venerdì 5 settembre 2003

Buongiorno, note: il manifesto

il manifesto 5.9.03
Aldo Moro, la storia in una stanza
Applausi per il film di Marco Bellocchio «Buongiorno, notte» che rievoca il sequestro del leader Dc. E in un trittico conclude le «lezioni» veneziane, dopo «Segreti di stato» e «The Dreamers»
Io ho sempre pensato che si dovesse trattare, non era accettabile che un uomo morisse in quel modo. La cosa più folle è quell'assassinio a freddo. Forse per questo, al di là di quanto c'è nel libro, l'ho voluto mettere in relazione ai tedeschi che gettavano i partigiani nel fiume
di Roberto Silvestri

Millenovecentosettantotto, cinque cadaveri in divisa sul selciato, Moro, sequestrato, dopo un processo nazional-proletario, verrà condannato. Lo scambio di prigionieri politici non ci sarà. Scaduti gli ultimatum, il brigatista Maccari lo giustizierà (fuori campo) con una scarica di mitra... Il film, come in Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, è un kammerspiele non manicheo. Un appartamento agiato. Una libreria col doppio fondo prigione. Una branda. La stella a cinque punte. La scritta troppo gialla sopra il drappo troppo rosso. Chiara, l'affittuaria-sequestratrice di 23 anni, bibliotecaria, figlia di partigiani. Lei, dentro e fuori il covo. Al lavoro e al lavoro politico. Coi suoi occhi e con i suoi sogni, deformati, umidi e secchi, vedremo un pezzo nevralgico della nostra storia. Ma c'è anche Marco Bellocchio in quell'appartamento. Tra le mani di Chiara il regista le impone, attraverso un collega d'ufficio inventato, una sua sceneggiatura. Contiene quel che il movimento, superato lo sbigottimento e il cinico umorismo della indecente notizia, pensò in quei giorni dell'insurrezione scippata sperando in un finale più «aperto». La coscienza di Chiara è un po' il coro di quella tragedia greca... Invece. I cappucci neri dei rivoluzionari rossi, impazziti a forza di difendersi da anni con le armi, paiono una macchia grigia, di piombo, indelebilmente analoga, nell'immaginario, agli incappucciati della P2, che tolgono la parola politica a tutti gli altri soggetti sociali, come Maurizio Costanzo fa oggi, fanaticamente, privando di etere ogni altra comunità che non sia il partito-azienda. E, nel loro internazionalismo al sangue, visionario e troppo lucido nell'assalto al sistema militar-industriale delle multinazionali, Moretti (nel film un Luigi Lo Cascio già «abbattuto» in partenza) e compagni ricordano le goffaggini spietate di qualche cupola segreta cattolica reazionaria italo-latino-americana che in quel momento, il Mundial di calcio dei torturatori di Videla è alle porte, sta pianificando, dopo il Cile, la soluzione finale contro la gioventù democratica di Argentina e Brasile...e se strettamente necessario anche d'Italia. Forse furono i demenziali metropolitani del `77, più che le ritirate strategiche del Pci, a salvarci la vita? Le lettere di Moro vanno in dissolvenza incrociata su quelle, pubblicate da Einaudi, dei condannati a morte della Resistenza. Le immagini di Roberto Herlizka, il sequestrato, mostro della recitazione minimalista cui a stento Riccardo Giagni restituisce spessore e calore umano, viste dallo spioncino della sua cella nel covo insonorizzato, sembrano a Chiara quelle di un divo di Griffith, con l'alone circolare nero, ancora più antiche e mitiche delle immagini di un altro illustre collega statista, Stalin, e di quelle dei partigiani trucidati per mano nazi-fascista...E di Emanuele Rocco, Santalmassi, Vespa in contumacia, che certificano invece il passaggio alla tv e all'Italia a colori di La Repubblica e dei suoi sondaggi «basta `68!». In Il ritorno di Cagliostro una statua nuda e urlante prende a un tratto vita ma le ombre prefabbricate di Ciprì la trasformano nella silhouette nera di una «donna con il burka». E la morale è: siamo nella fase del cinema obliquo, anfibio. Traducete ogni informazione nel suo contrario. Per fare resistenza occorrono occhi biforcuti. Se tutto sembra andare a rotoli, traduce John Sayles nel bellissimo Casa de los Babys (concorso B, perché non A?) consideratevi l'unica stella sopravvissuta in un firmamento totalmente buio. Bel titolo, Buongiorno, notte, dunque, tratto dal verso di Emily Dickinson «Buongiorno, mezzanotte». Il dio dei cristiani separò il giorno e la notte, ma una divinità yoruba inventò Mezzogiono e Mezzanotte. Eccoci allora a dare il benvenuto a un film non cristiano e d'anticlericalismo fertile, alla Ernesto Rossi, dove si spiega che lo Stato, da Almirante a Ingrao, da papa Montini agli amici più fidati e affranti dello statista rapito (Zaccagnini, Galloni, Prodi e Cossiga) non impedirono l'esecuzione di Aldo Moro. Anzi, fecero anche qualche seduta spiritica fraintesa, superstiziosa, forse propiziatoria...

