venerdì 14 marzo 2003

Galileo Scaffale 14.3.03
Totale assenza di comunicazione
Francesca Garofoli

Claudio Morici
Matti slegati
Stampa Alternativa, 2003
pp. 126, euro 6,20

Nel 1975 erano "Matti da slegare". Oggi sono "Matti slegati". In mezzo, tra il film documentario di Marco Bellocchio e il romanzo di Claudio Morici, 25 anni di riforma psichiatrica. Cosa è veramente cambiato con l'attuazione della legge 180, promossa da Franco Basaglia nel 1978? Sono ancora molte le questioni rimaste irrisolte e già si parla di un'ulteriore riforma, proposta dall'On. Alessandro Cè della Lega Nord e dall'On. Maria Burani Procaccini di Forza Italia, attualmente all'esame della Commissione Parlamentare. Nella teoria, dopo aver chiuso l'ultimo manicomio, nel giugno 2000, li si vorrebbe riaprire sotto il falso nome di "presidi residenziali". Nei fatti, le antiche strutture di prigionia sono state solo sostituite con dei mini-manicomi, chiamati case famiglia, comunità alloggio e Cta. Così, dalla casa manicomiale di Colorno, nei pressi di Parma, ritratta da Bellocchio, ci spostiamo nella comunità alloggio, alle porte di Roma, descritta da Claudio Morici. Niente sbarre alle finestre, per questa prigione moderna, ma manca ancora l'integrazione del malato psichiatrico a cui mirava la riforma Basaglia. Fuori da questo ameno eremo psichiatrico c'è solo il deserto: "Intorno alla Comunità non c'è niente. D'estate questo niente va in fiamme e bisogna chiamare i pompieri. È l'evento più avvincente della stagione" (p.5).
L'autore - che vanta un'esperienza pluriennale di assistenza psicologica ai malati mentali - ha scelto la via del romanzo, invece del saggio, per denunciare le lacune di un sistema che ha solo sostituito alla coercizione del malato la sua ghettizzazione. Sullo sfondo i guasti di una riforma che ha dato vita a forme improprie e illecite di assistenzialismo: cartelle-fantasma, pazienti-inesistenti, tangenti e finanziamenti dirottati a ben altro scopo da quello destinatogli. È lo spunto per costruire un giallo, lungo cui si muove, con un ritmo onirico e folle, la vita di tutti i giorni di una comunità alloggio. Andrea, il protagonista, non ha amici, mangia surgelati, colleziona video porno e s'improvvisa, da infermiere, agente segreto. Che differenza c'è tra la sua lucida consapevolezza e la follia dei suoi pazienti? Mentre Andrea scrive un libro-denuncia, il paranoico Crisantemo scrive lettere-denuncia al Papa. La differenza tra i due è data solo da quell'esile margine che si chiama realtà. E alla fine di tutto, forse, non resta neanche quello. Lo stile, rapido e fulminante come un piano-sequenza cinematografico, spiazza il lettore con inaspettate incursioni nel delirio. L'unica certezza a cui appellarsi è quella che separa il dentro dal fuori: tra i due mondi, c'è solo il silenzio, la totale assenza di comunicazione. E dal virtuale della follia al virtuale telematico, sul sito www.mattislegati.com è possibile trovare un inusuale accompagnamento alla lettura.
