venerdì 5 settembre 2003

Buongiorno, notte: La Gazzetta di Parma

La Gazzetta di Parma 5.9.03
Bellocchio, un «caso» da Leone
«Buongiorno, notte», camera con vista emotiva su Moro e i suoi carcerieri
di Maurizio Schiaretti


VENEZIA - Un quarto di secolo ci separa ormai dai giorni del rapimento e dell'omicidio di Aldo Moro. Venticinque anni durante i quali non è stato possibile fare piena luce non solo su quanto è avvenuto in quella insospettabile casa borghese abitata da una insospettabile giovane coppia borghese ma soprattutto sui comportamenti non ufficiali degli «amici» e dei colleghi di partito dello scomodo statista.

Marco Bellocchio, autore da sempre in cerca di risposte (le domande è la vita stessa a suggerirle), è tornato a quei giorni con Buongiorno, notte (titolo tratto da un verso di Emily Dickinson ma lo spunto per la sceneggiatura viene dal libro-documento Il prigioniero di Anna Laura Braghetti e Paola Tavella, pubblicato da Mondadori nel 1998 e nuovamente in uscita in ottobre presso Feltrinelli), salutato da un lunghissimo, caloroso applauso al termine della proiezione per gli accreditati.

Se l'applausometro avesse un valore, Bellocchio avrebbe già vinto il Leone d'oro. Certo è, al momento (mancano ancora due film all'appello), il più serio candidato perché il suo film è asciutto, onesto, con una coerenza interna di grande efficacia. Non è, né ha mai voluto essere, una ricostruzione storica bensì emotiva, attraversando sentimenti, passioni, pulsioni, paure, dubbi, tensioni e certezze di un manipolo di violenti «sognatori» (sì, per quanto la definizione si presti ad una falsa interpretazione: il sogno che aveva acceso il '68 e visto scendere nelle strade ragazzi di vent'anni - come il Théo e l'Isabelle di Bernardo Bertolucci - che dieci anni dopo, lasciate le «meravigliose Molotov» avrebbero imbracciato il mitra) talmente chiusi nella loro utopia da pensare di poter ri-definire i concetti di bene e male.

Bellocchio cerca volti e sguardi, con inquadrature strette, spessissimo in primo piano, racconta sogni e incubi, quindi stati d'animo evocando fatti e azioni esclusivamente tramite documenti d'epoca: i titoli dei giornali, i servizi dei telegiornali con le facce imbarazzate dei padroni della politica.

Racconta così la vita quotidiana dei carcerieri (pulire la verdura, giocare coi canarini, eccetera), che ricorda quella dei torturatori argentini sobriamente e drammaticamente descritta da Mario Bechis in Garage Olimpo, definendone la «doppiezza» con un dettaglio: i falsi coniugi si tolgono le fedi appena rientrano in casa e le rimettono se qualcuno suona alla porta.

E mette a confronto due modi di intendere la rivoluzione: quello della generazione che ha fatto la resistenza e canta inni che riescono a coinvolgere anche i giovani, e quello di chi spara e uccide in nome di un movimento che esiste solo in fieri. Il regista (che hitchcockianamente «firma» il film comparendo tra gli ospiti che assistono alla seduta spiritica) si schiera decisamente con la prima e pone sullo stesso piano Brigate Rosse e fascismo.

Il film vive attraverso lo sguardo intenso di Maya Sansa (Chiara è l'unica ad essere seguita fuori dalla casa-prigione, sul posto di lavoro al Ministero, nei dialoghi con i colleghi, al cimitero dove sono sepolti i genitori, in famiglia) ed a lei viene affidata l'evoluzione dei sentimenti del gruppo tutt'altro che monolitico: Mariano (Luigi Lo Cascio) vive di certezze che Ernesto (Pier Giorgio Bellocchio) presto smette di condividere mentre Primo (Giovanni Calcagno) sembra lasciarsi trascinare dalla corrente. «Diventerò un martire, l'idiota di cui si serviranno per annientarvi» dice Moro (Roberto Herlitzka) ai suoi carcerieri preannunciando una inevitabile conclusione. Ed è forse intuendo questo che Chiara sogna (ancora un sogno!) che il «Presidente» possa uscire all'alba e tornare verso casa. Una gran bella pagina di cinema.

Tutti i coreani sono ossessionati dal sesso o solamente quelli che realizzano film da mandare ai festival? Il dubbio è legittimo viste le pellicole in gara negli ultimi anni: a Venezia nel 1999 Bugie di Jang Sun Woo (irritante e deludente ma difeso a denti stretti dall'allora direttore Alberto Barbera, come oggi il direttore Moritz de Hadeln difende Twentynine Palms cercando di convincerci che si tratta di opera d'arte), nel 2000 L'isola di Kim Ki-Duk, nel 2002 Oasis di Lee Chang-dong (selezionato poi per anche la Settimana della critica a Cannes); a Cannes nel 2001 Piaceri sconosciuti di Jia Zhang-Ke, nel 2002 Ebbro di donne e di pittura di Im Kwontaek. Ed ora La moglie di un buon avvocato di Im Sang-Soo nel quale si intrecciano storie diverse con un preciso filo conduttore, un'unica dichiarata finalità. Il quarantenne regista già assistente di Im Kwontaek e autore di Girls Night Out, che ha avuto buon successo in Francia, è padrone del mestiere e dirige con sicurezza gli attori ma pretende troppo quando vuol farci credere che questo sia uno spaccato della vita quotidiana della sua generazione in Corea.

