sabato 5 luglio 2003

Chi ha inventato l'elettroshock?

(alcuni stralci dalla rete)
Ugo Cerletti
«Fu grazie ai maiali ed ai macellai che nel 1938 nacque in Italia una nuova "cura" psichiatrica: l' elettroshock. Lo sperimentò e lo introdusse come cura lo psichiatra Ugo Cerletti. Nato a Conegliano Veneto nel 1877, si era laureato a Roma, perfezionando poi i suoi studi ad Heidelberg ed a Monaco. Insegnò a Bari successivamente diresse le cliniche psichiatriche di Montello (Milano), Genova e Roma. Morì, per la cronaca, nel 1963. Negli anni trenta era opinione diffusa che, poiché un epilettico non è mai schizofrenico e viceversa, il provocare delle crisi epilettiche in uno schizofrenico, avrebbe portato costui alla guarigione. Questa idea era sostenuta dall' ungherese Ladislav Von Meduna, che però usava farmaci, non elettricità. Fu lui infatti ad inventare il coma insulinico, al quale seguirono poi altri tipi di shock, come quello cardiazolinico (ottenuto col cardiazol, uno stimolante nervoso e cardiaco,conosciuto chimicamente come pentametilentetrazolo).
Ugo Cerletti invece, evidentemente era portato per l' elettrotecnica, aveva"lavorato" per un certo periodo con l' elettricità sui cani, usando peraltro una tecnica ancora grezza e di scarso successo: applicava infatti
un elettrodo alla testa ed introduceva l' altro nel retto dell'amico dell'uomo e poi dava corrente. Il risultato di questi esperimenti fu per la verità soltanto un gran numero di cani morti per arresto cardiaco. Così Cerletti decise di abbandonare per il momento le ricerche in quella direzione. Ma un giorno, forse mentre cercava di rilassarsi un pò, passando qualche ora in un ambiente sereno, capitò al macello di Roma e vide come venivano trattati i maiali. Gli animali portati lì, percepivano per istinto la morte imminente e si dibattevano e urlavano nel vano tentativo di fuggire e ciò rendeva maledettamente difficile sgozzarli. Si ricorreva così ad una forte scarica elettrica fra le tempie, ottenendo un attacco convulsivo che in genere lasciava gli animali tramortiti. Ma,come notò Cerletti, alcuni non perdevano coscienza e dopo, pur restando in quell'ambiente di urla e sangue, se ne rimanevano quieti e rilassati,pronti a farsi uccidere beatamente. Cerletti fu scientificamente illuminato dal fenomeno e decise di provare la stessa cosa sull' uomo, per vedere se anche gli esseri umani si sarebbero tranquillizzati in questa maniera: corrente elettrica da una tempia all' altra, ecco qual'era la soluzione! E così il 15 Aprile 1938 nasce ufficialmente l' elettroshock. In quel giorno infatti il dottor Ugo Cerletti sottopose il primo essere umano a shock mediante energia elettrica. Si dice che il paziente fosse un ingegnere diventato "barbone", consegnato a Cerletti dalla polizia, che lo aveva trovato in strada in stato confusionale. Cerletti lo sottopose ad un primo trattamento lieve, dopo il quale l' ingegnere accattone lo pregò di smettere. Gli fu applicato allora un secondo shock, molto più violento. Così è stato raccontato, in modo colorito, quel primo esperimento dal prof. Clemente Catalano Nobili dell' Università la Sapienza di Roma, allievo di Cerletti, che ne fu testimone: "Era uno schizofrenico. Sbagliammo, l'uomo si alzò sul lettino con la cuffia in testa e disse: "Pentiti mortale!". Si fece il gelo, poi Cerletti ripetè la prova con più alto dosaggio di energia ed il paziente morì". Non fu proprio quel che si dice un successo, ma si sa, gli inizi sono sempre difficili...e se il buongiorno si vede dal mattino, questo primo risultato fu comunque incoraggiante per la psichiatria italiana del tempo: in effetti la pazzia di quel poveretto era stata curata completamente. Il "trattamento" infatti si diffuse presto e fu applicato in tutto il mondo su decine di migliaia di casi. Molti psichiatri si dedicarono con grande accanimento ad applicare la nuova "cura"».