UN NUOVO CAPITOLO DEL MISTERO DEI DUE OMICIDI SENZA MOVENTE A PADOVA
Profeta: ho ucciso per ordine di una voce
La confessione del serial killer, oggi il processo d´Appello
La Stampa14/3/2003

MILANO UNA brava persona con una bomba atomica nella testa». Non sono le metafore che mancano all´avvocato vicentino Cesare Dal Maso, difensore di Michele Profeta, il serial killer padovano condannato all´ergastolo per due omicidi senza movente. Oggi a Venezia inizia il processo d´appello. C´è solo una cosa da stabilire, che di prove contro Profeta ce ne sono anche troppe. C´è da stabilire se Michele Profeta era capace di intendere e di volere e allora vanno bene l´ergastolo e la cella singola nel carcere di Voghera. Oppure se non lo era, c´è l´altra strada, quella che porta di filato al manicomio giudiziario. «Non c´è nient´altro nei miei motivi d´appello, solo questa richiesta di sottoporre il mio cliente a una perizia psichiatrica», spiega il legale, 19 pagine a computer che porterà oggi nell´aula bunker di Venezia. Diciannove pagine e due allegati. Il primo è una specie di confessione scritta di suo pugno da Michele Profeta. Due lettere inviate al suo difensore per posta, un altro messaggio consegnato a mano, alcuni fogli, fitti di una calligrafia minuta e dei suoi deliri. Dove Michele Profeta scrive: «Ho ucciso, me lo ordinò una voce amica. Mi ha costretto a farlo. Dovevo sacrificare due vittime innocenti. Una al Dio del bene l´altra al Dio del male». La voce amica sarebbe quella di una lontana parente, di una zia rimasta in Sicilia - «Zia Antonietta, l´unica che mi abbia mai aiutato», scrive lui dal carcere - dove Profeta è nato 55 anni fa. Ma la «confessione» non finisce qui. Scrive ancora in un altro foglio: «Mi sentivo un sacerdote, credevo di essere nelle mani di Dio e invece ero nelle mani del maligno». Sono quelle «voci» che lo portano ad uccidere, a sparare nel mucchio con la vecchia Ivery and Johnson che gli trovano a casa, prova provata del duplice omicidio, del tassista Pierpaolo Lissandron ammazzato in centro a Padova il 29 gennaio del 2001 e quello dell´immobiliarista Walter Boscolo, proiettili in testa anche per lui pochi giorni dopo, il 10 febbraio. Nei suoi scritti Michele Profeta ricostruisce i due omicidi nei dettagli. Prima quello del tassista: «Quando sentii la voce della mia madrina trasalii, non me lo aspettavo... La voce mi disse che quella era la vittima sacrificale per il Dio del bene e dovevo colpirla alla testa per non farla soffrire. Ho ubbidito e subito dopo l´ho scrollato, era morto». Poi quello dell´immobiliarista, anche lui scelto a caso, dopo una telefonata a un´agenzia in cui Profeta chiede di poter vedere un appartamento: «La voce mi disse nuovamente che era lui e che questa volta sarebbe stato sacrificato al Dio del male. Anche questa volta è stato come se fossi al di fuori e mi oservassi in uno specchio. Ho avuto la sensazione, quando mi sono allontanato, che la mia immagine fossa rimasta ferma nello specchio». Il Bene e il male. Zia Antonietta. Gli omicidi come unica possibilità di salvezza dopo una vita balorda, due convivenze con due donne che non sapevano l´una dell´altra, il lavoro di immobiliarista finito a rotoli, la prima volta per colpa di una cooperativa di tassisti ai quali non aveva pagato la pubblicità, la seconda per la sua incapacità. O follia. Che prima di ammazzare, prima di fare volantinaggi porta a porta, prima di quelle lettere al Questore di Milano in cui chiedeva 12 miliardi per non uccidere più, la vita di Michele Profeta era già un calcolo di probabilità. Lo scrive lui stesso: «Andavo al casinò di Venezia, studiavo la roulette per cercare di prevedere se sarebbe uscito il rosso o il nero. Alla fine mi ero ridotto a complicati calcoli sulla sequenza delle targhe delle auto che mi passavano davanti». Solo le «voci», lo