domenica 5 dicembre 2004

Big Brother
prospettive del dominio/1

Il Tempo 5.12.04
La risonanza magnetica per scoprire quando si dicono bugie
G.V.

È POSSIBILE scoprire se una persona mente o dice la verità analizzando il cervello. Infatti la risonanza magnetica o (fMRI), utilizzata per la diagnosi dei tumori cerebrali, mostra che quello delle persone che mentono appare molto diverso da quello di chi dice la verità. «Ci possono essere zone nel cervello coinvolte nella truffa che possono essere misurate con la fMRI, ma anche zone nel cervello coinvolte quando si dice la verità e sono parametri più efficaci, per smascherare le menzogne, delle alterazioni del battito, della pressione e del respiro, solitamente analizzate nella prova della verità» ha dichiarato Scott Faro, direttore del «Functional Brain Imaging Center» della Temple University School di medicina a Philadelphia. L’equipe del ricercatore ha illustrato i suoi sorprendenti esperimenti al congresso dell’Associazione nordamericana di radiologia.
Faro e i suoi colleghi hanno esaminato 11 volontari. A sei di loro è stato chiesto di sparare con un pistola giocattolo e poi di mentire dicendo che non lo avevano fatto. Altri tre che avevano assistito hanno invece detto la verità su quanto accaduto. Un volontario si è ritirato dallo studio. Durante il test i volontari erano legati a una macchina convenzionale e a un fMRI, che usa un forte magnete per fornire una immagine (lo scanner «svela-bugie») in tempo reale dell'attività del cervello.
Il team di Faro ha evidenziato durante l'esperimento sette zone di attivazione nella truffa, e quattro zone di attività in chi dice la verità. Soprattutto, sembra che il cervello si sforzi di più nel mentire che nel dire la verità: nel primo caso, infatti, viene attivata la parte frontale del cervello, nella zona medio-inferiore e pre-centrale, l’ippocampo, la regione medio temporale e le zone limbiche. Alcune di queste sono coinvolte nella risposta emotiva, ha detto Faro.
Durante una risposta vera, il fMRI ha mostrato l'attivazione di parti del lobo frontale del cervello e del lobo temporale.
Parallelamente in Inghilterra il gruppo di lavoro di Paul Fletcher, professore di psichiatra dell’università di Cambridge, sta portando avanti gli studi sullo sforzo cerebreale durante l’appredimento. Gli scienziati sono arrivati alla conclusione che pensare ad azioni semplici interferisce con la capacità di imparare e di memorizzare. Quando si svolge un determinato compito, talvolta è meglio non pensarci troppo, cioè il tentativo cosciente di apprendere può causare difficoltà. L’attività cerebrale di alcuni volontari che stavano eseguendo un esercizio simile senza compiere uno sforzo cosciente (apprendimento implicito) è stata confrontata con quella di persone che si sforzavano deliberatamente di compiere lo stesso risultato. Gli esperimenti hanno individuato in questi ultimi un più lungo tempo di reazione e di risoluzione dello schema del test, rispetto a coloro che avevano meno informazioni per risolverlo e quindi ci riflettevano di meno.

Repubblica 5.12.04
Dentro la cassaforte dei pensieri
CLAUDIA DI GIORGIO
Gli scienziati hanno già trovato la chiave biologica dell'amore, del libero arbitrio, della spiritualità Presto impareranno a usarla: arrivando a conoscere in anticipo anche le cattive intenzioni Con molti rischi
C'era una volta il segreto del cervello: la "scatola nera" impenetrabile che custodiva gelosamente le emozioni e i pensieri degli esseri umani. Poi, meno di trent'anni fa, grazie a una nuova generazione di tecnologie il coperchio della scatola è improvvisamente saltato. Permettendoci letteralmente di "vedere" il cervello in azione: il brain imaging ha infatti favorito scoperte rivoluzionarie, rivelando come funziona la mente, facendo luce sulle radici biologiche dei comportamenti e delle scelte e aprendo la strada verso nuove terapie. Ma ha anche messo potenzialmente in mano a chiunque la chiave per entrare nel più privato degli spazi privati: la nostra mente.
Quella che conduce al cervello è una porta che fa paura. Soprattutto adesso che le metodologie di ricerca si sono fatte più raffinate. Il timore è che si imbocchi nuovamente la strada percorsa il secolo scorso da Cesare Lombroso, quella dei criminali nati, della predisposizione ineluttabile ai comportamenti devianti. Una moderna frenologia, insomma. E per di più, tecnologicamente avanzata. Tanto avanzata che un domani non troppo lontano, per essere assunti in un posto di lavoro o ottenere la patente di guida, non ci sarà più bisogno di un test psicoattitudinale ma di una semplice scansione del cervello.
Ora i segreti del cervello sono sotto gli occhi degli scienziati. Sempre meno misteriosi, sempre più manipolabili: tecniche come la tomografia a emissione di positroni (Pet) e la risonanza magnetica funzionale (fMri) hanno trasformato i neuroscienziati in paparazzi della mente, tanto coraggiosi quanto indiscreti. In pochi anni, il numero delle ricerche sul cervello è cresciuto a dismisura, attirando sponsorizzazioni e finanziamenti. E il fascino dell'idea di conoscere, in modo "scientificamente oggettivo", cosa ci passa per la testa è diventato irresistibile.
Le mete degli scienziati sono sempre più ambiziose. Adesso sotto l'obiettivo ci sono i processi più intimi e individuali. Completate le mappe delle funzioni motorie e sensoriali del cervello (di qua il centro del linguaggio e il riconoscimento dei volti, di là la percezione tattile e l'attenzione visiva), i ricercatori sono passati alle foto panoramiche dell'area deputata a funzioni superiori (la corteccia prefrontale), dove risiedono le capacità di esprimere giudizi e controllare gli impulsi.
Dal paesaggio in generale, gli studiosi - continuando a lavorare di zoom - sono poi scesi ai dettagli. Ed ecco le istantanee del cervello che si innamora, che impara, memorizza e decide, che può essere declinato a seconda del sesso: perché quello degli uomini - ormai è una certezza - è diverso da quello delle donne, sia anatomicamente sia dal punto di vista funzionale. Una scoperta sufficiente - se male interpretata - a far tornare alla ribalta antichissimi pregiudizi.
C'è stata poi la straordinaria scoperta della plasticità cerebrale, la capacità del cervello adulto di rimodellarsi con l'apprendimento e l´esperienza. Scoperta che ha portato con sé il primo grande interrogativo etico: quando sarà possibile stimolare questa plasticità con i farmaci (e non c´è da aspettare moltissimo), sarà giusto usarli anche per potenziare le capacità di un cervello sano? Chi deciderà come (e su chi) utilizzarli? E una persona con il cervello potenziato sarà la stessa persona di prima?
I dubbi, ancora una volta, procedono di pari passo con i progressi. E diventano allarmanti via via che i muri si sgretolano, che le frontiere si spostano in avanti. Un gruppo di ricercatori ha annunciato di aver trovato l'area che racchiude la consapevolezza del "sé" e la capacità di comprendere i processi mentali degli altri. Un altro ha riferito addirittura di aver "visto" il libero arbitrio: i circuiti che si attivano quando compiamo liberamente un´azione sono molto diversi da quelli all'opera quando stiamo eseguendo un ordine.
«Il cervello è l'anima e l'anima è il cervello», hanno sostenuto i neuroscienziati più radicali e visionari. Forse esagerando, ma non troppo: è indubbio che le esperienze religiose più intense siano governate da circuiti cerebrali. Studiando alcune forme di epilessia, ricercatori come Vilayanur S. Ramachandran e Michael Persinger hanno infatti trovato il cosiddetto "modulo di Dio", una serie di connessioni tra i lobi temporali e il sistema limbico, un gruppo di strutture cerebrali evolutivamente più arcaiche. L'alterazione dei lobi porterebbe a una sovrastimolazione del sistema limbico, e da lì a sensazioni di tipo spirituale e mistico.
Ma non basta. Tre anni fa, un team di Princeton ha inaugurato le indagini sulle basi neurali delle scelte morali. Più di recente, all'università di Pennsylvania hanno scoperto che mentire aumenta l'attività nella corteccia prefrontale destra. Ad Harvard, invece, si è scoperto che il cervello si comporta diversamente se si dice una bugia inventata al momento o architettata con cura.
La domanda, inquietante, è: le fotografie della mente scattate dalle neuroscienze saranno usate come prove legali per stabilire la responsabilità individuale? La risposta è senza dubbio sì. E anzi, è inutile parlare al futuro. Già nel 2001 un tribunale dell'Iowa ha ammesso come prova in un processo per omicidio le "impronte" delle onde cerebrali rilevate secondo un metodo detto brain fingerprinting. La tecnica è controversa, e da molti ritenuta inaffidabile, ma si mormora che la Nasa stia sviluppando un "neurosensore" da collocare negli aeroporti per rilevare le onde cerebrali dei passeggeri con "pensieri sospetti".
Dalle fotografie del cervello in generale alla lettura e al controllo di un cervello in particolare il passo è breve. E molti esperti pensano che il monitoraggio della mente non sia ancora stato messo in pratica solo perché le tecnologie attuali non sono per il momento tanto sofisticate da distinguere tra chi è in tensione perché ha una bomba con sé e chi vive uno stato d'ansia.
I metodi ora disponibili sono però già sufficienti per le aziende. Da una costola delle indagini sulle basi cerebrali delle scelte economiche è nato infatti il neuromarketing. Che oggi studia le reazioni del cervello a determinati marchi e prodotti ma domani potrebbe cercare di influenzarle, e intanto ci fotografa la mente per rivelare che la Pepsi sollecita le aree del piacere e la Coca Cola quelle deputate a memoria ed emozioni.
Nemmeno le ricerche di tipo più clinico sono al riparo da obiezioni etiche. La scoperta delle basi neurali di malattie come la schizofrenia e l'autismo o delle alterazioni cerebrali legate all'alcolismo e al consumo di sostanze stupefacenti sta senz'altro portando a importantissimi strumenti diagnostici e di cura. Ma quando il californiano Adrian Raine riferisce che nel cervello dei killer psicopatici l'attività di alcune aree è più ridotta, diventa davvero difficile non ricordare il passato. E pensare che Lombroso è tornato in mezzo a noi.

