La Provincia 14.9.03
RECENSIONI / CINEMA
Profondo
Brigatisti e Moro: tutti prigionieri nel «covo» di Roma
di Bernardino Marinoni
Buongiorno, notte: il titolo bellissimo è l’adattamento di un verso di Emily Dickinson citato nel film di Marco Bellocchio da uno dei pochissimi personaggi estranei al drappello dei carcerieri di Aldo Moro nei 55 giorni di via Gradoli, pressoché assoluta unità di luogo e di tempo dell’opera. Non il caso Moro, con eventuali dinamiche e misteri dietologici, ma Aldo Moro attraverso lo sguardo dei terroristi in una rifrazione agghiacciante perché rivela, da una parte e dall’altra, le persone piuttosto che i simboli che rappresentano o ritengono di rappresentare. Per questo il film si sgancia dalle preoccupazioni documentarie, salvo voci e immagini di telegiornali, senza però sacrificare la verosimiglianza della casa-prigione, divenuta tale per tutti, il prigioniero e i suoi custodi: non solo l’assillo strenuo della clandestinità, ma soprattutto l’incrinatura delle certezze di combattenti della rivoluzione che vedono i miti infrangersi nella violenza di un omicidio cui non sanno sottrarsi. Il sospetto prossimo alla consapevolezza del fallimento è depositato nel film negli occhi della sola donna del gruppo di brigatisti: Maya Sansa l’interpreta occultando appena lo sgomento di una visione nuova e diversa di immagini di trionfalismi rivoluzionari mentre sulle sequenze di Rossellini che Bellocchio cita le lettere di Moro si sovrappongono a quelle dei condannati a morte della Resistenza. L’emozione è un istante di rara intensità in un film che procede con una precisione quasi paradossale tra personaggi che sono reali e immaginari nello stesso tempo, dove una proiezione di Moro si aggira nell’appartamento, fuori dal loculo drappeggiato con la stella a cinque punte, con le minute premure di un padre, di un nonno. Per qualche attimo desideri convergenti in quella prigione prendono la consistenza del cinema, che è quella dei sogni, mentre la grottesca velleità dei proclami di giustizia proletaria manifesta la follia incistata nel covo dei terroristi, nel chiuso di un appartamento incupito, plumbeo giusto come quegli anni. E’ il film di Bellocchio a farvi una sua luce con la chiarezza dell’errore ancora prima e forse più dell’orrore dell’assassinio di Moro, di cui la tv mostra i funerali mentre Roberto Herlitzka, che interpreta lo statista con un’adesione del tutto umana lo lascia andare solo e stupito appena accelerando il passo sulla musica di Schubert in un mattino immaginario di libertà.
La Provincia Pavese 14.9.03
Primavisione: Bellocchio aiuta a riflettere
"Buongiorno notte": pellicola emozionante con un grande Roberto Herlitzka
PAVIA. I giorni della prigionia di Aldo Moro e del dubbio sulla necessità dello Stato di trattare o meno con i terroristi, visti dalla parte dei sequestratori, con un occhio al malessere e all'inquietudine interiore di quegli anni.
In Buongiorno, notte Marco Bellocchio riesce a rievocare quell'episodio oscuro, raccontando il fallimento di una disperata ideologia e parlando dei singoli che, senza saperlo, contribuirono a costruirla, oppure la subirono. E la politica? Rimane ai margini. Come le facce di quei notabili Dc che assistono alle esequie dello statista, restando muti interlocutori della Storia. Un film teso, emozionante, illuminante, di lineare semplicità e sottilmente complesso, interpretato con vibratile lucidità da Maya Sansa e da un grande Roberto Herlitzka.
(...)