avrebbero salvato. La voce della sua «madrina»: «Mi diceva di pensare ai sacrifici che nell´antichità si facevano per ingraziarsi gli Dei, mi diceva di pensare al sacrificio di Gesù...». Un delirio mistico. Coltivato anche in cella a Voghera, dove la sua unica compagnia è la Sacra Bibbia. Visto che gli altri detenuti gli stanno alla larga. E una volta che lui si era avvicinato a Renato Vallanzasca, stesso carcere, stessa sezione ma ovviamente altra cella, il Renè della Comasina gli aveva sibilato: «Ma che vuoi?». Che in carcere lo sanno tutti che Michele Profeta non è a posto con la testa. Lo aveva capito anche il professor Vittorino Andreoli, lo psichiatra della difesa al primo processo: «Siamo di fronte a gravi disturbi della personalità». Diagnosi confermata, per ora solo sugli scritti, dal professor Giovan Battista Traverso, il nuovo consulente della difesa: «Un grave disturbo connotato da forti tratti di tipo borderline, narcisistico e paranoideo, patologia che può ben aver esposto il soggetto, dotato sì di un ego ipertrofico e grandioso, ma di un ego certamente immaturo e fragile che in condizioni di elevato stress lo hanno portato ad uno stato di vero e proprio scompenso con conseguente deragliamento psicotico commisto a tematiche di tipo mistico e religioso». Un quadro più che sufficiente per il legale, per chiedere una perizia psichiatrica e l´assoluzione per impunibilità di Michele Profeta, il serial killer di Padova che questa mattina per la prima volta sarà in aula a Venezia. Pronto a chiedere la parola e cercare di spiegare quello che ha già scritto al suo avvocato: «Sono stato io ad ammazzare due volte. Sono state quelle voci che sentivo nella mia testa, ad ordinarmelo. E io lo facevo, dopo una vita di pace e di rassegnazione, sia fatta la volontà di Dio».

IL SOLE 24 ORE DOMENICA 9.3.03
Roberta De Monticelli - Una fenomenologia della persona che rivaluta l'esperienza immediata
Passioni ed emozioni in presa diretta
di Francesca Rigotti

Si può cominciare a inquadrare questo lavoro di Roberta De Monticelli nella recente ripresa del dibattito su passione e ragione, emozioni e razionalità, vita affettiva e conoscenza. Dopo che per secoli gli dei minori degli affetti e dei sentimenti sono stati contrapposti agli dei maggiori della ragione e della logica nonché associati, i primi, alla soggettività, all’oscurità, al corpo (e al femminile) e i secondi all’oggettività, alla chiarezza, alla mente (e al maschile), si comincia oggi infatti a mettere in dubbio la validità di questa antitesi e a chiedersi se passioni e affetti non possano presentare carattere razionale e cognitivo (cfr. Il Domenicale del 4 luglio 1999, Filosofia ed emozioni, a cura di Tito Magri; e del 12 marzo 2000 per Jon Elster, Alchemies of the Mind. Rationality and emotions e Sensazioni forti. Emozioni, razionalità e dipendenza; del 9 luglio 2000 per J. Elster, Ulysses Unbound).
Ma lasciare questo libro nella cornice della discussione sul peso delle passioni e dei sentimenti nella scelta razionale sarebbe riduttivo e fuorviante. In realtà la “teoria del sentire” elaborata da Roberta De Monticelli Ë una teoria degli affetti con una connotazione forte e precisa, che vuol essere parte di una personologia, non solo, ma che tende a una teoria della conoscenza morale d’impostazione non-kantiana. L’etica del sentire respinge infatti il postulato per cui il dovere appartiene a una sfera disgiunta dal sapere e dalla conoscenza. Eppure si dichiara universalista. Come?
Individuando nel rispetto il sentimento fondatore della coscienza morale. Solo partendo dal rispetto dovuto a ogni persona come tale in quanto portatrice di dignità, dal rispetto come, scrive l’A. “soglia dell’etica”, sarà possibile sviluppare una nozione di ordine del cuore personale concreto, fondante norme universalmente obbliganti.