Repubblica 5.12.04
Il Viagra del cervello cade anche l'ultimo tabù
(c.d.g.)

Cinque anni fa, i giornali di tutto il mondo riportarono con molta evidenza la notizia della nascita dei Doogies, un ceppo di "supertopi" che l'aggiunta di un gene extra aveva dotato di più memoria, più rapidità nella soluzione dei test, più capacità di imparare. Topi, insomma, la cui intelligenza era stata aumentata artificialmente, e che nelle speranze dei loro creatori erano appena un assaggio del vero piatto forte: il potenziamento del cervello umano.
Messa in moto dagli eccezionali progressi degli ultimi anni nelle conoscenze sul cervello e il suo funzionamento, la ricerca di metodi e sostanze per migliorare le capacità cognitive oggi è diventata un settore di punta, in cui si fanno concorrenza grandi case farmaceutiche e piccoli laboratori d'avanguardia. Alla base, c'è il tentativo di stimolare a comando quello che, si è scoperto, il cervello adulto sa già fare da sé, e cioè modificare, anche in base all'esperienza, il modo in cui sono connessi tra loro i neuroni, generandone persino di nuovi.
Ed ecco gli studi per la realizzazione di farmaci che stimolino la neurogenesi: per recuperare la memoria danneggiata dall'età o da malattie come l'Alzheimer, ma anche (forse) per mandare a mente in un giorno quel che un cervello normale impiega un mese ad imparare. Ecco l'indagine su sostanze che influenzano il processo con cui i neuroni immagazzinano i ricordi: ancora una volta per la cura di malattie degenerative delle funzioni cerebrali ma anche (chissà) per superare tre esami in tre giorni. Ecco insomma la caccia a quello che qualcuno ha chiamato "il Viagra del cervello", la pillola per diventare più perspicaci, lucidi e intellettualmente brillanti. Pensata per i malati, ma potenzialmente adatta ad essere usata anche dalle persone sane.
Le ricerche non hanno solo l'obiettivo di progettare, sperimentare e mettere in circolazione nuovi farmaci. Un settore considerato promettente mette insieme terapia genica e trapianto cellulare per stimolare i fattori di crescita in regioni specifiche del cervello. Anche le citatissime cellule staminali potrebbero scendere in campo: poiché da esse derivano tutti i tipi di cellule del corpo, perché non provare a usarle per conquistare qualche neurone in più? C'è anche la stimolazione transcranica, una tecnica che sfrutta i campi magnetici per agire su aree specifiche cerebrali. Ha dato buona prova nella cura della depressione, ma qualcuno sta cercando di capire se sarebbe possibile usarla per costruire un "elmo mentale" che, una volta indossato, incrementi immediatamente le capacità cognitive.
Queste ricerche, comunque, sono ancora miglia e miglia lontane dalla realizzazione di prodotti concreti e commerciabili, così come è ancora lontana dal tradursi in realtà la più fantascientifica delle tecniche di doping mentale, e cioè potenziare il cervello impiantandovi microchip, magari interfacciabili con un supercomputer. È il sogno (o l'incubo?) dell'uomo bionico, una delle possibili evoluzioni immaginate da scienziati e scrittori per la specie umana. Che dopo essere finalmente riuscita a guardare dentro il proprio cervello, difficilmente resisterà alla tendenza innata di cercare di cambiarlo.

