domenica 9 gennaio 2005

crimini cattolici
Melloni, lo storico che ha rivelato i fatti
e Tranfaglia sull'Unità

Corriere della Sera 9.1.05
Lo storico che ha rivelato l’esistenza della direttiva pontificia sui bambini ebrei battezzati traccia un bilancio del dibattito e avanza nuovi interrogativi
Il caso Pacelli e la Chiesa, aspettando il gran gesto
di ALBERTO MELLONI


Annunciando il primo volume di Anni di Francia, Agende del nunzio Roncalli , ho citato un frammento inedito di «istruzioni elaborate dal Sant’Uffizio e approvate da Pio XII» sul destino dei bambini ebrei salvati da istituzioni cattoliche francesi, emerso come tanti altri documenti nel paziente lavoro di annotazione di quel tomo, curato da Étienne Fouilloux. Non mi sono dilungato in note filologiche, per sottolineare un solo elemento: e cioè che nella Chiesa, durante e dopo la Shoah, convivono gesti commoventi di cristiana umanità e gesti di gelida burocrazia teologica, che continueranno a intrecciarsi fino al Concilio e dopo, com’è ovvio in un processo storico lungo come quello che separa la voce Antisemitismus del 1933 sul Lexicon für Theologie und Kirche dal discorso di Giovanni Paolo II in Israele nel 2000. Su quell’inedito, come ha scritto padre Giovanni Sale, s’è sviluppato un «civile e appassionato confronto»; ma non è mancata qualche sgradevole provocazione denigratoria (non solo contro i Papi). Alcuni articoli degni del Museo degli Sforzi Inutili si sono impegnati a sostenere che quelle istruzioni erano o giuste o false, o l’uno e l’altro, o che andavano imputate al nunzio Roncalli. Ciò impone alcuni ragguagli critici, a cui aggiungerò un mio punto di vista.
Il dattiloscritto datato 23 ottobre 1946, giorno successivo al rientro del nunzio a Parigi dopo le vacanze, è una delle tipiche note con le quali si trasmettevano gli ordini della Suprema Congregazione del Sant’Uffizio, della Romana e Universale Inquisizione e dell’Indice dei Libri proibiti, della quale a quel tempo era prefetto il Papa. Per dare ordini il Sant’Uffizio dava sovente mandato al superiore diretto di informare il destinatario, con procedure a tutela del segreto. Talora l’informazione veniva data tacendo al destinatario finale perfino l’origine della decisione («reticito nomine»), talaltra consegnandogli una nota verbale che comunicava la «mente» di Roma. È questa nota che la nunziatura parigina prepara nel 1946. Bisogna avere disistima per la diplomazia vaticana per pensare che le nunziature non sapessero produrre una fedele nota in francese (di cui è rimasta copia al Centre National des Archives de l’Eglise de France di Issy-le-Moulineaux) ad uso dei vescovi. Come suo dovere, Roncalli non ne ha fatto cenno in altra sede.
L’atteggiamento che quel documento raccomanda è diverso da quello che Roncalli aveva assunto nei mesi precedenti. Lo dice una lettera del Fondo Kaplan del Centre de Documentation Juive Contemporaine, a cui facevo cenno: a luglio 1946 il rabbinato di Francia ringraziava il nunzio per la disponibilità a intervenire assicurata al gran rabbino Herzog, di cui era amico da anni, e domandava un passo specifico per 30 bimbi. Herzog aveva scritto a Pio XII il 12 marzo 1946 per richiedere il suo avallo nella restituzione dei piccoli ebrei superstiti alla fede dei padri. Forse già in quelle settimane il Sant’Uffizio aveva elaborato un parere, coerente con la pratica in uso ai tempi del Papa-re, ma che dopo la Shoah suona, come riconosce Vittorio Messori, «disumano». Non sappiamo quando Roncalli ne venga a conoscenza. Forse dopo essere stato interpellato in agosto da due vescovi francesi sui battesimi dei piccoli ebrei, forse dopo aver consultato Roma o aver parlato a lungo col Papa il 27 settembre o dopo aver ricevuto il 17 settembre da monsignor Tardini un dispaccio. Di quest’ultimo atto ignoro il contenuto (le istruzioni e i dispacci di Roncalli del periodo parigino sono le uniche carte di cui fu negata copia sia alla Congregazione per le cause dei Santi, sia ai redattori della Positio historica della causa di Papa Giovanni di cui ebbi il privilegio di essere uno degli autori); non so se Roncalli lo ricevette a Sotto il Monte o lo lesse a Parigi la sera del 22 ottobre 1946, perché la «autorevole fonte» che, pochi giorni dopo il primo articolo del Corriere, lo ha passato al sito VaticanFiles.net (dove un gruppo eterogeneo di studiosi pubblica documenti d’archivio), non l’ha precisato.
