venerdì 5 settembre 2003

Buongiorno, notte: La Gazzetta del Mezzogiorno

La Gazzetta del Mezzogiorno 5.9.03
Applausi per il regista, straordinario Herlitzka
Carcerato e carcerieri prigionieri del destino e delle ragioni della politica
di Anton Giulio Mancini

Dopo la proiezione di Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, anche sulla scorta di qualche indiscrezione, comincia a configurarsi il palmares veneziano. La partita sembra dovrebbe svolgersi tra il film di Bellocchio sul sequestro Moro, visto in chiave apolitica attraverso gli occhi dei sequestratori delle Br, e il russo The Return di Andrej Zvjagintsev (funestato dalla notizia della tragica morte del giovanissimo protagonista), parabola accorata ed estetizzante sulla nostalgia di due fratelli per una figura paterna autoritaria e intransigente. Sono due film densi e complessi, incentrati sul rapporto genitori-figli, destinato a concludersi con il fatale patricidio, spia di una visione iconoclasta verso l'istituzione familiare, che è tra l'altro una costante dell'universo bellocchiano, da I pugni in tasca a Il principe di Homburg e L'ora di religione.
Questa volta però, a proposito di Buongiorno, notte, è ragionavole credere che non ci saranno polemiche politiche. Proprio perché Bellocchio evita accuratamente di allontanarsi dall'universo domestico e claustrofobico in cui i brigatisti (interpretati da Maya Sansa, Luigi Lo Cascio e Piergiorgio Bellocchio) detengono il presidente della Dc Aldo Moro (Roberto Herlitzka). La tesi dell'autore confuta, almeno all'apparenza, la lettura più recente dello spettacolare Piazza delle Cinque Lune di Martinelli, che come il precedente Il caso Moro di Ferrara puntava l'indice contro la classe politica di governo dell'epoca, soprattutto sulla compagine democristiana. Buongiorno, notte mostra i giovani e confusi carcerieri e l'anziano e saggio carcerato come i membri di una simbolica famiglia afflitta da contrapposizioni non più rimarginabili (una copia del marxiano La sacra famiglia, continuamente esibita, avvalora la chiave di lettura).
Ne viene così fuori un dramma da camera, dove gli allusivi figli-carnefici di Moro sviluppano un senso di colpa destinato, in chiave psicanalitica, a incrementare l'incertezza ideologica e a devastarne la puerile ortodossia comunista.
L'autore sembra voler proseguire il discorso del documentario, La religione della storia, dove i totalitarismi di ogni genere, compreso il magistero cattolico, vengono equiparati. Non è un caso infatti che tornino nel film gli ambienti vaticani e la figura del Papa, rappresentati come una sacra rappresentazione. A differenza di altre opere di Bellocchio, Buongiorno, notte è un film lineare e semplice: in virtù della sua moderazione ha perciò ottime chances di trionfare a Venezia. Sebbene le sequenze più belle siano quella ironica della seduta spiritica dei potenti, quella dove compare il Papa, infine quella dall'interno dell'ascensore, specchio dell'inquietudine collettiva, dove nessuno vuole entrare a causa di una stella a cinque punte dipinta clandestinamente.

BUONGIORNO, NOTTE.
Applausi in sala e in conferenza stampa per il film che ricostruisce i giorni del sequestro dello statista
Moro, tragedia di uomini qualunque
La lettera del figlio Giovanni: ma perché lo Stato non fece niente per salvarlo?

