giovedì 8 aprile 2004

un bell'articolo su "a un millimetro dal cuore" di Iole Natoli

Zefiro n.4 del 7/04/04
A UN MILLIMETRO DAL CUORE
di Iole Natoli, con Giulia Mombelli, Alice Marchitelli, Diego Ribon e Marco Bellocchio
ITA 2002
di Antonio Montellanico


Un movimento lento tra le coperte del letto, i seni nudi, un delicato bacio al risveglio.

Una storia d'amore tra due sconosciuti. L'incontro inaspettato tra un uomo ed una donna, sfuggente e quasi intraducibile, che muove altrove verso le dinamiche più profonde del desiderio, dove due corpi si inseguono, si amano, si mostrano come un plusvalore visibile che vuole portare dentro di sé ciò che è dentro l'altro; sostanza interna di un essere straordinariamente presente.

Animato da una fluidità emotiva di grande impatto, il cortometraggio di Iole Natoli è un'esperienza filmica semplicemente incantevole: un discorso sull'amore nella dimensione opposta dell' amor fou, la fissazione tutta psicoanalitica per «l'oggetto unico» che tanta fortuna ha avuto nel cinema e che troppo spesso ha parlato di passionalità corrosiva e violenta, bramosia e dipendenza.

Il film della Natoli in questo senso è invece la delicata dimensione di un amore ideale che richiama i sussulti del sogno, che vive e che pulsa nella sfera delle attese impreviste suscitate dalle emozioni, dai momenti, dagli scarti tra la realtà e le sue forme non materiali.

La figurazione perfetta di quella differenza sostanziale tra l'uomo e la donna, che spinge l'uno verso l'altro, alla ricerca di uno scambio continuo, di un dolce incastro tra le parti che sia nutrimento, intesa, contenuto per contenuto. Il movimento sinuoso della seduzione, dell'attrazione che non ha necessità di coprire, arginare i vuoti della parola, ma che anzi nell'assenza quasi totale del linguaggio brucia orgogliosa della propria forza.

Ogni movimento della macchina da presa è accompagnato da tensioni emozionali di sconcertante sincerità, che svelano di volta in volta la significazione più intima ed autentica dei due protagonisti; e pur non essendoci immagine filmica di quanto accaduto - come quando la donna ripensa all'incontro con "lo sconosciuto", e nel raccontarlo all'amica, vive una nuova percezione - riusciamo a vedere, ad intuire. Ad intenderci con quei volti, quegli sguardi presi nel loro mostrarsi, nel loro farsi certezza affettiva. Un lavoro sull'esperienza cinematografica che procede per sottrazione, nell'assenza dell'immagine fattuale che richiede perciò un investimento percettivo continuo, un sentire forte dello spettatore. Il cortometraggio di Iole Natoli è un taglio nello spazio e nel tempo, un esserci nel mondo che forse non cerca nessuna filiazione con il cinema italiano contemporaneo ed è per questo un'esperienza ancor più preziosa. Raramente il cinema è riuscito ad esprimersi in forme così libere ed emozionanti. A Un Millimetro dal Cuore inizia come un viaggio in una stanza, in un letto, per farci ritrovare poi a palpitare all'unisono per un desiderio ed un amore che è diventato in soli venticinque minuti, anche il nostro

mercoledì 7 aprile 2004


Dopo essere stato incluso nella selezione ufficiale del 2004 NEW YORK SHORT FILM FESTIVAL

La rosa più bella del nostro giardino

il film-documentario di

Massimo Domenico D'orzi

prodotto da
La cooperativa Il Gigante

è entrato nel Palmarès 2004 del FESTIVAL DU FILM DE STRASBOURG con il premio per la
"direzione artistica".

Vedi al sito
www.strasbourg.festivalinfo.info

tradizioni cattoliche e islamiche

Repubblica ed. di Palermo 7.4.04
Le tradizioni dell'Isola a confronto con i pellegrinaggi nei luoghi sacri musulmani
I Sepolcri tra Sicilia e Islam
di MARCELLA CROCE


La vita oltre la morte: dal tempo dei greci in poi, senza soluzione di continuità, in Sicilia si preparano i lavureddi per i sepolcri del Giovedì Santo, e sono in tutto simili ai semi e fave che in Iran germogliano sulle tombe dei venerabili sciiti. Sul sancta sanctorum di Mashhad i pellegrini fanno a gara per toccare e baciare il sepolcro del terzo imam Reza; colpisce il numero di nastri verdi annodati alle grate e persino di catenacci chiusi.
Ogni nodo, ogni catenaccio rappresenta un problema, e tanta gente non si muove da lì perché con tante chiavi diverse in mano cerca di aprirne uno e risolvere così un´incognita della vita.
I sepolcri e le reliquie dei santi cattolici sono divenuti oggetto di travolgente culto e meta di pellegrinaggi epocali (basti pensare alla gola e al mento di San Antonio a Padova), allo stesso modo gli sciiti hanno creato una fitta rete di vie sacre. Un numero impressionante di pellegrini sciiti iracheni viene regolarmente in Iran a visitare il mausoleo di Reza a Mashhad, di suo fratello Sayyed Mir Ahmad a Shiraz, e di sua sorella Fatemé a Qom, i luoghi più sacri dell´Iran. Un numero ancora maggiore di iraniani visita i luoghi ove perì l´imam Huseyn nella città sacra di Kerbala in Iraq, di recente devastata da sanguinosi attentati. Ultimamente il numero dei pellegrini iraniani si era almeno decuplicato: da quando gli americani sono in Iraq ogni persona deve pagare solo 100 dollari (Saddam Hussein ne pretendeva ben 600) e non è detto che questa mossa non valga in futuro agli americani il consenso in qualche battaglia diplomatica.
«Osservammo uomini che baciavano la sua tomba, la circondavano, ci si gettavano sopra accarezzandola con le mani, una crescente folla si raccoglieva lì intorno, gridando invocazioni, piangendo e implorando Dio di benedire le sacre ceneri, e offrendo umili suppliche che avrebbero potuto sciogliere e spezzare il cuore più duro. Era uno spettacolo solenne e sconvolgente» (Ibn Giubair, 1183). A nove secoli di distanza, uno spettacolo altrettanto «solenne e sconvolgente» attende chi si rechi a visitare i sepolcri sacri. Ognuno dei dodici imam, discendente in linea diretta da Alì, cugino e genero del Profeta, e, secondo gli sciiti, suo unico legittimo erede, è venerato con fervore; l´importanza dei diritti ereditari in linea maschile, è una delle chiavi fondamentali per comprendere lo sciismo e contraddistingueva fino a non molto tempo fa anche il nostro tipo di società, anche se da noi non ha mai investito la sfera religiosa: basti pensare ai diritti del primogenito (maggiorascato), difesi fino all´estremo, nell´ambito delle famiglie nobili, pur di mantenere intatto il patrimonio; basti considerare il costume, ancora molto diffuso, di chiamare il primo figlio maschio con lo stesso nome del nonno paterno.
Il cronista Ibn Giubair è una nostra vecchia conoscenza per averci lasciato anche accurati reportage sulla Sicilia, il luogo descritto era il mausoleo del Cairo (Al-Qahira) dove era stata seppellita la testa del veneratissimo terzo imam Huseyn, che Giubair visitò trent´anni dopo la sua costruzione. E non era l´unica truce reliquia nelle vicinanze, anche la testa di Zayd, fratello di Ali, era stata recisa, poi ritrovata e risseppellita e "riceveva visite" nel suo bravo mausoleo. Al-Qahira era stata fondata nel 969; nel periodo fatimida della sua storia, la cittadella era accessibile solo dal califfo sciita e dalla sua famiglia, mentre la vicina Fustat era la "città del popolo". Al Muizz vi entrò nel 972 e vi portò i corpi del padre al-Mansur e del nonno al Qahim e di al Mahdi fondatore della dinastia, poi vi fu seppellito anche lui e otto dei suoi successori con relative famiglie. Di questo grande mausoleo, detto Turbat al-zafaran (tomba di zafferano), a quanto pare perché questa sostanza veniva adoperata per odorare la cappella, non è rimasto nulla. E´ rimasta invece un´intera serie di mausolei di persone imparentate con la famiglia di Alì, una vera e propria "Città dei morti" (anche la parola ?necropoli´ etimologicamente significa precisamente questo) che era stata costruita dai califfi fatimidi per legare la popolazione alla loro dinastia, inculcando entusiasmo di massa. La visita alle tombe (ziharat al-qubur) era stata da loro fortemente incoraggiata, era una pratica molto cara soprattutto alle donne che per l´occasione potevano uscire e partecipare alla vita sociale, ed era anche un perfetto instrumentum regni di cui si avvalsero in seguito anche i califfi sunniti che successero loro al potere.
Divenne un onore essere sepolti tra gli ahl - al-bayt (compagni del Profeta e amici di Dio) e partecipare così alla grazia (baraka), la forza benefica di origine divina che emana dagli individui durante la loro vita e anche dopo la loro morte. Questo culto dei sepolcri caratterizza ancora lo sciismo, e tuttora è grande onore (e costa anche molti soldi) essere seppelliti vicino all´imam Reza a Mashhad, o almeno "visitare" anche da morti il santuario prima di essere portati al cimitero fuori città.
Come in tutti i pellegrinaggi degni di questo nome, si è creata intorno a tutti questi luoghi, che rivestono anche un notevole interesse storico e artistico, un´imponente serie di infrastrutture. In alcuni casi i non musulmani non possono accedere ad alcune parti interne del santuario, ma anche rimanendo nel cortile non è difficile assistere a scene davvero impressionanti: nel santuario di Ghadamgah presso Neishabur, dove l´imam Reza, come Sant´Agata a Catania, lasciò l´impronta del suo piede, non esitano addirittura a strappare pezzi di corteccia dagli alberi del giardino, e a sradicare fiori e foglie, pur di portarsi via qualcosa dal sacro luogo.

un caso
depressione e farmaci

Corriere della Sera 7.4.04
Pochi giorni prima di morire, il racconto di un calvario lungo 29 anni: dall’angoscia della solitudine ai tentativi di suicidio
«Io, in bilico tra amore e depressione»
L’ultima intervista di Gabriella Ferri a «Oggi». «Tutto cominciò con micidiali cocktail di farmaci»
«Mi chiudevo a chiave in camera, nulla mi apparteneva più, il mio corpo stesso mi era diventato estraneo»


