venerdì 5 settembre 2003

Buongiorno, notte: La Repubblica

La Repubblica 5.9.03
Il cinema che riscopre la memoria
CURZIO MALTESE

NEL bellissimo film di Bellocchio sul rapimento di Aldo Moro, presentato a Venezia e da oggi nei cinema, non c´è nulla di quello che ci s´aspetta. Non una sola relazione fra le miriadi che ogni anno, da 25 anni, complicano il più denso mistero della nostra storia recente, né un accenno al ruolo della Cia o del Kgb o della P2. Non c´è traccia del definitivo giudizio morale o politico d´una generazione ribelle sulla tragedia che ha sepolto le speranze nate attorno al ´68, né tantomeno il colpo di spugna invocato da molti
C´è piuttosto qualcosa di più intimo, profondo e sorprendente. La discesa agli inferi fra i piccoli demoni del brigatismo, nel chiuso di una mente e di una prigione, dentro l´appartamento piccolo-borghese che fu allora il luogo più segreto d´Italia e rimane ancora oggi uno dei più nascosti della coscienza collettiva. Eppure il film di Bellocchio è un fenomeno politico importante. Perché qui il cinema riesce dove da sempre falliscono la società e la politica italiane, invischiate in un´eterna pantomima di guerra civile. Nella capacità di elaborare il lutto per una storia di odio e di follia ideologica per poter ricominciare da un´altra parte.
Questo spiega il senso di sollievo con cui si esce dalla sala, in fondo a un´opera così claustrofobica, come liberati da un´ossessione. Il caso Moro rappresentò, fra le tante cose, una cesura nella cultura italiana. La letteratura, il teatro e soprattutto il cinema erano stati dal dopoguerra alla fine degli anni Settanta fortemente politici, concentrati nel descrivere e leggere la realtà sociale, dal neorealismo di De Sica e Rossellini all´impegno civile di Rosi e Petri, al cinema sessantottino fino alla commedia all´italiana, a suo modo. Dal '78 in poi il nostro cinema cambia pelle e in pochi anni diventa intimista, avviluppato intorno a storie privatissime. Smette di girare per il mondo.
Gli ultimi film da esportazione o da Oscar narravano di italiani degli anni Trenta o al massimo Cinquanta, come in Tornatore, Salvatores, Benigni e perfino nel recente e celebrato "Respiro" di Crialese si vedono pescatori poveri d´altri tempi. Quasi che nelle radici dell´Italia contemporanea fosse calata una nebbia o un tabù. Soltanto oggi, a trent´anni di distanza, il cinema ha il coraggio di tornare sui decenni cruciali della grande trasformazione fra il '68 e gli anni '80. Con "La meglio gioventù" di Marco Tullio Giordana, il film di Bernardo Bertolucci sui sognatori del '68 e ora "Buongiorno, notte", e il cinema italiano riacquista la memoria.
La parabola di Bellocchio è esemplare. Da giovanissimo e coetaneo dei capi sessantottini diventa il regista simbolo della rivolta. Nel '77, alla vigilia del caso Moro, esce il suo ultimo film politico, "Marcia trionfale", violenta denuncia del militarismo. Dal '79, attraverso una rilettura di Cechov e "Salto nel vuoto", comincia per Bellocchio un´altra vita artistica. La politica smette di essere il terreno di ricerca della libertà. Fino a oggi, ieri, quando il maestro torna all´anno della svolta. Non a caso, nel presentare il film a Venezia, Bellocchio ha collegato la vicenda Moro con un altro lutto irrisolto, personale, per la morte di suo padre. Ma non è certo più il regista dei "Pugni in tasca", quello che dà anche la linea, in "Buongiorno, notte" è resa tutta l´ambiguità di un´epoca, il rovesciamento di ruoli fra un potente ridotto a vittima di aspiranti potenti il paradosso di un Moro che nella prigione parla la lingua semplice dell´umanità a carcerieri che gli rispondono con formule in politichese, assai più prigionieri in fondo di lui. C´è la schizofrenia delle presunte avanguardie rivoluzionarie, i brigatisti che sognano in bianco e nero la panchina di Lenin mentre l´Italia reale comincia a sognare con la tv a colori e Raffaella Carrà. C´è l´impazzimento del terrorismo visto come nella "Meglio gioventù" senza preoccupazioni di politicamente corretto, ma piuttosto con la dolorosa consapevolezza di chi l´ombra di follia l´ha sfiorata e sofferta, vista nascere e crescere nelle fabbriche, negli uffici, nel compagno di studi, moderna malapianta di un´antica ossessione religiosa.
Moro è fin dal principio «colui che deve morire», dice Bellocchio. Una figura cristologica resa più cruda dallo straordinario talento dell´interprete, Roberto Herlitzka. La sua prigionia è un calvario con figure mentre le istituzioni celebrano un rito funebre lungo 40 giorni, con tanto di sedute spiritiche e necrologi anticipati in attesa dell´inesorabile condanna a morte. Ed è qui che scatta, l´ultima ribellione di Bellocchio. L´immaginazione torna al potere e compie il vero atto rivoluzionario: la liberazione del prigioniero. La passeggiata di Moro libero per le strade di Roma rimarrà a lungo negli occhi degli spettatori. La storia italiana è andata per un´altra via in cui la porta si è chiusa per sempre. Ma nella storia del nostro cinema, fatti i conti con il passato, forse si sta aprendo un passaggio verso un futuro diverso.