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 14 settembre 2003
***l'Unità: dalla parte di Marco Bellocchio
(l'articolo di Francesco Merlo a cui Palandri qui di seguito si riferisce è disponibile in questo blog, più sotto, alla data dell'11.9.03)
L'Unità 14.9.03
La confusione di Merlo e la storia dei nostri anni nel film di Bellocchio
di Enrico Palandri
L’attacco di Francesco Merlo al film di Bellocchio sul Corriere della Sera di giovedì scorso è uno dei sintomi della fatica che facciamo tutti a organizzare degli schieramenti ampi, davvero politici, che si occupino della cosa pubblica e quindi lascino in pace le esigenze identitarie delle miriadi di gruppi che compongono la società italiana di oggi Prigioniero del «tutto è politica» sessantottino Merlo legge il film come un volantino di propaganda di quegli anni e non lo vede. Che i brigatisti siano descritti da Bellocchio come paranoidi isolati, sull'orlo di una catastrofe personale e storica e che il personaggio più positivo e amabile sia Moro non conta nulla. A Bellocchio viene attribuita una intenzione apologetica del terrorismo e questo è tutto ciò che conta. Ma dove la vede? Non so se ad esempio Merlo davvero fraintenda la sequenza in cui Stalin sorride a una parata ginnica, che Bellocchìo usa magnificamente per illustrare la propaganda anacronistica e un po' delirante che finisce nel brigatismo. Il senso del film è tutt'altro, rivolto al padre, alle drammatiche fratture di quegli anni che mettevano su sponde politicamente opposte tante famiglie italiane, sebbene per fortuna non sempre con le stesse tragiche conseguenze. Diversi dei leader politici presenti al funerale di Moro avevano in quegli anni i figli schierati contro. Bellocchio si è rivolto con molta misura e coraggio a questo nodo per raccontarlo e tentare di scioglierlo. Non con la politica, che mostrò allora e mostra ancora oggi tutti i suoi limiti. Con l'arte del racconto, che può scegliere per protagonista un Raskolnikov che è uno studente che ammazza la propria padrona di casa o una povera illusa come Emma Bovary e farne dei capolavori. Se per alcuni è troppo difficile da capire o poco chiaro a me dispiace perché è il sintomo di quanto sia degradata in Italia l'arte del racconto e la ragione per cui sono inguardabili per il loro semplicismo tanti dei film che escono oggi.
Ma forse Merlo non ha frainteso, ha voluto sbandierare quell'unità nazionale che si è opposta al terrorismo e che per un po' di anni ha risparmiato a tutti noi di misurarci con la povertà etica della politica dì oggi. Confortarsi sentendosi dalla parte della ragione di allora. Siamo stati tutti contenti, a destra e sinistra, di non esserci infilati in quel tunnel, ci si è chiesti poco se e quale luce ci fosse fuori. Attribuendo al film di Bellocchio intenzioni che gli sono estranee Merlo fa un po' quello che fa Berlusconi con il centrosinistra, tinteggia di comunismo con la pretesa di chiarire, mentre al contrario aumenta la confusione. E questo è un guaio diffuso, lo stesso che porta il primo ministro a difendere Mussolini, o dall'altra parte alcuni (per fortuna minoritari) a sinistra a richiamarsi al comunismo rimuovendo il fallimento storico dell'Europa orientale. Misurarci con quel che siamo stati, sforzarsi di raddrizzare ciò che non è raddrizzabile, chiedere alla storia una giustificazione quando al contrario, la storia è ciò che mostra sempre i limiti del nostro agire. Con il senno di poi siamo tutti intelligenti. e tutti, senza quel senno, siamo stati cretini. Alcuni colpevoli, altri meno (nessuno dai tempi di Caino innocente); certamente impreparati. Einmal ist keinmal. I terroristi di allora, che a differenza di altre generazioni che si sono ritrovate a uccidere in una guerra civile, hanno pagato a lungo i loro errori con la galera si sono credo quasi tutti allontanati dalle tragiche scelte dì quegli anni. Viviamo oggi in un mondo compIetamente diverso, che ha polverizzato le questioni nazionaliste sotto la globalizzazione e dissolto la lotta di classe in conflitti molto più complessi di quelli previsti da Marx. A parte il fatto che nel film di Bellocchio nostalgie di questo genere non ci sono affitto, gli erano estranee credo allora come oggi.