Il film esplicitamente «infedele», «falso» di Marco Bellocchio (non apprenderemo un solo capo d'accusa proletario contro il presidente della Dc, né Avola né una delle tanti stragi di stato) sul rapimento e sul sequestro di Aldo Moro, chiude le tre lezioni di storia sul secondo dopoguerra italiano aperte, qui alla Mostra di Venezia, da Paolo Benvenuti, con Segreti di stato, sui crimini mai processati della Dc (e parodia del teorema Calogero?), proseguito da Bertolucci, sull'immaginazione pericolosamente al potere tra il maggio `68 e via Caetani (The Dreamers), e chiuso appunto nel 1978 da Buongiorno, notte, quando l'immaginazione di potere ne prese fin troppo, morendone d'indigestione, a patricidio compiuto. Un film compatto, dark, suggestivo, spalmato di musica mai d'ambiente, come dire: se Curcio e Moretti avessero frequentato Art Ensemble of Chicago e Pink Floyd quanto Raniero Panzieri e Renzo Del Carria, la storia d'Italia sarebbe cambiata in meglio e il proletariato giovanile avrebbe ottenuto qualche sconto in più sui biglietti d'ingressi del Palalido. Che ha utilizzato Il prigioniero di Tavella-Braghetti per tratteggiare con l'ipnosi in una mano e Brecht nell'altra, il personaggio centrale, la combattente per il comunismo Chiara, le lettere del dc di Maglie e i ricordi della famiglia Bellocchio (il film è dedicato al padre) che una certa responsabilità nella nascita del movimento di contestazione generale ce l'ha: il «caso Braibanti» fu la prova generale della cospirazione Valpreda, e fu architettato per motivi di speculazioni edilizie a Piacenza proprio dai dc nemici d'affari della famiglia del regista.

La mia verità, nient'altro che cinema
La cronaca di quei 55 giorni di rapimento l'ha tratta liberamente da «Il prigioniero», il libro scritto da Anna Laura Braghetti insieme a Paola Tavella, ma il regista dei «Pugni in tasca» non inseguiva la realtà
di Cristina Piccino