Il figlio Giovanni parla dell´opera di Bellocchio. A Venezia il regista riapre la polemica sulla trattativa: bisognava salvare quella vita
Moro: "Mio padre in quel film 25 anni dopo"
Incontro con Giovanni Moro dopo la proiezione: "È stato doloroso, ma lo consiglierò ai miei figli"
"Questo film aiuterà i giovani vedranno la pazzia di allora"

La realtà Questo è un caso in cui la creazione artistica ha fatto crescere la conoscenza della realtà
la verità Sarei pronto a barattare anche la giustizia con la verità, purché finalmente la dicano
prima volta Non avevo mai voluto vedere un´opera su quei giorni: mi ha convinto la qualità del regista
le possibilità La possibile fine: la morte, la libertà. Io credo che mio padre le abbia pensate entrambe fino all´ultimo

di CONCITA DE GREGORIO
DICE che non vuol dire se suo padre fosse davvero così, «perché nessuno può farlo e poi io non lo so, ci stavo troppo vicino». Dice che non importa, comunque, questa faccenda della somiglianza: «Sono dettagli. Questo film ha il merito della distanza, e il pregio di non voler essere fedele alla realtà di quella vicenda». "Quella vicenda" sono i 55 giorni: il sequestro, l´omicidio. «Lasciamo perdere lo spessore biografico, non conta. È la figura di un padre, quella che emerge. Non solo del mio. Un padre per l´Italia: un uomo che ispirava e dava fiducia. Sicuro, pacato, autorevole. È finito tutto allora. Da quel momento ci trasciniamo dietro un fantasma. È stato come l´8 settembre. Tutti si ricordano dov´erano il 16 marzo, il giorno in cui è scomparso dalle nostre vite».
Giovanni Moro ha i capelli bianchi, le mani del padre e due figli adolescenti. Il primogenito si chiama Aldo. «Non mi faccia domande troppo personali, non le risponderei», dice, e sorride. Del film sì, ne parla perché lo vedranno tanti che di "quella vicenda" non hanno memoria, ragazzi nati dopo. Perché gli è piaciuto, anche se di piacere in questa storia ce n´è poco per tutti: «L´ho molto apprezzato, diciamo meglio». E forse perché, passato un quarto di secolo, è arrivato il momento. «Chi vedrà il film non avendo vissuto quegli anni avrà potenziata la reazione che abbiamo avuto noi: questi sono pazzi, dirà, erano pazzi. Ma davvero pensavano a un´insurrezione rivoluzionaria della classe operaia e dei ceti medi? Ma come potevano non capire quel che mio padre aveva capito per primo: che la fine del mondo diviso in blocchi era vicina, che le grandi ideologie erano al tramonto. In quegli anni è cambiata la nostra storia. Vedere il film è stato doloroso, ma consiglierò ai miei figli di farlo».
I figli, ecco. È tutta una storia di padri e di figli, questa di "Buongiorno, notte". Una resa dei conti fra generazioni. Venticinque anni dopo la Storia passa di mano. La prendono in carico i figli, che hanno oggi l´età dei padri allora. C´è un regista, Bellocchio, che dedica il film a suo padre, morto quando lui era bambino, e che costruisce così la figura del protagonista: «Mio padre aveva qualcosa in comune con Moro, che non ho mai conosciuto né visto. Anche lui era un uomo molto tenace, un conservatore con una umanità profonda. L´immagine di mio padre è entrata nel film e ha dato corpo al personaggio». C´è un produttore, Giancarlo Leone, che è figlio del presidente della Repubblica di quei giorni: Giovanni Leone era pronto a firmare la grazia a un "detenuto politico", gesto che avrebbe forse salvato la vita all´ostaggio. Fu fermato. Nel film il suo vero volto compare due volte, nelle immagini di repertorio dei funerali della scorta e del presidente DC. C´è Giovanni Moro, figlio della vittima. Ha scritto al produttore Leone, suo coetaneo, una lettera: «Questo è un caso in cui la creazione artistica è stata capace d´accrescere la conoscenza della realtà», dice. «Penso che chi vedrà il film potrà cogliere il senso del dramma di un uomo posto di fronte a un destino tragico quanto insensato». La lettura della lettera, a Venezia, è stata accolta da un lungo applauso.
