venerdì 5 settembre 2003

Buongiorno, notte: L'Eco di Bergamo

L'Eco di Bergamo 5.9.03
Le «Br» di Bellocchio, più in trappola di Moro
I terroristi, nel film sul rapimento dello statista, visti nella quotidianità. E senza indulgenza
Il regista Marco Bellocchio con gli attori Maya Sansa e Luigi Lo Cascio alla presentazione del film Buongiorno, notte
di Marco Dell'Oro

VENEZIA Dieci minuti di applausi scroscianti, nel sottofinale, con la musica dei Pink Floyd che accompagna Aldo Moro fuori dalla prigione, liberato in un sogno impossibile, straziante e dolente. E ancora applausi sui titoli di coda, con le immagini dei telegiornali d'epoca, i funerali di Stato, i primi piani di politici, ministri e sindacalisti, Ingrao, Almirante, Lama, Cossiga e Zaccagnini impietriti dal dolore, Craxi, Andreotti, Leone.
Buongiorno, notte è un film che colpisce come un colpo secco di fucile: spietato faccia a faccia con il nostro passato, chiamata obbligatoria davanti alla febbre del dolore e del ricordo. Marco Bellocchio corre per il Leone d'oro con un'opera che vi tiene sempre in allerta per l'incombere di frementi inquietudini, e alla fine vi lascia un sordo malessere, come un'oscura ferita. Il titolo è tratto da una poesia di Emily Dickinson, che in verità si chiama: Buongiorno, Mezzanotte . La poetessa immagina di essere stata scacciata dal Giorno, cui aveva chiesto ospitalità, e quindi è costretta a tornare a vivere nella Notte. «Buongiorno, Mezzanotte, tu non sei così bella. Io avevo scelto il Giorno, ma ti prego accetta la bambina che lui ha cacciato lontano da sé».
Luce e buio, ragione e torto, coraggio e paura. Centrifugati dentro un'atmosfera claustrofobica come il covo di via Montalcini, i tormenti interiori agitano le veglie insonni della notte della ragione. È notte anche di giorno, nella prigione invisibile del leader Dc. Bellocchio, che nel 1965 aveva terremotato il cinema italiano con il suo lungometraggio d'esordio, I pugni in tasca , adesso «rifiuta» la Storia. Naturalmente si è documentato, ha letto le lettere di Moro e il libro di Anna Laura Braghetti (fu lei che acquistò l'appartamento in via Montalcini dove Moro venne tenuto prigioniero). Ma al di là del fatto che nel libro sono descritti episodi che poi nel film ha liberamente sviluppato e ampiamente tradito, conta lo spirito della pellicola e il suo equilibrio emozionale tra verità storica e finzione cinematografica. Bellocchio elude la cronaca per concentrarsi sull'interiorità dei personaggi. Prende dalla cronaca quel che gli serve per costruire la «sua» tragedia. Aveva bisogno di una forza di movimento, che limasse certezze per lasciare il posto a scintille di contraddizione, reazione, ribellione. L'ha trovata inventando un personaggio femminile straordinario.
Il cuore del film non è Moro, ma i sommovimenti dell'anima dei suoi carcerieri. Bellocchio ammette di essersi voluto inventare qualcosa di «falso», di «infedele». La differenza con Paolo Benvenuti, di cui abbiamo ancora negli occhi i suoi Segreti di Stato , è evidente. Uno fa i conti con controversi retroscena della Storia (pur senza mai dimenticare che di mestiere fa il regista, non lo storico), l'altro scandaglia i recessi dell'animo umano.
In Buongiorno, notte tutto è visto con gli occhi di una donna, Chiara (ispirata ad Anna Laura Braghetti, ha il volto di Maya Sansa), giovane terrorista e giovane idealista che nutre una sincera fiducia nella rivoluzione. Quel che vediamo di Moro e dei suoi carcerieri lo vediamo attraverso il suo sguardo, talvolta perso, spesso impaurito, inconsapevolmente (o consapevolmente, chissà) miope sulla realtà che la circonda. Sta commettendo un delitto eppure, di contro, è chiamata a vivere la normalità del quotidiano con i suoi ritmi di sempre: ufficio, colleghi e un ragazzo che sembra leggerla nel profondo, più di quanto lei stessa riesca a fare.
Combatte anche lei, certo, ma combatte con le sue emozioni e non è facile come nella lotta di classe. Si scopre in conflitto con i suoi compagni. La forza del passato non basta più per tenere insieme le crepe del presente. L'utopia rivoluzionaria ha perso il suo fascino e si sbriciola a contatto con il nemico, se il nemico è un prigioniero inerme e il prigioniero e lì, in casa con te, mangia la minestra che gli prepari tu, e scrive lettere alla moglie che poi tu leggi senza riuscire a trattenere le lacrime perché ti ricordano quelle che ti faceva leggere tuo padre, quando eri bambina, le lettere dei condannati a morte della Resistenza. Perché quelli erano gli anni, e non altri, erano gli anni Settanta, rivoluzionari a modo loro, non il modo migliore, beninteso, ma uno dei tanti e possibili per chi non voleva sceglierne altri. Guarda caso Bertolucci, proprio qui a Venezia, ha detto che il '68 è finito nel 1978: «Con la morte di Moro è finito un sogno». Una delle cose che più fanno impressione, nel film, sono le parole. Più ancora che il taglio dei pantaloni e delle giacche, sono le parole a dare la misura del tempo che è passato da allora, trent'anni come trecento. I brigatisti, soprattutto Moretti (che ha il volto di Luigi Lo Cascio) usano un vocabolario e una sintassi di pensiero che a molti giovani d'oggi potrebbe far pensare, forse, a un reperto da museo. Chi nel '78 aveva 20 o 40 anni, e a quel tempo ragionava in un certo modo, magari può capire. Ma che cosa dirà, oggi, un ragazzo di vent'anni, ascoltando questa frase: «Noi, presidente Moro, la uccidiamo per difendere gli operai delle fabbriche». Bellocchio è bravissimo a mostrare che lo scollamento c'era anche allora. Mostra i telegiornali d'epoca, il famoso comizio in cui Lama nega che si stia vivendo una guerra civile e accusa i brigatisti di essere assassini: i sequestratori, gli occhi incollati alla televisione, ascoltano increduli, e ancora più increduli, quasi sgomenti, ascoltano gli applausi a Lama da parte degli operai: «Ma come, applaudono?!». Le risposte del capo brigatista alle debolezze dei compagni (poter uscire dal covo per vedere la fidanzata, i dubbi sulla sorte del prigioniero) sono sempre risposte intimidatorie, il gesto di chi esclude dal tempio i profanatori. È proprio la pietas che a quel tempo si voleva fortissimamenente sopprimere: per sostituirla con qualcosa d'altro, chissà che cosa, di certo una cosa dura come l'algebra. Torbido inganno, schermo invisibile o impossibile difesa dai soprassalti del rimorso? Se ci è concessa una citazione fuori moda, e senza scandalizzare nessuno, anche il dottor Zivago all'inizio è entusiasta della rivoluzione. Ma quando, cento pagine dopo, l'illusione s'è dissolta, ammette: «Con la violenza non si ottiene niente. Al bene si deve giungere attraverso il bene». Bellocchio non ha uno sguardo indulgente sui carcerieri, no davvero. Meglio tenerli in tasca, i pugni, piuttosto che usarli per stringere pistole. Ricordando sempre che perdonare non è un dovere, ma una risorsa da scovare nel più intimo di sé.