Il documento del 1946 aggiunge la forza della fonte storica a qualcosa di noto. E cioè che dopo la Liberazione (lo documenta La Chiesa cattolica e l’Olocausto, di Michael Phayer) c’era nella Chiesa già chi s’interrogava sulla Shoah e chi reagiva con schemi che non ne coglievano la portata epocale. È infatti noto che l’ affaire Finaly, i due bimbi contesi in tribunale, arriva al 1953 e vede i cattolici divisi; e Jules Isaac va a Roma a cercare sostegno contro l’antisemitismo perché spera in qualcosa, anche se nel 1955 non lo trova (come spiegano le lettere apparse su «Sens», la rivista francese dell’amicizia giudeo-cristiana). Così, chi avrà la pazienza di leggere i cinque volumi della Storia del Concilio Vaticano II diretta da Giuseppe Alberigo o i dispacci dei diplomatici citati nel mio L’altra Roma constaterà che la vena del disprezzo antisemita o «antigiudaico» (come s’usa dire, quasi fosse una virtù) dura anche mentre la dichiarazione conciliare Nostra Aetate sta per tagliargli l’erba sotto i piedi, e oltre. Se questo chiarisce i dati, non spiega però gli interrogativi posti da alcune posizioni emerse in un dibattito internazionale quanto mai ampio, il cui coté italiano è stato efficacemente sintetizzato da Adriano Sofri sulla Repubblica . Perché s’è buttato di lato il gran lavoro delle Agende e si è voluto riaprire lo sterile duello fra chi trova nell’atteggiamento di Pio XII una colpa grande quanto l’intero Olocausto e chi ripete ad nauseam argomenti di cui l’intuito politico di Pacelli si sarebbe vergognato? Perché, anziché storicizzare la distanza fra la gelida burocrazia della nota del 1946 e la forza di comunione fra fedi della Chiesa di Giovanni Paolo II, s’è cercato, come ha fatto Avvenire, di trasformare il rilevamento delle differenze in una «contrapposizione» fra pontefici o si è lamentato un clamore al quale s’è dato corda cercando inutilmente un antidoto liquidatorio?
Le ragioni sono molte. E molte sono causate da un fatto noto e reversibile, cioè la chiusura di gran parte degli archivi vaticani del 1922-1939 e di quasi tutti quelli del 1939-1958. Tutti sanno che aprire le carte è lungo e che alcune tappe sono fissate. Ma se la Santa Sede ritrovasse il coraggio con cui Leone XIII nel 1880 squadernò l’Archivio Segreto Vaticano per rispondere al Kulturkampf tedesco, all’anticlericalismo e al desiderio degli eruditi cattolici, se aggiornasse lo zelo di Paolo VI, che nel 1965 iniziò gli Actes et Documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale che traboccavano di nomi di viventi (incluso il suo), se deponesse l’illusione di giovarsi di avvocati arruolati con odiosi privilegi d’accesso alle carte, le provocazioni si spunterebbero e verrebbero alla luce gli intrecci complessi che fanno la storia. Di questo c’è sete: non macchinazioni, micce o capricci, ma sete. È la sete della coscienza collettiva di quest’Europa, che non è solo un infuso di radici, ma anche il frutto dell’orrore con cui essa s’è specchiata nel fumo dei forni crematori, che hanno cambiato per sempre il paesaggio religioso e l’anima del continente.