Non aveva mai voluto vedere un film su quei 55 giorni, racconta ora. È questo il primo. «Mi ha convinto la qualità del regista, e la correttezza delle persone che mi hanno invitato. D´altra parte era un invito non dovuto: un film non richiede imprimatur da parte della famiglia, meno che meno da parte di un suo componente. E l´approvazione o il dissenso dei familiari non aggiungerebbe né toglierebbe nulla». Non ha mai voluto incontrare nessuno dei brigatisti, «ma non sono d´accordo con chi dice che i parenti delle vittime vogliono solo e sempre il sangue dei colpevoli. Non è affatto così. In questo paese che ha tanta difficoltà a chiudere i conti col suo passato, un paese che ha il record mondiale di stragi insolute le vittime hanno avuto un ruolo importante nel tenere viva la memoria». Solo che «il perdono può arrivare solo dopo la verità», ripete ogni volta: «sarei pronto a barattare anche la giustizia con la verità, purché finalmente la dicano. Forse si può ancora fare, siamo ancora in tempo».
Non ha mai voluto sedere accanto ad Andreotti né a Cossiga, nelle molte commemorazioni di questi lunghi anni. «È un fatto che - in quel caso e solo in quello - lo Stato italiano decise di non trattare coi terroristi né di cercare seriamente di liberare il prigioniero. Ci sono delle responsabilità precise: una delle due cose dovevano farla». Ma non gli interessa entrare nel merito di "quella vicenda", qui. Il film non lo fa «ed è questo il suo pregio». È un film scarno, sobrio. Notturno. Anche di suo padre lui ha sempre detto: «È stato un padre notturno». «Di giorno non c´era, il nostro rapporto viveva la notte. Aveva la pressione bassa, abitudini mediterranee. Si cenava tardi, si parlava la notte».
La brigatista, nel film, lo vede comparire quando viene il buio: sono visioni. Chissà quante volte anche il figlio ha sentito accanto a sé la sua presenza. «Non le dirò dei miei rimpianti né dei miei pensieri, ma certo nelle vite ci si trova, e le scelte sono meno di quelle che si pensa. Per me vale il detto di Heidegger: nessuno può saltare oltre la propria ombra. Nessuno sceglie fino in fondo di stare nella propria condizione: semplicemente c´è. Io non saprei dire come sarebbe stata la mia vita senza quei 55 giorni. È come quando rimani vittima di un terremoto: non puoi dire cosa sarebbe stato senza, perché è stato quello». E poi c´è l´eredità da portare. La politica. «Mio padre diceva: dobbiamo uscire da questo castello in cui ci siamo rinchiusi. Pensava che le forme tradizionali della politica rischiassero di estinguersi, che si dovesse contare nella democrazia anche fuori dai partiti». È quello che Giovanni Moro fa con "Cittadinanza attiva", un´associazione nata proprio nel '78 col nome di Movimento federativo democratico. «Era la strada che avevo preso già prima. L´avrei fatto anche se lui non fosse stato ucciso».
Se non fosse stato ucciso. Il film si chiude così. Le immagini vere dei funerali di Stato, funerale senza salma a cui la famiglia non partecipò, e subito dopo la figura di Moro libero, che cammina sorridente in un´alba di pioggia. Il sogno della ragazza-terrorista, figlia immaginaria di un padre da lei stessa condannato a morte. «È un finale molto delicato, no? È affascinante questa sovrapposizione di mondi possibili che si incrociano fino alla fine. La morte, la libertà». La verità è stata una, però. «La nostra, certo. Ma io credo che mio padre le abbia pensate entrambe fino all´ultimo. La morte, o un ritorno a piedi, forse all´alba, verso casa».