Vittime della loro ideologia, prigionieri di loro stessi come e più di Aldo Moro, deliranti nelle loro attese di una sollevazione proletaria suscitata da quei gesti, intrappolati nel ricatto allo stato («tutti lo vogliono morto e noi lo ammazzeremo»): non lascia dubbi interpretativi il ritratto del gruppo brigatista che sequestrò Moro, secondo Marco Bellocchio. Il suo «Buongiorno notte», tra i più attesi della 60/ma Mostra e tra i prevedibili candidati al Leone, colpisce nel segno come il classico pugno allo stomaco: tutto è buio e tetro nella covo di Via Gradoli. Tutto è segnato, tutto porta ad una soluzione tragica. Eppure tutto è tragicamente quotidiano, la Carrà che balla in tv, le feste, la zuppa in tavola, i canarini gialli in giardino, i calzini piegati con cura, le camice stirate. I brigatisti si fanno il segno della croce nell'ultima cena prima dell'esecuzione, stesso estremismo - provoca l'anticlericale Bellocchio - poi il finale, quella lunghissima sequenza con la diretta tv dei funerali di stato con la telecamera che inquadra Paolo VI e la classe politica di quei giorni (l'unico sopravvissuto di oggi è Andreotti).
«Si tratta della questione di come mai, in quel caso e solo in quello, lo Stato italiano decise di non trattare con i terroristi nè cercare seriamente di liberare il prigioniero»: così, sottolineando il cuore del problema, si conclude la lettera che il figlio di Aldo Moro, Giovanni, ha scritto all'amministratore delegato di Rai Cinema Giancarlo Leone per ringraziarlo del film di Marco Bellocchio.
Nella lettera Giovanni Moro ringrazia per aver visto in anteprima il film, «invito tanto più gradito in quanto non dovuto giacchè il film non richiedeva alcun visto o imprimatur da parte della famiglia. Nè d'altra parte l'eventuale consenso o dissenso dei familiari avrebbe potuto aggiungere o togliere nulla al suo valore. Ho molto apprezzato il film - prosegue Giovanni Moro - trovo che Bellocchio scegliendo deliberatamente di riflettere sull'esperienza dell'uomo Aldo Moro in carcere, senza vincoli o ambizioni di ricostruzione storica o di fedeltà all'insieme dei fatti, abbia davvero illuminato aspetti importanti di quella vicenda».
Giovanni Moro spiega di aver fatto la precisazione «alla luce di sgradevoli recenti precedenti». Nei giorni scorsi la figlia di Moro, Maria Fida, aveva criticato il film che, comunque, non aveva ancora visto.
Penso che chi vedrà il film -prosegue ancora Giovanni Moro- potrà cogliere il senso del dramma di un uomo posto di fronte ad un destino tragico quando insensato non necessario, da lui vissuto in modo tanto più acuto quanto più era netta la sua percezione dell'incombente fine del mondo diviso in blocchi e della obsolescenza delle grandi ideologie che aveva improntato di se il secolo». «Sono persuaso -prosegue la lettera del figlio di Moro- che la compresenza nel film di due opposte conclusioni, la libertà e la morte, corrisponda a quanto fu vissuto dal prigioniero e insieme messa in luce in modo pacato ma netto, in nodo ancora non sciolto di quella vicenda anche dal punto di vista storico, politico e giudiziario. Si tratta della questione di come mai, in quel caso, e solo in quello, lo Stato italiano decise di non trattare con i terroristi nè di cercare seriamente di liberare il prigioniero».

CINEMA/
A Venezia ovazione per il film di Bellocchio
Moro, così la Repubblica
volle uccidere il padre
OSCAR IARUSSI