VENEZIA. Emozionato, teso persino Marco Bellocchio, che quell'applauso lunghissimo con cui è stato accolto il suo Buongiorno, notte non se lo aspettava: «credevo che avesse un'accoglienza molto più controversa» sussurra. Tanto da sembrare sfuggente, o forse no, è che di spiegare il film in risposte che sono certezze non ne ha voglia, lo fa proprio come quel pezzo di Storia italiana rimasta oscura e mai metabolizzata, il rapimento Moro, le Br, la fine dei movimenti, ce la racconta sullo schermo: non un'inchiesta, piuttosto un punto di vista personalissimo che vuole escludere tesi «a priori». Dice il regista dei Pugni in tasca, generazione di cinema che è anche quella di Bertolucci e del suo Sessantotto sognato: «penso che sarebbe importante fare un film sul caso Moro dove si dica se erano coinvolti i servizi, la Cia, il Kgb ma io non ne sono capace. Ci sono dei frammenti in Buongiorno, notte, ad esempio la scena in cui si vedono tutti quei poliziotti fuori della casa dove è prigioniero che ci mostra il caos in cui si muoveva lo stato in quel momento. Oppure la carrellata finale che dice agli uomini della repubblica, non siete riusciti a salvarlo». Dunque Il prigioniero, libro di Anna Laura Braghetti, la Chiara del film di cui incarna le contraddizioni Maya Sansa, e Paola Tavella. I sogni, la figura di Moro libero in sovrimpressione a un Padre, quello assente sempre del regista a cui è dedicato il film, la «band à part» delle immagini di ieri, i tg, altra verità negata-impossibile, e il film oggi la cui verità sta nel non volerla rappresentare. Non c'è Lanfranco Pace - un altro libro/film - ma c'è un bimbo, il figlio di una vicina quando Moro arriva nell'appartamento di ordinaria piccola-borghesia, che esaspera l'assurdità del gesto. E c'è in ellissi la fine dei movimenti, la repressione, il ragazzo arrestato con l'immaginazione al potere che era forse la pulsione più vitale del `77. Poi una frase che il regista inserisce nelle note di regia sul titolo, un verso di Emily Dickison: «Buongiorno, notte contiene una contraddizione che mi sembra interessante, perché evoca quel periodo notturno, angosciante, oscuro. Ma se oggi sia giorno non lo so».

C'è un molteplice piano visuale, il suo film e i tg del '78, che diventa quasi chiave narrativa. È un segno di una verità che non possiamo stabilire?

Mi piaceva l'idea di una messinscena in forma di rituale, l'appartamento piccolo-borghese, la tv, i gesti da casalinga del personaggio femminile, cucinare, stirare, quella finta vita di famiglia che sterza con violenza quando lei guarda dentro, vede il prigioniero nella cella. In una prima sceneggiatura la figura di Moro non doveva neanche apparire, poi abbiamo deciso di svelarlo. Non credo che sia possibile rappresentare quella realtà in sé, e per questo non mi interessa se le cose siano andate come Anna Laura Braghetti scrive nel suo libro o no, è stato una fonte preziosa da cui abbiamo ricavato diversi episodi, ad esempio la lettura che la ragazza fa delle Lettere dalla Resistenza, poi ci siamo mossi molto liberamente. Sono materiali grezzi, la cronaca da trasformare in cinema. Nel libro di Braghetti cercavo soprattutto un segno che le cose potevano andare diversamente.

Infatti nel sogno della donna Moro si allontana vivo all'alba il giorno che lo hanno ucciso.

Lo stile del film non è realistico, come dicevo l'oggetto non è la verità storica, chi c'era dietro ai terroristi o altro. Volevo cercare nell'infedeltà qualcosa che contrastasse l'ineluttabile di quella tragedia, che sono le contraddizioni del personaggio di Chiara. Braghetti si rimprovera di non avere agito, ma è andata così. Il resto sono i sogni, Moro che vaga nelle stanze guidato dalla musica di Schubert, la panchina dove è morto Lenin nel paesaggio con la neve: senza fare della psicanalisi è come se lei sentisse tutto raggelato il giorno della loro vittoria, il rapimento segna l'avvio della sua catastrofe interiore.

Allora lei, Bellocchio, cosa ha provato?

Ho sempre pensato che si dovesse trattare, che farlo non significava debolezza, al contrario sarebbe stato un atto di coraggio e di forza politica. Non era accettabile che un uomo morisse in quel modo. Che la cosa più folle è quell'assassinio a freddo, forse per questo, al di là di quanto c'è nel libro, l'ho voluto mettere in relazione ai tedeschi che gettavano i partigiani nel fiume.

Ecco, i materiali sulla Resistenza, Paisà di Rossellini sono ancora un altro piano del racconto.