L’arduo percorso Ë tutto condotto all’interno dell’approccio fenomenologico, che De Monticelli illustra con l’immagine del filosofo che guarda il mondo “con occhi spalancati”, stupito della presenza delle cose e innamorato della loro verità. Viene qui adottato e presentato con toni ricchi di pathos il metodo “candido e rigoroso” di rivalutazione dell’esperienza immediata, dell’intuizione e della conoscenza diretta proprio di questa tradizione filosofica. Della fenomenologia De Monticelli cerca in ogni caso di interpretare lo spirito piuttosto che la lettera, limitando riferimenti e citazioni e non parlando della storia e dei testi, per andare direttamente alle “cose stesse”. Ma chi ha scritto un testo del genere, obietterei, non avrebbe potuto farlo a digiuno di storia e di testi. Nè lo si potrebbe leggere senza un buon armamentario di testi e di storia. Come si potrebbe parlare del rispetto nei termini in cui se ne fa senza aver letto Rousseau, Kant ed Hegel e molti altri?… comunque proprio il modo della conoscenza diretta caratteristico dell’analisi fenomenologica di cui ha bisogno, secondo l’A., lo studio delle emozioni e della vita affettiva, perchè non possiamo accontentarci di un livello modesto di definizione o discriminazione concettuale e descrittiva relativamente al mondo dell’etica. Su questo punto non possiamo non concordare, come non possiamo non fare nostre le parole anche molto dure rivolte dalla filosofa alle menti che oggi governano la politica, il mondo e i suoi conflitti, di fatto eticamente analfabete. Tanto più quando si presentano onestamente, credendo di essere nel giusto perchÈ rispondono a un’altrui volontà di male. E mentre calpestano le differenze tra il giusto e l’ingiusto affilano le armi, mentre noi ci stringiamo sgomenti ad Hans Jonas quando dice
Roberta De Monticelli, , Garzanti, Milano 2003, pagg. 316, 17,00.

SOLE 24 ORE DOMENICA 09-03-2003
Psiche - La rivista degli psicoanalisti dedica un numero ai processi della creatività scientifica e artistica Teoremi dell’immaginario Poincarè e Fermi vedevano in anticipo le soluzioni dei problemi matematici. E Einstein parlava di "varietà caotica" dell’esperienza e di una che culmina in un sistema di assiomi
di Umberto Bottazzini

Secondo Schopenhauer era il segno del genio. La capacità di cogliere la verità prima di averne la conferma. Einstein parlava della sensazione di "avere qualcosa tra le punte delle dita". Una "consonanza anticipatoria con la natura", l’ha chiamata il fisico danese Christian Oersted. Un’intuizione innata che guida lo scienziato nell’attimo della scoperta "senza alcuna premonizione, senza un ragionamento conscio precedente", come disse una volta Fermi raccontando come era giunto alla scoperta delle reazioni nucleari provocate da neutroni lenti, che gli valse il Nobel. Una folgorazione improvvisa come quella che colse Poincarè mentre metteva piede sul predellino di un omnibus per un gita in campagna, e gli rivelò i legami profondi tra la teoria delle funzioni che stava da tempo studiando e la geometria non euclidea. Si tratta di un’abilità particolare che non figura tra gli strumenti dell’apprendistato della ricerca, non si insegna e non si apprende. Un ingrediente essenziale della ricerca, sul quale tuttavia regna in generale un imbarazzato silenzio nelle pubblicazioni delle scoperte scientifiche, osserva Gerald Holton, nel saggio di apertura di questo fascicolo di "Psiche" dedicato alle Figure della mente, del quale pubblichiamo un breve stralcio.
Queste ultime, dice Lorena Preta nell’editoriale, "possono essere immagini, intuizioni, schemi di rappresentazione", forme composite che "fungono da organizzatori dell’esperienza conoscitiva". Costituiscono i nostri oggetti di osservazione e gli strumenti attraverso il quali osservare. Le riconosciamo nel processo della scoperta scientifica e nella produzione artistica.
Come pensa uno scienziato quando fa scienza? Chiese una volta Maurice Solvine al suo vecchio amico Einstein.