Il grande cinema ribattezza il mondo, la storia, la memoria, in una luce fantastica che, a dispetto del realismo, può coincidere con lo «splendore del vero» caro a Rossellini. Aldo Moro vivo, libero, teneramente incamminato verso casa dopo cinquantacinque giorni di prigionia nel covo delle Brigate rosse, quel 9 maggio 1978. Poi, subito dopo, le immagini di repertorio dei suoi funerali con le più alte cariche dello Stato. È il finale, struggente e sconvolgente, di «Buongiorno, notte» di Marco Bellocchio, terzo e ultimo film italiano in concorso a Venezia, accolto ieri trionfalmente dal pubblico (16 minuti di applausi) e, cosa rara, da una standing ovation durante la conferenza stampa - tutti in piedi per applaudire il regista e i suoi interpreti. Questi sono l'intensa, bella, tormentata Maya Sansa, l'astro nascente Luigi Lo Cascio e Pier Giorgio Bellocchio (figlio di Marco) nei ruoli principali dei terroristi, e un emozionante Roberto Herlitzka nella parte della vittima.
Giancarlo Leone, amministratore delegato di Raicinema che ha prodotto il film e figlio del Presidente della Repubblica ai tempi del caso-Moro, legge a Venezia una lettera di Giovanni Moro, figlio dello statista pugliese. Quasi un gioco del destino: due eredi di quella stagione si ritrovano intorno a un'opera di «finzione». Scrive Giovanni Moro: «Sono persuaso che la compresenza nel film di due opposte conclusioni - la libertà e la morte - corrisponda a quanto fu vissuto dal prigioniero e insieme metta in luce in modo pacato ma netto il nodo, ancora non sciolto, della vicenda. Si tratta della questione di come mai, in quel caso e solo in quello, lo Stato italiano decise di non trattare con i terroristi né di cercare seriamente di liberare il prigioniero».
Marco Bellocchio, pur ispirandosi a un libro della brigatista Anna Laura Braghetti, ieri ha ribadito che a guidarlo non è stata l'ardua ricerca della verità storica: «Ho sentito subito che dovevo inventarmi qualcosa di "falso", di "infedele", dovevo tradire la storia per non subirla fatalmente. Tuttavia penso che lasciar uccidere un uomo come Aldo Moro fu un errore politico. Lo Stato ne sarebbe uscito più forte se avesse trattato».
Il titolo è ricalcato su un verso di Emily Dickinson: «Buongiorno, mezzanotte/ Torno a casa/ È stato il giorno a stancarsi di me/ Come avrei potuto io - di lui?». Quasi tutta la trama si svolge nella casa-covo dove si consumano l'assurda vita «di famiglia» dei carcerieri e le loro relazioni col presidente della Dc. Il tema autentico del film è psicoanalitico: l'uccisione del padre, non più metaforica come volevano Freud e il Sessantotto dei «Sognatori» di Bertolucci, ma reale, spietata, infine autodistruttiva. Una perdita, un lutto, un restare orfani che la protagonista Chiara (Maya Sansa) - a sua volta una sognatrice di paesaggi innevati come di parate sovietiche - sventa in extremis nella dimensione notturna, onirica. Mentre da sveglia non farà alcunché per fermare i suoi compagni, macchiette sanguinarie, sullo schermo apparentati più volte ai nazisti assassini di partigiani. «Così, buonanotte, giorno!» - scrive ancora la Dickinson.
Non a caso, diremmo, Bellocchio ha dedicato il film al suo papà, perso troppo presto. L'ex ribelle dei «Pugni in tasca» a 64 anni fa i conti con la figura del genitore, a lungo negata per non soffrire, e, nella filigrana dell'omicidio di Moro, intravede una «familiare» e sconcertante solitudine, incombente sul futuro di tutti.
Dal canto suo, Giovanni Moro aggiunge che il padre aveva presagito la fine del mondo diviso in blocchi e l'obsolescenza delle ideologie. Quella tragedia italiana diventa allora la volontà cieca di uccidere l'uomo politico più paterno e più lungimirante, se non l'unico «visionario», facendone un inutile capro espiatorio: nessuno si sarebbe rigenerato in virtù del suo sacrificio, non lo Stato, men che mai le Br per fortuna avviate alla sconfitta.

Un film importante, prezioso, che molto farà discutere. Da oggi sarà nei cinema di tutta Italia ed è senza dubbio uno dei candidati al Leone d'oro che sarà assegnato domani sera. A contendergli un posto nel verdetto dovrebbero essere il russo «Il ritorno» dell'esordiente Zvyagintsev segnato dalla scomparsa di un attore quindicenne annegato nello stesso lago del film, il portoghese «Un film parlato» del novantenne De Oliveira, «Zatoichi» del samurai Kitano. Nonché, naturalmente, il «nostro» Edoardo Winspeare col suo «Miracolo» pugliese che ha incantato Venezia e che ieri sera è tornato al Lido per ritirare il premio «Città di Roma - Arcobaleno» per il miglior film dell'area latina. Stamani riparte, si chiama scaramanzia.