venerdì 5 settembre 2003

Buongiorno, notte: Il Mattino

Il Mattino 5.9.03
Orrore e pietà della coscienza brigatista
VALERIO CAPRARA

Venezia. L'orrore e la pietà. Il cinema che, a dispetto del solito reducismo giaculatorio, fa giustizia dei balli in maschera e pretende l'anima dello stile e la carne dell'emozione. Gli occhi del regista, che trapassano l'immobile buio della cronaca e colgono le luci individuali di cui è fatta la Storia. Il capolavoro di Marco Bellocchio «Buongiorno, notte» incarna un viaggio di purissima fantafiction attraverso le immagini dello showdown clamoroso della Prima Repubblica, il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro: la miserevole fine, nella primavera del '78, dei «Dreamers» bertolucciani col pugno chiuso e l'inizio degli anni di piombo contrassegnato dal cadavere dello statista rannicchiato nel bagagliaio di un'automobile abbandonata. Il grande regista non ha niente da offrire ai maniaci della dietrologia e del complotto, il suo pathos è talmente alto e limpido da non potersi spalmare sulla lavagna delle dimostrazioni, la sua verità è tanto amara da convivere con gli incubi di un'intera generazione. Nella fusione dei soprassalti fisici, psicologici e ideologici di sequestrato e sequestratori con i brani documentari dell’epoca rifulge, insomma, una memorabile intensità di stile che precipita il film nello scontro kafkiano tra i diktat della clandestinità e la ribellione di un quotidiano che non sopporta la perfidia della presunta rivoluzione.
Tratto liberamente dall'impressionante ricostruzione «Il prigioniero» di Anna Laura Braghetti, condannata all'ergastolo e attualmente ammessa, dopo ventidue anni di carcere, alla libertà condizionale, «Buongiorno, notte» si concentra sul rapporto tra Moro - interpretato da uno scarnificato, sublime Roberto Herlitzka - e i suoi fantasmi persecutori, in particolare la vivandiera Chiara (Maya Sansa) per nulla convinta della necessità politica di uccidere l'ostaggio. Aggrappata alle distruttive certezze di chi le vive vicino o le dorme accanto, si scopre sempre più a disagio nel vivere i ritmi di sempre: un ufficio anonimo, il lavoro insospettabile, le reazioni dei colleghi distanti anni luce dal suo ruolo di «combattente» e le attenzioni di un coetaneo che sembra leggerla nel profondo, più di quanto a lei stessa riesca.
Così le sagome dei brigatisti emergono dalle stanze del covo come quelle di parenti stretti dei fanatici fautori della santità ne «L'ora di religione»: i flash dal teleschermo del bilancio sanguinoso dell'agguato di via Fani, delle rotonde dichiarazioni dei leader democristiani, dei rituali raduni della sinistra parlamentare (con la violenta ripulsa dei criminali affidata all'oratoria di Luciano Lama) si riflettono nei volti che hanno la funebre, vitrea fissità di zombies accecati.
Nel mix affascinante di prosaica realtà e ricorrenti incubi, il ricordo del padre di Chiara ritorna sotto forma di «Paisà» e «Tre canti su Lenin», lampi di orgoglio partigiano e spezzoni di sfilate del Primo maggio staliniano che riportano i dubbi e i tormenti in un album di famiglia inequivocabile, eppure così distorto. Un'evocazione stupefacente, un oratorio cinematografico dove gli slogan demenziali («la classe operaia deve dirigere tutto») contrappuntano il nobile atteggiamento di Moro, che non sa più quali parole scegliere per tranquillizzare la famiglia o implorare l'aiuto dei potenti. Senza rimestare nel torbido gioco dei Grandi Vecchi, Bellocchio entra in una trance ipnotica che risucchia nel taglio dell'inquadratura, nella catarsi delle musiche e nella concisione dei movimenti le grottesche sedute spiritiche (che veramente s'organizzarono per aggiungere confusione alla confusione degli inquirenti), i fogli che svolazzano sullo scrittoio dell'affranto Paolo VI e la lacrima che finalmente solca l'incarnato della brigatista prossima a perdersi.
Impossibile, dunque, restare indifferenti al magnifico movimento finale, con il sogno impossibile che fa sentire l'aria fresca del mattino sui passi frettolosi dello statista liberato e la ieratica carrellata sui funerali di stato. Ingrao accanto ad Andreotti, Cossiga accanto a Zaccagnini, Craxi accanto a Berlinguer, Almirante accanto a Dalla Chiesa: se Belzebù esiste, bisogna rassegnarsi ad accettare che s'agiterà per sempre in una duplice, tetra identità, quella di Chiara e dei suoi complici e quella delle autorità sconfitte.