Nella lettera di risposta Einstein illustrava con uno schizzo come ai suoi occhi stavano i rapporti tra l’esperienza empirica, l’intuizione e il ragionamento deduttivo. "Le esperienze ci sono date" cominciava Einstein tracciando una linea, i cui punti rappresentano la "totalità dei fatti empirici", un "labirinto di impressioni", una "varietà caotica" dalla quale si alza una linea curva, una "mossa costruttiva a tentoni" che culmina in un sistema di assiomi che, da "un punto di vista psicologico", si basano sulle esperienze sensoriali immediate. Non c’è comunque un percorso logico che va da queste ultime agli assiomi, osservava Einstein, "ma solamente un collegamento intuitivo sempre soggetto a revoca". Dagli assiomi, cosÏ enunciati sulla base di “ispirazione”, “ipotesi” e congetture, seguono le deduzioni che si possono ottenere, queste sÏ, con gli usuali processi logici, e confrontare poi con i dati di osservazione. Per Einstein, commenta Holton, lo scienziato, lo studioso o l’artista "al fine di fuggire dal caos presente nel mondo dell’esperienza, erige un’immagine semplificata e lucida del mondo, trasponendovi il centro di gravità della sua vita emotiva".
Anche nelle associazioni di idee proprie del pensiero matematico astratto, osserva Paolo Zellini, si riconosce qualcosa di analogo alle "rappresentazioni finalizzate" di cui parlava Freud. "Nei processi psichici che accompagnano i nostri giudizi scientifici ricorrono tuttavia alcuni tipi di immagini e di costruzioni di figure che non hanno carattere soggettivo e cangiante, e che sembrano piuttosto rimandare a regole stabili e imprescindibili, senza le quali lo stesso pensiero astratto non esisterebbe neppure. Molte teorie matematiche hanno origine da quelle immagini e usano concetti e formule analitiche che ne sono, in senso molto chiaro ed evidente, l’espressione o l’estensione algebrica". Come avviene per alcuni algoritmi fondamentali che portano con sè "una virtù esplicativa e una capacità di orientare il pensiero in contesti diversissimi" e hanno origine in immagini o schemi elementari che fanno parte di quel bagaglio di idee, regole e costruzioni a cui si ricorre automaticamente, prima ancora di qualsiasi atto di riflessione consapevole".
I processi mentali (inconsci) che connettono sistemi concettuali ed esperienze sensoriali, il modo in cui le intuizioni si affacciano alla coscienza, le articolazioni della vita inconscia e di quella cosciente di cui si trova traccia nel racconto di scienziati e artisti, questi sono i temi del percorso proposto da Lorena Preta a storici della scienza, filosofi, psicoanalisti e artisti. Il fascicolo, che comprende inoltre interviste ad André Green e Luca Ronconi (auguri per i suoi 70 anni!) e le divertite e divertenti note di diario dei giorni del Nobel del neurobiologo Paul Greengard, Ë una lettura quanto mai appropriata in vista della Brain Awareness Week 2003, che si inaugura domani e prevede una serie di iniziative in diverse città italiane (il programma si trova per esempio nel sito http://users.unimi.it/sins/SINS_EDAB/ BAW2003.html).
"Figure della mente", "Psiche. Rivista di cultura psicoanalitica", 2 (2002), pagg. 142, 21,00.

Repubblica Salute giovedi 13 Marzo 2003
Schizofrenia
nuovo farmaco per la cura

ROMA Si chiama aripiprazolo. E’ un antipsicotico di ultima generazione che coniuga l’efficacia clinica con un’eccellente tollerabilità; riduce al minimo i sintomi extrapiramidali, gli effetti della sedazione, e non provoca aumento di peso. I risultati degli studi clinici sull’aripiprazolo, molecola di ultima generazione per la cura della schizofrenia, sono stati recentemente presentati, a Roma, all’VIII Congresso della Società Italiana di Psicopatologia.