L'Unità 14.9.03
La confusione di Merlo e la storia dei nostri anni nel film di Bellocchio
di Enrico Palandri
L’attacco di Francesco Merlo al film di Bellocchio sul Corriere della Sera di giovedì scorso è uno dei sintomi della fatica che facciamo tutti a organizzare degli schieramenti ampi, davvero politici, che si occupino della cosa pubblica e quindi lascino in pace le esigenze identitarie delle miriadi di gruppi che compongono la società italiana di oggi Prigioniero del «tutto è politica» sessantottino Merlo legge il film come un volantino di propaganda di quegli anni e non lo vede. Che i brigatisti siano descritti da Bellocchio come paranoidi isolati, sull'orlo di una catastrofe personale e storica e che il personaggio più positivo e amabile sia Moro non conta nulla. A Bellocchio viene attribuita una intenzione apologetica del terrorismo e questo è tutto ciò che conta. Ma dove la vede? Non so se ad esempio Merlo davvero fraintenda la sequenza in cui Stalin sorride a una parata ginnica, che Bellocchìo usa magnificamente per illustrare la propaganda anacronistica e un po' delirante che finisce nel brigatismo. Il senso del film è tutt'altro, rivolto al padre, alle drammatiche fratture di quegli anni che mettevano su sponde politicamente opposte tante famiglie italiane, sebbene per fortuna non sempre con le stesse tragiche conseguenze. Diversi dei leader politici presenti al funerale di Moro avevano in quegli anni i figli schierati contro. Bellocchio si è rivolto con molta misura e coraggio a questo nodo per raccontarlo e tentare di scioglierlo. Non con la politica, che mostrò allora e mostra ancora oggi tutti i suoi limiti. Con l'arte del racconto, che può scegliere per protagonista un Raskolnikov che è uno studente che ammazza la propria padrona di casa o una povera illusa come Emma Bovary e farne dei capolavori. Se per alcuni è troppo difficile da capire o poco chiaro a me dispiace perché è il sintomo di quanto sia degradata in Italia l'arte del racconto e la ragione per cui sono inguardabili per il loro semplicismo tanti dei film che escono oggi.
Ma forse Merlo non ha frainteso, ha voluto sbandierare quell'unità nazionale che si è opposta al terrorismo e che per un po' di anni ha risparmiato a tutti noi di misurarci con la povertà etica della politica dì oggi. Confortarsi sentendosi dalla parte della ragione di allora. Siamo stati tutti contenti, a destra e sinistra, di non esserci infilati in quel tunnel, ci si è chiesti poco se e quale luce ci fosse fuori. Attribuendo al film di Bellocchio intenzioni che gli sono estranee Merlo fa un po' quello che fa Berlusconi con il centrosinistra, tinteggia di comunismo con la pretesa di chiarire, mentre al contrario aumenta la confusione. E questo è un guaio diffuso, lo stesso che porta il primo ministro a difendere Mussolini, o dall'altra parte alcuni (per fortuna minoritari) a sinistra a richiamarsi al comunismo rimuovendo il fallimento storico dell'Europa orientale. Misurarci con quel che siamo stati, sforzarsi di raddrizzare ciò che non è raddrizzabile, chiedere alla storia una giustificazione quando al contrario, la storia è ciò che mostra sempre i limiti del nostro agire. Con il senno di poi siamo tutti intelligenti. e tutti, senza quel senno, siamo stati cretini. Alcuni colpevoli, altri meno (nessuno dai tempi di Caino innocente); certamente impreparati. Einmal ist keinmal. I terroristi di allora, che a differenza di altre generazioni che si sono ritrovate a uccidere in una guerra civile, hanno pagato a lungo i loro errori con la galera si sono credo quasi tutti allontanati dalle tragiche scelte dì quegli anni. Viviamo oggi in un mondo compIetamente diverso, che ha polverizzato le questioni nazionaliste sotto la globalizzazione e dissolto la lotta di classe in conflitti molto più complessi di quelli previsti da Marx. A parte il fatto che nel film di Bellocchio nostalgie di questo genere non ci sono affitto, gli erano estranee credo allora come oggi.
***Marco Bellocchio: lunghi e calorosi applausi a Toronto e successo nelle sale italiane
Corriere della Sera 14.9.03
«Buongiorno, notte» a Toronto Lunghi applausi per Bellocchio
TORONTO - Lunghi e calorosi applausi hanno salutato Marco Bellocchio al Festival di Toronto dopo la proiezione di Buongiorno, notte alla sua prima trasferta all'estero dopo la Mostra di Venezia. Il successo del regista, accompagnato dalla protagonista Maya Sansa, potrebbe schiudere alla pellicola le porte di una distribuzione internazionale.
Repubblica 14.9.03
"Buongiorno, notte"
Bellocchio a Toronto
applausi al suo film
TORONTO Un lungo e caloroso applauso ha salutato al Festival di Toronto Marco Bellocchio dopo la proiezione di Buongiorno, notte, alla sua prima trasferta all'estero dopo Venezia. Un successo per il regista italiano, che potrebbe aprire al film le porte di una distribuzione internazionale. Buongiorno, notte ha avuto ottime recensioni, record d'affluenza di pubblico, attenzione degli operatori nordamericani.
il Messaggero 14.9.03
Applausi a Toronto per “Buongiorno, notte” di Bellocchio
TORONTO - Straordinario calore e intensa emozione per Buongiorno, notte , il film di Marco Bellocchio che è stato presentato ieri al Festival di Toronto. Nonostante i dubbi sorti a Venezia circa la comprensibilità della drammatica vicenda del rapimento di Aldo Moro dal punto di vista di spettatori che poco conoscono storia e realtà italiana, il film ha avuto una reazione di straordinario impatto che pone delle solide basi per un suo fortunato destino commerciale fuori dai confini nazionali.