LA TESTIMONIANZA
Abbiamo visto il film con uno dei carcerieri dello statista. È libero dal 1995
Valerio Morucci turbato dieci minuti senza parole
"I nostri schemi non erano adeguati a capire lo Sato borghese che lui ci descriveva"
di GIOVANNI MARIA BELLU

ROMA - Non guarda più lo schermo della tv. Fissa il piano della scrivania, scarabocchia sui fogli degli appunti. Eppure un attimo fa aveva sorriso. Ma quella era la fiction. Ora ci sono le immagini di un vecchio telegiornale e scorrono una dopo l´altra le cinque foto dei poliziotti assassinati nell´agguato. Valerio Morucci li riconosce. Cioè riconosce, tra i cinque, chi è caduto sotto il fuoco del fucile mitragliatore che era nelle sue mani. No, non dice chi, non ne fa il nome. Ma lo sa. Ed è forse proprio questa - conoscere il nome di chi hai ucciso - la differenza tra il terrorismo e la guerra.
Aveva sorriso Valerio Morucci - che dal 1995 è libero, vive a Roma con la moglie e un figlio, fa il consulente informatico e lo scrittore - per la reazione di uno dei carcerieri di Aldo Moro alla notizia della comparsa, dentro l´ascensore di un ministero, di una stella a cinque punte, il simbolo delle Brigate rosse: «E´ fatta. Se anche gli impiegati si ribellano è fatta». Aveva sorriso scuotendo la testa: «No, questo non mi sembra credibile: le Br non si occupavano dei contadini e quasi consideravano controrivoluzionari gli operai disoccupati. Figuriamoci se ce ne fregava qualcosa degli impiegati».
Già, lo scontro ideologico, il capello tagliato in quattro, la ricetta per cambiare il mondo in tasca, il viso nascosto da un passamontagna e le armi in pugno. Morucci ne era fanatico. Era suo il mitra Skorpion usato per l´esecuzione della sentenza di morte pronunciata dalla "giustizia proletaria" nei confronti di Aldo Moro. Questa Bellocchio ce la risparmia. Anzi, sembra che abbia voluto cambiare il finale: Moro è libero, passeggia per le strade dell´Eur. Ma questa è la sceneggiatura che il regista avrebbe voluto scrivere. Dura poco. Adesso è di nuovo nella sua prigione, lo vediamo mentre va al patibolo. Il film finisce qua. Morucci sembra turbato. Per una decina di minuti non dice una parola.
Lì, nel covo di via Montalcini, lui non ci entrò mai. Dopo l´agguato si occupò della prima parte del trasferimento dell´ostaggio e tornò a casa. Ma poi curò la distribuzione delle lettere e, dopo l´omicidio, fu lui a telefonare a un collaboratore di Moro per far sapere che il cadavere era nel bagagliaio di una Renault rossa parcheggiata a Roma, in via Caetani. «Via Caetani» lo ripetè due volte con la voce rotta dalla paura e dall´emozione. Forse anche dalla vergogna. Era stato tra quelli che, nelle Br, si erano opposti alla condanna a morte. Così come, nel film, Laura Braghetti-Maya Sansa. E in un certo senso, dice ora, Mario Moretti.
Questa poi, Mario Moretti, l´esecutore materiale? «Ho riconosciuto Mario nell´interpretazione di Luigi Lo Cascio. È assieme deciso e turbato, determinato e incerto. Sì, lui votò per la condanna e disse che l´avrebbe eseguita dopo che tutti gli altri si tirarono indietro». Appunto, dunque? «C´è quella scena iniziale che aiuta a capire, quando dice a Moro: "Non ce l´abbiamo con te ma con ciò che rappresenti". C´era questa scissione...».
In realtà sembra qualcosa di più, sembra una forma di schizofrenia. In un suo libro, "Diario di un terrorista da giovane", Morucci descrive se stesso come un rivoluzionario continuamente tentato dai piaceri della vita borghese, ma qua siamo molto oltre: un killer che s´impietosisce per la vittima. «Con Moro scattò una specie di sindrome di Stoccolma al contrario. Ci sconcertò: Moretti pensava di processarlo, di sottoporlo a stringenti interrogatori, ma si trovò davanti a un uomo che dava risposte complesse, articolate. I nostri schemi non erano adeguati a capire lo Stato borghese che lui ci descriveva. Continuava ad agire in modo politico, ed era l´unico a farlo fino in fondo. I suoi amici negavano autenticità alle sue lettere mentre alcuni di noi, nel leggerle, ci trovavamo ad associarle a quelle dei condannati a morte della Resistenza. Questo il film lo sottolinea, ed è proprio vero. Fu una cosa sconvolgente. Sentii che ero finito senza accorgermene dall´altra parte. Dalla parte degli aguzzini. Il simbolo era diventato un uomo. Non puoi uccidere il nemico quando lo vedi in faccia. Per questo, prima, ho abbassato lo sguardo».