«Ho voluto fare un film infedele»
Standing ovation per il regista: «Non m'interessava subire la Storia». «Gli attori? Bravissimi»
di Filiberto Molossi


VENEZIA - Un lunghissimo applauso, convinto, sincero, «trasversale»: cinque interminabili minuti, che si sono quasi trasformati in una standing ovation, per salutare Marco Bellocchio, l'autore di Buongiorno, notte (da oggi nelle sale: a Parma esce all'Astra), tra i più credibili candidati alla vittoria finale. La sua interpretazione del «caso Moro», onirica e interiore, ha conquistato critica e pubblico: ecco pensieri e parole di un regista coi pugni in tasca.

•Una tragedia italiana. «Non ho scelto io - racconta il regista piacentino - di fare un film su Moro: in realtà, mi è stato commissionato dalla Rai. Ma è una sfida che mi ha coinvolto da subito: diversamente dagli altri film che si sono occupati del rapimento di Moro, io volevo che il mio fosse infedele: la verità storica non mi interessava, non volevo subire la Storia né andare a caccia dei veri responsabili di quell'evento, ma desideravo piuttosto capire se nell'immane tragedia di quell'uomo ci fosse spazio per una traccia che contraddicesse la drammatica fatalità di questa vicenda. Tanto che il personaggio principale è quello di Chiara, una terrorista che si 'ribella' alla situazione in essere: nella realtà, non andò così».

•Le fonti. «Abbiamo preso molti spunti da Il prigioniero, un libro dell'ex brigatista Anna Laura Braghetti, che ora rimpiange e si rimprovera di non avere reagito in qualche modo alla condanna a morte di Moro. Ho usato la cronaca come materiale grezzo, da trasformare: mi interessava la quotidianità, la familiarità, dei terroristi. In un primo tempo, addirittura, avevo pensato di non mostrare mai Moro, facendo sentire solo la sua voce: poi la storia ha preso un'altra piega, siamo entrati dentro alla sua cella».

•Come i nazisti. «La cosa più folle di tutta quella vicenda fu l'assassinio a freddo di Moro: i terroristi mi hanno ricordato i tedeschi durante la seconda guerra mondiale, quando buttavano nel fiume i poveri partigiani».

•Le Br oggi. «Non ho mai simpatizzato per i brigatisti: oggi, poi, mi paiono ancora più fuori dal mondo e dalla realtà e non credo abbiano molta acqua in cui nuotare».

•Il titolo. «E' tratto da un verso di Emily Dickinson: credo evochi bene quel periodo, angosciante e oscuro. Ma se oggi sia giorno, non so».

•Nel nome del padre. «Ho perso mio padre quando ero ancora adolescente: dimenticandolo, perché il dolore era troppo grande. Gli ho dedicato questo film, perché la figura di Moro me lo ricorda. Anche il sogno della protagonista con Moro che va in giro, libero, per l'appartamento mentre i brigatisti dormono, è un ricordo d'infanzia: ho ripensato a mio padre che passeggiava per la casa e ci guardava dormire».

•La musica. «Ho scelto i Pink Floyd su suggerimento di mia moglie, che è anche la montatrice del film: mi pare che la loro musica sintetizzi benissimo quel momento storico, rappresentando in maniera davvero immediata la ribellione e la disperazione di quegli anni».

•Gli attori. «Se il risultato è buono, molto del merito va a loro». A Roberto Herlitzka, allora, un dolente Aldo Moro: «Ho sposato subito lo spirito del film - spiega - che tratta di una tragedia interiore: dando il mio piccolo contributo a un dramma enormemente più grande di quello che potessi solo immaginare».

«La prima volta che ho incontrato Bellocchio - dice invece Maya Sansa, che nel film è la terrorista Chiara - lui non mi ha dato il copione: di quel periodo sapevo poco, se non attraverso i racconti di altri. Mi sono informata, ho letto il libro della Braghetti: ma poi mi sono tuffata solo nel copione, molto diverso in realtà dal libro. Quello del mio personaggio è un percorso introspettivo, in parte schizofrenico: Chiara, alla prima vera missione, è costretta a confrontarsi con la verità dei fatti».

•Mio figlio. Nel cast di Buongiorno, notte, nella parte di uno dei brigatisti, c'è anche Pier Giorgio Bellocchio, il figlio del regista. «Com'è dirigere un figlio? Ti dà un sacco di problemi - commenta l'autore -, è sempre un rischio. Ma Pier Giorgio è davvero un ottimo attore: e ha interpretato il suo ruolo in maniera eccellente».