La depressione e l’amore, i farmaci stordenti e la speranza, la solitudine e la voglia di vivere. Nell’ultima intervista concessa pochi giorni fa a Oggi - pubblicata nel numero in edicola -, Gabriella Ferri aveva ricostruito tutta la sua lotta per vivere, descrivendo un lungo calvario di terapie e di sogni. Partendo dal legame con il marito Seva, «senza il quale non avrei mai risalito la china». «Per un certo periodo - ricorda la cantante morta sabato precipitando dal balcone della sua abitazione nel Viterbese -, quando ancora abitavo a Campo de' Fiori, più di dieci anni fa, subivo ogni giorno la visita di un neurologo che mi prescriveva cocktail micidiali, fatti anche di dieci farmaci tutti insieme. Bombe, per il mio corpo che continuava a perdere forza, ammucchiando grasso inutile e polverizzando il mio amor proprio. Davanti allo specchio, ogni volta, mi ritrovavo un'immagine sempre più debordante e avvilente. Come un animale braccato, mi chiudevo a chiave con la doppia mandata, dentro la mia camera da letto, che trasformavo nella cella di una prigione. Tenevo le persiane sigillate, in pieno giorno. Dormivo? Nemmeno. Al buio, con gli occhi sbarrati, rimanevo immobile sotto le coperte, per una quantità di ore infinita, di cui non avevo più nozione. Mi sentivo una lattuga lessa dentro il letto, non mi lavavo. Aiutato dalla donna di servizio, ogni tanto mio marito mi ficcava dentro la vasca da bagno e mi insaponava, poi mi risciacquava col getto gelato della doccia. Ma non reagivo nemmeno a quel freddo. Osservavo la mia pelle d'oca, come non fosse la mia. Nulla mi apparteneva più, il mio corpo stesso mi era diventato estraneo».
E’ una descrizione spietata, un lungo viaggio nell’angoscia. «La prima crisi grave l'ho avuta nel 1975, quando mio padre Vittorio è morto, ucciso da un cancro ai polmoni, dopo una lunga degenza all'ospedale San Camillo, dove lo avevano isolato nel reparto dei condannati. Ma lui non si rassegnava a morire e mi gridava: "Gabriella, salvami! Gabriella, comprami la vita, tu che puoi!". Quelle parole avevano su di me un effetto spaventoso. Mi caricavo di una responsabilità disumana. Dovevo salvare mio padre, con ogni mezzo. Perché potesse essere operato in una costosa clinica privata, mi massacravo con le tournée, racimolando i soldi necessari all'intervento, che fu inutile».
Ed ecco il primo tentativo di uccidersi: «Nel giugno del 1975, ero già sposata da cinque anni e mamma di Seva junior, da due. Questo, in un momento di sconforto, non m'impedì di tentare il suicidio, tagliandomi le vene. Persi cinque litri di sangue, ero in pieno choc emorragico, quando mio marito mi salvò, portandomi di corsa all'ospedale, dove diedero fondo a tutto il sangue che avevano, facendomi due tempestive trasfusioni. Lo stesso mio marito che, dieci anni fa, mi salvò anche dal John Hopkins Institute di Baltimora, la clinica specializzata nella cura delle malattie nervose. Lì, infermieri più crudeli di aguzzini, mi rifiutavano le pillole per dormire. Esasperata da quell'insonnia prolungata, presi a pugni una caposala, prima che Seva mi portasse via. Ma quella fuga non servì. Ci furono altri ricoveri, altre fughe, altri inutili tentativi di capire il perché di questo mio male... Sono stata spesso in condizioni gravi, fino a un paio di anni fa, quando ho conosciuto uno psichiatra che, anziché prescrivermi nuovi medicinali, mi ha fatto parlare per tre ore di seguito, senza mai interrompermi».
Il racconto di Gabriella a Oggi si chiude con un sorriso, quello della sua nipotina. E il terrore di non riuscire a farcela davanti alla prossima crisi: «Lo vedo ancora, una volta alla settimana. Quel medico mi trasmette tanta calma. Anche se, per vincere l'ansia, qualche goccia la prendo ancora, appena sveglia. Quello è il momento più duro. Mi capita di pensare che non ce la farò, che ricadrò nell'inferno da cui sono uscita. Mi aiutano lo sguardo di mio marito, il pensiero dei miei quattro nipotini. L'ultima, Xenia, bionda come la sua nonna, ha un anno e mezzo e ride con le fossette, bella come un angelo».

ipocondria

Corriere della Sera 7.4.04 pagg. 1 e 18
Studio americano: ai malati immaginari non concedete troppe visite e analisi
Curare gli ipocondriaci? Meglio rieducare i medici
di GIUSEPPE REMUZZI


Si sta male (certe volte malissimo) anche se qualcuno ci ride sopra. Il bello - o il brutto - è che non si è ammalati. O forse sì. È «quell’agente patogeno, mille volte più virulento di tutti i microbi: l'idea di essere malati» del racconto di Marcel Proust (I Guermantes: Alla ricerca del tempo perduto ). Ne soffre Woody Allen, ma ne hanno sofferto prima di lui Charles Darwin, lo stesso Proust e milioni di uomini fin dall'antichità. I greci, 2.500 anni fa, l'hanno chiamata ipocondria (ancora oggi i medici chiamano così i malati immaginari). Ipocondria perché c’è tante volte un senso di sconforto digestivo e malinconia che i greci antichi attribuivano alla milza. Su venti persone che vanno dal medico, almeno una soffre di ipocondria.
Intendiamoci, chiunque di noi ogni tanto ha dei disturbi che non si spiegano bene, e magari pensa che possa essere qualcosa di grave, ma l’ipocondria, quella vera, è pensare di essere ammalati, sempre, cercare continuamente dei medici, voler continuamente fare esami. Di tutti i soldi che si spendono per la salute, poco meno del 20% se ne va per i malati immaginari. Sono quelli che se hanno un livido, pensano di avere una leucemia. Se hanno il mal di testa pensano di avere un tumore al cervello (e questo fa peggiorare il mal di testa). A furia di pensare sempre e solo alle malattie, qualcuno arriva a non avere più una vita sociale, a non dormire più. E questo immiserisce anche la vita di chi gli sta vicino. Curare gli ipocondriaci è difficile. Ci si sente frustrati, non si sa più cosa fare, tanto più che una cura vera non c’è, non c’è mai stata, e di quel poco che si è fatto finora nessuno è mai riuscito a dimostrare l’efficacia in studi controllati.
Ma adesso, forse, c’è una svolta. Un lavoro, pubblicato proprio in questi giorni sul Jama (il giornale dell’associazione dei medici americani), potrebbe dare agli ipocondriaci una speranza. Di guarire? Qualche volta, o comunque, almeno, di poter stare meglio. Lo studio è stato fatto a Boston dal dottor Barsky dell’Ospedale Brigham. Centodue persone si sono sottoposte ad una psicoterapia cognitiva (fatta per capire le ragioni di un certo comportamento). Ottanta persone invece sono state curate come si fa di solito (buon senso, e qualche farmaco senza sapere se servirà davvero). Si è visto che più del 50% dei pazienti curati con la psicoterapia migliorava e quasi sempre tornava ad avere qualche forma di vita sociale. Per la verità, anche qualcuno di quelli curati con le solite cure migliorava, ma erano molto meno. L’ipocondria colpisce uomini e donne allo stesso modo: ma gli introversi, chi è troppo critico con se stesso, i narcisisti, sono ancora più vulnerabili. Anche quelli che soffrono di ansia e depressione tante volte diventano ipocondriaci. In questo caso servono i farmaci: quelli che agiscono sulla serotonina, certi antidepressivi, le benzodiazepine. Per anni i medici hanno cercato di aiutare i malati immaginari spiegandogli candidamente che i loro disturbi non corrispondevano a nessuna malattia, dovevano far finta che non ci fossero. Non funziona. Se uno i disturbi li sente, per lui ci sono, proprio come se fosse ammalato. La cura dei ricercatori di Boston invece prevede che psicologi ed infermieri sappiano convincere gli ipocondriaci ad abbandonare piano piano le loro fissazioni (attaccarsi ad Internet per trovare sempre nuove informazioni sui loro malanni, cercare sempre nuovi medici). Ma non basta, a detta dei ricercatori di Boston, per aiutare sul serio gli ipocondriaci bisogna educare i loro medici. I malati immaginari vanno visti, certo, ad intervalli regolari, ma non gli si deve dare un appuntamento tutte le volte che lo chiedono e nemmeno prescrivergli troppi esami e troppi farmaci. Quella del dottor Barsky e dei suoi collaboratori non sarà la soluzione di tutti i problemi dei malati immaginari, e si è già visto che non sempre gli ipocondriaci - specialmente quelli che soffrono di forme davvero gravi - si avvantaggiano della sua cura.
Ci sarà sempre qualcuno ha detto Barsky in un’intervista rilasciata qualche giorno fa al New York Times che mi verrà a dire «ho proprio bisogno di trovare un medico che mi faccia una biopsia del fegato».
Queste persone, ahimè, non guariranno mai, ma possono essere aiutate: in fondo il terrore di essere ammalato non ha impedito a Charles Darwin di formulare una teoria che ha cambiato dalle fondamenta le nostre idee sulla natura e sullo sviluppo della vita.

la religione americana

Repubblica 7.4.04
"Passion" di Mel Gibson non è l'unica espressione della destra cristiana. L'ultimo libro di due predicatori è un best-seller
Usa, la bibbia degli integralisti horror, fantascienza e profezie
Quattro americani su dieci si definiscono "cristiani rinati" Come il presidente Bush E non tutti sono moderati

Da un dialogo tra predicatori in tv: "Dio ci ha tolto la sua protezione e ha lasciato che i nemici colpissero l'America. L'abbiamo meritato"
DAL NOSTRO INVIATO
FEDERICO RAMPINI