Un gesto «alla Leone XIII» farebbe bene a tutti. Alla Chiesa, che nel Novecento non è una comparsa, ma un grande mondo. Farebbe bene alla storia, che non dev’essere il tribunale delle requisitorie, ma non può nemmeno ridursi al confessionale dove si assolve chi pronuncia l’atto di dolore o la pagoda dove tutto ciò che è accaduto in altro «contesto» resta muto. C’è sete e bisogno di una ricerca che costruisce con lentezza conoscenze complesse e disomogenee: quasi mai fruibili come tali, ma non inutili. Altri (la stampa, la politica, l’educazione, la morale, l’agiografia) possono trasformarle in linguaggi, pruderie, retoriche, culture. La ricerca storica (sotto lo sguardo della stampa, della politica, della morale, della teologia) elabora invece visioni e revisioni sue, grazie alla disponibilità di grandi agglomerati di fonti, e con questi si confronta.
Le fonti ci hanno detto da tempo che la posizione di Roncalli davanti alla Shoah non assomiglia a quella di un cospiratore, ma neppure s’esaurisce nella replica degli atteggiamenti romani (ne scrissi anni fa nel mio Fra Istanbul Atene e la guerra , così come nella Positio). La ricerca su Pio XII fatica da tempo alla ricerca del crinale che separa ciò che accade «sotto» Pio XII ( I dilemmi e i silenzi di Pio XII , di Giovanni Miccoli, dedica un esemplare capitolo alla situazione in Croazia) e ciò che Pio XII «fa» accadere. E dunque ondeggia, vulnerabile all’apologia odiosa e all’odiosa provocazione. Si prenda proprio il caso degli ebrei grandi e piccini salvati nei conventi: presentarli come la briciola che riequilibra il genocidio è una bestemmia. Bravi preti, frati e suore sono una tessera in un mosaico nel quale altri cattolici sono stati perpetratori, ignavi o vittime. Una tessera che diventa interessante a Roma dove - l’ha detto Andrea Riccardi - nascondere ebrei in certe clausure femminili comportava una trasgressione dietro la quale si immaginava, possedeva o supponeva una dispensa papale. Ma per discernere i fatti e le voci serve un insieme di documenti, e non il naso dell’agiografo.
Quello, a dire il vero, non è stato decisivo nemmeno nel processo di beatificazione di Pio XII, sul quale non è vietato avere opinioni né agli ebrei, né ai cattolici. Un processo non è un crimine, né un dogma, al quale dovrebbero piegarsi preventivamente gli storici, i cattolici e soprattutto gli ebrei, per non ostacolarne lo sviluppo. Quel processo è reso complesso dal segno storico-politico sotto il quale è nato. Papa Montini lo avviò nel novembre 1965 sia per bilanciare la simmetrica causa Roncalli sia per ribadire la insindacabilità dell’atteggiamento vaticano durante la Shoah. Non ci riuscì. Così il lato spirituale del pastor angelicus è rimasto quello di «uno sconosciuto»: è il titolo che «Cristianesimo nella storia» darà alla recensione di Alberigo sul recente Pio XII, diplomatico e pastore di Philippe Chenaux: un libro cauto, ma spietato nel ritrarre un Papa solitario e calcolatore, nella cui figura gli elementi politici dominano per logica interna, con tutto ciò che ne consegue.
Questo ingarbugliato nodo storico-teologico Giovanni Paolo II lo ha tagliato col «mea culpa» del 2000. Riconoscendo che esistono colpe dei figli della Chiesa, Papa Wojtyla ha spiegato che un cattolicesimo disposto a riconoscere il valore «teologico» del giudizio dell’umanità sui propri errori, non è più scipito, ma più autentico. Un atto ancora gravido di futuro, che fa spazio al sapere storico e insieme richiede di riflettere proprio sulle residuali insinuazioni, sui rigurgiti di disprezzo, sulle autoindulgenze, sui complessi vittimisti che sono riemersi nel corso di questo lungo dibattito, senza esserne la parte principale.
