarian revolutionaries for whom any form of compromise (or of normalcy) was anathema, imagined that their action would incite a full-scale uprising against the state and its institutions. ("Why aren't they rebelling?" one of the brigatisti wonders, honestly perplexed, when the television shows crowds filling the streets to demand Moro's release.)

Mr. Bellocchio replays this large-scale ideological melodrama as a quiet domestic tragedy. Most of the action takes place in a spacious ground-floor apartment in Rome where four supposed champions of the radical working class erect a screen of quiet bourgeois domesticity to camouflage their crime. Chiara (Maya Sansa), the only woman in the group, keeps a wedding ring in a box near the front door. She puts it on when the bell rings or when she goes out to her office job. On the day of the kidnapping, she is reluctantly caring for a neighbor's baby when her pretend husband (Giovanni Calcagno) and their two clandestine roommates arrive dragging a huge wooden crate containing the politician (Roberto Herlitzka). The scene has an almost comical matter-of-factness: the oblivious infant gurgles on the couch while the terrorists try to angle the unwieldy box into the cell they have built behind a bookshelf.

What follows is like a surreal parody of family life in which the young radicals, who keep an impressively orderly house, seem to view the old man in the next room as an inconvenient, doted-on older relative rather than as their prisoner. They address him, without sarcasm, as Presidente, and their leader (Luigi Lo Cascio) patiently argues with him about history, theology and the finer points of Marxist theory. The calm, dispassionate tones of their discussion make its brutal upshot — a death sentence issued in the name of proletarian justice — all the more disturbing.

Moro's quiet, grandfatherly demeanor eventually pierces Chiara's steely resolve, even though they never speak face to face, and "Good Morning, Night" is largely concerned with her crisis of confidence.

At night her dreams flicker with black-and-white newsreel images of past revolutionary glory, and she falls asleep reading the letters of left-wing partisans executed by the Fascists during World War II. Inevitably she begins to identify Moro's plight with theirs, a confusion driven home when she attends a family wedding, where her older relatives, their faces as kindly and wrinkled as his, burst into a rousing anti-Fascist marching song. This scene suggests that Chiara's extremism, and that of her peers, may be rooted in admiration and envy for the older generation, who were fortunate enough to have a clear enemy and a noble cause.

The contrast between generations could not be more damning: the veterans are full of life and robust feeling, which their would-be heirs have reduced to desiccated theory and murderous abstraction. The brigade members are willing — indeed eager — to sacrifice not only the lives of their supposed oppressors, but their own humanity as well.

Ms. Sansa is an actress of exquisite sensitivity: her wide brown eyes and childlike mouth always seeming to tremble on the verge of laughter or tears, but Mr. Bellocchio does not delve too deeply into her psychology. He approaches his characters with sympathy but also with skeptical detachment. At times "Good Morning, Night" feels as claustrophobic as the apartment itself, and you may feel that the director is handling his volatile material with a bit too much delicacy. But the movie's atmosphere is a curious mixture of obliqueness and intensity. The understatement of the acting and the muted rhythms of the story are offset by bursts of lustrous color (the director of photography is Pasquale Mari) and blasts of lush, sometimes jarring music (much of it composed by Riccardo Giagni).

Like fanatics of every creed and hue, Chiara and her accomplices have pledged themselves to the eradication of subjective feeling, and the film's sudden eruptions of passion, which are visual and aural rather than dramatic, represent the return of everything they have repressed in their mad, destructive crusade for absolute liberation.

GOOD MORNING, NIGHT

Written (in Italian, with English subtitles) and directed by Marco Bellocchio; director of photography, Pasquale Mari; music by Riccardo Giagni; edited by Francesca Calvelli; production designer, Marco Dentici; produced by Mr. Bellocchio and Sergio Pelone. Running time: 105 minutes. This film is not rated. Shown with a 12-minute short, Christophe Perrier's "Shadows Company," tonightat 6 and tomorrow afternoon at 3:30 at Alice Tully Hall, Lincoln Center, as part of the 41st New York Film Festival.