San Francisco - L´Anticristo si incarna nel segretario generale delle Nazioni Unite. Crea un governo unico mondiale, con una sola religione, e stabilisce la sua capitale globale nella biblica Babilonia (Bagdad). Sono i segni che l´Apocalisse è vicina e infatti il vero Cristo torna in terra: non il Gesù torturato di Mel Gibson ma un guerriero furioso che scatena la sua violenza sacra uccidendo e sventrando gli atei, i miscredenti e i seguaci di altre religioni. «Uomini donne e soldati sembrano esplodere d´un tratto... le parole del Signore fanno scoppiare il sangue dalle loro vene, la loro carne si squaglia, gli occhi liquefatti e le lingue disintegrate». È il finale di «Gloriosa Apparizione», il romanzo-thriller della destra fondamentalista cristiana che polverizza i record d´incasso in America. La più grande catena di supermercati, Wal-Mart, ne ha promosso il lancio distribuendo gratis milioni di anticipazioni del primo capitolo. Solo per far fronte alla richiesta del pubblico nella prima settimana di vendite, i librai ne hanno prenotato oltre due milioni di copie, più di quanto abbiano venduto le memorie di Hillary Clinton in sei mesi.
Non è John Grisham il re dei best-seller, né sono le avventure di Harry Potter la serie di maggior successo. Le loro vendite impallidiscono di fronte a un genere nuovo, esploso in un crescendo negli ultimi nove anni: la fantascienza-horror cristiana ispirata dalle profezie bibliche. Una coppia di autori, Tim LaHaye e Jerry B. Jenkins, domina questa produzione con la serie Left Behind (Abbandonàti). I primi undici romanzi hanno venduto più di 40 milioni di copie, il dodicesimo è «Gloriosa Apparizione» che invade le librerie in questi giorni. Questo fenomeno di società ha preceduto il caso della «Passione di Cristo» di Mel Gibson, e ne supera l´importanza: per le dimensioni di massa, per la durata, e per l´estremismo dei messaggi. I sociologi si interrogano sul significato di questa attrazione popolare. Vi hanno individuato un risorgere di antiche superstizioni al passaggio del millennio; una lettura apocalittica dell´11 settembre; ma anche un sintomo che lo «scontro di civiltà» non nasce necessariamente alla periferia dell´impero, perché le guerre di religione hanno i loro fautori nel cuore della società americana: la serie Left Behind andava a ruba già prima dell´attacco alle Torri gemelle.
Sulla stampa liberal questo filone narrativo di serie B è criticato per i suoi contenuti intolleranti, razzisti, antisemiti e per la crudele violenza delle trame. In quelle storie non c´è scampo per gli ebrei né per gli atei, condannati allo sterminio da un Dio assetato di sangue nel giorno del giudizio. Molti teologi denunciano una pericolosa distorsione delle sacre scritture. Il primo della serie Left Behind si apre con una descrizione drammatica del Rapimento: è il momento nel quale i «cristiani rinati» saranno improvvisamente trasportati in Paradiso. Con un´allusione all´aborto, anche un embrione viene prelevato dal ventre materno per ascendere in cielo. Joseph Hough, presidente dello Union Theological Seminary di New York, ha condannato l´insistenza ossessiva sulle sofferenze che saranno inflitte ai non-credenti, e accusa gli autori di stravolgere la Rivelazione per dipingere un universo manicheo dove c´è spazio solo per Dio e il demonio. «È la stessa visione - ha detto il teologo - che appartiene ad alcuni recenti presidenti degli Stati Uniti, secondo cui c´è il mondo del bene e il mondo del male. I nemici dell´America diventano i nemici di Dio. È molto pericoloso perché giustifica comportamenti ispirati all´idea che chi non sta con te rappresenta le forze del male».
LaHaye, 77 anni, faceva il pastore evangelista in California 40 anni fa quando si unì al predicatore Jerry Falwell e al suo movimento conservatore della Moral Majority. L´idea di trasformare le profezie bibliche in romanzi popolari, nello stile di thriller futuristici, lo ha proiettato verso la fama e la ricchezza. Negli Stati Usa del Sud, lungo quella fascia geografica che viene chiamata la Bible Belt (la «cintura della Bibbia») 20mila volontari hanno creato dei club di fan dei suoi libri per promuoverne la lettura collettiva tra parenti e amici.
Dietro il fenomeno letterario c´è una tendenza profonda: la ri-evangelizzazione degli Stati Uniti. Mentre nella vecchia Europa la pratica religiosa è in declino, l´80% degli americani afferma di credere in Dio e il 39% si autodefiniscono born-again Christians cioè cristiani rinati. Il termine riunisce chiese protestanti che hanno un punto in comune: i fedeli sono convinti di essere rinati al cristianesimo perché in età adulta hanno «accettato consapevolmente Gesù Cristo come il loro Signore e il loro personale Salvatore». L´America ha una lunga tradizione di predicatori evangelici e nella sua storia ha conosciuto già tre periodi di potente risveglio della religiosità collettiva. L´ascesa dei cristiani rinati è considerata come il quarto grande risveglio religioso dopo quelli che avvennero alla fine del periodo coloniale, poi nel 1820, e ancora agli albori del Novecento. Il sintomo più noto è il seguito popolare di alcuni tele-evangelisti dalla personalità carismatica, che sfruttano la potenza dei mass media - attraverso le prediche televisive - per mobilitare milioni di persone. La semplificazione dei messaggi, il ricorso a tecniche manipolative per l´indottrinamento delle folle, o infine il fatto che alcuni di questi predicatori siano stati protagonisti di truffe finanziarie o scandali sessuali: tutto ciò induce spesso a liquidare il loro successo come una prova dell´ingenuità americana. La condanna degli intellettuali laici coincide con l´ostilità delle chiese tradizionali: preoccupate dalla concorrenza degli evangelizzatori, le gerarchie ecclesiali cattoliche o protestanti sono severe contro il fanatismo. Però gli evangelici sono riusciti dove il vecchio establishment clericale è fallito, hanno invertito la tendenza alla secolarizzazione e all´abbandono della pratica religiosa nella società più moderna, opulenta e consumista della storia. Al passaggio fra il secondo e il terzo millennio il nuovo fondamentalismo cristiano è riuscito a contrastare perfino il dominio della scienza, come dimostrano le campagne per sradicare l´insegnamento della teoria evoluzionista nelle scuole.
Più volte queste chiese hanno unito i loro sforzi per dar vita a una vera e propria forza politica: nel 1979 nacque la Moral Majority che sostenne Reagan, nel 1989 si formò la Christian Coalition. Bush padre, repubblicano laico e moderato, perse le elezioni del 1992 anche perché le truppe religiose del movimento antiabortista disertarono in massa le urne; suo figlio si è ripromesso di non commettere più lo stesso errore, e cavalca la radicalizzazione a destra di queste chiese. Lui stesso ha più volte raccontato di essersi liberato dall´alcolismo a trent´anni grazie alla «conversione», e molti dei suoi collaboratori (tra cui il ministro della Giustizia John Ashcroft) sono dei cristiani rinati come lui.
L´11 settembre 2001 ha aperto una nuova fase di visibilità di questi movimenti, in nome della difesa di un´America cristiana contro l´attacco del fondamentalismo musulmano. Il predicatore Franklin Graham ha definito l´Islam «una religione malvagia». Il leader della coalizione delle chiese battiste degli Stati del Sud ha bollato Maometto come «un pedofilo posseduto dal demonio». I più estremisti hanno visto nella strage delle Twin Towers un presagio apocalittico, il castigo divino contro un´America degradata dall´immoralità della sinistra, dal permissivismo ateista degli anni di Clinton. Un paranoico pamphlet dal titolo «Persecution», di David Limbaugh, sostiene che in America i cristiani sarebbero secondo lui «messi al margine della vita pubblica, privati dei diritti civili, discriminati a causa del loro credo» mentre i film di Hollywood e la scuola pubblica in mano alla sinistra «incoraggiano la diffusione della promiscuità e di una sessualità deviante». Il predicatore Jerry Falwell in un dialogo televisivo con l´altro leader carismatico Pat Robertson, trasmesso dalla rete tv Christian Broadcasting Network, ha dichiarato: «Dio ci ha tolto la sua protezione e ha lasciato che i nemici dell´America ci colpissero perché lo abbiamo meritato. L´American Civil Liberties Union ha grandi responsabilità, così come i giudici che hanno cacciato Dio dai luoghi pubblici. Gli abortisti sono tra i colpevoli perché Dio non si lascia insultare. Quando uccidiamo 40 milioni di innocenti nascituri, facciamo infuriare Dio. I pagani, gli abortisti, le femministe, i gay e le lesbiche, tutti coloro che hanno cercato di secolarizzare l´America, io li accuso: quel che è accaduto l´11 settembre è anche colpa vostra»

Tina Modotti

La Provincia di Como 7.4.04
mostre
Modotti e la sintesi tra l'arte e la vita
di Silvia Bernasconi


per vedere alcune delle più belle immagini di Tina Modotti e sapere di più della sua vita, clicca QUI

Sulla sua tomba, nel Pantheon de Dolores di Città del Messico, sono scolpiti versi di Pablo Neruda, il suo volto compare nei murales di Diego Rivera. La sua figura di donna passionale e coraggiosa ha stimolato il proliferare di biografie romanzate - ieri è stato presentato «Tina Modotti. Verità e leggenda» di Christiane Barckhausen - e scoop giornalistici, com'è accaduto all'amica pittrice Frida Khalo. La mostra «Tina Modotti. Fotografie, vita, arte e libertà», a San Donato Milanese fino al 20 aprile, intende celebrare una delle fotografe più significative del XX secolo, troppo a lungo trascurata dalla critica. «Metto troppa arte nella mia vita», ha scritto Tina nel 1925. E per rendere questa sintesi di arte e vita la rassegna comprende non soltanto fotografie, ma anche, lettere, poesie e filmati. Nel Messico post-rivoluzionario, dove si è trasferita nel 1923, la Modotti ha utilizzato l'obiettivo fotografico come strumento di indagine e denuncia sociale, schierandosi in difesa degli oppressi e delle libertà politiche. Simboli del lavoro, mani di operai, ritratti di donne e bambini, manifestazioni sindacali: le sue immagini non possono prescindere dal passato di povertà in Friuli, dove è nata nel 1896, dall'esperienza di emigrante e di operaia a San Francisco, né dalla condizione costante di perseguitata politica.

