venerdì 5 settembre 2003

Buongiorno, notte: La Stampa

La Stampa 5 Settembre 2003
Il Moro di Bellocchio prigioniero non politico
«Buongiorno, notte» non ricostruisce la storia, racconta le persone Le ripetitive abitudini quotidiane dei carcerieri, i sogni, le paure La vittima sempre calma e pacata, la scena dell’uccisione omessa
di Lietta Tornabuoni

VENEZIA. ALDO Moro, presidente del partito della Democrazia Cristiana destinato a diventare presidente della Repubblica, venne rapito a Roma, in un'azione sanguinosa rivendicata dal gruppo armato Brigate Rosse, il 16 marzo 1978. Venne tenuto sotto sequestro in un appartamento romano per 55 giorni, sottoposto a processo politico, ucciso. Il suo cadavere venne fatto ritrovare dentro un'automobile, in un luogo romano a metà strada fra le sedi nazionali della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, il 9 maggio 1978. Su questa tragedia, trauma profondo e indimenticato della politica italiana, nell'ultimo quarto di secolo si sono moltiplicati processi infiniti, indagini, ricostruzioni, testimonianze, perizie, memorie storiche, film, libri: tra i diversi libri firmati da sequestratori e uccisori che non hanno mai detto la verità c'è «Il prigioniero», scritto con Paola Tavella da Anna Laura Braghetti che fu custode del prigioniero e dell'appartamento-prigione, pubblicato da Feltrinelli. A questo libro si è liberamente ispirato Marco Bellocchio per «Buongiorno, notte», con Maya Sansa, Luigi Lo Cascio e il meraviglioso Roberto Herlitzka nella parte di Moro, presentato in concorso alla Mostra.
Nel film dedicato «a mio padre» e realizzato su commissione della Rai, Bellocchio non intendeva ricostruire la ben nota cronaca del fatto, ma analizzare i rapporti tra carcerieri e carcerato nel chiuso dell'appartamento dalle finestre serrate all'interno del quale era stato ricavato con tramezzi di legno un angusto stambugio-carcere per il prigioniero, analizzare pensieri, sentimenti e immaginazioni della ragazza. «Buongiorno, notte» ha almeno quattro livelli evidenti. La vita nell'appartamento, dove la tragicità della situazione quasi si ottunde in una routine quotidiana: mettere e togliere il passamontagna, dormire e vegliare, interrogare il prigioniero che risulta sempre trattato con il massimo rispetto e chiamato «presidente», dargli da mangiare, ritirare e impostare le lettere da lui scritte ai colleghi politici, ai destinatari più autorevoli, alla famiglia o agli amici, ripetere i propri slogan («La classe operaia deve dirigere tutto»). Poi l'esistenza del prigioniero, rappresentato come calmo, laconico, ragionatore, senza scatti d'ira nè d'insofferenza, intento a pregare e a scrivere. Poi la tripla vita della ragazza carceriera, piena di dubbi e contraddizioni: il solito lavoro quotidiano in biblioteca; la usuale fatica della spesa, della cucina, dell'accudire i compagni di sequestro; l'osservare spessissimo il prigioniero; il sognarlo aggirarsi senza costrizioni nella casa e (quando lo portano bendato a morte) andarsene fuori libero, camminando per strada con passo svelto a allegro. Infine, il mondo esterno della politica e della cronaca percepito attraverso i telegiornali: la strada dell'aggressione, Luciano Lama che parla al grande comizio post-rapimento dei sindacati, Andreotti che sollecita le famiglie dei sequestratori a denunciarli, il Papa che invoca «liberate l'onorevole Aldo Moro», la tetra sfilata delle facce di governanti e politici.
Nessuna scena cruenta: Moro addormentato portato nell'appartamento dentro una cassa, Moro interrogato, Moro turbato dall'inerzia dei democristiani («Non mi riconoscono più, credono che io sia un altro: ma io sono sempre lo stesso»); la famosa seduta spiritica a Bologna (Bellocchio è tra gli astanti); riunioni anniversarie di anziani ex partigiani di «Fischia il vento»; Moro che ascolta la propria condanna a morte e scrive l'addio alla moglie («Mia dolcissima Noretta»). Gli unici morti si vedono in citazioni da «Paisà» e in immagini d'archivio di uccisioni, fucilazioni, annegamenti di partigiani compiuti da fascisti o nazisti durante la seconda guerra mondiale.
La cronaca del caso Moro è dunque appena accennata. La politica politicante, neppure sfiorata. Il rapporto tra carcerieri e carcerato non è un rapporto tra persone ma tra emblemi di diverse politiche di cambiamento o di conservazione, emblemi astratti, rigidi, schematici o agiografici (Moro, spesso accompagnato da musiche sublimi, è rappresentato quasi come il santo che non era). La ragazza carceriera ha pochi spazi drammatici. Bellocchio è così bravo che non farà mai nulla di brutto: «Buongiorno, notte» è interessante e ha momenti belli; anche se non dice, né dà molto, il senso di morte che dominò quel periodo e quel momento è fortissimo.