"Bisognava salvare la sua vita"
Il regista riapre il dibattito sulla linea della fermezza
il film di Bellocchio
Presentato a Venezia "Buongiorno Notte"
Ricostruzione dei 55 giorni del rapimento di Aldo Moro
Per raccontare una vicenda umana, non solo la verità
Ispirato al libro scritto da Anna Laura Braghetti
"Ma non ho avuto io l´idea del film, che mi è stato commissionato da Raicinema"
NATALIA ASPESI

VENEZIA - «E va bene, il mio pensiero oggi è che lasciare uccidere Aldo Moro fu un grave errore politico oltre che umano. Non si trattava di cedere a un ricatto terroristico, ma di dimostrare la forza, la superiorità, l´eticità dello Stato per il quale più importante di tutto doveva essere salvare una vita in contrapposizione alle Brigate Rosse per le quali la vita non valeva nulla». Finalmente Marco Bellocchio abbandona ogni elegante sofisma e si rivela: quel sentimento di greve fatalità, di tragico errore, di improvvida cecità, che "Buongiorno Notte" comunica allo spettatore, lui l´ha voluto e costruito sapientemente. Scena dopo scena, il regista trascina gli spettatori in una scia di malessere, di incredulità, che alla fine sfocia in un grande applauso liberatorio.
Davvero Aldo Moro fu sacrificato a quello Stato rappresentato dai volti impenetrabili dei potenti, che il regista ci fa vedere, assiepati uno accanto all´altro, ripresi durante il funerale di Stato respinto dalla famiglia e quindi senza il corpo del Presidente assassinato? Davvero il partito della fermezza così largamente rappresentato a destra e a sinistra, riteneva un nemico potente con cui non si poteva venire a patti, quei quattro assassini che vediamo preparare la minestra, rammendare vestiti, tubare con i canarini in gabbia, guardare Raffaella Carrà in televisione e poi, calcato sulla faccia il passamontagna, mettersi a interrogare il loro prigioniero di cui non capiscono né il linguaggio, né le idee, né la fede, né la sapienza, né le emozioni?
Un film è un film, non è un documento, non ambisce a raccontare la verità ma solo una sua storia: però è inquietante che il regista non abbia ritenuto necessario ricordare che in quegli acri anni '70, c´era un clima particolare di rifiuto delle istituzioni, ed erano in tanti a dire, né con lo Stato né con le Br. «I terroristi certo avevano l´acqua in cui nuotare, ma volutamente mi sono preso molte infedeltà». La massima infedeltà Bellocchio se l´è presa col personaggio di Chiara (Maya Sansa), ispirandosi al libro "Il prigioniero", ripubblicato adesso da Feltrinelli e scritto da Anna Laura Braghetti, la terrorista che anche nel film si divide tra una vita normale, "fuori", di bibliotecaria solitaria e senza sorriso, e quella monotona, "da donna", (è lei a cucinare e stirare), "dentro", nell´appartamento di via Montalcini in cui lei e tre giovani che in realtà rappresentano Mario Moretti, (Luigi Lo Cascio), Prospero Gallinari (Giovanni Calcagno), Germano Maccari (Pier Giorgio Bellocchio), tennero prigioniero l´inerme Presidente della DC dal 16 marzo al 9 maggio del '78, sottoponendolo a processo e condanna in nome di un proletariato che di loro e della loro violenza non voleva saperne.