«Tina Modotti. Fotografie, vita, arte, libertà», Cascina Roma, San Donato Milanese, 7 marzo - 20 aprile 2004. Ingresso libero.
Orari: lun-sab 9.30-12.30 / 14.30-19; dom 10-12.30 / 16.30-19 Info: 0255603159

Max Weber

Corriere della Sera 7.4.04
MAX WEBER E L'ANIMA DEL CAPITALE
Intervista a Guido Rossi

In contrasto con Marx pensava che in economia pesassero anche le credenze spirituali
Un secolo fa usciva un'opera che coniugava l'accumulo di danaro con l'etica protestante
La dottrina religiosa della predestinazione spingeva i calvinisti a cercare nel successo un segno divino
Sombart dimostrò però che nello sviluppo dell'Europa centrale gli ebrei avevano avuto un ruolo essenziale
Una forte etica del lavoro, tipica per esempio del caso giapponese, ha favorito lo sviluppo economico
Adam Smith era anche lui un filosofo morale prima di essere un economista e usava metafore poetiche
di FEDERICO RAMPINI


MILANO. Nell´èra dei crac Enron e Parmalat, la "questione morale" è tornata al centro delle analisi sulla nostra economia di mercato. La grave crisi attuale è una sorta di omaggio postumo all´importanza di un´opera originalissima, che esattamente cento anni fa stabiliva per la prima volta un nesso forte tra i valori morali condivisi da una società, e la sua capacità di sviluppo economico: L´etica protestante e lo spirito del capitalismo del tedesco Max Weber, uno dei fondatori della sociologia moderna.
Weber faceva risalire il successo dell´economia capitalista in America (concentrata inizialmente a Boston e negli Stati del New England) al ruolo del calvinismo. La dottrina religiosa della predestinazione spingeva i suoi seguaci a cercare nel successo economico i segni terreni del favore divino e della futura salvezza. D´altra parte il rigore puritano vietava all´imprenditore di godersi i suoi profitti spendendoli in lussi e capricci mondani. L´etica del lavoro calvinista innescava un circolo virtuoso di abnegazione, parsimonia e reinvestimento dei profitti nell´impresa. Uno scenario molto diverso da quello a cui assistiamo con gli scandali finanziari di oggi, e non a caso l´America è la prima a chiedersi dove sia finita l´etica protestante nella sua attuale classe dirigente. Una riflessione sull´opera di Weber un secolo dopo diventa obbligata, anche per chiedersi se una efficiente economia di mercato possa davvero sopravvivere senza valori. Ne parliamo in questa intervista con Guido Rossi, giurista e docente di filosofia del diritto.

Professor Rossi, L´etica protestante nasce anzitutto con un´ambizione di analisi storica. Weber quando ne pubblica i primi capitoli nel 1904 cerca di individuare quali siano le circostanze favorevoli allo sviluppo originario del capitalismo, e ritiene di individuarle nel sistema di valori e regole di comportamento di alcune comunità protestanti, in particolare quelle che si richiamano a Calvino. Proprio questo approccio storico, però, è quello che dalla prima pubblicazione di quell´opera ha suscitato più critiche, e sembra decisamente invecchiato.
«In effetti non ha resistito alla lettura critica di altri autori come Werner Sombart e Fernand Braudel. Sombart dimostrò che nello sviluppo capitalistico dell´Europa centrale un ruolo essenziale lo avevano svolto gli ebrei. Braudel fece giustamente risalire le prime forme di economia capitalista alle città mercantili dell´Italia pre-rinascimentale, come Genova e Firenze dove nacque la moderna attività bancaria: dunque all´interno di una cultura cattolica, non protestante».

Un altro francese, lo storico Jacques Le Goff, nel suo celebre saggio sul Purgatorio ha dimostrato che la Chiesa cattolica sul finire del Medioevo adottò un atteggiamento più duttile verso l´usura, quindi verso il profitto. Fino al commercio delle indulgenze e alla invenzione teologica del Purgatorio che, in un certo senso, monetizzando il perdono dei peccati, creano un incentivo al guadagno e una legittimazione dell´attività imprenditoriale...
«Oggi quindi dal punto di vista storico la tesi di Weber è defunta. Il capitalismo europeo nacque in casa nostra, sulle rive del Mediterraneo, non in Olanda o nel New England come credeva Weber. Inoltre la sua era una visione viziata inizialmente dall´eurocentrismo. Ai nostri occhi contemporanei, l´insistenza sul ruolo del calvinismo non regge di fronte a fenomeni storici come lo sviluppo capitalistico nel Giappone dei samurai, o nella Cina confuciana. Evidentemente altre fedi religiose, altri sistemi di valori possono creare un terreno egualmente fertile e favorevole all´attività d´impresa».

C´è un altro aspetto del saggio di Weber che ha resistito meglio alla prova del tempo, e che merita ancora oggi attenzione. L´etica protestante infatti nasce anche come confutazione del materialismo. Rifiuta cioè l´idea di Karl Marx che la religione e la cultura siano una "sovrastruttura" ideologica storicamente determinata dalle ragioni dell´economia, dai rapporti di classe, dallo stadio di sviluppo del capitale. Anzi, Weber inverte la relazione. Afferma la tesi che un certo sistema di valori (pre-capitalistico, come la religione) ha creato un habitat favorevole allo sviluppo del capitalismo.
«Questo rimane l´insegnamento più interessante di Weber: l´idea della centralità del sistema di credenze. Questo vale, tra l´altro, non solo per l´etica protestante ma anche per quella del samurai o del confucianesimo. C´è una base comune nelle società che si sono mostrate più adatte alla fioritura del capitalismo, ed è appunto l´esistenza di una forte etica del lavoro, un insieme di regole collettive accettate e rispettate che agevolano il meccanismo di accumulazione della ricchezza. Questo rappresenta uno stacco rispetto a sistemi precedenti, come il feudalesimo, che si erano dimostrati inadatti a creare sviluppo. Questo concetto di Weber ci interpella ancora oggi: l´importanza del ruolo dell´etica nell´economia di mercato».

L´etica protestante e lo spirito del capitalismo nello sfidare la visione marxista contiene anche un interessante paradosso: per prosperare, l´economia di mercato ha bisogno di conservare in vita un sistema di valori che ha origini pre-capitalistiche, cioè la religione. Anche Adam Smith, il primo vero teorico del capitalismo, era un filosofo morale prima di essere un economista. Dipinse il mercato come una "mano invisibile" che usa gli egoismi e le avidità individuali per finalizzarli a un bene comune; ma aveva anche in mente una società regolata dal senso morale.
«Smith era un conoscitore di Shakespeare e prese in prestito l´immagine della mano invisibile dal Macbeth: prima dell´uccisione di Banco, Lady Macbeth si appella alla notte con la sua mano "sanguinosa e invisibile". Smith, che aveva un forte senso dell´ironia, usò quella metafora per smontare l´egocentrismo e la mania di grandezza degli imprenditori. I capitalisti non devono illudersi di essere i protagonisti dell´economia, in realtà sono solo piccoli ingranaggi di un meccanismo molto più grande di loro: questo era uno dei significati della sua mano invisibile. L´altro significato è comune a Smith, De Mandeville, Montesquieu, Machiavelli: il vizio privato diventa pubblica virtù, la cupidigia del singolo può servire ad arricchire la società. Basta ricordare la Favola delle Api di De Mandeville. Montesquieu ne aveva dato una traduzione nella sfera politica quando aveva sostenuto che in una monarchia l´amore della gloria personale, il desiderio dell´onore, fa muovere tutto il corpo sociale, sicché ognuno credendo di perseguire i suoi interessi opera in realtà per il bene comune. Lo stesso Keynes diceva: grazie alla possibilità del guadagno, alcune pericolose tendenze degli uomini possono essere incanalate verso risultati più innocui. E aggiungeva: è meglio che un uomo eserciti, sfoghi la sua tirannia e crudeltà sul proprio conto in banca piuttosto che su suoi concittadini. Ma in questo senso la visione weberiana che esalta l´origine "mistica" del capitalismo finanziario oggi non riesce più a descrivere la realtà sociale che abbiamo sotto gli occhi. Le cronache degli scandali finanziari di questi giorni ci offrono uno spettacolo ben diverso dalla frugale etica calvinista degli imprenditori che Weber aveva davanti agli occhi. La cupidigia individuale, senza un´etica per disciplinarla, non è più una virtù ma un peccato disgregante e distruttivo. Nel dilagare del conflitto d´interessi si spezza l´equivalenza tra vizio privato e virtù sociale».

Nelle sue opere successive all´Etica protestante, per esempio nella sua Storia generale dell´economia, Weber è andato oltre nell´analisi delle pre-condizioni necessarie al buon funzionamento del capitalismo. Oltre alla morale, ha indicato tra gli ingredienti essenziali lo Stato di diritto, cioè un sistema di leggi certe e affidabili, una burocrazia statale efficiente per applicarle. Ha scritto che un sano capitalismo non può fiorire in società dove c´è troppa differenza tra "insider" e "outsider". Ha finito per rivedere perfino il ruolo esclusivo del protestantesimo. Nelle sue opere più tarde Weber insisteva meno sull´originalità calvinista, mentre sottolineava soprattutto l´importanza di una religione universalistica come origine della nozione della cittadinanza universale, quindi dell´eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Etica e senso delle regole, certezza del diritto e controllo sociale da parte di una magistratura forte: sono ricette che non hanno perso rilevanza.
«Il pensiero di Max Weber nell´Etica Protestante, è stato molto semplificato e poi divulgato come una formuletta vincente. È vero che le posizioni di Weber furono poi molto più articolate. Ritengo che gettarono le premesse verso un sistema dove il peso si sposta completamente sulla teoria della giustizia, che poi fa parte della morale. Fu, infatti, lo stesso Weber a sottolineare le asimmetrie informative del capitalismo e a chiarire che "appare ancor oggi all´osservatore spregiudicato che un basso salario ed un alto profitto stanno in correlazione e che tutto ciò che si paga di più per salario deve significare una corrispondente diminuzione del profitto". Questa frase sembra a me anticipare il principio di differenza, uno dei fondamenti della teoria della giustizia di John Rawls. L´abbandono dello Stato di diritto e delle sue istituzioni, a favore di un´autoregolamentazione che crede solo nelle virtù del mercato ed è scettica sulle regole favorisce, com´è stato ampiamente provato, anche il crimine organizzato che è appunto il lato oscuro dell´ordinamento del mercato creato solo dai privati. Ed è allora che la giustizia diventa la più pubblica e la più giuridica delle virtù. Fu lo stesso Max Weber infine a sottolineare che per un nuovo ordine mondiale è indispensabile un´etica della responsabilità. Lo fece in una conferenza agli studenti tenuta non molto prima di morire, a Monaco, nel cruento inverno del 1918-1919. Concludeva allora che l´etica della convinzione e l´etica della responabilità "si completano a vicenda e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la vocazione della politica". La tesi finale di Weber era che il capitalismo fosse un modo per evitare la totale rovina della società, rovina che allora era sempre incombente per lo sconquassato assetto interno e internazionale. Ma al capitalismo finanziario attuale si rimprovera, in una illuminante contraddizione, di essere invece egli stesso la causa della rovina della società».