Elettroshock
«Cerletti battezzò l’intervento con il nome di elettroshock....
Alla fine degli anni ’20 del secolo scorso si erano messi a punto in vari paesi europei trattamenti che provocavano convulsioni o shock allo scopo di ottenere una remissione dei sintomi psicotici.
Von Meduna a Budapest e Müller in Germania avevano promosso la infusione endovenosa di insulina e di cardiazolo.
Lo scopo era quello di provocare una normalizzazione delle funzioni nervose centrali attraverso una fase temporanea di coma (insulina) o di convulsioni (il cardiazolo o metronidazolo).
Il problema era che la soglia tra dose terapeutica e dose tossica rimaneva esigua con un alto rischio per la vita del paziente.
In questo contesto si inserisce il contributo di Ugo Cerletti e della sua equipe romana. Dal 1935 direttore della Clinica dell’Università di Roma, per anni si era occupato di esperimenti sull’applicazione dell’elettricità sui cani. Nel 1936, un suo assistente, Bini, gli fece notare come l’applicazione degli elettrodi alle tempie degli animali potesse permettere una erogazione di elettricità voltaica capace di provocare una fase convulsiva non pericolosa per la vita dell’animale. Nello spazio di tempo di circa due anni, Cerletti e la sua équipe misero a punto un apparecchio capace di erogare 80-100 volt in una frazione di secondo.
Nel 1938 Cerletti decide la prima applicazione su un paziente, un ingegnere 39nne milanese, sofferente da tempo di allucinazioni uditive. Cerletti battezzò l’intervento e la macchina adoperata con il nome di elettroshock».

«L’elettroshock affonda le sue radici ai tempi degli antichi Romani, che curavano il mal di testa appoggiando una torpedine sulla testa della persona sofferente: un rimedio probabilmente poco efficace, come quello di darsi una martellata su un dito per curare il mal di testa.
In questo secolo il pioniere in questo campo è stato un italiano, Ugo Cerletti. In un mattatoio osservò che i macellai usavano una scarica elettrica per provocare nei maiali delle convulsioni epilettiche, allo scopo di renderne poi più facile la macellazione. Ed è essenzialmente questo che l’elettroshock causa negli esseri umani: una convulsione nervosa di lunga durata che provoca danni irreversibili al cervello.
Luciano Bini, l’uomo che ha aiutato Cerletti a sviluppare la prima macchina per l’elettroshock, ha inventato anche un’altra cosa che ha chiamato “terapia di annientamento”. Cerletti ha affermato: “Nel 1942 Bini ha consigliato di ripetere l’elettroshock parecchie volte al giorno su alcuni pazienti, chiamando tale terapia “annientamento”. Questo ha prodotto gravi reazioni di amnesia che sembravano avere un buon risultato negli stati ossessivi, nelle depressioni psicogene e anche in alcuni casi paranoici... La “sindrome di annientamento” é stata paragonata da Cerquetelli e Catalano alla psicopatologia che segue la lobotomia prefrontale».

a Napoli continua il movimento contro l'elettroshock (9)

La Repubblica Napoli 5.7.03
PSICHIATRIA
Dibattito tra medici e politici dopo la reintroduzione
"Controlli nelle cliniche contro l´elettroshock"
di GIUSEPPE DEL BELLO

«Siano Controllate le cliniche private dove il trattamento verrebbe praticato e si vigili sulla situazione psichiatrica». Aula magna affollata (nelle prime tre ore), arriva con quindici giorni di ritardo il dibattito sull´elettroshock. Lo ha moderato ieri un attento Armido Rubino che, in qualità di preside, ha fatto esprimere sostenitori e detrattori della metodica, dopo la vicenda del giovane sottoposto a trattamento elettroconvulsivante, l´elettroshock appunto. Fair play nella prima parte, il dibattito si fa polemico con Francesco Maranta, consigliere regionale di Rifondazione comunista: «Chi non rispetta la certezza dei diritti dei pazienti è un bandito. Vogliamo sapere come e dove sono stati effettuati i trattamenti». Chiamato direttamente in causa, Giovanni Muscettola, l´ordinario della Clinica psichiatrica in cui, dopo 30 anni, si è tornati all´elettroshock, replica citando gli studi riportati su Lancet e difendendo «autonomia e responsabilità del medico». Poi aggiunge: «La decisione è stata presa dopo una lunga discussione tra colleghi. E comunque l´elettroshock non aumenta il rischio mortalità della comune anestesia». Da Sergio Piro che parla di «conquiste della riforma del '78 in pericolo», a Franco Rotelli che prende garbate distanze: «Non ci sto col metodo: abbiamo visto l´uso criminale di questo strumento», più o meno tutti sembrano contrari. A difesa interviene Pasquale Mastronardi, lo specialista che aveva confessato di «aver eseguito migliaia di Tec» in strutture private: «Non faccio i nomi per tutelare la privacy». Ma dall´assessore alla Sanità Rosalba Tufano, arriva la replica: «Li faccia pure i nomi se ci sono: le Asl dal '99 comunicano all´Osservatorio epidemiologico i trattamenti effettuati e le segnalazioni riferiscono solo qualche applicazione all´anno. Un consesso scientifico deve formare i medici del domani e dare risposte non in funzione dei controlli ma su conoscenze scientifiche e deontologiche». L´ultima stoccata è di Enrico de Notaris. Da sempre contrario all´elettroshock. Parte dagli studi poco attendibili: «Così come i trials clinici, sono stati curati dalle stesse persone che praticano la Tec: ovvio che riportino risultati eccellenti». Poi si scaglia contro gli effetti dell´elettroshock che non si limitano alla «sola perdita della memoria per sei mesi», ma che potrebbero risultare comunque devastanti: «Che ne sappiamo delle ripercussioni su altre funzioni, come la capacità emotiva e di programma? Eppoi, i trials americani non vengono criticati da me, ma dagli stessi autori d´Oltreoceano».