WITH: Maya Sansa (Chiara), Luigi Lo Cascio (Mariano), Pier Giorgio Bellocchio (Ernesto), Giovanni Calcagno (Primo), Paolo Briguglia (Enzo) and Roberto Herlitzka (Aldo Moro)
.

un lancio ANSA del pomeriggio:
ANSA 17:19 -10:10:03
«IL CINEMA ITALIANO CONQUISTA NEW YORK
Bellocchio e Giordana presentati nel corso del week end

(ANSA) - NEW YORK, 10 OTT - Il cinema italiano conquista New York nel fine settimana del Columbus Day con Buongiorno Notte di Bellocchio e La Meglio Gioventù di Giordana. Le due pellicole saranno presentate nel corso del week end al prestigioso New York Film Festival. La Meglio Gioventù e' stato acquistato dalla Miramax con l'obiettivo di una distribuzione negli Usa, Canada, Australia, Gran Breatagna e Nuova Zelanda. Bellocchio ha ricevuto oggi la lusinghiera recensione del critico del New York Times».

il Nobel per la pace a una donna e per di più iraniana,
e non a Wojtyla come volevano i preti e la stampa italiana

AFTENPOSTEN, Norvegia
http://www.aftenposten.no

Premio Nobel per la pace a Shirin Ebadi.


L'iraniana Shirin Ebadi, 56 anni, ha vinto il premio Nobel per la pace 2003. È la prima donna musulmana a ottenere il prestigioso premio "per i suoi sforzi in difesa della democrazia e dei diritti umani".


Repubblica 10.10.03
Il prestigioso riconoscimento "per il suo impegno nella difesa dei diritti umani e a favore della democrazia"
Nobel per la pace all'iraniana Shirin Ebadi. E' un avvocato di 56 anni. La sua battaglia per donne e bambini


OSLO - L'iraniana Shirin Ebadi è l'undicesima donna a vincere il premio Nobel per la Pace. Il riconoscimento le è stato assegnato "per il suo impegno nella difesa dei diritti umani e a favore della democrazia. Si è concentrata specialmente sulla battaglia per i diritti delle donne e dei bambini". Il presidente del comitato Ole Danbolt Mios ha proclamato la vincitrice a Oslo lodando il suo "coraggio" e il suo impegno in favore della "democrazia".

"Questo premio va a tutti gli iraniani che si battono per la democrazia" ha dichiarato Shirin Ebadi "sbalordita" alla notizia del prestigioso conferimento. L'avvocato iraniano ha espresso inoltre la speranza che il suo premio Nobel per la Pace aiuterà la causa della democrazia in Iran. "Sono molto felice e orgogliosa", ha commentato, "Non cambierà granché nella mia vita, ma sarà un'ottima cosa per il mio lavoro in favore dei diritti umani e dei cittadini in Iran ed è un bene per la democrazia e soprattutto per i diritti dei bambini in Iran".

Il Comitato del Nobel è lieto di premiare "una donna che fa parte del mondo musulmano", si legge nella motivazione del premio che sottolinea come Ebadi "non veda conflitto fra Islam e i diritti umani fondamentali". "Per lei è importante che il dialogo fra culture e religioni differenti del mondo possa partire da valori condivisi", prosegue il comitato, la cui scelta appare particolarmente mirata in un contesto storico di tensioni fra Islam e Occidente.

"Come avvocato, giudice, insegnante, scrittrice e attivista politica, Shrin Ebadi ha sempre alzato la sua voce forte e chiara nel suo paese, e ben oltre i suoi confini" prosegue il testo del comitato norvegese. "Professionale e coraggiosa", Ebadi non ha mai ceduto alle minacce, "in un'era di violenza, ha fortemente sostenuto la non violenza", continua la motivazione. E sottolinea come la neo premiata, sostenitrice del dialogo, abbia sempre considerato le elezioni democratiche come la base del potere politico supremo.

"La sua arena principale è la battaglia per i diritti umani fondamentali, e nessuna società merita di essere definita civilizzata, se i diritti delle donne e dei bambini non vengono rispettati" prosegue la nota. "E' un piacere per il comitato norvegese per il Nobel assegnare il premio per la Pace a una donna che è parte del mondo musulmano, e di cui questo mondo può essere fiero, insieme con tutti coloro che combattono per i diritti umani, dovunque vivano".