Stalin, Dostoevskij e Petrarca

Corriere della Sera 5.12.04
Viaggio tra i cinquemila libri del dittatore. Sottolineature, note a margine e disegni
Petrarca, Trotzkij: nella biblioteca di Stalin
di ARMANDO TORNO

Nella dacia di Kunzevo, a 20 chilometri da Mosca, dove Stalin morì il 5 marzo 1953, c’era anche la sua biblioteca: 25 mila volumi, sottolineati e annotati. Di essi ne sono rimasti circa 5 mila, che si sono salvati dai ladri e dalle regalie della destalinizzazione. Siamo riusciti a visitare questo fondo librario, a ritrovare qualche nota del dittatore, biglietti e chiose che hanno accompagnato le sue letture, da Marx a Trotzkij.
Ecco I fratelli Karamazov di Dostoevskij: di questo romanzo Stalin salta le pagine con la leggenda del Grande Inquisitore, ma sottolinea quelle sui rapporti tra Chiesa e Stato.
Si scopre poi che sul tavolo del Cremlino il «piccolo padre» teneva le Rime di Petrarca (dono di un italiano) e durante le riunioni del Politburo faceva, come gli altri membri, dei disegni.

A pagina 33 nell’inserto Weekend
(forse sarà possibile
inserirlo domani su "segnalazioni")



Liberazione:
«il secolo cinese»

Liberazione 5.12.04
Il secolo cinese
di Salvatore Cannavò

Anche l'Italia, capitanata da Ciampi e dal presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, è sbarcata in Cina alla ricerca di affari e profitti. La spedizione italiana che ieri è atterrata a Pechino, forte di oltre 200 imprenditori, segue infatti la scia dei viaggi commerciali che ormai vedono la capitale cinese come tappa obbligata. Un viaggio analogo è stato compiuto lo scorso mese dal presidente francese Chirac mentre nei prossimi giorni anche il cancelliere tedesco, Schroeder, è in visita a Pechino (ed è il suo sesto viaggio).
Il fatto è che la Cina continua a crescere inesorabilmente: il suo Prodotto interno lordo nel 2004 è salito del 9%, nel 2005 le previsioni annunciano un +8,1% a fronte di una crescita media europea di meno del 2% e con un'inflazione piuttosto contenuta (+2,5%). Come ricordava ieri lo stesso Ciampi nell'articolo scritto per Il Sole 24 Ore, negli ultimi venti anni il Pil di quel paese si è quintuplicato e l'ammontare complessivo degli investimenti mondiali in Cina ammonta a 500 miliardi di euro. Di questa cifra l'Italia possiede solo 320 milioni, lo 0,32% del totale, una cifra modesta che gli imprenditori italiani vogliono cercare di colmare.
Ma dietro questi risultati non ci sono le aperture al mercato operate dai dirigenti cinesi quanto la politica del lavoro, o meglio la "non politica", che il governo di Pechino ha deciso di seguire. Il "miracolo cinese" è dovuto a salari miseri e a condizioni di lavoro al limite della schiavitù. Basta citare il particolare riportato ieri da Repubblica: nella fabbrica della Fiat-Nanjing a Nanchino il direttore aziendale è anche... il capo del sindacato. Ma basterebbe osservare il numero e la frequenza degli incidenti sul lavoro che falcidiano gli operai cinesi, e i minatori su tutti, per rendersi conto delle ignobili condizioni del lavoro che sorreggono l'enorme crescita del gigante asiatico.
Questa dimensione ipertrofica rende la Cina un soggetto economico sempre più importante e quindi un attore geopolitico di prima grandezza. Un ruolo che il governo di Pechino assolve con estrema spregiudicatezza: mentre firma i contratti per gli Airbus europei non disdegna di fare lo stesso con la Boeing statunitense; apre un canale economico diretto con l'America latina, mettendoci dentro un rinnovato rapporto con Cuba, e tratta con Germania e Francia la fine dell'embargo militare seguito al massacro di Tien An Men; firma accordi per lo sfruttamento del petrolio iraniano e fa lo stesso con il gas del Kazakistan.
Un tale protagonismo non può non avere effetti e ripercussioni nei confronti della più grande potenza mondiale, gli Usa, che si appresta a inaugurare il secondo mandato di George W. Bush. La politica statunitense non è ancora stabile nei confronti della Cina. A una fase piuttosto aggressiva - bombardamento dell'ambasciata cinese a Belgrado, il caso dell'aereo-spia, le tensioni su Taiwan - è seguita una leggera distensione motivata da un elemento finanziario decisivo: gli Usa hanno bisogno di un apprezzamento della moneta cinese, lo yuan, per sostenere il proprio deficit commerciale. Per questo blandiscono i vertici cinesi con l'obiettivo di un loro sempre maggiore inserimento nell'economica globale. Ma si tratta di un rapporto ambiguo e contraddittorio. In realtà i due colossi sono destinati a contrapporsi: la crescita progressiva dell'economia cinese ha leggi proprie da rispettare che non collimano con quelle che regolano i bisogni dell'economia statunitense. Anche per questo è lecito attendersi un nuovo spostamento a destra dell'amministrazione Bush (come, del resto, lasciano intendere i continui cambiamenti all'interno del suo governo).
Assistiamo a un fenomeno curioso: in fondo, nel corso della contrapposizione ideologica e politica che ha caratterizzato il dopoguerra e che ha visto gli Usa affrontare l'Unione Sovietica e la Cina, ha prevalso una politica della "coabitazione". La contrapposizione con l'Urss non ha mai avuto conseguenze esplosive - tranne i numerosi conflitti locali - mentre le relazioni con la Cina comunista furono regolate, in funzione antisovietica, con il viaggio di Nixon a Pechino nel 1971. Oggi, invece, si profilano nuove contrapposizioni. La vicenda Ucraina - che nasconde sullo sfondo un conflitto tra l'allargamento della Nato e la politica espansiva russa - fa dire al Corriere della Sera che siamo «quasi» in «guerra fredda», mentre Usa e Cina disegnano due blocchi economici destinati a entrare in rotta di collisione. Lo spessore di questa relazione è ampiamente simboleggiato dal probabile acquisto cinese dell'Ibm, simbolo incontrovertibile del capitalismo informatico. Ma si tratta di una rotta di collisione in cui la politica e l'ideologia non c'entrano per nulla: c'entrano invece interessi contraddittori fra due economie - una compiutamente capitalistica, l'altra in corso di formazione - in concorrenza tra loro e bisognosi di spazi per espandersi. All'inizio del secolo scorso si chiamavano imperialismi e il loro conflitto diede vita allo scontro più sanguinoso che l'umanità abbia conosciuto. Il secolo cinese si apre all'insegna di uno scenario simile.