felicità: un po' di corrente al giro temporale inferiore e tutto va

La Sicilia 5.7.03
Risate e buonumore? Questione di cervello

Scoperto nel cervello il «centro» del buonumore e delle risate. I ricercatori giapponesi della Kyoto University Medical School, studiando una ventiquattrenne epilettica, avrebbero individuato per caso un'area cerebrale che, quando viene stimolata, fa sentire felici e fa ridere. I ricercatori giapponesi, descrivendo la novità nel «Journal of Neurology», ricordano che si tratta di un esperimento condotto su un unico caso, ma che la scoperta potrebbe essere valida universalmente.
Il team giapponese, guidato dal neurologo Takeshi Satow, era impegnato nello studio preliminare di una giovane epilettica che doveva essere sottoposta a un intervento per ridurre gli attacchi. Per delimitare la zona da trattare chirurgicamente, gli esperti hanno collegato degli elettrodi sul cranio della ragazza. E hanno scoperto che una stimolazione di un secondo su una particolare area del cervello, il giro temporale inferiore, provocava nella paziente una sensazione da lei stessa definita di «allegria». La ragazza riferiva che, contemporaneamente, le era tornata in mente una filastrocca che recitava da bambina. Dopo cinque secondi la giovane era addirittura scoppiata a ridere, con gran sorpresa dei ricercatori. Il giro temporale inferiore è un'area del cervello già collegata da precedenti studi alla memoria e al linguaggio. La sua stimolazione, spiega Satow, potrebbe far «emergere» dai «cassetti» della memorià i ricordi piacevoli, nel caso specifico la canzoncina infantile, e provocare così la sensazione di allegria e buonumore.
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Corriere della Sera 5.7.03
Esperimento in Giappone
Individuata nel cervello l’area della felicità Se stimolata rende allegri
di Margherita De Bac

ROMA - Non dipende dal tempo, dal piede che poggiamo per primo sul pavimento quando scendiamo dal letto o dai programmi più o meno allettanti che ci aspettano. L’umore, forse, fa capo a determinate aree cerebrali con sede nell’emisfero sinistro (quello cattivo) e nel destro (quello buono). Teoria sempre inseguita dai ricercatori che da almeno quarant’anni tentano di suffragarla. Un passo avanti in questa direzione è lo studio di un gruppo giapponese, pubblicato tra le lettere del Journal of Neurology , rivista di livello medio alto nel settore. Il neurologo Takeshi Satow e i colleghi hanno individuato per caso una zona del cervello, emisfero destro, che se stimolata ci rende allegri e suscettibili alle risate. Se così fosse potremmo pensare alla messa a punto di pillole della felicità o di interventi non farmacologici che hanno la capacità di restituire la gioia chi l’ha perduta per malattia, vedi i depressi.
Per ora è solo un sogno. Come avvertono gli autori: «È un esperimento condotto su un unico caso, ma non escludiamo di poterlo riprodurre». Ad essere di sicuro dotata di una centralina del buonumore è una ventiquattrenne giapponese, colpita da epilessia. Per ridurre gli attacchi è stata sottoposta a un intervento chirurgico. Nel delimitare preventivamente la zona da operare, i medici hanno collegato degli elettrodi sul cranio della paziente. Hanno visto che bastava stimolare per un secondo un particolare punto, situato nel giro inferiore dell’emisfero destro, per accendere una sensazione di allegria. Dopo 5 secondi di stimolazioni la giovane ha cominciato a ridere a crepapelle. Poi ha raccontato che durante l’esperimento le è tornata in mente una filastrocca imparata quando era piccola. Da bambina quelle strofe la divertivano un mondo. Il giro temporale inferiore è un’area collegata a funzioni importanti, il linguaggio e la memoria. Satow ipotizza che stuzzicandola si potrebbe far riemergere ricordi piacevoli e quindi provocare il buonumore.
Carlo Caltagirone, direttore scientifico dell’Istituto scientifico per la riabilitazione Santa Lucia, dà credito alla ricerca i cui risultati potrebbero sulle prime apparire fantasiosi: «Un solo caso suscita perplessità, però dobbiamo ricordare che molti dati in letteratura fanno ipotizzare che l’umore, i comportamenti emozionali, abbiano una base cerebrale. Vecchio filone di studi meritevoli di essere ripresi. Si potrebbe pensare a interventi più efficaci e non farmacologici sui disturbi dell’umore di origine psichiatrica». È stato osservato che pazienti con lesioni in una certa area dell’emisfero sinistro sono predisposti alla tristezza. Quelli con problemi all’emisfero destro tradiscono al contrario un comportamento fatuo, gioioso.