«BUONGIORNO NOTTE» IN CONCORSO
Venezia, consensi per il film di Bellocchio sulle Brigate rosse
«Un errore non trattare per Moro»
Il regista: «Il mio film, un atto di infedeltà nei confronti della storia». «Ho preso una vicenda clou della vita italiana per raccontarla in modo personale»
Dall'inviato a Venezia Titta Fiore

Si vedono, nella scena finale di «Buongiorno, notte», il film bello e importante di Marco Bellocchio sul caso Moro accolto ieri alla Mostra del cinema da un successo straordinario, le facce impietrite dello stato maggiore della Dc, il giorno dei funerali venticinque anni fa a Roma: si vedono Andreotti, Fanfani, Zaccagnini, Leone e più indietro i leader della sinistra Berlinguer e Craxi, e poi il segretario della Cgil Lama, il leader del Msi Almirante e quanti s'erano divisi, nei 55 giorni del rapimento del presidente democristiano da parte delle Br, tra il partito della fermezza e quello della trattativa.
Si vedono espressioni smarrite, teste precocemente incanutite, sguardi testardi, volti annichiliti di chi ha consumato tutte le parole, tutte le speranze. Dice il regista: «Lasciare uccidere Moro fu un errore politico. Un gesto di debolezza e non di forza da parte dello Stato. Del resto, non sono io ma gli storici a sostenere che la catastrofe della prima Repubblica sia cominciata lì. Come cittadino ero per la trattativa, la possibilità che un uomo venisse assassinato così, a freddo, mi sembrava folle».
«Buongiorno, notte», come un verso di Emily Dickinson fin troppo evocativo, per riandare a un periodo oscuro, notturno, angosciante. «Buongiorno, notte», come un sogno o un'invocazione, per un film volutamente infedele alla storia, per una vicenda nient'affatto cronachistica e perciò plausibile. «In quegli anni non appartenevo a schieramenti, la mia stagione politica era finita nel '69, e quindi oggi mi trovo nella condizione di non dover chiudere conti con nessuno, di poter avere una certa libertà» continua Bellocchio. «Ho cercato di fare un film con una struttura solida. Come reagirà il pubblico? Da chi all'epoca non era ancora nato o era troppo piccolo per ricordare, ho avuto segnali di sorprendente emozione. I più adulti potrebbero arrabbiarsi, non tanto a destra, forse, quanto a sinistra. Comunque, mi auguro non ci siano strumentalizzazioni. Ho preso una vicenda clou della storia italiana per raccontarla in chiave personale. Ad altre condizioni non avrei accettato il film quando Rai Cinema me lo propose».
Attesissimo alla Mostra e subito candidato al Leone, «Buongiorno, notte» è stato accolto da un quarto d’ora di applausi in sala e da una standing ovation in conferenza stampa: non era mai successo alla Mostra del cinema, Bellocchio lo sa ed è il primo a stupirsene: «Non mi aspettavo che la figura di Moro suscitasse tanta pietà e tanta simpatia», commenta. Di quei giorni del 1978 ricorda la confusione, lo sperdimento, l'indignazione: «Mi colpì che le scuole furono chiuse e i bambini mandati a casa, come dopo una calamità, e infatti l'idea originale era di far cominciare il film con il nipotino di Moro, Luca, che tornava improvvisamente da scuola». Sempre in un primo momento, per sottolineare il taglio particolarissimo del film, del presidente della Dc si sarebbe dovuta sentire solo la voce: «Volevo girare nella casa, filmare quella finta vita di famiglia messa in scena dai brigatisti carcerieri e poi rischiare di guardare nella cella del prigioniero» continua il regista.
Per prepararsi, naturalmente, ha letto molti libri, documenti, atti, da Sciascia a Flamigni, e «prezioso» gli è sembrato il libro della Br Anna Laura Braghetti, «Il prigioniero», perché racconta dal di dentro i giorni della prigionia, la doppia vita dei sequestratori divisi tra la ferocia della loro azione e i riti della quotidianità usati come copertura. A Maya Sansa, una sorta di alter ego della Braghetti, così come Lo Cascio interpreta Moretti, Pier Giorgio Bellocchio Maccari e Giovanni Calcagno Gallinari, il cineasta ha affidato il ruolo centrale: attraverso lei il film racconta anche l'ipotetico rapporto umano tra Moro e i suoi aguzzini. «Non ho accettato l'ineluttabilità della tragedia né mi interessava indicare i responsabili, capire chi c'era dietro i terroristi, affrontare quel dibattito sul complotto che per anni ha riempito le cronache. Diventando infedele alla storia, ho dato alla ragazza una possibilità di reagire, come purtroppo non è avvenuto nella realtà».
Sul filo dell'irrealismo il film mescola la prigionia di Moro e le lettere dei condannati a morte della Resistenza («le cita la Braghetti nel libro, in uno dei momenti in cui si rammarica di non essersi ribellata ai suoi compagni»), filmati del Luce e immagini di «Paisà» di Rossellini, spezzoni di tg e stralci delle lettere inviate dallo statista alla famiglia, all'«adorata Noretta» e al nipotino Luca, «che più tardi capirà». C'è anche una dedica al padre di Bellocchio, una specie di risarcimento per una perdita mai del tutto metabolizzata: «L'ho messa all'ultimo momento, forse perché Roberto Herlitzka nei panni di Moro me lo ha ricordato».