I familiari sono divisi la critica è favorevole
di Alessandra Magliaro

VENEZIA La rappresentazione della tragedia finita il 9 maggio '78 con il corpo di Moro a via Caetani e la finzione del percorso umano di un personaggio che contraddice scelte e sogni. Marco Bellocchio tenta di allontanare cronaca e politica e riportare tutto al cinema con il «suo» sequestro Moro di Buongiorno notte. «L'oggetto del mio film non è la verità storica. Non mi ha interessato, pur essendo argomento di fondamentale importanza, capire chi c'era dietro i terroristi, affrontare quel dibattito sul complotto che per anni ci siamo portati dietro». Da lì, spiega il regista, «l'invenzione di Chiara, il personaggio interpretato da Maya Sansa, che ad un certo punto reagisce, come invece non è avvenuto nella storia vera».
Bellocchio svela che nelle prime stesure di sceneggiatura Moro non si doveva neppure vedere, «si doveva ascoltare solo la sua voce. Volevo fare quello che mi è più congeniale, girare dentro le case, filmare questa finta vita di famiglia e poi rischiare di guardare dentro la cella del prigioniero». Si aspetta polemiche politiche? Risponde con una battuta Bellocchio: «Qualcuna sì, ma più da sinistra che da destra. Magari mi rimprovereranno di aver trattato male i terroristi». Fra i tanti a congratularsi col regista, il figlio di Aldo Moro, Giovanni. «Si tratta della questione di come mai, in quel caso e solo in quello, lo Stato italiano decise di non trattare con i terroristi né cercare seriamente di liberare il prigioniero»: così, sottolineando il cuore del problema, si conclude la lettera che Giovanni Moro ha scritto all'amministratore delegato di Rai Cinema Giancarlo Leone per ringraziarlo del film.
Di diverso parere invece era stata nei primi giorni del Festival la figlia dello statista Maria Fida: «A tutti non posso che ripetere quello che vado dicendo da 25 anni: Basta, pietà». Maria Fida Moro si era lamentata con il regista e la produzione per i ritardi con cui la famiglia era stata informata delle riprese, e ancora: «Ho capito che il film era collegato al libro di Anna Laura Braghetti ed è stato questo che ha provocato quello che ora non so se definire rammarico, rabbia, profondo dolore o tutto insieme: non è possibile che chiunque, tranne noi, possa parlare del caso Moro. In particolare, non è possibile che chi ha sequestrato e ucciso mio padre possa scrivere libri, fare film, partecipare a dibattiti televisivi, ottenere interviste».