magia, matematica... e Shakespeare

La Repubblica 5.7.03
SCIENZA, TEATRO E MAGIA DEL '500 INGLESE IN UN LIBRO DI YATES
MATEMATICI ANZI, MAGHI
John Dee apostolo eretico dei numeri
Shakespeare fu il tramite dei germi neoplatonici
di FRANCO PRATTICO

C´è un sospetto che a molti bacchettoni dell´accademia scientifica può apparire blasfemo o quanto meno fastidioso; che cioè le radici del moderno approccio matematico e scientifico al reale siano nate, più che da una improvvisa esplosione di razionalità, dall´oscuro, ambiguo terreno della magia cinquecentesca, dell´esoterismo, della cabala, dell´ermetismo neoplatonico rinascimentale. E´ un sospetto che un dotto libro di Frances A. Yates (la storica britannica autrice del celebre Giordano Bruno e la tradizione ermetica), dedicato in gran parte al contesto ideale e culturale da cui tra il Cinque e il Seicento nacque in Inghilterra il teatro elisabettiano (l´humus che vide splendere il fulgore di Shakespeare) rafforza e in un certo senso documenta (Theatrum Orbis, edizione italiana a cura di Tiziana Provvidera, che ne ha anche scritto una acuta prefazione, Aragno editore, pagg. 368, euro 20).
Fino al tardo '500 l´Inghilterra si era tenuta insularmente immune dai contaminanti germi neoplatonici che allignavano nell´Europa continentale, dall´Italia alla Francia, principalmente, ma anche nel mondo germanico, in Polonia, etc., serbando così la sua «purezza» medioevale. Ma le idee traversano i mari e quando trovano il terreno adatto allignano e illuminano, magari tramite fantasma, anche le tenebrose mura di Elsinore, quando Amleto ammonisce Orazio con la celebre frase: «Vi sono più cose in cielo e in terra, di quante se ne sognano nella vostra filosofia». E il tramite di questa invasione è proprio il teatro, «specchio del mondo», e anche del cielo, persino come struttura architettonica, oltre che poetica e filosofica e caposaldo di quella «arte della memoria» che contrassegna gran parte della Rinascita e che ha nel teatro appunto il suo agone naturale. Appunto al teatro è dedicata questa fatica della Yates. In particolare al teatro di Shakespeare, il grande "Globe Theatre", la cui struttura architettonica rispecchiava - secondo la ricostruzione della Yates - nella stessa geometria sua e del palcoscenico, poi ricopiata da altri teatri dell´epoca - il «teatro del mondo», la corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo. E lo strumento che consente di porre in relazione l´edificio e il suo significato cosmologico, è la matematica, le leggi di armonia e proporzionalità esposte da Vitruvio nel De architettura e codificate successivamente da Alberti. L´accesso al mondo dei significati cosmologici e divini è garantito solo dal numero e dalle sue leggi: torna in ballo Luca Pacioli e il «de divina proportione», almeno nella lettura magico-cabalistica che ne fanno gli esoterici rinascimentali, al di là delle meraviglie estetiche della sezione aurea.
Esponente di questa tendenza e apostolo di una rinascita degli studi matematici in Inghilterra fu un singolare personaggio, John Dee, uomo di vastissima cultura ed interessi, autore di una celebre prefazione nota allora in tutta Europa all´edizione inglese degli Elementi di Euclide, che diverrà una specie di manifesto della nuova scienza, e assertore della necessità di introdurre le matematiche e la geometria nelle arti meccaniche e nell´architettura, ma demonizzato e deriso dai suoi contemporanei e conterranei, fino all´Ottocento, come stregone e folle ciarlatano, e persino - cosa capitale nell´Inghilterra seicentesca! - papista ed eretico anche per i suoi blasfemi interessi matematici, e per la convinzione, espressa apertamente, che il numero sia la misura e il peso dell´universo: «lo stesso contare - spiega la Yates - gli stessi principi di numero, peso e misura vanno rintracciati (secondo Dee) nell´uomo (oltre che nell´Universo) perché l´uomo rappresenta un "microcosmo" o mondo inferiore».
La fama di stregone Dee se la guadagnò proprio tramite teatro, quando in una rappresentazione al Trinity College fece, con trucchi meccanici, «volare» a vista uno scarabeo... Ma la commistione tra interessi scientifici e matematici ed esoterici - che del resto erano ben manifesti in un altro rinascimentale inglese, di poco successivo a Dee, Robert Fludd, medico paracelsiano e, pare, affiliato ai Rosacroce - erano il carattere dell´epoca, e i suoi interessi matematici non trattennero Dee - morto in tarda età e in estrema povertà - dall´affidare alla fine a un «diario spirituale» la cronaca dei suoi tentativi di evocare gli angeli. Il che non impedisce alla Yates di paragonarlo addirittura a Newton: la religiosità di Dee, scrive «era la religione di un matematico che credeva che la creazione divina fosse sostenuta da forze magiche. Se sostituiamo la meccanica alla magia quale forza operativa utilizzata dal Creatore, la religione di Dee non appare poi così distante da quella di Isac Newton». E la storica britannica ammonisce: «Il pensiero di un uomo dovrebbe ...essere considerato a 360 gradi, includendo non solo quegli aspetti che un contemporaneo può ammirare, ma anche quelli che può trovare senz´altro ostici». E la sua insistenza sulla matematica come chiave di volta per la comprensione del mondo, lo rende senz´altro ben più efficace, secondo la storica britannica, del postero Francis Bacon, perché - sottolinea giustamente la curatrice citando la stessa Yates - «la prefazione matematica di Dee (agli Elementi di Euclide) è più importante dell´Advancement of learning di Bacon, pubblicato trentadue anni più tardi, perché Dee capì pienamente e sottolineò l´importanza capitale degli studi matematici per lo sviluppo della scienza, mentre, come tutti sanno, Bacon sottovalutò l´importanza della matematica» e perciò «il suo metodo non ottenne risultati importanti in ambito scientifico».
Per Dee comunque il teatro («speculum orbis», specchio del mondo) è il tramite materiale, il luogo ove lo spirituale e il materiale, la vicenda celeste e quella umana, si compenetrano: rapporto che, obbedendo all´insegnamento di Vitruvio, è esprimibile solo utilizzando rigorosamente le regole matematiche e geometriche, che del divino sono espressione. Un concetto che Fudd, di poco più giovane, riprenderà nel suo monumentale Utriusque Cosmi Historia, tra le cui tavole appare tra l´altro una raffigurazione di un palcoscenico che la Yeats attribuisce al Globe shakespeariano. Palcoscenico che oltre ad essere il luogo ove si rappresentano e sviluppano le passioni umane, costituisce altresì il «teatro del mondo», «una rappresentazione del cosmo in cui l´uomo...decolla nel mondo dell´allegoria morale».