In una parte della sinistra quegli anni si criticava il modo di interpretare i valori della Resistenza nel presente, si diceva che erano stati diluiti, ridotti a una semplice celebrazione. La figura di Lama, ad esempio: è stato un partigiano e il suo discorso in quel frangente per quanto retorico ha un'efficacia straordinaria. Inoltre io sono cresciuto con quei valori e mi sembrava che quelle immagini li esprimessero con forza. Ma non le avrei mai utilizzate senza la musica dei Pink Floyd (da Wish you were here, ndr). È stata Francesca Calvelli, mia compagna e montatrice del film a suggerirla. Non è un bagaglio della mia generazione, non sapevo neanche che esistesse, ma credo che sintetizzi la ribellione e la disperazione di quegli anni.

Il film è dedicato a suo padre.

L'ho deciso all'ultimo momento, è una figura assente nei miei film e Roberto Herlitzka me lo ricordava. L'ho perduto da adolescente e ho sempre rimosso quel dolore. Le passeggiate di Moro nell'appartamento vengono dai ricordi di mio padre, che ci guardava la notte mentre dormivamo.

Oltre i fatti, affiorano le emozioni
I commenti alla proiezione del film di Bellocchio sul sequestro Moro

«Si tratta della questione di come mai, in quel caso e solo in quello, lo Stato italiano decise di non trattare con i terroristi né cercare seriamente di liberare il prigioniero»: così, sottolineando il cuore del problema, si conclude la lettera che il figlio di Aldo Moro, Giovanni, ha scritto all'amministratore delegato di Rai Cinema Giancarlo Leone per ringraziarlo del film di Marco Bellocchio Buongiorno notte dedicato al sequestro di suo padre. «Sono persuaso - scrive ancora Giovanni Moro - che corrisponda a quanto fu vissuto dal prigioniero e insieme metta in luce in modo pacato ma netto il nodo ancora non sciolto di quella vicenda anche dal punto di vista storico, politico e giudiziario». «Ho molto apprezzato il film - ha raccontato poi il figlio del leader Dc invitato all'anteprima della proiezione - trovo che Bellocchio scegliendo deliberatamente di riflettere sull'esperienza dell'uomo Aldo Moro in carcere, senza vincoli o ambizioni di ricostruzione storica o di fedeltà all'insieme dei fatti, abbia illuminato aspetti importanti di quella vicenda». Con qualche resistenza (avrebbe preferito parlare di qualcosa già visto) Prospero Gallinari, uno dei brigatisti che fu protagonista del sequestro Moro, ha deciso di commentare il film. «Si tratta di un film di fronte al quale ognuno può pensare e sentire quello che crede; i fatti sono una cosa, l'arte è un'altra».

«È un film che prende in contropiede la mia generazione perché nessuno da anni parla più del caso Moro, lo abbiamo rimosso: fu una sconfitta, la fine di tutto». Il presidente della Rai Lucia Annunziata trova «liberatorio che Bellocchio abbia lasciato sullo sfondo tutto quel dibattito dietrologico su Cia, Kgb e complotti su cui molti di noi si incagliarono e si persero», spiega poi. «Buongiorno, notte - continua Annunziata - ci riporta a quegli anni e mostra come fummo sopraffatti e distrutti da un branco che non era né più intelligente né migliore di noi. In quegli anni - aggiunge - lavoravo al manifesto e me ne occupai direttamente come giornalista».

«Mi auguro che il film di Bellocchio sia un film d'autore cioé si preoccupi di raccontare le emozioni, la vicenda e le contraddizioni umane».Valerio Morucci, ex br tra gli autori del sequestro Moro, il film non lo ha visto ma non esclude che potrebbe andarlo a vedere: «molti giornali mi hanno già contattato per avere un mio commento in diretta durante una visione privata in cassetta. Spero però non sia l'ennesimo film sui fatti. Ne hanno già realizzati due che sono da dimenticare».