IL TERRORISMO ALLA MOSTRA DEL CINEMA
Annunziata
«Buongiorno, notte» è «un film molto liberatorio», dice il presidente Rai, Lucia Annunziata che ha già visto il film «ben tre volte». «Trovo catartico che Bellocchio abbia rimesso sullo sfondo la politica e in primo piano la psicologia. Questo film colma un vuoto nella nostra generazione, che ha scritto di tutti tranne che di Moro e del terrorismo. In fondo siamo stati presi tutti in ostaggio da una banda di persone meno brave e meno intelligenti di noi .
Giovanni Moro
«Ho molto apprezzato il film di Bellocchio» scrive il figlio di Aldo Moro, Giovanni, in una lettera a Giancarlo Leone, amministratore di Rai Cinema. «Trovo che scegliendo di riflettere sull'esperienza dell'uomo Aldo Moro senza ambizioni di ricostruzione storica o di fedeltà all'insieme dei fatti e degli atti noti, abbia davvero illuminato aspetti importanti della vicenda. E’ un caso in cui una creazione artistica è capace di accrescere la conoscenza delle reltà».
Gallinari
«Vedrò il film nelle due ore di libertà che ho al giorno, dalle 16 alle 18 - dice Prospero Gallinari - ma i fatti sono una cosa, l'arte è un'altra». Ma contesta il fatto che fossero, loro carcerieri di Moro, deliranti e avulsi dalla realtà: «Eravamo radicati nei quartieri, nelle fabbriche, sapevamo dunque quello che la gente pensava. Sapevamo che poteva non esserci via d'uscita. D'altronde nessuno volle trovarla: il Papa e il Pci hanno avuto grosse responsabilità».
Braghetti
Esce di nuovo il 17 ottobre, da Feltrinelli, il libro di Anna Laura Braghetti e Paola Tavella «Il prigioniero», da cui è liberamente tratto il film di Marco Bellocchio, pubblicato per la prima volta da Mondadori nel '98. Romana, condannata all'ergastolo, la Braghetti non ha mai usufruito di sconti di pena e dopo 22 anni di carcere ha avuto nel 2002 la libertà condizionale. Nel '95 con l'ex militante dei Nar, Francesca Mambro, ha pubblicato «Nel cerchio della prigione» (Sperling & Kupfer).

Il regista: come cittadino credo che lo Stato abbia fatto un errore politico a non trattare
Simonetta Robiony
inviata a VENEZIA