storia della Città Proibita

Corriere della Sera 5.12.04
Nella Città Pribita dell'Impero, costruita da un milione di operai
di Paolo Salom
NellA CORTE Edificata tra il 1406 al 1420 per volere dell’Imperatore Yongle della dinastia Ming, la Città Proibita era la sede della Corte e del Governo
MORTALI
La Città Proibita, jincheng in cinese, era così chiamata perché nessun «comune mortale» poteva entrarvi, pena la morte
MUSEO
Il complesso si estende su un’area di 720 mila metri quadrati e comprende 900 tra palazzi e templi: è il museo più imponente e importante della Repubblica popolare
Prima di tutto il colore delle sue mura, le più alte di Pechino, che nell’aria tersa del Nord della Cina veniva acceso dal sole in un trionfo purpureo. Poi il luccicare delle tegole in porcellana dei tetti dei suoi 900 palazzi: giallo-oro quelle dei padiglioni imperiali; glauche quelle dei templi. Infine il suono delle campane e i rulli dei tamburi, che a ritmi prestabiliti segnavano il passare dei giorni e delle ore. Nessuno che passeggiasse nei dintorni della Capitale del Celeste Impero poteva trattenere la meraviglia di fronte al cuore pulsante della nazione: la Città Proibita, ovvero il recinto del Palazzo Imperiale (Gu Gong) che si erge ancora perfettamente allineato sull’asse Sud-Nord al centro di Pechino. Il presidente Ciampi visita oggi il luogo che per cinquecento anni i «comuni mortali» non hanno mai potuto vedere dall’interno, pena la morte. Per questo è passata alla storia come la Città Proibita, jincheng in cinese.
Dimora di 24 Imperatori delle due ultime dinastie del Celeste Impero, la dinastia Ming (1368-1644) e la dinastia Qing (1644-1911), sorge su un’area di 720 mila metri quadrati e 9.999 stanze: il nove era il numero perfetto che indicava il Figlio del Cielo. A entrare oggi nella Città Proibita, non si può fare a meno di pensare al Milione di Marco Polo e alle descrizioni delle «maraviglie» del Catai. In realtà, la Pechino di Marco Polo era sì Capitale dell’Impero (allora dominato dai mongoli). Ma la Città Proibita non era ancora stata costruita. Ci avrebbe pensato il terzo sovrano dei Ming, la dinastia che aveva cacciato i mongoli: fu Yongle a immaginare e, secondo la tradizione, a progettare nei minimi dettagli il nuovo centro del potere.
Il complesso fu edificato da un milione di operai dal 1406 al 1420 quando la Corte fu finalmente trasferita da Nanchino (Nanjng: Capitale del Sud) a Pechino (Beijing: Capitale del Nord). Yongle fu il più grande degli Imperatori Ming. E il suo lascito più importante è ancora oggi davanti ai nostri occhi. Anche se i palazzi, i padiglioni, i templi, tutti in legno, marmo e preziose porcellane non sono quelli originari ma risalgono al Diciottesimo secolo. Il palazzo imperiale fu infatti distrutto numerose volte dagli incendi. Qualche volta fortuiti, come nel 1557 quando un fulmine mandò tutto in cenere; spesso per mano degli eunuchi o dei ministri che poi guadagnavano dagli appalti sulla ricostruzione. Nel 1664, i conquistatori Qing rasero al suolo l’intera Città Proibita per rifarla daccapo.
Ed eccola lì, ancora oggi al centro della Pechino moderna. Oggi nessuno rispetta più il divieto di innalzare costruzioni più alte delle sue mura (13 metri). Ciononostante, l’impressione di magnificenza rimane intatta. Si accede al complesso monumentale dall’immensa Piazza Tienanmen, diventata tristemente famosa per la rivolta del 1989. Attraversata la porta omonima (Porta della Pace Celeste) si raggiunge l’entrata principale: la Wumen, o Porta meridiana. Da qui si affacciava l’Imperatore per calare agli araldi stesi faccia a terra un cesto dorato che conteneva leggi ed editti che dovevano essere divulgati ai quattro angoli dell’immensa nazione.
Al di là della soglia, la Città Proibita vera e propria, dove diecimila tra eunuchi, ministri, monaci e guardie dedicavano la loro vita all’Imperatore, e qualche volta ordivano intrighi e colpi di Stato. Il palazzo, costruito su tre assi principali da Sud a Nord, è diviso in due lungo l’asse Est-Ovest: una corte esterna (dove si trova per esempio il Palazzo dell’Armonia Suprema, o del Trono, il cui restauro è stato curato dal ministero italiano dei Beni culturali); e una corte interna, dove si trovano gli appartamenti del Figlio del Cielo, dell’Imperatrice, e di tutte le altri consorti ufficiali oltre che delle concubine.
Ma se nessun «comune mortale» poteva entrare nella corte, l’Imperatore raramente la lasciava. Il protocollo lo esigeva in determinati momenti dell’anno, quando, al solstizio d’inverno, si recava al Tempio del Cielo (Tien Tan) per invocare, in assoluta solitudine, la grazia di un raccolto abbondante, unica garanzia peraltro di stabilità politica. Oppure quando andava a salutare le truppe in partenza per la guerra. L a Città Proibita si trasformò invece in una vera e propria prigione alla fine del 1911, quando la Rivoluzione repubblicana di Sun Yat-sen abbatté la monarchia. All’Ultimo Imperatore, Pu Yi (la cui storia è finita sullo schermo nel pluripremiato film di Bernardo Bertolucci), fu concesso di rimanere nella corte interna con il suo seguito. Almeno fino al 1924, quando ne fu scacciato da una rivolta militare. Il palazzo, privato del suo tesoro (un milione di pezzi di inestimabile valore: ori, argenti, quadri, bronzi, pergamene) da Chiang Kai-shek in fuga verso Taiwan, assisté all’ultima «cerimonia imperiale» l’1 ottobre 1949, quando Mao Tse-tung si affacciò dagli spalti della porta della Pace Celeste per proclamare la vittoria della Rivoluzione e la nascita della Repubblica popolare. Il ritratto del primo fondatore della «dinastia rossa» è ancora lì, a osservare con un sorriso enigmatico i visitatori diretti a quello che un tempo fu il cuore dell’Impero più potente del mondo.

storia
una interpretazione della Rivoluzione francese

Corriere della Sera 5.12.04
Diritti dell’uomo e giacobinismo, l’eredità ambigua della Rivoluzione francese
Il 1789, culla della libertà e dei suoi nemici
di PIERRE MILZA