Machiavelli e Constant

La Stampa Tuttolibri 5.7.03
La politica è potere ma senza etica perde

ETERNO, inossidabile Machiavelli! Più lo si studia, più non soltanto si impara sul mondo degli umani (a cominciare dalla loro dimensione politica, naturalmente), più si ha voglia di studiarlo, certi di scoprire nuovi risvolti, nuove sfumature, nuovi impulsi a quella che per Aristotele era "la più architettonica" delle arti, ossia la politica, che tutte le comprendeva sotto di sé. Quasi come se cambiando i tempi, i regimi, i leader, i costumi politici il Segretario Fiorentino ci fornisse di volta in volta chiavi di comprensione utili, e spesso straordinariamente sagaci. Dunque, quando vediamo un nuovo titolo su Machiavelli - come quello di Ugo Dotti, storico della letteratura e della cultura italiana - non dovremmo sbigottire, né sbuffare, ma pazientemente riprendere in mano il filo rosso che ci lega a questo autentico gigante del pensiero. Rivoluzionario, lo chiama, fin dal titolo, Dotti; e cerca di argomentare l'assunto, peraltro non nuovo, in quest'opera che grandi novità non apporta alla conoscenza del pensiero dell'autore del Principe, ma che in modo piano, qua e là persino aneddotico (anche se non sempre efficace stilisticamente e persuasivo nei nessi), ne ricostruisce l'intera trama, in relazione alla vita e ai tempi. Una biografia esempio di buona divulgazione, con qualche semplificazione di troppo, in chiave marxista, che, nondimeno, dati i tempi, può anche non dispiacere al lettore aduso a letture magari più raffinate ma spesso disincarnate, totalmente affidate all'ermeneutica o alla fenomenologia. La tesi di fondo dell'autore è comunque condivisibile: Machiavelli non è quel "suasore del male che tanti critici… hanno cercato per secoli di avvalorare". E, in tal senso, collocandosi perfettamente nella sua epoca, epoca di trapasso verso l'assolutismo degli Stati, la sua dottrina politica ha avuto di mira davvero il bene comune, che appunto in quell'epoca non può che essere il bene del principe, e accanto a lui, dei sudditi e in definitiva dello Stato stesso. Ma non all'insegna di una mera apologetica della forza, bensì delle comuni, civili libertà. Della libertà fece la sua ragione di vita un personaggio che non è paragonabile a Machiavelli per altezza di pensiero o per il ruolo occupato nella teoria politica, ma non perciò meno degno di attenzione: anzi il suo caso è per certi versi opposto: tanto il Fiorentino è stato studiato e, bene o male, è universalmente conosciuto, quanto costui, lo svizzero francese (nato nel 1767 a Losanna, dove la famiglia protestante si era rifugiata dalla vicina Francia, dove sarebbe morto, a Parigi, nel 1830), Benjamin Constant, è generalmente sottovalutato e oggetto di un'attenzione modesta, benché, nei due secoli che ci separano da lui, egli sia spesso citato, ma, appunto, poco o nulla conosciuto al di fuori della cerchia degli specialisti. Citato come teorico della libertà dei moderni (la difesa gelosa delle prerogative individuali, le libertà "private") contro quelle degli antichi (la partecipazione alla cosa pubblica): dimenticando troppo spesso che Constant tenne alle seconde non meno che alle prime. Ci pensa ora a rimetter le cose a posto, in un libro inconsueto, il bulgaro-francese Tzevatan Todorov, filosofo, sociologo, storico. Opera interessante quanto discutibile, del resto; nel ridisegnare la biografia politico-intellettuale (ma senza escludere il continuo errare di paese in paese, di donna in donna, spesso facendo coesistere amori diversi…: ne seppe qualcosa la più celebre delle sue compagne di vita e d'intelletto, Madame de Staël, da cui Benjamin ebbe anche una figlia, Albertine), di questo personaggio affascinante, Todorov ne sostiene a spada tratta la coerenza: la sua fisionomia politica viene additata esplicitamente come attuale e necessaria. Ossia, diversamente da Montesquieu, liberale classico, e da Rousseau, teorico "esagerato" di una democrazia per forza di cose razionale, Constant rappresenta la sintesi perfetta delle due istanze, incarnando la democrazia liberale, respingendo tanto l'idea moderata di Montesquieu della pura legittimità del potere, quanto l'idea estremistica di Rousseau della illimitata sovranità del popolo. Altri sarebbero stati, in vero, gli sviluppi del pensiero politico, specie dopo la pubblicazione, nel 1835-40, della Democrazia in America di Aléxis de Tocqueville, opera da cui si