venerdì 20 maggio 2005

storia
Ilaliani brava gente?

Liberazione 19.5.05
Italiani brava gente,
lo stereotipo che inganna

In nome di questo falso mito sono stati cancellati dalla memoria collettiva i crimini peggiori compiuti dal colonialismo nostrano. Come quelli commessi in Jugoslavia ricostruiti dallo storico Costantino Di Sante
Tonino Bucci

Per un paese come l'Italia che ha avuto una costruzione nazionale debole e un'unificazione tardiva, la parola identità ha rappresentato spesso un campo vuoto da riempire, di volta in volta, con contenuti artificiosi. Non solo la storia passata del nostro paese non presenta esperienze collettive condivise - non lo è stata certo il Risorgimento - ma ogni volta che sono state presentate letture concilianti, queste hanno avuto segno conservatore e regressivo. Immagini unificanti come quella di patria o di "italiani in fondo brava gente" sono state utilizzate per rimuovere pagine imbarazzanti della nostra storia come il colonialismo e il fascismo; oppure per sminuire i conflitti sociali e politici, la Resistenza in primo luogo, da cui è nata l'Italia repubblicana.
Queste visioni concilianti a dispetto di ogni memoria antagonista si sono, non a caso, intrecciate, negli ultimi anni, con il revisionismo storico. Ogni volta che il ceto politico della destra italiana ha provato ad azzerare le ragioni politiche dell'antifascismo, si è fatta strada nel dibattito storiografico - o presunto tale - una visione relativizzante delle differenze tra Salò e la Resistenza, equiparando ambedue a opera di minoranze contrapposte. Il concetto di patria - o di identità nazionale condivisa - è stato invocato come orizzonte ulteriore all'interno del quale far sparire qualsiasi opposizione tra fascismo e antifascismo, ormai considerati come retaggi storici superati. Mai come al momento della nascita della cosiddetta Seconda Repubblica lo slogan della riconciliazione ha trovato così tanto credito, quando dare per superata la contrapposizione fascismo-antifascismo significava dare il via libera allo smantellamento della costituzione resistenziale e della democrazia dei partiti di massa. Più i processi materiali andavano in direzione del maggioritario, del rafforzamento dell'esecutivo, del presidenzialismo, del federalismo e del primato del mercato; più nella cultura si faceva strada l'immagine conciliante degli "italiani brava gente", rimasti immuni a grande maggioranza dagli odii degli opposti estremismi, dal fascismo e dall'antifascismo, considerati opera di minoranze esigue da rigettare senz'altro tra gli anacronismi superati dalla storia.
Ma di quale pasta sono fatti gli stereotipi che dovrebbero spazzare il terreno da ogni residuo di memorie inconciliate e antagoniste? Qual è il "materiale" rimosso dalle letture pacificatrici della storia italiana? Quali pagine del colonialismo nostrano sono state cancellate in nome del bravo italiano, sempre generoso e dotato di gran cuore, modesto eppure capace di piccoli atti eroici? Non si può negare che, nonostante il lavoro meritorio di alcuni storici come Angelo Del Boca, il mito della brava gente abbia rimosso molti dei crimini commessi dall'esercito italiano in Libia e in Etiopia, ma anche nei territori dei Balcani occupati durante la Seconda guerra mondiale. «Come tutti gli stereotipi, il mito del "bravo italiano" si è fondato su un nucleo di verità (ad esempio, l'aiuto prestato su larga scala agli ebrei) e al contempo su una radicale rimozione di altri aspetti della realtà imbarazzanti per la coscienza nazionale» che potrebbero mettere in crisi una lettura conciliante della nostra storia: come questo dispositivo abbia cancellato dalla memoria collettiva i crimini delle avventure coloniali e belliche, lo analizza Costantino Di Sante, un ricercatore dell'istituto regionale per la storia del movimento di Liberazione delle Marche e autore del volume Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951) (edizioni Ombre Corte, pref. di Filippo Focardi, pp. 272, euro 18,00).