Il 1989 è stato l’anno del bicentenario della Rivoluzione francese e quello della caduta del Muro di Berlino. I due eventi non sono privi di correlazione. L’Europa, spaccata in due dalla guerra fredda combattuta fra democrazia e «dittatura del proletariato», scopriva, o riscopriva, con la ritrovata libertà, un sentimento di appartenenza a quella che Mikhail Gorbaciov aveva chiamato «casa comune». I popoli che si erano ribellati pacificamente ai loro governi satellizzati, e per i quali la storia era stata un lungo cammino dall’assolutismo al fascismo e dal fascismo al comunismo, potevano concedersi un regime rispettoso di quei «diritti dell’uomo» di cui la Rivoluzione francese sarebbe stata la prima a proporre il modello ai «popoli fratelli» del vecchio continente. È così, perlomeno, che si interpretava il rapporto del presente con il passato nel Paese che della presa della Bastiglia aveva fatto la sua festa nazionale. Le cose non sono evidentemente tanto semplici. Di quale «modello» si parla e di quale «rivoluzione» si tratta? Da gran parte della sinistra, anche quella della fine del XIX secolo, repubblicana e moderata, la Rivoluzione è stata a lungo considerata come un «blocco». Secondo Georges Clemenceau, poteva solo essere globalmente accettata o rifiutata. Innanzitutto, perché costituiva un formidabile movimento di liberazione dell’intero popolo e poi perché era stato necessario difenderla contro tutte le forme di reazione, sia all’interno sia all’esterno. Certo, non venivano negati né il Terrore rappresentato dalla ghigliottina né i massacri di massa perpetrati in Vandea e altrove. Ma si riteneva che tali «eccessi» fossero dovuti alla preoccupazione legittima ed esclusiva di salvare la Rivoluzione, dunque la democrazia.
Il discorso dei testi scolastici, formatosi all’epoca della Repubblica trionfante, ha diffuso ampiamente nel corpo sociale questa interpretazione del fatto rivoluzionario. La stessa destra repubblicana, considerando che la «vera Rivoluzione» fosse quella del 1789-1791 (gli anni delle conquiste fondamentali), interrotta dall’esperienza del Comitato di salute pubblica, ha finito con l’adottare più o meno l’idea che, se fra il 1792 e il 1794 c’era stato un dérapage , uno sbandamento, la causa più importante si dovesse ricercare nella risposta all’aggressione esterna.
Sostenendo il contrario di una storiografia dominata a lungo da universitari marxisti o marxisteggianti, i lavori di François Furet hanno dato un’interpretazione ben diversa del dérapage - l’espressione è sua ed è del 1965 - della Rivoluzione. La Rivoluzione non è un «blocco» più di quanto non sia una rottura con quel che precede. Si inserisce in un lungo processo che comincia con l’opera centralizzatrice della monarchia assoluta e si conclude in Francia alla fine del XIX secolo, con il trionfo della democrazia liberale. «Ciò che chiamiamo "Rivoluzione francese" - scrive Furet - quell’evento catalogato, collocato nel tempo, magnificato come un’aurora, è soltanto un’accelerazione dell’anteriore evoluzione politica e sociale».
Ammettiamo pure che la democrazia liberale, che si preoccupa di parità giuridica, uguaglianza delle possibilità di successo, rispetto della persona umana e della sovranità del popolo, di cui i francesi continuano - talvolta con una certa arroganza - a rivendicare la paternità, possa effettivamente essere scelta come «modello» per l’edificazione di una «casa comune» europea o planetaria. Ma allora dobbiamo anche riconoscere che la Rivoluzione francese, nella sua fase giacobina e terroristica, fu la matrice di un’ideologia e di una pratica di governo che costituiscono un dirottamento dei principi della filosofia dei Lumi, fino a trasformare questi ultimi nel loro contrario. I socialisti francesi del XIX secolo hanno rivendicato tale filiazione giacobina e dopo di loro, fin dal 1903, Lenin e anche Trotzkij. L’immagine del Terrore come strumento della lotta di classe contro la borghesia è al centro della loro ammirazione per Maximilien Robespierre e il giacobinismo. E qui siamo alle origini stesse del totalitarismo, nella versione bolscevica. Infatti, per i compagni di Lenin, non si tratta più soltanto di instaurare un governo di salute pubblica e di eliminare i «nemici di classe» in una prospettiva di difesa dalla controrivoluzione. Dal precedente giacobino, dai discorsi di un Robespierre, di un Saint-Just o di un Marat, essi traggono l’idea che il Terrore sia uno strumento positivo per instaurare un buon regime e rigenerare gli uomini e la società. Gli uni e gli altri raccomandano un attivismo rivoluzionario sterminatore, legato a un concetto manicheo della politica, all’assillo del complotto controrivoluzionario, all’apparizione di una religione civile, laicizzata, ma portatrice d’intolleranza quanto lo sono le religioni di cui essa pretende di infrangere l’influenza sulla società.
Quindici anni dopo il crollo del comunismo in Europa, questa matrice giacobina del totalitarismo leninista - e degli aspetti simmetrici del fascismo, di cui una delle radici attinge alla stessa fonte - non è completamente scomparsa dall’orizzonte ideologico dei contemporanei.
In Francia, come in Italia, i nostalgici del Terrore, i superstiti non pentiti dell’epoca in cui «mirare al cuore dello Stato» capitalista sembrava loro un atto di salute pubblica, continuano a legittimare azioni criminali in nome di principi che sono all’opposto degli ideali originali della Rivoluzione. Non lasciamo che si approprino ingiustamente del titolo di araldi della libertà.
(traduzione di Daniela Maggioni)

la violenza contro i bambini

La Stampa 5.12.04
PANE AL PANE
Bambini d’Italia così pochi così maltrattati
Lorenzo Mondo