sarebbe cominciato a discutere delle patologie della politica e dei limiti intrinseci alla democrazia (su queste tematiche, materiali utili sono raccolti nel bel volume di saggi Patologie della politica, curato da Maria Donzelli e Regina Pozzi, in riferimento soprattutto ai dibattiti otto-novecenteschi). Constant non è un gigante della teoria politica come Tocqueville o come Machiavelli; eppure da lui ci giungono molti preziosi insegnamenti. Todorov insiste, per esempio, sul nesso religione-morale-politica (quanto lontani da Machiavelli!) e sul significato e l'importanza dell'impegno politico (egli stesso fu deputato più volte e visse una vita tutta all'insegna della politicità). Come non essere colpiti da affermazioni come questa che Constant fa in relazione alla scomparsa della religione (ossia della morale) dalla vita pubblica? Quando ciò accade, egli dice, "tutti i legami vengono spezzati; il diritto non esiste più; il dovere sparisce con il diritto; si scatena la forza; lo spergiuro fa della società uno stato permanente di guerra e di inganno". Una perorazione di politica etica, dunque, che ben potrebbe entrare nel repertorio del tedesco Ekkehart Krippendorf, un bizzarro libro pieno di suggestioni, posto che si abbia la forza di districare un groviglio storicamente azzardato e filosoficamente certo poco lineare. Ma che importa? Krippendorf, seguendo il libero svolgimento del pensiero, mettendo insieme reminiscenze e studi, passioni personali e esigenze necessariamente universali, ci invita a "un'altra politica", quella che tiene insieme, addirittura non solo Socrate e Mozart, presenti in sottotitolo, ma a loro modo, personaggi assai diversi, e non sempre interni al mondo politico come siamo abituati a conoscerlo: così Goethe e Rosa Luxemburg, Gandhi e Hannah Arendt, Verdi e Kant. Sono numerosi gli artisti che entrano in questo discorso, e non a caso: per l'autore l'arte è politica nella misura in cui propone un atteggiamento rispetto alla realtà: alternativo all'idea classicamente machiavelliana della politica come scienza del potere. Una perorazione di una politica etica in quanto non solo fondata su princìpi morali, ma in quanto soprattutto sganciata da fini di potere. Ma è pensabile una siffatta politica? Per trovare risposte, siamo costretti a ridiscendere dal cielo delle grandi figure esemplari tra le quali Krippendorf ci conduce con uno slalom piacevolmente disordinato, al più maleodorante panorama della politica terrestre, come è praticata, e come i politologi cercano di studiarla raccogliendo dati e provando a teorizzarne l'intima "ragione". Con la preziosa avvertenza - che ci regala un originale politologo italiano, Silvano Belligni, dotato di ruvida (auto)ironia - per cui questa è una scienza "dispersa e schizofrenica" in preda a "un irriducibile relativismo concettuale", possiamo cercare nel libro di Belligni qualche frammento per meglio capire i piani e le mosse dell'agire politico. Non si può qui entrare nel merito del suo tentativo di reductio (a cinque fondamentali idee); basti osservare che da questo suo lavoro, accademico ma non troppo, emerge la poliedrica ricchezza della politica, e nel contempo l'insufficienza di qualsivoglia paradigma per reggerne le sorti e afferrarne il filo conduttore. Come dire, insomma, che c'è una politica per ogni stagione; la piccola politica ordinaria, della distribuzione delle risorse fondata su calcoli di convenienza e la grande politica dei periodi critici e delle età collettive, dominate dagli eroi e dai demiurghi, dai conflitti e dalla sopraffazione dei deboli da parte dei forti; insomma, la politica come cooperazione e la politica come scontro. Due paradigmi diversi, ma che, a ben vedere, si tengono sempre l'un l'altro, come la realtà di questi tempi tragici ci mostrano nelle strette di mano dei signori del mondo che fino a un attimo prima si sono fatti la guerra, e fondano la loro ricerca di consenso interno proprio sull'antagonismo con "l'altro" e la costruzione di logiche di "identità" nazionali, vere o presunte. Qui però lo scienziato politico si ferma, e ci lascia liberi di esprimere le nostre opzioni, e anche, vivaddio, le nostre sacrosante ire e la nostra appassionata aspirazione ad un mondo senza cesari (piccoli o grandi che siano), senza menzogna e ingiustizia, dunque, senza guerra. Anche studiare e lottare "per un altro mondo possibile" è politica, e Machiavelli sarebbe d'accordo con noi.