Piena di dubbi da subito, troppo spaventata e poco spietata, si commuove per la sorte di Moro, vorrebbe rimandarne la fine, lo immagina di notte mentre esce dal suo buco e vaga per la casa, sogna di liberarlo. Pare proprio buona e pentita, nel film: peccato che nella realtà, nel febbraio dell´80, parteciperà alla spietata esecuzione del professor Bachelet. «Diciamo che lo sguardo della ragazza sugli eventi e sulla loro feroce conclusione è il mio. La sua commozione per la sorte di Moro è la mia. Non mi aspettavo che alla fine la sua figura avrebbe suscitato tanta simpatia e pietà, ma così è stato. Anche per me».
È probabile che sia merito di Roberto Herlitzka se questo Aldo Moro fragile e forte nello stesso tempo, capace di tener testa ai suoi sequestratori ma non di piegarli, che non vuole morire ma si rassegna a morire, fa venire le lacrime a Chiara e pure agli spettatori. Nel '68 Bellocchio non ancora trentenne non girò un solo film, «perché per fare politica dovevo lasciar perdere l´identità di regista». Uscito dal PCI nel '69, anche nel '78 non lavorò ma neppure si interessò ai tragici eventi politici, «perchè stavo mettendo in discussione me stesso, passando dall´analisi individuale a quella collettiva. Però con "Buongiorno notte" non voglio chiudere i conti con nessuno, non voglio riparare alla mia non partecipazione di allora. Del resto non ho avuto io l´idea del film, che mi è stato commissionato da Raicinema».
È angosciante rivedere i telegiornali di allora che scandiscono il mondo chiuso e irreale dei terroristi: al comizio di Lama vedono l´immensa folla battere le mani alle parole del sindacalista che rifiuta l´"attacco al cuore dello Stato" e loro si stupiscono, si chiedono perché quei proletari con tutte le loro bandiere rosse non si ribellino, non seguano chi in loro nome sta facendo la rivoluzione. È grottesca la scena in cui generali e uomini politici partecipano alla famosa seduta spiritica in cui fu fatto il nome di (via) Gradoli, è feroce quella in cui Papa Paolo VI in mezzo alle sue bianche suorine eccitate, riceve un biglietto misterioso che gli intima di chiedere la liberazione di Moro ma senza condizioni. Pare nascere da un rimpianto, o da un´accusa, la figura di Moro-Herlitzka che agile, sorridente, dentro uno stretto elegante abito blu, nel sogno di Chiara, esce da quella porta fatale per le strade di Roma, libero, vivo.