Ottenuto dall’FDA il via libera alla vendita negli Usa, dopo uno studio su oltre 1600 pazienti, l’aripiprazolo è ora al vaglio dell’EMEA, l’agenzia europea per la valutazione dei farmaci. Anche l’Italia ha contribuito allo sviluppo clinico del nuovo farmaco e sta partecipando a nuove sperimentazioni: oltre 20 centri e più di cento pazienti hanno già avuto accesso al farmaco ed altri studi sono in corso.

il manifesto 13.3.03
Integralisti nei secoli
Sono passati tre secoli dalla Guerra dei trent'anni e all'improvviso la religione torna a essere protagonista della lotta politica mondiale. Causa di stragi, e non solo nell'ambito della cosiddetta «guerra al terrorismo». Ma spesso i fondamentalismi più estremi sono solo l'«effetto specchio» della laicità occidentale
MARCO D'ERAMO

Ecosì nell'anno 1424 dell'Egira e 2003 dopo Cristo, capita che la guerra santa sia invocata in nome di Allah e che un impero bombardi in nome della cristiana provvidenza. Nelle piazze di Baghdad, rivolte alla Mecca, le folle irachene s'inchinano in preghiera, aspettando la guerra; mentre a Washington, nelle quiete stanze della Casa Bianca, i sagaci strateghi statunitensi rinsaldano la loro fede nel dio degli eserciti leggendo ogni giorno i versetti della Bibbia. Non ultimo paradosso della situazione attuale è che - dall'11 settembre 2001 - a combattere l'integralismo wahabita di Osama bin Laden è il fondamentalismo texano di George W. Bush. Cento anni fa il grande sociologo tedesco Max Weber aveva profetizzato che il `900 sarebbe stato il secolo del disincantarsi del mondo, per il razionalizzarsi della conoscenza (tramite la scienza), della vita economica (tramite il capitalismo privato) e della struttura sociale (tramite la burocrazia statale). Allora sembrava che per la società moderna il pericolo fosse il razionalismo ateo e materialista.
E invece, all'alba del XXI secolo, molte sette religiose hanno (ognuna) più affiliati di tutti i partiti del movimento operaio messi insieme. Se i mullah integralisti invocano apertamente la Jihad, solo l'ipocrisia impedisce ai vari John Ashcroft e Silvio Berlusconi di bandire la Santa Crociata (lasciano questo compito a quell'invasata di Oriana Fallaci). In compenso, «Dio benedice l'America nella lotta contro l'asse del male».
Inaspettatamente - almeno a un primo sguardo -, dopo più di tre secoli, la religione si ripresenta così come protagonista della lotta politica mondiale. Fanno venire i brividi i trenta anni previsti dal vicepresidente Dick Cheney per la «guerra al terrorismo»: scoppiata come scontro di religione nel 1618, la Guerra dei Trent'anni fu il conflitto in proporzione più sanguinoso della storia (vi morì addirittura la metà della popolazione tedesca).
Impensabile un secolo fa, la religione riemerge come causa di stragi non solo nella cosiddetta «guerra al terrorismo», ma anche in altri scacchieri del mondo. Nelle Molucche (Indonesia) sono pogrom religiosi a causare roghi e distruzioni tra islamici e cristiani. Nel Gujarat sono i fondamentalisti hindu che scatenano la caccia al musulmano provocando migliaia di morti.
Un'occhiata superficiale può farci leggere quest'irrompere della religione nella sfera pubblica come una regressione, come un ritorno al passato: il premoderno che fa valere i suoi diritti sul moderno. In fondo, ci viene detto, la società borghese non aveva fatto altro che confinare nell'intimità e nell'ambito privato le convinzioni metafisiche, le fedi, e persino le superstizioni: confinare la trascendenza nel privato era il prezzo per far regnare la tolleranza nell'immanente.