La discussione
Il 28 dicembre il «Corriere» ha pubblicato un documento inedito del settembre 1946, in cui il Sant’Uffizio, con l’avallo del Papa, ordinava di non restituire alle famiglie e alle comunità israelitiche i bambini ebrei battezzati ospitati da istituzioni cattoliche francesi per sottrarli alle persecuzioni naziste La rivelazione ha riacceso la polemica contro la beatificazione di Pio XII da parte di alcuni esponenti del mondo ebraico
Altri osservatori hanno sottolineato che l’atto venne riprodotto in francese e trasmesso da Angelo Roncalli, il futuro Giovanni XXIII, all’epoca nunzio apostolico a Parigi. E c’è anche chi ha messo in dubbio l’autenticità del documento.

Gli interventi
Il documento del Sant’Uffizio pubblicato dal «Corriere» il 28 dicembre ha suscitato un vasto dibattito Sulle nostre colonne sono finora intervenuti Alberto Melloni, Amos Luzzatto, Vittorio Messori, Andrea Tornielli, Peter Gumpel, Giovanni Miccoli, Riccardo Di Segni, Emma Fattorini, Anna Foa, Renato Moro, Daniel Jonah Goldhagen, Lucetta Scaraffia, Giorgio Rumi, Ernesto Galli della Loggia
Della vicenda si sono occupate molte testate estere, tra cui «New York Times», «The Guardian», «La Croix», «Washington Times», «Jerusalem Post», «Independent», «Taipei Times», «Le Figaro», «Ha'aretz», «Seattle Times»

L'Unità 7.1.05
Antisemitismo, la Storia del cantastorie
di Nicola Tranfaglia


Così Ernesto Galli della Loggia, in un articolo che incomincia in prima pagina e occupa l’intera pagina 33 della Cultura sul “Corriere della Sera” del 7 gennaio, conclude il suo ragionamento: «Il destino delle minoranze e dei marginalizzati in genere, per esempio,delle popolazioni indigene nelle aree della colonizzazione, delle donne, ovvero l’attenzione per figure come quella del prigioniero, del portatore di handicap, del morente hanno costituito uno spazio via via crescente nella nostra sensibilità e nella nostra cultura, alimentando e confluendo in quell’indirizzo genericamente umanitario che è tra i più tipici e potenti del nostro panorama attuale. Indirizzo che, come il precedente, riguardante l’identità, tende ad essere più o meno consapevolmente applicato con l’effetto di modificarne in modo significativo... ma anche con il pericolo di applicare criteri di oggi a fatti di ieri, di decontestualizzare eventi e protagonisti, di trasformare il giudizio storico in un moralismo fuori del tempo. Così come, mi pare, accada regolarmente ogni volta che viene riaperta la pagina complessa e drammatica del rapporto della Chiesa con i totalitarismi del secolo passato».
Ma qual’é nella sostanza il giudizio storico che Galli contesta alla fine di un dibattito tra storici e archivisti a proposito di un documento della Nunziatura di Parigi tenuta da Angelo Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII, del 23 ottobre 1946 da cui potrebbe risultare che il Santo Uffizio Vaticano chiedeva ai nunzi e ai vescovi di non restituire alla famiglie i bimbi ebrei ospiti delle istituzioni cattoliche. Direttiva a cui Roncalli, secondo le indiscrezioni su un libro di storia che uscirà l’anno prossimo in Italia, non avrebbe ottemperato?
Galli della Loggia non ritiene di poter accettare un giudizio negativo nei confronti della Chiesa di Pio XII come quello espresso sullo stesso giornale qualche giorno fa dallo storico americano Daniel Jonah Goldhagen e giunge ad affermare che si tratta di un modo di fare storia che applica al passato i nostri criteri morali ed è dunque anacronistico.