LA POLEMICA
Bertolucci risponde alle critiche di "Le Monde". E scherza con Bellocchio
"Io, voyeur professionista "
In "Buongiorno notte" una citazione di "La luna"
"E´ un gioco fra amici, di cui Marco mi aveva avvertito circa un mese fa, chiedendomi anche il permesso di poterlo utilizzare"
di Aldo Lastella

VENEZIA - Due grandi registi, due amici quasi coetanei, due conterranei, entrambi sono emiliani, due artisti che con il cinema e con il loro amore per il cinema riescono anche a giocare. Così ecco Marco Bellocchio che nello struggente e serissimo "Buongiorno, notte" rievoca la celebre seduta spiritica del 2 aprile 1978 dalla quale scaturì il nome "Gradoli" come luogo in cui veniva tenuto prigioniero Aldo Moro. Ma Bellocchio ritrae questo episodio avvolto in un´atmosfera grottesca (fra i presenti compare lui stesso) e con una trovata, benevola e scherzosa, che chiama in causa Bernardo Bertolucci. Lo spirito richiamato dai partecipanti si chiama Bernardo, si presenta come uno spiritello malandrino e, richiesto di suggerire il luogo del carcere brigatista, compita le parole "la luna" con grande scorno di tutti. «Una birichinata» l´ha definita lo stesso Bellocchio.
«In effetti, nel ´78 stavo proprio girando il mio film "La luna"» rivela divertito Bertolucci, che confessa di non avere ancora visto il lavoro di Bellocchio «E´ un gioco fra amici, di cui Marco mi aveva avvertito circa un mese fa, chiedendomi anche il permesso di poterlo utilizzare». Il regista di "I sognatori" ricorda le tante cose che lo legano a Bellocchio. «C´è una specie di affinità elettiva tra noi. Abbiamo cominciato praticamente insieme, forse io un anno prima di lui. Poi io andavo sul set di Pasolini mentre lui frequentava il Centro sperimentale. Ma soprattutto lui è di Piacenza e io di Parma e penso che sia questa rivalità il motivo dello scherzo. Tanti anni fa, dentro il mio film "Partner" c´era una battuta che diceva: "Di Piacenza l´Italia ne fa senza". Credo che Marco con questa trovata abbia voluto vendicarsi».
Mentre si gode il clamore e i tanti consensi a "I sognatori", Bertolucci dichiara fuori dai denti di aver poco gradito le pesanti considerazioni sul suo film da parte del critico del francese "Le Monde". Il quale ha stigmatizzato la «concupiscenza con cui filma quei giovani corpi nudi senza mai evocare altra trasgressione che il suo personale voyeurismo». «Se si parla di concupiscenza» ribatte il regista «mia moglie mi ha sempre accusato di guardare con concupiscenza anche una tazza di tè. E per quanto il riguarda il voyeurismo, è ovvio che io, come regista, mi sento un voyeur professionista». Nel resto d´Europa i consensi per "I sognatori" brillano per entusiasmo. In Gran Bretagna, "Evening Standard", "Daily Telegraph" e "Daily Mirror" lo promuovono a pieni voti; in Germania, la "Frankfurter Allgemeine" definisce il film di Bertolucci «un inno alla gioventù in un capolavoro a cinque stelle».

Giuseppe Verdi
La Marcia dell´Aida

L´ONIRICA libertà di Moro che passeggia per la casa, omaggio di Bellocchio al padre, è accompagnata da Schubert. Per sottolineare le parole feroci dei brigatisti il regista sceglie immagini di repertorio di Stalin accompagnate dalla Marcia trionfale dell´Aida di Verdi, «perché ho saputo che proprio Stalin aveva scelto Verdi per alcune parate».


PINK FLOYD
La musica di allora

L´ELETTRONICA evocativa di "Shine on you crazy diamond" per l´ultimo atto del prigioniero Moro e l´urlo struggente di "The great gig in the sky" per l´ultima lettera del condannato. «Buongiorno, notte» è fortemente segnato dalla musica dei Pink Floyd. «In quella musica c´è tutta la disperazione e il senso di ribellione di quegli anni» dice Bellocchio «vale più di mille parole».