martedì 6 aprile 2004


dalla Libreria Amore e Psiche

sono disponibili in libreria

la videocassetta n.16
delle
LEZIONI DI CHIETI 2002
del prof. MASSIMO FAGIOLI


(l’ultima del 2002)

e


il n. 2/2004 de
"IL SOGNO DELLA FARFALLA"

__________________________________


a FIRENZE da
STRATAGEMMA


MAWIVIDEO DA CHIETI

su
MAWIVIDEO.IT

è disponibile la registrazione audio/video della 4ª lezione


del Prof. MASSIMO FAGIOLI

dall'Università di Chieti


il DVD di "a un millimetro dal cuore"
di Iole Natoli

è in vendita a Roma presso la
LIBRERIA AMORE E PSICHE

e a Firenze da
STRATAGEMMA


La cooperativa Il Gigante annuncia:
il DVD del film "A UN MILLIMETRO DAL CUORE"
di IOLE NATOLI
è in vendita anche da
MEL BOOKSTORE LIBRERIA

via Nazionale 252 / 255 Roma

questa libreria ha esposto un bel cartello con su scritto, MEL BOOKS CONSIGLIA, la copertina del dvd, la poesia, la sinossi del film e la recensione di Donatella Coccoli. E tutto ciò senza nessuna sollecitazione ma solo perchè alla direttrice è piaciuto maltissimo il corto, e addirittura pensa di organizzare anche una serata con proiezione

l'Occidente al saccheggio dei tesori di Bagdad

una segnalazione di P. Cancellieri

Il Messaggero Martedì 6 Aprile 2004
Iraq, il saccheggio dell'Occidente

Disastro archeologico
Per fermare le ruberie su commissione
chiesto l'embargo sulle acquisizioni
Gli archeologi contro saccheggio e commercio dei tesori iracheni
di PAOLO MATTHIAE


«GLI OGGETTI sottratti nel saccheggio del Museo di Bagdad sono stati circa 14.000, ma questa cifra è superata da quanto, ogni giorno, viene trafugato negli scavi clandestini nella sola Babilonia, tra Bagdad e Bassora, da circa un anno». Questa agghiacciante affermazione è stata pronunciata da uno dei più autorevoli archeologi americani, McGuire Gibson, professore ordinario di Archeologia del Vicino Oriente antico nel prestigioso Istituto Orientale dell’Università di Chicago, davanti ad un’attonita platea di colleghi di tutto il mondo all’Università Libera di Berlino, dove si è appena concluso il IV Congresso internazionale di archeologia del Vicino Oriente antico.
La sconvolgente comunicazione è stata accompagnata da una non meno impressionante documentazione fotografica aerea, compiuta per mezzo di elicotteri militari americani, in cui comparivano decine e decine di importanti centri archeologici della Babilonia, sforacchiati impietosamente per estensioni vastissime e senza pause: tra questi siti sono città antichissime e famosissime del mondo sumerico ed accadico, come Lagash, Umma, Badtibira, Zabalam, Isin. Come già era stato annunciato in maniera più frammentaria e meno sistematica da giornalisti americani ed inglesi che avevano fatto fotografie mentre decine di scavatori clandestini infuriavano sui luoghi più importanti dell’archeologia mesopotamica, centinaia di persone - è stato affermato con chiarezza - sono impegnate, su commissione di potenti organizzazioni, in questa sistematica devastazione e in questo inaudito saccheggio di un territorio vastissimo e ricchissimo di reperti storici di straordinario valore.
Se questa situazione dipende certo dalla pressoché totale mancanza di controllo del territorio da parte delle forze militari di occupazione anglo-americane, fatta eccezione per alcuni settori di pochi centri urbani maggiori, altre notizie ed altre immagini non sono state meno sconvolgenti. Così la desolante fotografia della sala del trono del palazzo di Sennacherib a Ninive, alla periferia di Mossul, con i resti dei celebri rilievi assiri, in parte ancora in posto, fatti a pezzi e sparsi sul pavimento; così la sconcertante notizia che un quartiere di comando delle forze britanniche si è installato sulle colline che ricoprono l’antica Kish, la città sede di ben quattro dinastie antichissime da cui sorse l’astro di Sargon di Accad; così anche l’immagine, incredibile, della facciata del Museo di Bagdad centrata, sopra il portale d’ingresso al centro del prospetto che rievoca una tipica architettura assira, da una cannonata di quegli stessi carri armati americani che non si mossero a protezione dei tesori del museo.
E’ stato difficile seguire i lavori di un congresso, peraltro fruttuosissimo, con oltre 500 partecipanti da più di 35 paesi, con la mente rivolta alle splendide scoperte siro-tedesche sulla cittadella di Aleppo e iraniane nella regione di Jiroft e con il cuore gonfio di angoscia per lo strazio senza limiti e senza fine del patrimonio storico della Mesopotamia. La tenacia degli archeologi di tutto il mondo per riscoprire, studiare e conservare, comunque, il patrimonio culturale della più antica umanità urbanizzata e l’esecrazione per lo scempio inimmaginabile della culla della civiltà nella terra dei due fiumi hanno fatto sì che, alla fine del Congresso, sia stata resa pubblica una “Dichiarazione di Berlino”.
In essa sono state riaffermate con vigore la necessaria e insostituibile autonomia delle autorità culturali di ogni Paese nella protezione del patrimonio culturale del proprio territorio secondo la legalità internazionale; l’improcrastinabile necessità della presenza dell’Unesco nel coordinare aiuti e collaborazioni urgenti, efficaci e consistenti che facciano fronte alle devastazioni in corso; la piena responsabilità delle potenze d’occupazione nella tutela e nella salvaguardia dei beni del patrimonio culturale nei territori di un Paese occupato secondo le convenzioni e le dichiarazioni dello stesso Unesco. Nel documento compare anche un forte appello affinché tutti i Paesi aderenti all’Onu, attraverso opportuni provvedimenti legislativi e operazioni di polizia, si impegnino non solo a bloccare l’entrata e l’acquisizione di qualunque oggetto di interesse archeologico e storico proveniente dal territorio iracheno, ma anche a restituirlo immediatamente e senza condizioni alla Repubblica dell’Iraq. Di fronte ad una situazione di una gravità senza precedenti per l’ampiezza, la sistematicità e l’intensità del fenomeno degli scavi clandestini e del saccheggio del patrimonio archeologico dell’umanità, che peraltro ha riscontri diffusi in molte regioni del pianeta a livelli comunque forti pur se di minore drammaticità, anche ciò che è sempre stato considerato un’irrealizzabile utopia appare oggi come una realistica, anche se difficilissima, necessità: il divieto formale, promulgato e sancito dalle organizzazioni internazionali, del commercio degli oggetti archeologici.
Se è vero, infatti, che l’umanità non può più tollerare, per interessi di mercato e cioè di profitto individuale, che beni di straordinaria importanza per la collettività universale siano dilapidati come fogli spietatamente strappati di un libro, che è il libro stesso della storia dell’umanità, questo scempio non può che essere arrestato attraverso una proibizione responsabile, esplicita ed unanime. E’ stata questa la proposta, tanto audace quanto temeraria, ma forse ormai assai meno utopistica di quanto possa parere, che ha avanzato con coraggio un archeologo tedesco, M. Mueller-Karpe, nel congresso berlinese, alla fine dei lavori. E’ certo un’utopia, ma, se non è già troppo tardi, forse il tempo è venuto che, come per l’ambiente naturale del pianeta, così per il patrimonio culturale, siano prese decisioni drastiche.

Ebla a Roma

una segnalazione di P. Cancellieri

Il Messaggero Martedì 6 Aprile 2004
Roma festeggia i quarant’anni di Ebla
di MARIA GRAZIA FILIPPI


PRIMA le città nascevano soltanto accanto alle acque dei grandi fiumi. Dopo le città furono di terra, di agricoltura estensiva e di oliveti sterminati. In mezzo c’è Ebla, la città siriana più famosa al mondo grazie agli scavi di Paolo Matthiae, il professore dell’ateneo romano “La Sapienza” che dal 1964 ha indagato anno per anno, ogni anno, la collina di Tell Mardikh, fino a scoprire quello che nessuno prima aveva scoperto. Cioè che con Ebla, nel terzo millennio avanti Cristo, si rivoluziona il concetto stesso di città. Ieri e oggi “La Sapienza”, ma più in generale il mondo scientifico, festeggiano questo quarantennale e i prestigiosi ritrovamenti avvenuti nel frattempo. E lo fanno alla maniera degli studiosi. Cioè con una due giorni di convegni (ieri al Rettorato, oggi all’Accademia Nazionale dei Lincei) fitta di interventi, moltissimi di archeologi stranieri venuti a tributare ad Ebla proprio questo ruolo di unicum e al suo scopritore quello di sapiente lettore dei messaggi dell’antichità. E già ieri mattina si respirava aria di scavi e sole a picco dai resoconti dell’ultima campagna di scavo effettuata, come sempre da 40 anni a questa parte, dal mese di giugno a quello di ottobre. «L’ultimo anno è servito a portare definitivamente alla luce il Palazzo Meridionale – ha spiegato Matthiae – nel quale abbiamo riconosciuto la residenza del Gran Visir, un alto dignitario della corte che svolgeva il delicatissimo compito di coordinatore dei messaggeri. Tanto che nel palazzo è stata ritrovata una scuderia con vasche per far abbeverare i cavalli utilizzati per gli spostamenti». Ma insieme al Palazzo Meridionale, 1200 metri quadrati completamente scavati, è emersa anche la certezza che la cittadella di Ebla, che domina dalla collina, era circondata da un anello di palazzi e templi che si stendevano ai suoi piedi «e in questo senso proseguiranno gli interventi, partendo già dalla prossima missione con un saggio esplorativo al quale seguiranno gli scavi veri e propri». Novità in vista anche per il parco archeologico di Ebla, già attivo dal 2002 quando si inaugurò un’area che copriva il 60% delle architetture scavate e restaurate. «La prossima missione, in partenza per giugno, continuerà i restauri delle strutture restanti con l’intento di portarli a termine entro due anni – ha spiegato ancora Matthiae – interventi delicati studiati per rendere leggibili gli edifici e la loro storia». Contemporaneamente si completeranno i tre itinerari che, all’interno dei 60 ettari di superficie complessiva, permetteranno di visitare l’antica città siriana, con percorsi di breve, media e lunga durata.