E aggiunge che, adottando un simile criterio, anche Natalia Ginzburg che, nella redazione dell’editore Einaudi rifiuta di pubblicare “Se questo é un uomo” di Primo Levi giudicandola opera di scarso valore e interesse o Benedetto Croce che, nel primo dopoguerra, invitava gli ebrei a superare la propria separatezza, possono essere giudicati antisemiti. Ma tutto l’articolo a me pare (come spesso avviene per il suo autore) scoppiettante di polemiche e di battute, ma assai poco consistente e fondato proprio su quel piano dell’interpretazione storica su cui si vorrebbe collocare.
Innanzitutto come si fa a paragonare un errore di giudizio editoriale come fu, senza dubbio, quello di Natalia Ginzburg ai numerosi giudizi di Pio XII sul nazionalsocialismo e sul fascismo italiano per i quali vale la pena richiamare un libro per molti aspetti definitivo come quello di Giovanni Miccoli su I dilemmi e i silenzi di Pio XII.Vaticano, Seconda Guerra Mondiale e Shoa pubblicato nel 2000 da Rizzoli? In quel libro, al termine di un’analisi filologicamente esauriente, Miccoli dava un giudizio delle parole e dell'azione di Pio XII che nulla ha a che vedere con giudizi sommari e superficiali ma che, nello stesso tempo, mette in luce l’inadeguatezza profonda della Chiesa di fronte al terribile massacro. Vale la pena ricordare le parole conclusive del libro di Miccoli: «Mentre la guerra superava per la sua spietata violenza ogni immaginazione e gli errori da elencare diventavano senza fine, coinvolgendo indistintamente militari e civili, i documenti della Santa Sede finiscono a volte col dare l’impressione che sia sempre e solo la guerra - come fatto mostruoso che supera il volere dei singoli - o al più l’umanità nel suo complesso, a subire la chiamata di correo». Non il fascismo e il nazionalsocialismo, in ogni caso.
Quanto al postulato di fondo che caratterizza il megarticolo di Galli della Loggia mi pare altrettanto discutibile (ad esser moderati). L’editorialista del “Corriere della Sera” sostiene - e chi lo ha mai negato? - che il concetto di Olocausto (creato peraltro dai suoi molto amati americani e non dagli storici italiani o europei) è una costruzione storica e che c’è il rischio di applicare al passato criteri e giudizi che si sono formati dopo quel tempo e appartengono al presente. Ma non avviene sempre così nella ricerca storica fatta dagli uomini del presente? È vero oppure no come diceva il vituperato Croce che ogni storia è in un certo senso «storia contemporanea» giacché gli uomini, nell’indagare il passato, sono spinti da domande del loro presente e applicano - né potrebbe essere diversamente - moduli culturali e modi di pensare che non sono di quel passato che pure vogliono riportare alla luce. Da questo elemento non è possibile uscire a meno che si intenda la ricerca storica come mero rispecchiamento del passato e dei suoi modi, del tutto inutile a farci capire il nostro tempo, pura e semplice descrizione di quel che è successo o che a noi pare rilevante, mera operazione filologica fine a sé stessa, povera o affatto priva di giudizi di valore. E non sono stati i maggiori storici del Novecento (da Croce a Volpe a Chabod, per restare in Italia) uomini che hanno tradotto, nelle loro opere storiche, criteri e giudizi del loro presente parlando dell’Italia liberale o di quella fascista?
Ma questi interrogativi a Galli della Loggia non interessano.
Lui che, quando parla del drammatico esperimento storico comunista mondiale si accontenta di applicare le più pesanti e semplicistiche categorie dell’immediato presente berlusconiano, quando, invece, si trova a parlare della Chiesa e dei fascismi preferisce sospendere ogni giudizio e non dire nulla sui silenzi e sui dilemmi di Pio XII.
Possibile che, con la sua brillante intelligenza, non avverta una contraddizione?