Il Resto del Carlino, La Nazione, Il Giorno 14.9.03
Toronto applaude Bellocchio
TORONTO — Incomprensibile ai non italiani? Il motivo per cui "Buongiorno, notte" non sarebbe stato premiato con grandi riconoscimenti ai Venezia, pare smentito dalla calda accoglienza riservata al film di Bellocchio dal 28° Festival di Toronto. (...)
il Tempo 14.9.06
TORONTO – Un lungo e caloroso applauso ha salutato al Festival di Toronto Marco Bellocchio dopo la proiezione ...
... di «Buongiorno, notte», alla sua prima trasferta all'estero dopo la Mostra del Cinema di Venezia.
Un successo per il regista italiano, accompagnato alla Roy Thompson Hall dalla protagonista Maya Sansa e dal produttore Sergio Pelone, che potrebbe schiudere alla pellicola le porte di una distribuzione internazionale. Il cinema italiano (giunto in Canada grazie al sostegno di Italia Cinema, Anica, Mifed, Ice e Consolato Italiano) è stato ben accolto all'edizione 2003 del Toronto International Film Festival diretto da Piers Handing: ottime recensioni, record di affluenza di pubblico, attenzione degli operatori nordamericani.
Alto Adige
Bellocchio a Toronto accolto con calore
E' lo straordinario calore e l'intensa emozione suscitata dalla presentazione di "Buongiorno notte" di Marco Bellocchio al pubblico internazionale l'immagine su cui si chiude virtualmente al 28/a edizione del Festival di Toronto che ha allineato quasi 400 film in 10 giorni.
The Boston Globe 14.9.03
(...)
By contrast, "Good Morning, Night" discovers a hidden world of crime and repentance in the middle of daily life. Directed by Italian master Marco Bellocchio, the film imagines what might have occurred when Prime Minister Aldo Moro was kidnapped and ultimately murdered by Red Brigade anarchists in 1978. Rarely leaving the apartment where Moro was held captive, "Night" dissects the fatally misguided idealism of the kidnappers, focusing on one young woman who too late discovers her and her prisoner's common humanity.
(...)
BOXOFFICE
Corriere della Sera 13.9.03
SPETTACOLI
Il mancato Leone a Venezia è stata la miglior promozione per Bellocchio (1 milione di euro in 6 giorni), dietro ai due kolossal Usa di stagione.
Il Messaggero 13.9.03
(...)
Su tutti, il grande successo che sta riscuotendo il film di Marco Bellocchio, Buongiorno, notte che, già da giovedì scorso, al sesto giorno di programmazione, aveva superato il milione di euro di incasso piazzandosi al terzo posto nella top ten subito dopo La maledizione della prima luna e Hulk. In pochi giorni, il film sul rapimento Moro è passato da una quota di mercato dell’8 per cento a quella del 10,5 tanto da indurre la distributrice “01” a passare dalle 170 alle 210 copie attuali.
***Giovanni Bachelet
La Repubblica 14.9.03 Pagina 16 - Commenti
Bellocchio, i br convertiti e la vittoria di mio padre
di GIOVANNI BACHELET
Quando in una vetrina mi cade l´occhio sul libro di un terrorista di chiara fama, provo sentimenti simili a quelli espressi negli ultimi giorni da autorevoli e severi commenti a Buongiorno, notte. Provo la stessa costernazione di Nanni Moretti, quando, nel film La seconda volta di Mimmo Calopresti, rileggeva ingrugnato, esercitandosi al vogatore, la frase «ucciderne uno per educarne cento». In quegli anni ´70, non per tutti formidabili, molti si limitavano a scrivere questa frase sui muri (cosí come altri canticchiavano senza malizia «Lotta, lotta di lunga durata, lotta di popolo armato... »). Ma un piccolo nucleo, poche decine di persone in tutta Italia, cominciò purtroppo a metterla in pratica, mentre altrettanti, nel frattempo, avevano cominciato a mettere bombe e candelotti di dinamite qua e là. I Nar li misero anche sotto l´ufficio di mio padre, pochi mesi prima che fosse ucciso dalle Brigate Rosse.