Harvard: la rimozione... chimica

MEDICINA/ TESTATA UNA PILLOLA PER DIMENTICARE CATTIVI RICORDI
APCOM 05/04/2004 - 22:35
Harvard vuol curare traumi dei soldati e vittime del terrorismo


New York, 5 apr. (Apcom) - Stress, incidenti, traumi, dolori: presto dimenticarli potrebbe esser semplice come bere un bicchier d'acqua. Il centro di ricerca del Massachusetts General Hospital di Boston sta sperimentando un farmaco in grado di far pulizia tra i cattivi ricordi, curarli come oggi facciamo con la tosse e il raffreddore.
La pillola per dimenticare, cui la rivista dell'universit? di Harvard dedica un lungo approfondimento, sarebbe destinata alle persone che soffrono per le conseguenze di esperienze traumatiche come i ricordi di guerra, che hanno subito stupri, le vittime di bombardamenti o di terribili incidenti automobilistici, ustioni, pestaggi, lutti, tutti apparentemente impossibile da lasciarsi alle spalle.
Incubi e i disordini post traumatici fino ad oggi sono stati curati per mezzo della psicoterapia, non sempre in grado di alleviare le sofferenze dei pazienti e con periodi di cura molto lunghi. Roger Pitman, docente di psichiatria presso la scuola di medicina di Harvard ritiene che queste persone possano essere aiutate da nuovi farmaci in fase di sperimentazione.
"Credo - ha spiegato il professore - che presto troveremo una cura in grado di ridurre i disordini post traumatici in maniera sostanziale". Pitman e i suoi colleghi stanno testando una sostanza chiamata propranolol su 41 persone che hanno sperimentato incidenti automobilistici, aggressioni o traumi abbastanza seri da essere stati trattati dal pronto soccorso del Massachusetts General Hospital. L'obiettivo e' capire se il farmaco, a sei settimane dell'episodio, sia in grado di avere un effetto positivo sulla salute del paziente.
Tre mesi dopo il fatto i pazienti trattati con placebo avevano ancora paura di entrare in un'automobile. I pazienti avevano ancora incubi, sudori notturni e il polso accelerato tutte le volte che si sedevano dietro il volante, specialmente nel luogo dell'incidente. Quanti al contrario erano stati trattati con propranolol avevano meno problemi.
I risultati della sperimentazione sarebbero sorprendenti: a 90 giorni dall'incidente le vittime sono tornate in ospedale per un controllo. 22 avevano assunto propranolol quattro volte al giorno per dieci giorni mentre 14 di esse sono state curate con un placebo. Ai pazienti e' stato quindi fatto ascoltare un nastro in cui avevano in precedenza raccontato l'incidente. Quanti erano stati curate dal farmaco non hanno mostrato particolari reazioni al nastro, quelli trattati con placebo hanno invece avuto un ulteriore shock nel ricordo del dramma.
Pitman e' convinto che il propranolol possa essere usato in futuro per curare i soldati traumatizzati dai combattimenti in Iraq e in Afghanistan, le vittime di aggressioni sessuali, anche i bambini, e quelle di attentati terroristici. Ma per il momento Pitman raccomanda prudenza, prima di poter commercializzare il farmaco occorre estendere i test a un numero maggiore di persone.

copyright @ 2004 APCOM

tre stralci da Il Mattino:
il sogno, i bambini, e Boncinelli

ricevuti da Sandra Mallone

il Mattino 5.4.04

Neuroscienze
Il sogno? È un gioco di molecole
di EVELINA PERFETTO


Sogno dunque sono. Anche quando, come accade nel sonno, la coscienza è interamente annullata, il nostro cervello continua a lavorare in modo incredibilmente complesso. Ed il risultato di questo lavoro sono appunto i sogni. Che tutti gli esseri umani sognino e che i sogni abbiano avuto un ruolo a volte fondamentale nella storia dell'umanità (basti pensare alla loro influenza su movimenti religiosi, rappresentazioni artistiche e teorie scientifiche) era ben noto da sempre. Eppure solo in questi ultimi anni i progressi delle neuroscienze hanno cominciato a chiarire in termini scientifici che cosa siano i sogni, quali parti del cervello ne sono responsabili e quanto i sogni siano importanti non solo per lo sviluppo della «struttura più complessa esistente in natura», come è stato definito il cervello, ma anche per mantenerne l'efficienza durante tutta la vita.
Un lucido ed affascinante resoconto di questi progressi viene fatto da J. Allan Hobson nel suo ultimo libro «La scienza dei sogni» (Mondadori, 170 pp, 8,40 euro). Docente di psichiatria all'Harvard Medical School e direttore del Neurophysiology laboratory al Massachusetts Mental health Center di Boston, Hobson è uno dei più famosi e seguiti psichiatri americani. «La svolta paradigmatica nello studio dei sogni - dice Hobson - si è verificata quando siamo passati dall'analisi dei contenuti all'analisi della forma dei sogni. Mentre i precedenti studiosi, a cominciare da Freud, si sono chiesti che cosa significa il sogno, noi abbiamo cercato di capire quali siano le caratteristiche del sogno, ovvero dell'attività mentale che avviene durante il sonno, e le sue differenze dall'attività mentale della veglia». Insomma, come funziona il cervello che dorme.
Le fasi di attivazione cerebrale nel sonno sono state definite dai neurologi fasi Rem (rapido movimento oculare) perché sono associate ad un rapido movimento degli occhi, oltre che ad alcune nette variazioni dell'elettroencefalogramma e dell'elettromiogramma, che misura il tono muscolare. Durante una normale dormita notturna, le fasi Rem si verificano periodicamente ad intervalli di 90 minuti ed occupano da 1,5 a 2 ore per notte. Chiunque viene svegliato durante o immediatamente dopo una fase Rem è in grado di raccontare nitidamente il sogno che stava facendo. Senza un brusco risveglio, la memoria del sogno può svanire e per questo molti credono di aver passato lunghe notti senza sogni.
Ma la scoperta forse più sorprendente è che, quando nel sonno il cervello si autoattiva (si attiva cioè senza uno stimolo proveniente dall'ambiente esterno) ed entra in una fase Rem, muta le sue autoistruzioni chimiche, bloccando la liberazione di due neurotrasmettitori, la noradrenalina e la serotonina, che sono fortemente implicate nelle principali funzioni della veglia, quali attenzione, memoria e pensiero riflessivo. Viene invece attivato il sistema colinergico, che utilizza un altro neurotrasmettitore, l'acetilcolina. Il sogno è dunque la conseguenza di «un gioco di molecole» finemente autoregolato dal cervello e geneticamente predeterminato, perché innato. Con buona pace di poeti, profeti, mistici, astrologi ed anche dei seguaci di Freud.
Ma perché sogniamo? «Per riordinare le informazioni nella nostra testa - spiega Hobson - e sbarazzarci di memorie obsolete, per aggiornare i ricordi ed incorporare nuove esperienze nei nostri sistemi di memoria. In pratica, per far continuare a crescere il cervello durante tutta la vita».

Edoardo Boncinelli
Fase Rem, in un neonato addormentato il «film» dura otto ore al giorno


Sognare un mondo che ancora non si conosce. È quanto forse accade non solo ai cuccioli d'uomo ma anche ai gattini, ai cagnolini ed alle scimmiette. Come hanno dimostrato una serie di ricerche, già alla trentesima settimana di gestazione il feto umano passa circa 24 ore al giorno in uno stato di attivazione cerebrale che costituisce un primo livello di sonno Rem, quello appunto che nell'adulto è sempre associato all'attività onirica. Dopo la nascita, non meno della metà delle 16 ore di sonno giornaliero che trascorre un neonato sono un inequivocabile stato di sonno Rem. In pratica, il cervello di ogni neonato è in uno stato di sogno per almeno otto ore al giorno.
Ma perché i piccoli hanno durante il sonno un'attività cerebrale molto maggiore rispetto a quella che avranno da adulti? «Per prepararsi - spiega Edoardo Boncinelli - a vivere la realtà, per far crescere il cervello in modo corretto. Grazie a questo lavoro onirico ante litteram, i neuroni fanno le prove generali del loro funzionamento. Per esempio, nella retina e poi nella corteccia visiva si formano in continuazione immagini per tenere in esercizio le cellule destinate a vedere. E questo accade per tutti gli organi di senso. È come se il cervello dei neonati fosse capace di farsi un film per mettere a punto gli strumenti e gli scenari necessari ad affrontare l'ambiente esterno».
Il neonato ha una coscienza, ha percezioni, emozioni e memorie primordiali ma non possiede un linguaggio e quindi non è in grado di elaborare quello che gli psicologi chiamano «pensiero proposizionale» o simbolico. Anche se fosse in grado di raccontarlo, il suo «film quotidiano» sarebbe dunque completamente diverso da quelli che ci sceneggiamo durante i sonni di adulti. Racconti di sogni simili a quelli dell'adulto cominciano a comparire a circa tre anni, quando i piccoli hanno acquisito un vocabolario sufficiente all'elaborazione del pensiero proposizionale. I sogni dei bambini diventano sempre più complessi fino a circa sette anni, poi è come se la fantasia onirica subisse un rallentamento ed i loro sogni diventano uguali a quelli degli adulti.
Ma cosa accade agli adulti che tornano ad avere una «memoria bambina», ovvero incompleta, perchè affetti da gravi forme di amnesia permanente? Una ricerca dell'Harvard Medical School ha dimostrato che questi soggetti sognano esattamente come le persone normali, pur non ricordando nulla di quanto era loro accaduto il giorno prima e che in realtà era l'argomento dei sogni. Il cervello, anche se in parte danneggiato, riesce comunque a memorizzare il materiale necessario alle sue personalissime sceneggiature.