Se non fosse per lavori sporadici come questo ci sarebbe un silenzio assoluto sul passato colonialista dell'Italia in Africa. Ancor meno si potrebbero affrontare domande imbarazzanti sul reale consenso che c'era, ad esempio, nel nostro paese al momento dell'ingresso nel secondo conflitto mondiale al fianco della Germania nazista. E, senza dubbio, nessuna traccia rimarrebbe dei crimini commessi soprattutto durante l'occupazione militare nei Balcani, elusa completamente negli attuali dibattiti collettivi - impegnati perlopiù a rimestare nelle foibe, nella riabilitazione più o meno esplicita della Repubblica di Salò, di cui si celebra il sangue versato, e finanche nella criminalizzazione di alcuni settori della Resistenza.
«La politica italiana di espansione nei Balcani - scrive Di Sante - come ormai documentato dalla ricerca storica più avvertita, venne contraddistinta da inaudite violenze, che non furono episodi isolati o eccessi di singoli, ma componenti essenziali della strategia di dominio territoriale dell'Italia». Dopo la capitolazione della Jugoslavia - l'attacco contro di essa era scattato il 6 aprile 1941- gli italiani parteciparono alla spartizione dei territori insieme a Germania, Bulgaria, Ungheria e Albania, mentre Croazia e Montenegro (quest'ultimo un protettorato di Roma) divennero due stati indipendenti. Gli italiani si annessero le città di Spalato e di Cattaro, allargarono il governatorato di Dalmazia ad alcuni comuni dell'interno. A Fiume si aggiunsero dei territori tra la Slovenia e la Croazia, mentre venne creata la provincia di Lubiana in Slovenia. L'esercito occupò anche altre zone della Bosnia, l'intera Erzegovina, il Sangiacatto e parte della Croazia.
Le zone occupate furono teatro di violenze, repressioni antipartigiane, crimini contro la popolazione civile, «eppure a partire dal 1945, terminate le ostilità, quei crimini, come altri analoghi di cui si erano rese responsabili truppe italiane nei territori via via invasi, sarebbero stati destinati a svanire, corroborando lo stereotipo del "bravo italiano" che, alimentato dall'oblio, si è depositato in una memoria parziale ed edulcorata degli eventi. Una memoria che, riprodotta ampiamente dalla memorialistica e dal cinema, restituisce un'immagine degli italiani come esclusivamente vittime e mai agenti di violenza». Nonostante nell'immediato dopoguerra la Jugoslavia di Tito avesse istituito appositamente una commissione d'inchiesta sui misfatti compiuti dalle truppe italiane, nessuna delle richieste di estradizione dei criminali per poterli processare trovò risposta positiva da parte delle autorità italiane. Quest'ultime riuscirono a evitare che si svolgessero i processi per quei crimini grazie a una «intensa attività diplomatica» e ad alcuni dossier approntati dallo Stato maggiore del nostro esercito - raccolti tra la documentazione allegata al volume di Di Sante. Proprio quei dossier - dati alla mano - offrirono il mezzo per contrastare le accuse jugoslave, ricorrendo spesso alle «inattendibili testimonianze rilasciate da molti protagonisti di quei crimini». Generali, ufficiali, semplici soldati, poliziotti, carabinieri e funzionari civili italiani che si erano macchiati di gravi misfatti non furono mai puniti, «evitando così quella che è stata chiamata la possibile "Norimberga italiana"». E va sottolineato che «la loro protezione venne ottenuta con l'importante complicità degli Alleati impegnati a difendere i propri interessi strategici». Non solo: anche coloro che collaborarono con le autorità fasciste sfuggirono a qualsiasi processo. «Diversi criminali (ustascia, cetnici soprattutto), che avevano prestato la loro opera di collaborazione con i regimi fascisti, trovarono un sicuro rifugio in Italia».