PARLIAMO di bambini, uccisi, rapiti, venduti. A Volpiano, presso Torino, una madre ha ucciso a coltellate la sua bambina di quattro anni che portava il nome luminoso di Nausicaa. Non ce l'ha fatta a darsi la morte con la stessa arma e sta lottando in ospedale per riemergere a una semivita di dolore e rimorso in compagnia di medici e psicofarmaci. A Mazara del Vallo sono mesi ormai che la piccola Denise è scomparsa dalla strada vicino a casa in cui giocava. Inutili finora le indagini, gli appelli a chi, in quell'ambiente circoscritto, presumibilmente ha visto e sa. E' come se si fosse volatilizzata. Ad Avezzano una immigrata ucraina dai turbinosi trascorsi ha dato alla luce una bimba che, attraverso mediatori interessati, ha venduto ancor prima della nascita a una coppia di coniugi cinquantenni che non poteva avere figli. L'uomo l'ha denunciata come sua, frutto di una relazione adulterina.
E' un piccolo campionario di vicende che hanno al centro, con situazioni e responsabilità diverse, la sorte infelice di bambini in una società evoluta come la nostra. Certo, il caso più atroce si rivela quello di Volpiano, che d'altronde è soltanto l'ultimo di una raccapricciante serie. Storici, sociologi e psicologi mettono in guardia da ogni eccessivo allarme. Sappiamo che nessuna epoca è stata immune dal sacrificio dei bambini. Il mito di Medea è un archetipo che illustra quale terrificante rivalsa possa esigere l'amore tradito, la perdita di senso della vita. E ci viene ricordato che anche in passato, specie nel mondo contadino, erano frequenti le soppressioni di infanti, alla stregua di gattini annegati in un fosso. Ma il turbamento nasce proprio dalla considerazione che per troppe volte siamo ancora lì. La città, che dovrebbe rappresentare il massimo di socializzazione, nutre e occulta storie di solitudine, di abbandono, di lotta stremante con giornate senza redenzione. L'uscita da ancestrali miserie, i più confortevoli accessori, la sanità pubblica non riescono a scongiurare certi drammi.
La sequestrata di Mazara porta il discorso sullo sfruttamento dei bambini. Anche se sfuggono i contorni della vicenda, resta il fatto che Denise è diventata quanto meno strumento di trame criminose. Una esperienza che, quand'anche si concludesse positivamente, lascerebbe in lei una ferita indelebile. Ad Avezzano si registrano invece risvolti contrastanti. Il traffico di denaro getta un'ombra livida su quella che potrebbe apparire la tutta umana disperazione di una madre, inquina l'aspirazione dei compratori a dotarsi di una creatura su cui riversare il proprio affetto. E' un caso di patente imbarazzo per chi deve giudicare tra il dovere di reprimere un losco commercio e la preoccupazione di garantire comunque alla bambina il calore di una famiglia (magari la stessa che ha fatto ricorso a una illecita forma di adozione).
Tutto questo avviene, e suona come tristo paradosso, in un paese come l'Italia, afflitto da un bassissimo tasso di natalità. Dove si uccidono e maltrattano i bambini ma si cerca anche spasmodicamente di procurarseli, a tutti i costi. Quasi una compensazione oscura, e spesso stravolta, all'impoverimento umano del nostro futuro.

Fausto Petrella:
sullo psico-test ai magistrati

Repubblica 5.12.04
Fausto Petrella, ordinario di psichiatria: "Aberrante questa scelta dello Stato"
"Lo psico-test ai magistrati? Non ci stiamo"
(g. c.)

ROMA - Duecento adesioni via mail in quattro giorni: un successo. Gli psicoanalisti, psichiatri e psicologi, proprio loro che dovrebbero essere arbitri della «idoneità psico-attitudinale all´esercizio della professione di magistrato», secondo la riforma Castelli, hanno lanciato sul web un documento di protesta. L´iniziativa è delle società psicoanalitiche (Spi e Sipp e Aipa e Aipsi), freudiane e junghiane, che sul lettino cominciano intanto a metterci la nuova legge sull´ordinamento giudiziario e i test per giudici e pm previsti all´articolo 2. «Questa idea che ci siano figure professionali di formazione psicologica o psichiatrica a cui viene affidata la selezione di magistrati, non ci piace», spiega Fausto Petrella, ordinario di psichiatria, psicoanalista, ex presidente della Spi.
Professor Petrella, perché non volete valutare la salute mentale degli aspiranti magistrati?
«Penso che sia tecnicamente impossibile fornire dei giudizi predittivi sulle capacità di persone chiamate a funzioni così complesse. I concorsi sono già difficili per i magistrati e questa è di per sé una garanzia sufficiente sulla funzionalità psichica del futuro magistrato».
Ma le aziende per reclutare il personale fanno test psico-attitudinali.
«Le aziende private fanno selezioni con vari sistemi, padronissime. Ma il fatto che lo faccia lo Stato introduce dei criteri quantomeno aberranti».
Non sono i magistrati una categoria a rischio, come ha anche detto il premier Berlusconi («Per fare il magistrato devi essere mentalmente disturbato...»)?
«Beh, come i politici, o gli psichiatri o i giornalisti, tutte le professioni con un´alta componente relazionale sono esposti a disagi emotivi. Casomai si pensi a corsi di formazione in itinere, a gruppi di discussione, ma non a selezioni preliminari».

donne di Bagdad

Repubblica 5.12.04
La casa segreta di Yannar e le ragazze della guerra
Le donne di Bagdad
di BERNARDO VALLI

Donne e bambini sono state le principali vittime della guerra in Iraq. È impossibile quantificare ma se fosse vera la stima peggiore 100 mila morti civili secondo Lancet calcolando che la quota femminile è del 55 per cento della popolazione, si tratterebbe di una vera ecatombe. Di recente Nicholas Kristof calcolava sul New York Times che il tasso di mortalità infantile è raddoppiato rispetto a quello precedente alla guerra. Non solo: «Se l'Iraq dovesse raggiungere livelli di mortalità da Somalia calcola l'editorialista si potrebbe arrivare a 203mila bambini morti e 9.900 donne che muoiono durante il parto ogni anno».
[...]