INTERVISTA A EDOARDO BONCINELLI
«Psicoterapia, intuizioni geniali ma meglio la pratica che la teoria»


Nel 1900, Sigmund Freud pubblica «Il sogno», primo best-seller della letteratura scientifica mondiale. Con parole accessibili anche ai non esperti, Freud spiega che il sogno è l'appagamento velato di un desiderio inconscio rimosso, le cui radici risalgono quasi sempre alle lontane esperienze dell'infanzia, e quali sono le tecniche psicoterapeutiche per abbattere le barriere dell'inconscio.
«Oltre che essere un grande scienziato - dice Edoardo Boncinelli - Freud aveva enormi capacità drammaturgiche ed è stato il più efficace divulgatore delle sue teorie». Noto per le sue ricerche di biologia molecolare dello sviluppo, Boncinelli, che oggi dirige la Scuola superiore di studi avanzati di Trieste, è stato anche un analista junghiano ed è uno dei migliori divulgatori scientifici italiani. Nel suo ultimo libro, «Il posto della scienza», Mondatori, analizza lo «stato dell'arte» teorico e pratico dell'impresa scientifica, dalla sua capacità di svelare i misteri della natura alla sua utilità nel cambiare la sfera del quotidiano.
Professor Boncinelli, che cosa è rimasto della scienza inventata da Freud?
«Culturalmente è rimasto tantissimo perchè i miti della psicanalisi sono ormai entrati nella quotidianità, oltre che nella letteratura e nella filosofia. Per quanto riguarda la clinica, ovvero il trattamento dei pazienti, è ormai evidente che tutti i tipi di psicoterapia (freudiana, junghiana, adleriana, rogersiana, cognitiva, umanistica ed altro) hanno più o meno la stessa efficacia. Sono utilissime per certi disturbi, come le nevrosi, ed anche nei casi di gravi psicosi, quali la schizofrenia e le forme maniaco-depressive, oggi si tende ad associare il trattamento farmacologico con la psicoterapia. Ma poiché tutte queste psicoterapie sortiscono lo stesso effetto benefico, le loro basi teoriche, per quanto elaborate ed a volte geniali, non hanno nessuna importanza».
Che cosa significa? Che la pratica psicoterapeutica si è dimostrata migliore della teoria?
«Un bravo psicoterapeuta si comporta sempre nella stessa maniera, a qualsiasi scuola appartenga: ascoltando il paziente, non condannandolo mai, facendogli vedere i possibili aspetti di ogni questione ed offrendogli una spalla su cui appoggiarsi fino a quando le cose non vadano meglio».
Lo psicoterapeuta ha dunque la funzione di un interlocutore fidato ed imparziale?
«Certo, anche perchè purtroppo gli amici sono diventati rarissimi. Oggi si parla tanto di tutto, ma raramente di cose importanti. Anche nei talk show si fanno sempre gli stessi discorsi. E' sempre più difficile trovare qualcuno capace di ascoltare, di avviare un valido contradittorio e di far vedere l'altra faccia della medaglia. Questo accade perché c'è poco tempo e molta ipocrisia».
Per Freud, i desideri sono spesso di natura erotica poiché le pulsioni sessuali sono le più rimosse. Ma oggi, al tempo del Viagra e del sesso on line, è ancora valido questo fondamento della teoria psicanalitica?
«Oggi gli impulsi sessuali non sono inibiti palesemente, ma in realtà l'ipocrisia la fa ancora da padrona. E' cambiata invece la tipologia dei pazienti che si rivolgono alla psicanalisi e che una volta erano per la maggior parte nevrotici, ora sono soprattutto depressi ed ansiosi».

James Joyce

una segnalazione di P. Cancellieri

Il Messaggero
Lunedì 5 Aprile 2004
Foto, libri, documenti: tutto Joyce rivive in un museo a Trieste


Trieste ricorda con un museo James Joyce, che vi soggiornò dal 1904 al 1921. Il museo, una particolare struttura che verrà inaugurata il prossimo 8 maggio, sorgerà proprio accanto al museo di Italo Svevo, che di Joyce fu grande amico.
Lo spazio espositivo sarà dedicato allo studio di Joyce ed alle sue opere. Ci sarà un biblioteca, molti documenti, fotografie e più di 700 immagini storiche di Trieste e Pola su cd, così i visitatori potranno fare un “tour virtuale” degli indirizzi più importanti del soggiorno di Joyce a Trieste.

Pablo Neruda

Corriere della Sera 6.4.04
Un uomo alto e stanco. Un poeta, dicono...
di Paolo Falla


Un uomo alto e stanco. Un poeta, dicono. Certamente un senatore comunista cileno perseguitato dal suo Paese, guardato a vista dalle polizie occidentali. Quando arriva in Italia, nel mite autunno del 1950, Pablo Neruda si è lasciato alle spalle un’avventurosa fuga attraverso la Cordigliera delle Ande e l’approdo a Parigi, ospite di Picasso: non sospetta la fortuna che avrà la sua opera ma soprattutto la generosa protezione che gli sarà offerta dagli intellettuali italiani, prima ancora che una sola delle sue liriche fosse pubblicata in italiano. Nei primi mesi viaggia tra Milano, Firenze, Siena, Genova, Venezia: ospite di scrittori che organizzano letture pubbliche dei suoi versi e municipalità di sinistra che lo nominano cittadino onorario. Un cittadino senza documenti, espulso dal Cile che ne reclama l’arresto e guardato a vista da una polizia «che non mi ha mai maltrattato, ma che mi seguiva instancabile». A Roma viene assistito da Fulvia e Antonello Trombadori che lo nascondono a casa della nonna di Fulvia. A Venezia, stufo di avere gli agenti addosso, tenta una fuga sulla gondola a motore del sindaco comunista, lasciando i poliziotti ad arrancare sui remi.
Mentre Renato Guttuso e Carlo Levi se lo contendono per due ritratti, nel gennaio 1952 il ministero dell’Interno decide di liberarsi di questo cileno ingombrante e firma un decreto di espulsione. Ma non riuscirà a farlo partire, con gli agenti incaricati della scorta, sopraffatti alla stazione Termini da una folla di scrittori e artisti: nei tumulti rimangono coinvolti Guttuso e Levi, Moravia e la moglie Elsa Morante che non esita a «colpire col suo ombrellino di seta la testa di un poliziotto». Finirà all’italiana, col ritiro di quel provvedimento vigliacchetto da parte di un ministero preoccupato che Neruda se ne stesse buono, lontano dai riflettori. L’unione tra l’ipocrisia democristiana e la solidarietà comunista gli regalerà i sei mesi vissuti a Capri, quel «tempo memorabile», dove potrà vivere a pieno l’amore con la nuova compagna Matilde Urrutia e portare a termine «un libro d’amore appassionato e doloroso, pubblicato poi a Napoli, anonimo, Los versos del capitán . Anonimo per rispetto alla moglie, Delia del Carril, da cui si stava separando, tirato in cinquanta rarissimi esemplari, grazie a una colletta: cinquemila lire offerte da quarantaquattro intellettuali comunisti, da Guttuso a Giorgio Napolitano, da Maurizio Valenzi al pittore Paolo Ricci, ad Antonello Trombadori.
Il «tour» italiano di Pablo Neruda, la sua scoperta di un Paese «che mi sembrava semplicemente favoloso» non possono che essere il punto di partenza delle celebrazioni, volute dall’ambasciata del Cile e sostenute da un prestigioso comitato scientifico, per il centenario della nascita del poeta, avvenuta a Parral nella regione meridionale del Cile, «terra di ghiacciai e di vulcani» il 12 luglio 1904. Saranno sedici le città che offriranno un omaggio, dalla proiezione di video e documentari, alla presentazione dei libri, a recital di poesia a teatro. Il Corriere della Sera ha appena pubblicato nella sua collana «Poesia» una antologia dedicata al poeta cileno, mentre l’editore Passigli di Firenze è impegnato nella proposta dell’intera opera, in trentaquattro volumi.
Un posto di rilievo in questo anno dedicato a Neruda spetta a Roma che al poeta «dell’amore e della civiltà» - ha ricordato l’assessore capitolino alla Cultura Gianni Borgna - dedicherà una «maratona poetica» dal 14 settembre al 16 ottobre e una mostra ispirata all’autobiografia Confesso che ho vissuto . Ma il centenario di Neruda potrà regalare qualcosa di più di una pur appassionata e ricca serie di appuntamenti: la riflessione su quel biennio di esule in una Italia di un uomo che sarebbe diventato un Premio Nobel solo vent’anni dopo. In una Italia squassata dal conflitto appena concluso, oppressa dalle diffidenze della Guerra fredda, eppure colma di slanci di entusiasmo e di speranza.

cosa era accaduto prima

Corriere della Sera 6.4.04
IL CASO 7 APRILE / A 25 anni dalla maxi-retata che lo portò in carcere con Toni Negri e Franco Piperno, a colloquio con l’ex leader di Autonomia operaia
«I giudici avevano ragione, teorizzavamo la lotta armata»
Scalzone: Calogero sbagliò a pensare a una cupola del terrorismo. Ma un tumulto sociale spinse una forte minoranza a una sorta di guerra civile
di Giovanni Bianconi