Ma proprio il paragone con la Guerra dei Trent'anni ci toglie la consolatoria illusione che i fondamentalismi siano puro rigurgito delle «plebi rurali» (così si esprimeva l'antropologo Ernesto De Martino), siano esse di fellahin niloti o di cow-boys del Rio Grande.
Perché se fu il secolo del fondamentalismo cristiano, il Seicento segnò anche la nascita del capitalismo moderno, della democrazia parlamentare (la rivoluzione puritana di Cromwell) e - per quel che ci riguarda - dell'impero americano: non erano infatti altro che un gruppo di fanatici integralisti i Pellegrini «padri fondatori» che nel 1620 sbarcarono a Cape Cod dal Mayflower.
La dimensione integralista fa parte del moderno allo stesso titolo del capitalismo, e insieme a esso: un paese cattolico come l'Italia non ha mai capito davvero bene cosa intendesse dire Max Weber quando affermava che lo spirito del capitalismo è incarnato nell'etica protestante (e viceversa). Contro quel che diceva Benjamin Barber, il nostro mondo è caratterizzato non da Jihad contro McDonald's (questo il titolo del suo libro), ma dalla McJihad, da una forma di fondamentalismo globalizzato, integrato nel capitalismo mondiale (Osama bin Laden è il rampollo di una dinastia capitalista saudita).
Ritenere che l'integralismo è un riaffiorare del passato nel presente, è perciò solo un pregiudizio su cui pesa anche un'immagine ingenua della tecnologia e del razionalismo scientifico. Si dà per assodato che i prodotti del pensiero razionalista siano necessariamente veicoli di razionalità. Ora, è vero che la macchina a vapore rappresenta la più bella realizzazione della termodinamica, che la tv è una meravigliosa applicazione delle equazioni elettromagnetiche di Maxwell e che Internet è l'esito di una catena logica che dalle algebre di Boole, attraverso la macchina di Turing, ci ha portato alla civiltà dei computer e dell'informatica.
Ma è anche vero che nell'800 furono i vaporetti a consentire ai musulmani giavanesi di fare in massa il pellegrinaggio alla Mecca e di mandare i loro rampolli a frequentare le scuole coraniche arabe: il risultato dei vaporetti (trionfo del razionalismo tecnologico industriale) fu il sorgere di un inedito integralismo musulmano a Giava: d'altronde il fenomeno si è replicato nella diffusione nel Terzo mondo delle sette protestanti Usa, chiamate appunto i cargo cults.
Dal canto suo, la tv non solo è il maggiore veicolo propagandistico dei telepredicatori americani, ma la sera ci ammanisce gli oroscopi. Quanto a Internet, le maglie della rete connettono sette sataniche e culti strampalati. Insomma, i prodotti tecnologici del razionalismo occidentale sono diventati veicoli di superstizioni, credenze integraliste, irrazionalismi. I prodotti del razionalismo sono cassa di risonanza dell'irrazionale.
Vi è infine l'«effetto specchio» della laicità. In India non c'era mai stato un fondamentalismo hindu prima dell'arrivo degli inglesi: solo guardandosi nello specchio inglese che rinviava loro la propria immagine riflessa, gli hindi hanno potuto costruire un proprio integralismo. È frequentando la laicità occidentale che i giovani studenti algerini di facoltà scientifiche hanno raffinato l'idea di una «modernità islamica». Gilles Keppel sostiene qualcosa di simile, quando in All'Ovest di Allah (trad. it. Sellerio), fa vedere come l'attuale integralismo islamico sia un frutto maturato in un viaggio di andata e ritorno in Occidente: gli immigrati musulmani vengono a contatto con un'esperienza religiosa puritana/calvinista, comunitaria; e quindi riplasmano in senso puritano/comunitario il proprio islamismo, ed è questo integralismo riveduto e corretto («riformato») che viene poi riportato nelle terre originarie dell'Islam.