È uno stormire d'ali di corvo. L'immagine non è mia. È dell´irriverente ragazza musulmana che mi accompagna. L'usa indicando il fremito dei veli neri nel grande mercato di Sadr City. È primo mattino, l'ora della spesa, e nel quartiere sciita le donne, nascoste sotto ampi chador, o con il capo avvolto in più modesti foulard, si agitano attorno a cumuli di riso e a montoni smembrati, a montagne di legumi e di frutti. Alcune calzano anche guanti, neri come chador. Da lontano sembra una cerimonia funebre.
Secondo la ragazza che l'osserva rattristata e polemica, quel panorama umano, addobbato a lutto, è il trionfo delle moschee e dei partiti religiosi. Un agricoltore valuta con un'occhiata, dal loro biondeggiare, la maturazione delle messi da mietere: allo stesso modo, con uno sguardo al mercato affollato, i musulmani integralisti possono misurare la loro influenza, la loro autorità, dalla foggia e dal colore degli abiti femminili. Più sono neri, castigati e uniformi, più sono soddisfatti. Su certi quartieri di Bagdad è come se fossero stati rovesciati ettolitri di inchiostro.
I contrasti, le contraddizioni non mancano nel disordine iracheno. Nei negozi dei quartieri benestanti capita di trovare prodotti di bellezza che, se usati ed esibiti in pubblico, in certi luoghi e situazioni, sarebbero scandalosi. Cosi come accade di vedere sui teleschermi e sui giornali immagini di donne vestite e truccate all'occidentale che se comparissero in carne e ossa provocherebbero reazioni imprevedibili. Due modelli di società si scontrano in una mischia senza regole: da un lato affiorano esitanti libertà individuali, di cui fa parte quella elementare di mostrare i propri capelli; dall'altro pesa un rigore religioso al quale è affidato spesso il monopolio delle tradizioni.
Il fremito degli chador nel mercato di Sadr City sembra uno stormir d'ali di corvo. La macchia nera d'inchiostro è il colore dell'oppressione voluta dagli integralisti che sempre più spesso impongono la violenza nell'Iraq del caos.
In una villetta rifugio alla periferia di Bagdad un gruppo
di coraggiose prova a resistere. E a cambiar le cose
Le varie correnti di quest'ultimo, ossia i partiti islamici, sciiti e sunniti, potrebbero avere quasi il sessantacinque per cento dei voti, stando ai pronostici sulle prossime, incerte elezioni politiche di fine gennaio. Chi puntava su una democrazia irachena ha buoni motivi per dubitare della sua imminente nascita.
In un quartiere popolare, Al Husseini, a una ragazza senza velo è stata sfregiata la faccia. Era una cristiana. A Mossul spruzzano catrame sulle gambe femminili non nascoste fino alla caviglia. A Falluja, quando imperavano gli estremisti islamici, nessuna donna osava mostrarsi con i capelli scoperti. Le giovani, anche se avvolte nel velo, uscivano raramente di casa. Un uomo, profugo da quella città, adesso occupata dagli americani e dalle forze governative irachene, ha raccontato che dei maschi sono stati rapati a zero, in piazza, perché la loro capigliatura era stata giudicata troppo femminile.
A Sadr City, dove l'intolleranza diventa con facilità violenza, la mia guida, prima riluttante, alla fine cede e mette un fazzoletto sulla testa. Ma è grigio, più chiaro di quelli in cui sono avvolte le donne del mercato. In un quartiere popolare, quale è Sadr City, il colore forse conta. Serve, penso, a distinguersi, a non confondersi con la marea nera. Può essere un segno della classe sociale cui uno appartiene. Negli ambienti borghesi le tinte sono varie. Il nero non sommerge tutto come qui. La mia guida alza tuttavia le spalle a queste osservazioni. Importa, dice, che forme e lineamenti siano nascosti. O non risaltino.
Le varietà di quelli che chiamiamo sommariamente veli sono tante nell'Islam. Una arabista, Catherine Farhi, ne elenca alcune: jelbab, burnus, ferigee, haik, khimar, mandil, melaya, sefsari.... Il velo può essere più una protezione, gradita o no, che un segno di devozione o di sottomissione. Per chi lo indossa non ha sempre un valore religioso. Gli si può anche dare un significato antropologico. Può servire alla donna «per non essere offesa», come recita un versetto del Corano. Può diventare uno scudo dietro il quale trincerarsi. E le giovani hanno bisogno di difese. Ma affidare questo compito al velo, sarebbe come considerare la prigione un luogo in cui si è al sicuro. Le donne sono esposte a mille pericoli nell'Iraq d'oggi.
Sentono sul collo l'ansimare degli integralisti, le cui idee, spesso imposte come regole, attizzano il maschilismo. Il quale diventa licenza di aggredire o insultare le ragazze sorprese in pubblico senza velo. Deboli, indifese, sono in balia dei delinquenti comuni che le rapiscono per ottenerne il riscatto. Una volta liberate, sono poi possibili vittime dei familiari, degli stessi genitori, mariti o fratelli, incapaci di sostenere l'onta, se durante il sequestro sono state violentate, come accade il più delle volte. Rischiano, in questo caso, di essere ripudiate, cacciate di casa, o segregate. Per le adultere la punizione può essere la morte. La legge è indulgente quando è in ballo l'onore.

Le finestre sbarrate
A venti minuti d'automobile da piazza Tahrir, il centro di Bagdad, in una villetta a due piani, simile a tante altre in quel quartiere abitato da funzionari di grado medio, un tempo da ufficiali subalterni della polizia e dell'esercito di Saddam, si incontrano le vittime, spesso adolescenti, dei vari tipi di violenza cui sono sottoposte le donne. L'indirizzo è segreto. È conosciuto soltanto da un ristretto numero di militanti dell'Organizzazione per la Libertà delle Donne in Iraq (la sigla inglese è Owfi). Nessun altro iracheno vi ha accesso. Lo si capisce. Le finestre sono sempre chiuse, come del resto lo sono quelle delle case vicine, per evidenti ragioni di sicurezza. Capita infatti che nei dintorni si accendano aspri combattimenti notturni, trovandosi la villa su una sponda del Tigri, in prossimità di una periferia infiltrata da guerriglieri e terroristi sfuggiti alla battaglia di Falluja. Anche in pieno giorno i posti di polizia sono presi d'assalto. Non sto dando indicazioni utili per individuare la località. Bagdad è una metropoli di più di sei milioni, piatta, costruita sul deserto. L'abitato si stende per decine di chilometri. Alcuni quartieri spuntano come oasi, dopo ampi spazi vuoti. Insomma, si può parlare di un ago nel pagliaio.
Al primo piano ci sono tre stanze e in ciascuna tre giacigli, più che veri letti. Al pianterreno una cucina e un dormitorio con tante coperte e materassi accatastati contro le pareti, per far spazio alle attività quotidiane. In particolare alle riunioni "per la psicologia di gruppo". L'arredamento è povero La pulizia meticolosa. Al momento le pensionanti sono una decina. Ognuna è protagonista di un dramma.
C'è chi, a poco più di vent'anni, con il volto più segnato di quel che dovrebbe essere a quella età, è reduce da un amore proibito. L'espressione non è mia. Cosi viene chiamata una relazione extraconiugale. Se scoperta la donna è espulsa dalla famiglia, dopo essere stata picchiata. E spesso minacciata di morte da un numero imprecisato di congiunti ansiosi di cancellare la vergogna.
Per inquadrarmi questi casi, e illustrarmi i rischi che essi comportano, Yannar Mohammed mi ricorda un celebre precedente. Yannar è una donna minuta, con i capelli neri e crespi, non ancora quarantenne, sprizzante energia. È turcomanna, del Kurdistan; e ha vissuto per qualche anno in Canada, Paese in cui ha imparato tante cose sull´uguaglianza tra maschi e femmine. Yannar è adesso presidente dell´Organizzazione per la Libertà della Donna e mi racconta come Saddam Hussein esaltò il delitto d'onore, al punto da farne un gesto eroico.