PARIGI - «Eh già, venticinque anni... Le mie nozze d’argento con l’inizio della morte civile», dice tirando il fumo dell’ennesima sigaretta. Ma «morte civile» è un’espressione stonata in bocca a Oreste Scalzone, che in questo quarto di secolo ha continuato a parlare, scrivere e inveire. Meglio dire «le ultime ore di libertà vissute nel suo Paese», visto che allora cominciò un periodo di galera e di latitanza che dura ancora oggi, mentre è in prima fila nella battaglia contro l’estradizione del suo amico Cesare Battisti. Coincidenza curiosa: l’udienza della Corte d’appello di Parigi per decidere il destino dell’ergastolano italiano rifugiato in Francia è convocata proprio per domani, 7 aprile, data simbolo per la storia giudiziaria e politica d’Italia; quel giorno del 1979 scattò la maxi-retata contro i capi dell’Autonomia operaia accusati di associazione sovversiva, banda armata e - alcuni - di essere i veri capi delle Brigate rosse. Tra loro i principali leader del disciolto gruppo di Potere operaio: Toni Negri, Franco Piperno, Oreste Scalzone, Emilio Vesce.
Scalzone venne arrestato a Roma, nella sede della rivista Metropoli : «Dovevo scrivere una lettera sull’amnistia e un reportage sui funerali bolognesi di Barbara Azzaroni, una compagna del '68 passata a Prima Linea, uccisa in uno scontro a fuoco». Non scrisse niente perché la sera era già a Regina Coeli: «Cominciò il giro delle carceri, da Roma a Padova, poi Rebibbia, gli "speciali" di Cuneo e Palmi, Termini Imerese, poi ancora Rebibbia e Regina Coeli».
Davanti al pubblico ministero di Padova che coordinava l’inchiesta, Pietro Calogero, Scalzone cominciò a difendersi ponendo lui le domande: «Né rifiuto del giudice né difesa tecnica di fronte a chi ti accusa per quello che sei e non per ciò che hai fatto: io posso aver fatto questo, questo e questo, lei che cosa sceglie? Dopodiché tocca a lei trovare le prove, non a me dimostrare che non è vero». Allora il rivoluzionario sfidava il suo «inquisitore»; oggi, 25 anni dopo, rilegge i fatti così: «Calogero e gli altri hanno sbagliato per eccesso, ma anche per difetto. Il complotto, la cupola del terrorismo che tira le fila di tutte le sigle con Toni Negri nella parte del Grande Vecchio era una fantasma dietrologico, e dunque un eccesso. Ma l’esistenza di un tumulto sociale che noi tentavamo di organizzare, la teorizzazione della lotta armata anche se diversa da quella praticata dalle Br, compresi reati come rapine e gambizzazioni, erano tutte cose vere. Forse più diffuse e capaci di diffondersi di quanto immaginavano i magistrati». Nell’inchiesta «7 aprile», insomma, c’era del vero almeno sul piano storico, poiché esisteva «un vasto terreno di illegalità e militarizzazione che ha spinto una forte minoranza a una sorta di guerra civile a bassa intensità, ed era logico che lo Stato la contrastasse».
Il problema è - secondo il rivoluzionario di allora - che le prove portate dai magistrati (non solo a Padova, ma anche a Roma e Milano) non corrispondevano ai fatti come s’erano svolti o si potevano provare: «"Nego l’addebito ma non me ne sento diffamato" dissi allora e confermo oggi. Sono responsabile di altre azioni della stessa natura». Sarebbe a dire? «Partecipai alla prima rapina in banca nel ’72, forzandomi a non pensare che cosa ne avrebbero detto gli altri dirigenti del gruppo; lo feci perché i soldi per la rivoluzione non potevano arrivare dai salari degli operai ma andavano presi dov’erano, e per contrastare l’attrazione fatale esercitata su tanti compagni dalla clandestinità. Entrai io con un compagno, armato di pistola. Negli anni successivi partecipai altre due o tre volte. E se pure ho avuto la fortuna di non dover sparare a qualcuno, mi sento la corresponsabilità diretta soprattutto di alcuni ferimenti firmati con sigle diverse, tra il ’74 e il ’76. Per esempio un’azione sul piazzale della Marelli contro il responsabile delle guardie; il giorno dopo ci fu lo sciopero ma noi eravamo lì a dire "né una lacrima né un minuto di salario per il capo degli sbirri padronali"».
Altri tempi, in cui c’erano pure i delitti firmati dalle Br. Ma Scalzone - risulta dalle stesse inchieste giudiziarie - stava su un’altra linea: «Eravamo contro l’attacco al cuore dello Stato perché sostenevamo che lo Stato non ha cuore. Era una questione teorica, non morale: se il tiranno non è una persona ma un sistema, l’omicidio politico è oltretutto inutile. Quindi non aver ucciso non è solo fortuna, ma questo non mi attribuisce alcuna legittimità etica superiore rispetto a chi abbia ucciso. Anzi, sono consapevole che con parole e scritti posso aver evitato dei morti, ma anche averne provocati degli altri».
Mentre la giustizia italiana faceva il suo corso, il leader di Autonomia operaia scarcerato per motivi di salute («giunsi a pesare 39 chili, mi vennero un’ischemia e l’epatite») scappò all’estero: «Stava arrivando una nuova ondata di pentiti, mandai un messaggio ai compagni in prigione e organizzai l’espatrio. In Corsica mi portò Gian Maria Volonté con la sua barca. Dalla Francia, che allora estradava in un amen, giunsi in Danimarca attraverso il Belgio e l’Olanda. Solo dopo la vittoria di Mitterrand arrivai a Parigi, l’11 novembre 1981». Da allora Scalzone è un abitante della capitale francese: «A 57 anni è la città in cui ho vissuto di più nella mia vita». Qui ha subìto un arresto di 40 giorni prima che venisse negata l’estradizione e ha avuto notizia delle condanne italiane - quelle definitive arrivano a circa 12 anni di carcere - che cadranno in prescrizione alla fine di settembre. Allora potrebbe tornare in Italia da uomo libero, «ma l’esilio non mi pesa, anzi mi ha dato più di quanto mi ha tolto. E poi è proprio il rientro da libero che sono disposto a giocarmi offrendomi come ostaggio volontario».
Ora il discorso ritorna sui latitanti «rifugiati» che la Francia potrebbe estradare: «Vent’anni fa hanno moltiplicato condanne e condannati perché c’era un "crimine collettivo continuato" che metteva in pericolo la democrazia; oggi costruiscono l’identikit di un assassino trincerandosi dietro il comprensibile mancato perdono delle vittime e dei loro familiari». Sta parlando di Battisti e del nuovo «7 aprile» che vi aspetta?
«Sì. E anche dell’alibi che si sono fatti per non parlare più di amnistia. Ma il perdono serve solo per la grazia, non per la soluzione politica che spetta al Parlamento. Comunque il caso Battisti riguarda la Francia e la parola data da questo Stato, la cosiddetta dottrina Mitterrand che nemmeno la destra francese di Chirac aveva sconfessato fino all’estradizione di Paolo Persichetti. Mitterrand voleva evitare che qualche centinaio di persone gettate nella clandestinità riprendessero la lotta armata qui o da qui; rinnegarla oggi significa dire che sbagliò chi allora decise di posare le armi».

l'immagine interna

una intervista di CARLO PATRIGNANI al prof. Garroni

La chiave per comprendere come funzionano la mente umana ed il pensiero umano, è l'immagine interna, largamente indeterminata, punto di contatto con l'esterno, organizzatrice di tutti i dati che ricaviamo dalla nostra esperienza di vita: visivi, uditivi, tattili, gustativi, olfattivi ma soprattutto sensibili, quelli che acquisiamo con la sensibilità non solo fisica. È la suggestiva tesi che il 78enne filofoso kantiano, Emilio Garroni, già ordinario, dal 1964, di Estetica alla Facoltà di Lettere e Filosofia presso l'Università "La Sapienza" di Roma, oggi in pensione, espone nel libro "Immagine interna e figura" che a breve darà alle stampe ed al quale sta lavorando da un paio d'anni. Una novità importante, anche se non assoluta. Se infatti si differenzia da una cultura che ha escluso l'immagine ("tempo perso", rispose Freud ad Abraham che lo invitava a prenderla in considerazione) da ogni ricerca, è proprio sulle immagini e la loro formazione che si fonda l'Analisi Collettiva di Massimo Fagioli. Le immagini, dunque, per Garroni, sono tanta parte del nostro essere che si caratterizza non per la stazione eretta né per il linguaggio articolato, "ma per l'immagine interna, che è profondamente diversa dalla figura: quest'ultima - ci spiega Garroni - è chiara, nitida, ha i contorni definiti, mentre l'altra è largamente indeterminata e deriva dal biologico". Non è nè anima né spirito. "Anche gli animali hanno un'immagine interna - osserva poi Garroni - che segnala pericoli, fa riconoscere le cose, fa scovare la preda o fa ritrovare la tana, secondo movimenti preordinati, prefissati". E, sovente, li porta a fare errori, "anche se - avverte il filosofo - statisticamente non sono ostativi alla loro sopravvivenza". Gli uccelli rapaci si lanciano in picchiata a terra se vedono una macchia chiara muoversi: la riconoscono come preda ma in realtà è un fazzoletto. Oppure i fenicotteri che vanno sempre a bere in un posto e muoiono inghiottiti dal petrolio. "Noi invece non sbagliamo in virtù della nostra immagine interna che ci permette di distinguere immediatamente le cose sulla base di interpretazioni di solito corrette: solo se interpretiamo male la realtà sbagliamo e in quel caso - chiarisce Garroni - è perché ci portiamo dentro, dai primi anni di vita, immagini distorte che riaffiorano in determinate situazioni". L'immagine interna largamente indeterminata è un mix di immagini formatesi nei primi anni di vita e di quanto ci viene dal contatto col mondo esterno, dal rapporto con gli altri, dalla cultura. "Accanto a quest'immagine interna che c'è da supporre si formi alla nascita, ben prima della coscienza e del principio di realtà, c'è la figura definita, determinata, visibile: essa è - annota Garroni - la realizzazione esterna di come parliamo, scriviamo, ci muoviamo". Ed allora il pensiero, il linguaggio derivano sempre dall'immagine interna che non è spirito né anima. "Non si può non pensare che il pensiero - afferma Garroni - come il linguaggio derivino proprio dall'immagine interna: o meglio, il linguaggio presuppone l'immagine interna e viceversa, c'è una correlazione tra immagine interna e linguaggio". Immagini dunque come pensiero e linguaggio. "Dobbiamo studiare l'immagine interna per comprendere come funziona o non funziona la mente ed il pensiero - conclude Garroni. L'animale quando aggredisce lo fa per la sopravvivenza, per la difesa: non ha consapevolezza dell'altro e non fa quindi del male per il piacere di farlo come come capita invece, ma nei casi patologici, all'uomo, il quale ha consapevolezza di quanto fa".