storia delle donne

Il Giornale di Brescia 5.7.03
Per amore di Cartesio, contro Cartesio
IL SEICENTO FU TEATRO DI UNA RIVOLUZIONE FEMMINILE ANTE LITTERAM
Le donne e la filosofia
La principessa Palatina Elisabetta di Boemia (Nea)
Cristina di Lorena
Maria Mataluno

Il Novecento è stato il secolo delle donne; ma le radici della sua unica rivoluzione incruenta affondano nel Seicento. Il secolo del Barocco e del metodo sperimentale, della rivoluzione copernicana e della Controriforma fu anche quello in cui per la prima volta le donne si inserirono da protagoniste nel dibattito letterario, filosofico e scientifico. Riforma e Controriforma avevano dato un grande impulso all’alfabetizzazione, che cattolici e protestanti consideravano premessa indispensabile per un’evangelizzazione universale. I pedagogisti presero così a occuparsi anche dell’educazione delle fanciulle, che finalmente non dovevano imparare solo quello che era necessario per diventare una buona moglie, ma apprendere anche nozioni di letteratura e storia dell’arte, matematica e filosofia. Fu così che, a poco a poco, persino un mondo maschilista come quello della filosofia naturale vinse i suoi pregiudizi e alcuni grandi pensatori si degnarono di discutere con le menti femminili più brillanti le grandi questioni della filosofia. Numerosi furono gli scambi epistolari intrecciatisi tra filosofi e donne di cultura nel corso del Seicento, come quello tra Galileo Galilei e Cristina di Lorena, destinataria di una delle celebri Lettere copernicane dell’astronomo pisano. Figlia di Carlo III, duca di Lorena, e moglie del Granduca di Toscana Ferdinando I, Cristina era giunta a Firenze nel 1589 e insieme al marito aveva avviato una politica di rigore morale ispirata ai principi della Controriforma, favorendo i rapporti diplomatici tra Firenze e la Santa Sede e fondando numerosi monasteri e conventi. Una linea a cui rimase fedele anche quando, nel 1620, ormai vedova e morto il figlio Cosimo II, assunse con la nuora Maria Maddalena d’Austria la reggenza per il nipote Ferdinando II. Ma i suoi interessi non si limitavano alla politica: appassionata di scienza e filosofia, intrattenne costanti rapporti col mondo scientifico toscano, tanto che Antonio Santucci le dedicò una ruota perpetua da lui realizzata. Un giorno la Granduchessa chiese a Benedetto Castelli come fosse possibile conciliare la teoria copernicana del movimento della Terra con l’episodio biblico in cui Giosuè ordina al sole di fermarsi; quando Castelli riferì la conversazione a Galilei, questi, già nel mirino dell’Inquisizione, decise di indirizzare a Cristina la sua più celebre difesa della teoria eliocentrica: non c’è contrasto tra scienza e fede, le scrisse, poiché sia le leggi di natura sia le parole della Scrittura provengono da Dio. Dal momento però che la teoria copernicana è stata verificata dall’osservazione sperimentale, si deve dedurre che le Scritture non vadano interpretate alla lettera, ma come allegorie. «Ho sognato Elisabetta di Boemia. / Ho sognato il dubbio e la certezza. / Ho sognato il giorno di ieri. Forse non ebbi ieri, forse non sono nato. / Forse sogno d’aver sognato. / Sento un po’ di freddo, un po’ di paura. / Sul Danubio è ferma la notte. / Continuerò a sognare Cartesio e la fede dei suoi padri». La poesia Cartesio di Jorge Luis Borges è l’introduzione migliore alla figura della principessa palatina Elisabetta di Boemia. Nata a Heidelberg nel 1618 e morta nel 1680, Elisabetta era celebre per la sua passione per lo studio: si racconta che leggeva fino a notte