La bambina bastonata
Nel 1990, ai tempi dell'invasione del Kuwait e dell'imminente reazione americana, l'allora raìs aveva bisogno dell'appoggio dei capi tribù, per i quali negli anni precedenti non aveva avuto molti riguardi. Al fine di ingraziarseli decise di premiare un uomo che, adeguandosi alla tradizione tribale, aveva ucciso la nuora accusata di adulterio. Saddam andò di persona nella casa del giustiziere e gli appuntò al petto una medaglia. Fu un gesto propiziatorio anche nei confronti dei religiosi favorevoli alla sharia, la legge islamica, con i quali in quanto capo di un partito laico, come si dichiarava il Baath, non era mai stato tenero. Per sottolineare l'avvenimento fu emendata la legge che già prevedeva una pena insignificante (da tre a sei mesi) per il delitto d'onore. Con l'articolo 409 fu abolita anche quella. Non costerebbe dunque neanche un giorno di carcere uccidere una donna infedele.
I drammi delle altre ospiti della villa-rifugio, sulla sponda del Tigri, illustrano i rischi di essere donna in questo Paese. I racconti si ripetono tragicamente. L'adolescente fuggita da casa perché picchiata di santa ragione, ogni giorno, fino a spezzarle le braccia, affinché rinunciasse a incontrare un coetaneo sgradito ai genitori. Un'altra giovane, ancora più infelice, rapita, sembra stuprata, e per questo, una volta liberata, cacciata dalla famiglia disonorata. In reazione a tante miserie e ingiustizie si è creata una solidarietà femminile che consente a Yannar Mohammed di disporre, oltre alla modesta villa a due piani, di tanti altri rifugi segreti in case private disperse nella capitale. Una rete clandestina che merita il nobile nome di resistenza, negato ai terroristi.
L'Organizzazione di Yannar Mohammed denuncia la disperata situazione delle donne e spara accuse in tutte le direzioni. Definisce oppressivo e fascista il regime di Saddam Hussein; regressivi i cambiamenti politici originati dalla guerra americana; e altrettanto negative le azioni dei movimenti nazionalisti e islamici. «Al Qaeda ci ha minacciato più volte», dice Yannar. In un documento rivendica diritti che suonano bestemmie alle orecchie dei fondamentalisti. Ma che sono altrettanto inaccettabili da Iyhad Allawi, capo del governo proamericano. Il quale, pur essendo alla testa di un partito laico, non può ignorare i partiti religiosi alleati. La sua sopravvivenza politica dipende da loro. Nelle riunioni pubbliche, tenute all'ombra dei carri armati americani, laici e religiosi sostengono la presenza di una donna ogni quattro candidati, alle prossime elezioni. Ma che tipo di donna? Nessuno osa pensare che sulle liste possa apparire il nome di chi si oppone all'assoluzione degli assassini di mogli o sorelle infedeli. Di chi considera un'ignominia l'impunità dei delitti d´onore.

I diritti "impossibili"
Le rivendicazioni di Yannar riguardano diritti elementari e al tempo stesso irraggiungibili nel futuro scrutabile: l'uguaglianza tra uomini e donne; la separazione tra Stato e religione; la fine dell'imposizione del velo e la libertà nel disporre del proprio abbigliamento; la punizione della violenze contro le donne e in particolare pene appropriate per i delitti d'onore. Yannar Mohammed sa di non avere alleati, né nella opposizione armata, percorsa da un forte integralismo islamico, né nel governo, in cui sono presenti i partiti religiosi. La sua forza sta nella spontanea partecipazione di alcune migliaia di donne alle manifestazioni di piazza, organizzate tra gli attentati dei terroristi e le repressioni americane. Il suo più grande successo è stata la riassunzione di cinquanta impiegate di banca accusate di importanti sottrazioni di denaro, licenziate e arrestate in massa. Yannar ha avviato indagini per provare la loro innocenza, infine riconosciuta, e ha ottenuto che riprendessero i loro posti di lavoro. I cortei di protesta per le strade di Bagdad, nel frattempo dilaniate dalle autobombe dei kamikaze, si sono protratti per settimane, nella primavera scorsa.
Molte, coraggiose femministe del mondo musulmano, nel passato tenaci nell'affrontare mullah e dittatori, si sono ritirate davanti all'offensiva fondamentalista. Sul campo di battaglia iracheno, schiacciata tra due schieramenti a confronto, in diverso modo a lei entrambi ostili, Yannar, la turcomanna, continua imperterrita la sua lotta solitaria. Hai una stretta al cuore quando l'incontri in un ufficio buio, una vera topaia, invasa dalla puzza proveniente da una traboccante fogna vicina. Seduta su un divano sfondato, col computer in bilico sulle ginocchia, racconta con accenti epici la recente manifestazione a Bassora. Vi hanno partecipato centinaia di donne. All'improvviso adocchia la mia giovane guida, che a Sadr City metteva di malavoglia il fazzoletto grigio sulla testa per distinguersi nella marea nera dei chador. Yannar apprezza che indossi dei pantaloni, come lei. In Iraq oggi per una donna è un segno di coraggio. Pensa di reclutarla. Le chiede: «Non vuoi lavorare con me?».

La storia di Zainab
La femminista contro il raìs

Dalla sparizione di Nawal imparò la lezione opposta a quella che il regime voleva insegnare. Quella sua compagna di classe di 9 anni era colpevole di aver detto che, dopotutto, l'Iran non doveva essere uno Stato così cattivo. Ma era il Paese con cui l'Iraq era in guerra e dopo pochi giorni la bimba e tutta la sua famiglia sparirono. «Sapevamo tutti che erano state uccise» racconta l'adesso trentatreenne Zainab Al-Suwaij alla Harvard Gazette, «volevano che imparassimo a stare zitte e a non sfidare Saddam». Che è esattamente ciò che ha fatto per tutta la vita. Dopo essere stata una guerrigliera contro il raìs durante Desert Storm, dalla fine del regime cerca di mobilitare le donne irachene per recuperare i diritti perduti. Come fondatrice dell'America Islamic Congress è stata ricevuta anche da George Bush: «La mia famiglia era scioccata. Sono la prima donna che non resta a casa». E insieme a un'altra ex esiliata, Ala Talabani, è riuscita a far sancire nella costituzione provvisoria la parità tra i sessi oltre a raccogliere 50 mila firme affinché il 40 per cento dei ruoli politici nel nuovo governo siano affidati a donne. (r. sta.)

Shamia, in fuga dalla famiglia
La prostituta perseguitata

Cinque anni fa Shamia (il nome è di fantasia, la storia no) si innamorò del vicino di casa della sua famiglia. Chiese al padre di poterlo sposare: fu cacciata via e si trovò in mezzo alla strada. Aveva 19 anni. Oggi ne ha 24 e nel frattempo è diventata una prostituta. La liberazione dell'Iraq non l'ha aiutata. Anzi, l'esplodere dei delitti d'onore ha peggiorato la sua situazione. Suo fratello minore ha ricevuto dal padre l'ordine di ucciderla per restituire rispettabilità alla famiglia. Lo scorso giugno il ragazzo ha incontrato Shamia in una via di Bagdad e le ha puntato un coltello alla gola. Nelle vicinanze c'era però un poliziotto: «Un altro agente, informato dei fatti, mi avrebbe messo nuovamente nelle mani di mio fratello», ha spiegato la giovane al Time. «Ma per qualche ragione il poliziotto mi ha fatto da scudo. Non spero di essere così fortunata la prossima volta: mio fratello mi dà ancora la caccia». Shamia adesso vive aspettando la morte del padre. L'ultima possibilità per tornare a una vita normale: «Mia madre - confida - potrebbe prendermi nuovamente con lei».