Neanche Woody Allen che è Woody Allen ed era la prima volta che si faceva vedere in carne e ossa alla Mostra, ha avuto la standing ovation che ha accolto in conferenza stampa Marco Bellocchio e il suo «Buongiorno notte», il film sul caso Moro che ha commosso l'altra sera anche la platea degli addetti ai lavori tanto che il lunghissimo applauso, scivolando sui titoli di coda, certo senza intenzioni, ha finito per coinvolgere anche il nome della brigatista Anna Laura Braghetti dal cui libro il regista ha tratto ispirazione. Accompagnato dai suoi attori, Bellocchio, molto emozionato, ha esordito leggendo la lettera che gli ha scritto Giovanni Moro, il figlio dello statista, il solo della famiglia ad aver visto il film, una lettera di sostegno all'autore lontana dalla polemica aperta dalla sorella Maria Fida che s'era dichiarata amareggiata per non esser stata coivolta nè lei, nè alcuno dei familiari, in questa operazione. Prodotto e voluto dalla Rai che aveva chiesto esplicitamente a Bellocchio un film sul caso Moro, è da oggi nelle sale in 170 copie, il più grosso lancio mai fatto per un film italiano alla Mostra ma, chiarisce Giancarlo Leone capo di Raicinema, gli esercenti ne avrebbero volute 250, segno che il rapporto tra il nostro pubblico e il suo cinema s'è ristabilito.
Quando ha scelto di raccontare la tragedia di Moro dal punto di vista di una terrorista?
«Quando ho avuto tra le mani il libro di Anna Laura Braghetti, un libro che racconta fatti concreti di vita quotidiana. A me non interessava la ricostruzione storica, l'analisi della complessità della situazione politica di quegli anni e ancora meno costruire una indagine sugli eventuali responsabili occulti, che fossero gli uomini della CIA o quelli del KGB. Da cittadino sono cose che mi stanno profondamente a cuore, ma come regista non le so fare. A me intertessava analizzare i rapporti che si erano stabiliti nella casa dove Moro fu tenuto prigioniero. Perciò mi sono preso alcune libertà».
Per dire cosa?
«Che quella morte fu una tragedia non solo per il carcerato ma anche per i carcerieri. E naturalmente fu una tragedia per il paese e per la sinistra che da allora non riuscì più a far politica negli stessi modi di prima».
C'erano due partiti allora: quello della trattativa con i socialisti in testa, e quello della fermezza con i comunisti: lei da che parte stava?
«Ero per la trattativa. A me pareva di una ferocia inaudita dover condannare a morte un uomo con cui si era divisa l'esistenza per 55 giorni. Ed ero convinto che per lo stato trattare sarebbe stato un atto di forza non di debolezza. Un convincimento che oggi è diventato di molti».
C'era una'altra polemica allora, quella per cui i terroristi sarebbero stati figli dei partigiani.
«E' vero, tra quelli che avevano fatto la Resistenza c'erano alcuni che accusavano la sinistra di averne svenduto i valori e, forse, quelli potevano pensare ancora alla rivoluzione. Ma non era il mio caso. Io sono cresciuto con il mito della Resistenza. I libri di Marx, le immagini dei partigiani uccisi, i manifesti con la faccia di Stalin, appartengono al mio immaginario. Sono imbevuto di quelle immagini. E dal momento che un film si costruisce sulle immagini, queste ho usato per far passare le mie emozioni».
Crede che il film susciterà critiche?
«Ho più paura di quelle che mi verranno da sinistra che da destra. Ci sarà qualcuno che dirà che ho rappresentato i brigatisti in maniera semplicistica, li ho fatti apparire degli stupidi in confronto alla sagacia politica e umana di Moro».
Cosa ha aggiunto e cosa ha tolto al libro della Braghetti?
«Ho letto anche altri libri: quello di Sciascia, quello di Flamigni, le lettere di Moro dal carcere, quelle dei partigiani ai familiari. Però, certo, il libro della Braghetti è stato fondamentale per liberare la mia fantasia. Ho inventato il personaggio del compagno di lavoro della terrorista, un aspirante sceneggiatore che viene alla fine arrestato per sbaglio, in quei giorni di inettitudine e confusione. Ma son partito da un fatto autentico: nella borsa di Moro c'era una sceneggiatura».
E' un'ennesima prova del suo anti-clericalismo che i brigatismi si facciano il segno della croce?
«No. Davvero vivevano una dimensione religiosa più intensa di quella dei democristiani».
Il film è dedicato a suo padre.
«L'ho aggiunta alla fine, la dedica. M'è parso che questo Moro molto privato, molto personale somigliasse a mio padre, un padre che ho perso da bambino. Quando Moro s'aggira nella casa al buio mentre i suoi carcerieri dormono, fa una cosa che faceva mio padre e che io spiavo fingendo di tenere gli occhi chiusi».