Il riemergere della religione sulla scena pubblica rappresenta perciò non una sorpresa, ma una tappa di un lungo processo. Schematicamente, si può affermare che gli anni '60 rappresentarono nello stesso tempo il culmine del «disincanto» e l'inizio del rovesciamento: da un lato l'apogeo delle socialdemocrazie nordiche come apice della società secolare e il Concilio Vaticano II come massimo sforzo di «laicizzazione della Chiesa»; dall'altro la Nation of Islam di Malcolm X e la teologia della liberazione come componenti religiose dell'emancipazione. Non si può dimenticare che l'eroe sessantottino Malcolm X è stato il primo «integralista islamico postmoderno» e che il Cristo di Camillo Torres impugnava il mitra.
Ma la vera inversione di tendenza avviene alla fine degli anni `70 ed è simultanea in tutte e tre le religioni del Verbo: per quanto riguarda il cristianesimo, a Roma sale sul soglio pontificio Karol Woytjla, un integralista polacco fautore dell'Opus Dei, mentre a Washington s'installa Ronald Reagan, portavoce della «moral majority» (gli integralisti protestanti) che dichiarerà guerra «all'impero del male»; nel mondo ebraico, in Israele tramonta definitivamente l'egemonia culturale del laicismo laburista, soppiantato dal Likud e dal peso crescente dei partiti religiosi; e nell'Islam scoppia in Iran la rivoluzione khomeinista, mentre esplode in Egitto il fenomeno dei Fratelli Musulmani.
Insomma, alla fine degli anni `70 i fondamentalisti prendono simultaneamente il potere in Vaticano, alla Casa bianca, a Gerusalemme e a Teheran. E negli anni `80 la Casa bianca finanzia gli integralisti musulmani che combattono in Afghanistan contro i sovietici, e consente alla dinastia di El Saud di far piovere dollari su tutti i fanatici dell'Islam, dall'Algeria all'Indonesia (e poi alla Bosnia, alla Cecenia).
Da quanto precede è però chiaro che, pur se è riemersa come protagonista nella lotta politica mondiale, la religione è ben lungi dal costituirne il movente e l'obiettivo principale. Essa costituisce la forma che assume il conflitto, l'armatura di cui esso si avvolge, lo strumento di propaganda che usa, ma non certo il movente né l'obiettivo principale. Proprio perché si può essere fondamentalisti e capitalisti, possiamo scommettere che Bush pensa sì di essere lo strumento della volontà divina nel rimettere in ordine il mondo, ma solo perché - e solo se - Dio sembra avere una particolare predilezione per l'impero americano e per i dividendi delle corporations Usa.
Può sembrare superfluo ricordarlo, ma un famoso saggio del `600 (scritto dopo la Guerra dei Trent'anni) attribuito alla scuola spinoziana (o addirittura allo stesso Baruch Spinoza), Il trattato dei tre impostori (e cioè Mosè, Gesù e Maometto) enumera i modi in cui «i legislatori e i politici si sono serviti della religione». La prima maniera, «che è anche la più comune e più usata, è stata quella di dare a intendere ai popoli di essere ispirati direttamente dagli dei per poter imporre più facilmente quello che volevano fosse eseguito»; un'altra maniera «si basa su voci false, rivelazioni e profezie che si spargono di proposito per spaventare, sbigottire, fiaccare il popolo, oppure renderlo ardito e coraggioso, secondo le esigenze...». C'è ancora un'altra maniera, molto più rapida e più sicura, «che consiste nell'avere al proprio seguito predicatori e nel servirsi di buoni parlatori» (oggi bisognerebbe aggiornare l'immagine con i professionisti dei media).
Ma la maniera, che più ci riguarda da vicino e che irresistibilmente ci ricorda il giovane Bush, è certo l'ultima evocata dal Trattato dei tre impostori: «l'invenzione che è sempre stata più in uso, e quella praticata con più astuzia, consentiva d'intraprendere col pretesto della religione, ciò che nessun altro pretesto avrebbe potuto rendere valido e legittimo».