Con Incerti dietro le quinte
Con «Stessa rabbia, stessa primavera», mediometraggio dei Nuovi Territori che richiama nel titolo la «Storia di un impiegato» di De Andrè, il regista npoletano Stefano Incerti (foto) riprende Bellocchio durante le riprese di «Buongiorno notte». Ma al tempo stesso, mentre si interroga su cosa spinga un regista intransigente come lui a cercare il confronto con un episodio ingombrante come il caso Moro, Incerti si confronta egli stesso con gli anni Settanta e il tragico evento che fece da spartiacque del decennio. «Questo documentario - spiega - vuol provocare un corto circuito tra il cinema di Bellocchio e alcuni nodi nevralgici della storia del paese».

GLI ATTORI
«Non un giallo
ma un dramma
di uomini»

Venezia. Il merito di «Buongiorno, notte» sta «nel non parlare del caso Moro come di un giallo, ma di una storia di persone, un dramma di uomini: Moro non è uno statista ma un uomo, un padre e i brigatisti sono uomini disperati e distrutti, non solo dei mostri». Parole di Pier Giorgio Bellocchio, figlio del regista, che interpreta la parte di Germano Maccari, l'uccisore materiale di Aldo Moro. «Tutti noi come interpreti di personaggi storici sul set sentivamo di vivere un destino ineluttabile», spiega Giovanni Calcagno, nel film Primo, ruolo ricalcato su Prospero Gallinari. E Luigi Lo Cascio (Mariano, nella parte di Mario Moretti) ricorda una singolare coincidenza: «Peppino Impastato, che ho interpretato in ”I cento passi” fu ritrovato morto il 9 maggio, lo stesso giorno di Moro. Abitavo a Palermo, avevo 11 anni allora e ricordo benissimo quel giorno. Forse uscimmo prima da scuola, mi è rimasto impresso il ritorno a casa, sull'autobus il conducente fece ascoltare tutte le edizioni straordinarie dei gr».
La protagonista Maya Sansa (la brigatista Chiara, ispirata ad Anna Laura Braghetti) aveva solo due anni quel 9 maggio: «Non ne sapevo quasi nulla prima di girare il film, lo ammetto. Ma la trama è soprattutto basata sul percorso di un personaggio che deve fare i conti con la grande fiducia che aveva nella rivoluzione e poi con una realtà dei fatti che non comprende più».
«C'è stata una precisa intenzione di non salvare Moro». Roberto Herlitzka, che nel film interpreta la parte dello statista, critica duramente la decisione di non trattare ai tempi del rapimento: «Durante la prigionia lo Stato faceva azioni di mera facciata. Moro doveva essere eliminato, lo volevano russi e americani». Ancora più duro il resto del cast: «Nella vicenda Moro lo Stato non ha vinto, ma ha stravinto», rilancia Calcagno, «non trattando ha cancellato insieme un movimento e l'unico politico che poteva portare a un accordo con il Pci». «Questi cinque poveri esseri umani, Moro compreso, non aspettavano altro che un segnale che non arrivava mai», interviene Bellocchio junior. E Lo Cascio: «La ragion di Stato è un alibi. Niente può giustificare l'uccisione di un uomo».