BERTOLUCCI
«Dreamers» piovono molotov
di Mariuccia Ciotta

«Inudi di The Dreamers (e di Twenty Nine Palms) non fanno sognare Venezia» titola Le Monde. E «Dreamers, 68 façon 69» scrive Libération, che insiste in prima pagina con il richiamo giocato sulla rivoluzione-cul come culturare e come culo. Cosa è successo agli spregiudicati cinephiles d'oltralpe, ai due quotidiani autorevoli nel paese di Genet e Klossowski e delle Follies Bergères? È vero che l'Europa rischia la matrice dell'integralismo religioso, ma almeno Parigi dovrebbe resistere. Il film di Bernardo Bertolucci ha scandalizzato i due inviati al Lido. Thomas Sotinel per Le Monde dice dell'incastro prismatico tra sequenze mitiche dell'immaginario sessantottino descrivendole come «petit jeu cinephile», stupidità pretestuose per intrattenere nudi i tre ragazzi, quando è proprio in quella materia dei «sogni» che The Dreamers ri-costruisce il `68 e salda emozioni e politica. Non c'è una stanza chiusa dove si fa sesso mentre nella strada «gronde la revolte». Il Sessantotto sprigiona nel corpo gemello (fratello-sorella) le pulsioni contrastanti e separate della politica, l'aldiqua e l'aldilà, il piacere dello schermo e dell'azione. Godard e le barricate. Il maggio è francese ma anche la cecità di Le Monde e Libé che trasforma l'esperienza di una «perversione» violenta e liberatoria in uno sguardo di «concupiscenza sui giovani corpi» con cui Bertolucci «evoca una sola trasgressione, il suo voyeurismo». Il `68 inventò il diritto alla felicità. L'urgenza di coniugare se stessi con la lotta, essere sì «perversi» e violenti contro i ricorrenti maestri del buon senso, ancora oggi al comando. The Dreamers è nostalgia del futuro, non solo esercizio di memoria. Le Monde e Liberation ne escono turbati. «I dialoghi politici sono di una vacuità particolarmente sconvolgente per l'autore di Prima della rivoluzione» scrive Sotinel. Non ci sono dialoghi «politici» in The Dreamers. Anzi le parole dei codici della politica si spezzano, vengono annientate e sopraffatte, sovrimpresse dal linguaggio di un'altra epoca che Bertolucci ci restituisce gioiosamente, come allora con L'ultimo Tango a Parigi. Qui esultiamo alla domanda se è giusto sognare o proseguire verso lo schieramento di polizia. La risposta è tutti e due, contemporaneamente. Anche Bellocchio ci pone davanti allo stesso dilemma, i desideri/armati. Due corpi, due ragazze, per Bertolucci e per Bellocchio come non più creature estranee - debolezza, sentimenti, pietà - ma nuovo soggetto che trascende, umano. Le Monde scrive: «lo sguardo del cineasta è di una strana miopia, come deformato da una nostalgia morbosa». I due quotidiani stroncano Bertolucci perché ha realizzato un film da voyeur morboso, anche un po' bisex e incestuoso con la scusa del `68? Aiuto. Ma di che stanno parlando gli inviati dei due prestigiosi giornali francesi? Didier Peron scrive su Liberation: «... prima di diventare uno dei mammouth della superproduzione autoriale di lusso, Bertolucci era un giovane italiano di estrema sinistra, figlio di un grande poeta...». E ora in pieno «esaurimento ormonale», il regista si fa prendere dall'esperienza intima di tre teen-ager... e via come Le Monde verso una scandalizzata descrizione di The Dreamers, film di un «dandy romantico e lascivo». Se il '68 di Bertolucci fa questo effetto ha colpito nel segno. Il «voyeur» ha visto giusto in questo magma di interdetti, di negazioni e paure. The Dreamers è uno «scandalo». È violento è senza buon senso, è sessualmente sconvolgente, mischia Greta Garbo a De Gaulle, Langlois ai no-global di Genova, fa sesso triadico, usa la metafora bisex e corre con una molotov in mano verso l'ordine costituito. Sì. Insieme a Bertolucci, il `68 è stato questo e molto più. Ed è arrivato fino al terzo millennio per minacciare i set mentali dei normalizzatori di professione.