fonda, assisteva a dissezioni anatomiche e ad esperimenti scientifici. Ma la sua fama è legata soprattutto allo scambio epistolare che intrattenne, dal maggio 1643 al dicembre 1649, con René Descartes, e che secondo Eugenio Garin costituisce «l’antefatto, lo sfondo e il commento» dell’ultima opera pubblicata da Descartes, il Trattato sulle passioni. Dopo aver letto le Meditazioni metafisiche e le Regulae del filosofo francese, Elisabetta si era resa conto che il rigido dualismo a cui Cartesio aveva ridotto la realtà - costituita da sostanza estesa (res extensa) e sostanza pensante (res cogitans), da materia e anima razionale - rendeva difficile spiegare il rapporto, nell’uomo, tra l’anima immateriale e il corpo. Perciò nella prima lettera che gli indirizzò, il 16 maggio 1643, chiese a Descartes di spiegarle «come l’anima dell’uomo può determinare gli spiriti del corpo per le azioni volontarie (non essendo che una sostanza pensante)». Sembra infatti, continuava Elisabetta, che ogni movimento avvenga per la spinta impressa da un corpo a un altro corpo e dipenda dalla forma e dal peso del motore. Ma ciò presuppone che sia quest’ultimo che il corpo mosso siano estesi, ovvero dotati di materia, e questo è incompatibile con l’idea cartesiana di un’anima assolutamente immateriale. Con questa obiezione Elisabetta aveva messo in luce una delle maggiori aporie del sistema filosofico cartesiano. Ancor più puntigliosa del demone maligno che instillò in Descartes il suo proverbiale dubbio metodico, Elisabetta seppe cogliere alcune incongruenze anche nell’etica cartesiana. Nella lettera del 21 luglio 1645 il filosofo propose alla principessa alcune riflessioni in margine al De vita beata di Seneca, incentrate sulla natura della virtù e sulla capacità della ragione di dominare le passioni; ma Elisabetta, col senso pratico che la distingueva, respinse l’idea che l’anima, in quanto separata dal corpo, potesse raggiungere la beatitudine col solo esercizio della volontà: «Vi sono infatti delle malattie - rispose a Cartesio - che tolgono il potere di ragionare, e quindi anche quello di godere di una soddisfazione ragionevole; altre ancora diminuiscono le forze e impediscono di seguire le massime formate dal buonsenso, esponendo l’uomo più moderato a lasciarsi trascinare dalle passioni». Elisabetta non fu la sola donna a essere stimolata alla ricerca dal pensiero di Descartes: basta pensare alla regina Cristina di Svezia, che addirittura volle Cartesio come insegnante di filosofia. Tra le cosiddette «filosofe cartesiane» si annoverano anche studiose come Lady Damaris Masham, che fu allieva di Locke, Sofia di Hannover e Sofia Carolina (sorella e nipote di Elisabetta di Boemia), che furono collaboratrici e protettrici di Leibniz, e soprattutto l’inglese Anne Finch Conway. Donna dai vasti interessi scientifici, Lady Conway stabilì dal 1650 un lungo sodalizio intellettuale col principale esponente della Scuola di Cambridge, Henry More. Nel tentativo di conciliare le osservazioni empiriche delle scienze naturali con la filosofia morale e la metafisica, Lady Conway oppose al meccanicismo allora dominante una concezione della natura in cui accanto ai principi della chimica e della fisica agiscono delle forze vitali e nella quale la materia ha come suoi elementi primi non più gli atomi ma le monadi. Proprio quelle monadi che ritroviamo nell’immaginifica e rivoluzionaria visione del mondo di Leibniz, a cui arrivarono tramite il medico e filosofo Francis Mercury van Helmont, che per un certo periodo studiò con More e la Conway.