Per interpretare il ruolo dello statista Herlitzka si è basato «sulle lettere che scrisse dalla prigione che, a parte il lucido tentativo di salvarsi la vita, esprimevano un affetto vero e sincero per la famiglia. Ho visto qualche spezzone televisivo di interviste con Moro, ma non ho voluto imitarlo».
Il film è piaciuto «tantissimo» anche al presidente della Rai, Lucia Annunziata: «”Buongiorno, notte” prende in contropiede la mia generazione che ha rimosso il caso perché fu una sconfitta, fu la fine di tutto. Trovo liberatorio che Bellocchio abbia lasciato sullo sfondo il dibattito dietrologico su Cia, Kgb e complotti su cui molti di noi si incagliarono e si persero».

IL FIGLIO DELLO STATISTA
Venezia. «Ho molto apprezzato il film di Bellocchio»: Giovanni Moro, figlio di Aldo, scrive così in una lettera inviata a Giancarlo Leone, amministratore di Rai Cinema, che ha coprodotto il film «Buongorno, notte»: «Trovo che Bellocchio scegliendo di riflettere sull'esperienza dell’uomo Aldo Moro in carcere senza vincoli o ambizioni di ricostruzione storica o di fedeltà all'insieme dei fatti, abbia illuminato aspetti importanti di quella vicenda. Non sono un critico cinematografico, ma mi viene da dire che questo è un caso in cui una creazione artistica è stata capace, proprio restando tale, di accrescere la conoscenza della realtà».
La lettera prosegue: «Penso che chi vedrà il film potrà cogliere il senso del dramma di un uomo posto di fronte a un destino tragico quanto insensato, non necessario, da lui vissuto in modo tanto più acuto quanto più era netta la sua percezione dell'incombente fine del mondo diviso in blocchi e dell’obsolescenza delle ideologie che aveva improntato di sé il secolo». Giovanni Moro ha visto il film in anteprima, su suggerimento proprio di Leone. «Un invito tanto più gradito in quanto non dovuto, giacché il film non richiedeva alcun visto o imprimatur da parte della famiglia».
Nei giorni scorsi la figlia di Moro, Maria Fida, aveva invece criticato il film pur senza averlo visto. «A tutti non posso che ripetere quello che vado dicendo da 25 anni: basta, pietà»: questo era stato il suo appello, nei primi giorni della Mostra, a commento delle possibili polemiche. Maria Fida si era lamentata con il regista e la produzione («potevano almeno avvisarci con una lettera»), ricordando di aver saputo che il film sul padre sarebbe uscito solo a metà agosto da un trailer passato in tv. «Me ne avevano parlato», ha spiegato in un'intervista, «mi avevano però detto che sarebbe uscito in autunno, dunque non ero psicologicamente preparata a udire ancora una volta, a tradimento, l'addio di mio padre, nel cuore di una notte di fine estate». E poi: «Non è possibile che chiunque - tranne noi - possa parlare del caso Moro.E non è possibile che chi ha sequestrato e ucciso mio padre possa scrivere libri, fare film, partecipare a dibattiti tv e ottenere interviste»