Il comitato norvegese spiega di aver sempre cercato, con il conferimento del premio per la Pace, di accelerare l'avanzamento della democrazia e degli diritti umani. "Speriamo" si legge ancora nella motivazione "che il popolo dell'Iran gioisca ora che per la prima volta nella storia uno dei suoi cittadini è stato insignito del Nobel per la Pace. Speriamo che il premio sia di stimolo per quanti si battono per i diritti umani e la democrazia nel suo paese, nel mondo musulmano, e in tutti Paesi dove la lotta per i diritti umani ha bisogno di stimolo e sostegno".

Shirin Ebadi, nata nel 1947, è stata la prima donna nominata giudice prima della rivoluzione. Laureata in legge all'Università di Teheran, è stata nominata presidente del tribunale dal 1975, ma dopo la rivoluzione del 1979 è stata costretta a dimettersi per le leggi che limitarono autonomia e diritti civili delle donne iraniane. Ha difeso le famiglie di alcuni scrittori e intellettuali uccisi tra il 1998 e il 1999.

E' stata tra i fondatori dell'associazione per la protezione dei diritti dei bambini in Iran, di cui è ancora una dirigente. E' stata avvocato di parte civile nel processo ad alcuni agenti dei servizi segreti, poi condannati per aver ucciso, nel 1998, il dissidente Dariush Forouhar e sua moglie. Nel 2000 ha partecipato ad una conferenza a Berlino sul processo di democratizzazione in Iran, organizzata da una fondazione vicina ai Verdi tedeschi, che provocò grande clamore e la pronta reazione dei poteri conservatori a Teheran, che arrestarono diversi dei partecipanti al loro ritorno in Iran.

Perseguitata a causa delle indagini che stava svolgendo, nel 2000 è stata sottoposta a un processo segreto per aver prodotto e diffuso una videocassetta sulla repressione anti-studentesca del luglio 1999, materiale che secondo l'accusa "disturbava l'opinione pubblica".

Ebadi è stata scelta tra 165 candidati, incluso Papa Giovanni Paolo II e l'ex presidente ceco Vaclav Havel. Il premio è di 10 milioni di corone svedesi (pari a 1,32 milioni di euro) e sarà consegnato il 10 dicembre.

creatività: cosa sarebbe mai questa «inibizione latente»?

Le Scienze, ed. italiana dello Scientific American 09.10.2003
Le basi biologiche della creatività
Geni e artisti sono più aperti agli stimoli provenienti dall'ambiente circostante


Alcuni psicologi dell'Università di Toronto (http://www.psych.utoronto.ca/) e dell'Università di Harvard (http://www.apa.org/journals/psp.html) hanno identificato una delle basi biologiche della creatività. Secondo lo studio, pubblicato sul numero di settembre della rivista "Journal of Personality and Social Psychology", il cervello delle persone creative sembra essere più aperto agli stimoli provenienti dall'ambiente circostante. quello delle persone "normali", invece, escluderebbe queste informazioni mediante un processo chiamato "inibizione latente", definito come la capacità inconscia di ignorare gli stimoli che l'esperienza ha dimostrato essere irrilevanti per le proprie necessità. Grazie a test psicologici, i ricercatori hanno mostrato che gli individui creativi possiedono livelli più bassi di inibizione latente.
"Ciò significa - spiega Jordan Peterson, co-autore dello studio - che gli individui creativi restano più in contatto con le informazioni extra che fluiscono costantemente dall'ambiente".
In passato, gli scienziati hanno associato l'incapacità di schermarsi dall'eccesso di stimoli con un tipo di psicosi. Tuttavia, Peterson e i colleghi Shelley Carson e Daniel Higgins ipotizzavano che questa caratteristica possa anche portare a una forma di pensiero originale, specialmente se combinata con un alto quoziente di intelligenza. Hanno perciò eseguito test di inibizione latente su diversi studenti di Harvard: coloro che erano stati classificati come particolarmente creativi, per esempio per aver riportato risultati insolitamente elevati in determinati campi creativi, avevano una possibilità sette volte superiore di presentare bassi punteggi di inibizione latente.


© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A.

giovedì 9 ottobre 2003

matricidio a Milano e impotenza della psicoanalisi:
Vegetti Finzi si dice priva di«spiegazioni esaustive»

Corriere della Sera 9.10.03
«La perdita del senso della vita conduce alla banalità del male»
di SILVIA VEGETTI FINZI


In un libro ormai storico, «La banalità del male», Hannah Arendt si interroga su come fosse possibile che i nazisti accusati di genocidio ne parlassero in termini di quotidiana normalità, come se niente fosse. La risposta si concentra in quel «niente» che sintetizza tante cose: la perdita del senso della vita, la riduzione dell'altro a cosa, la sostituzione del pensare con l'agire. Il paragone tra un dramma epocale e una vicenda di locale cronaca nera, quale il matricidio di Pozzuolo Martesana, s'impone nonostante l'evidente dissimmetria dei due eventi. Entrambi accomunati da una dimensione d'inspiegabilità.
Di fronte a un delitto così efferato, forse il più grave che possa esistere perché annienta con la morte la fonte della vita, siamo spinti a cercarne la causa, il movente, magari solo il pretesto, quanto basta perché ci consenta di capire, relativizzare, circoscrivere l'accaduto. Vorremmo attribuire un fatto abnorme a una causa eccezionale come la miseria, il degrado sociale, l'abbruttimento morale, la solitudine, la follia, la droga.
Tanti giri di chiave per chiuderlo fuori dalla porta della nostra serena esistenza. Tuttavia, quando un legame causa-effetto non si trova perché vi sono molti motivi di malessere ma nessuno in grado di dar conto della trasgressione estrema, stiamo sperimentando i limiti del nostro pensiero.
Probabilmente, in questo caso, una lenta erosione dei rapporti familiari ha finito per annientare la vitalità degli affetti. Se viene meno l'identificazione con le persone che ci stanno accanto, se non siamo più in grado di attribuire loro i nostri stessi vissuti, i loro volti diventano maschere impersonali sulle quali proiettare le angosce che non siamo più in grado di padroneggiare. Poiché le loro reazioni appaiono persecutorie, eliminarle può apparire un gesto ovvio di legittima difesa come schiacciare una zanzara molesta.
Non ci stupisca pertanto che il giovane Paolo racconti con straordinaria lucidità il suo delitto perché la mente priva di emozioni funziona come un impersonale, meccanico congegno. Probabilmente l'omicida era moralmente morto quando ha ucciso sua madre e credo che neppure lui sappia perché. Solo col tempo potrà forse, attraverso il dolore, riconnettere i brandelli della sua storia e ritornare ad essere soggetto della sua vita. A noi, in mancanza di una spiegazione esaustiva, resta comunque la compassione, intesa nel senso etimologico di «patire insieme», l'ultimo baluardo della ragione che sa ammettere, quando è tale, un margine di imponderabilità e di mistero.

siamo tutti avvertiti...

(segnalato da Sergio Grom)

La Repubblica 9.10.03, Pagina 22 - Cronaca
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Il Papa: "Pregate di notte per evitare le tentazioni"


CITTÀ DEL VATICANO -Pregare di notte per non «cadere in tentazione» e, soprattutto, per non essere vittime del Maligno. Il giorno dopo il viaggio a Pompei, papa Wojtyla (...) sale di nuovo in cattedra per ricordare l´importanza della preghiera, dell´elevazione quotidiana delle lodi a Dio, almeno «all'alba e al tramonto con la preghiera dei vespri» e di notte, quando è più facile essere travolti da «debolezze umane». (...) «La bellezza gioiosa di un'alba e lo splendore trionfale di un tramonto - ha detto il Papa - segnano i ritmi dell'universo, nei quali è profondamente coinvolta la vita dell'uomo». La Chiesa - ha poi ricordato - ha sempre dedicato al Signore «i giorni e le ore dell´esistenza umana, poichè ogni giorno del nostro pellegrinaggio sulla terra è un dono sempre nuovo». Quanto alla preghiera notturna, Giovanni Palo II l'ha indicata come una forma di antidoto al «mysterium noctis» le cui tenebre sono «occasione di frequenti tentazioni, di particolare debolezza, di cedimento alle incursioni del Maligno. Con le sue insidie, la notte assurge a simbolo di tutte le malvagità da cui Cristo è venuto a liberarci».
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(o.l.r.)