Oltre alla libera ispirazione ad uno di questi libri (la cui autrice, come è stato ricordato, fu successivamente coinvolta nell´attentato a mio padre), anche il regista non m´ispirava grandi entusiasmi. Anzi, per la verità, aveva conquistato la mia antipatia fin da quando, a ventun´anni, avevo visto il suo film Matti da slegare. A me il suo matto che usciva dal manicomio, convinto che preti e padroni (non la propria malattia mentale) fossero la vera causa di tutti i guai, suoi e del mondo, sembrava più matto e pericoloso di prima. Ma allora dirlo non era molto di moda.
Se nonostante queste premesse il film è riuscito a conquistarmi, vuol dire che identici ingredienti - musiche, locomotive, falci e martelli, facce dei carnefici e formidabile umanità di Moro - parlano in modo diverso a diversi spettatori. Io, per esempio, non ci ho trovato attenuanti per i terroristi, ma, al contrario, aggravanti: l´effetto devastante dell´ideologia e della certezza di aver ragione, fino allo sradicamento della razionalità comune, dell´affetto (scena del neonato), della capacità di vedere, negli altri, uomini e non cose o simboli. Fino alla patologia mentale. Formidabile, in proposito, l´autocitazione (autocritica?) proprio di Matti da slegare, nascosta nelle brevi parole di Tina Anselmi sull´allora nuovissima legge Basaglia. Ho riconosciuto, insomma, percorsi intellettuali ed esistenziali pericolosissimi per sé e per gli altri, e mi è parsa molto utile la ricostruzione di alcuni passaggi chiave, affinché domani, anche davanti ad ingiustizie vere o in nome di un mondo meno ingiusto, i figli tengano gli occhi aperti, e sappiano evitarli.
Nel film qualcuno potrebbe addirittura leggere, controluce, valori cristiani (autentici, depurati dalle crociate e dalla caccia alle streghe, come suggerisce ad un certo punto Moro) e valori civili: luci capaci di proiettarsi, da quella cella, anche sull´oggi, a fronte non solo delle BR e del loro marxismo-leninismo onirico, ma anche di un intero assetto nazionale e internazionale che, 25 anni fa, era ormai al tramonto, senza però che molti di noi, allora, se ne avvedessero. Forse se ne avvedeva Moro, che io consideravo un grande eroe della democrazia, ben prima che fosse rapito e ucciso.
Non so se Bellocchio volesse suscitare questi pensieri. Forse ciò che consente di avere reazioni anche molto diverse a seconda del punto di vista, è la sua scelta di mettere in primo piano il dato esistenziale, psicologico e a volte onirico; poi un background d´epoca (e molti altri ingredienti di qualità eccellente); e solo sullo sfondo, un po´ sfocati dal tempo ma autentici, non sovrapposti ad alcuna tesi precostituita, il giallo e i dilemmi dell´epoca. Cosí i due poli del film sono da un lato fatti e commenti che tutti hanno avuto sotto gli occhi (telegiornali e giornali), e dall´altro i fatti e i luoghi di quei tremendi 55 giorni, che, invece, nessuno ha visto e tutti hanno dovuto immaginare. Questo polo narrativo - la vita del prigioniero e dei suoi carcerieri-carnefici, che è in primo piano - sfugge brillantemente al rischio (e alla noia) di ricostruzioni minuziose di luoghi e spostamenti, di polemiche e verità processuali, scegliendo di abbandonare dichiaratamente la vera storia dei carcerieri in favore di una storia semplificata, romanzata e incrociata a sogni. Ma proprio per questo sfugge, a mio avviso, sia alla categoria del "giustificazionismo" che al «partito delle trattative», cui qualcuno lo ha associato.
Grazie a questa scelta originale ogni spettatore, come in uno specchio un po´ opaco e deformante, trova nel film qualcosa di diverso e personale. Chi all´epoca avesse avuto granitiche certezze è costretto, venticinque anni dopo, a ripensare e dubitare, sia che fosse a favore, sia che fosse contro le trattative. Perfino Andreotti, il Pci e il Papa, ci fanno, a ben vedere, una figura non troppo malvagia.
Inizialmente il discorso di Andreotti, con l´appello anche alle famiglie, suona falso e disprezzabile agli ascoltatori brigatisti, riuniti davanti alla televisione; ma poi, a più riprese, il film stesso suggerisce che quell´appello avrebbe potuto davvero colpire nel segno, raggiungendo qualcuno dei carcerieri. Lo testimonia il rapporto della protagonista con la zia, con la famiglia, con il loro comunismo all´antica, sano e ruspante (anch´esso immaginario, condito di una quanto mai improbabile commistione con la preghiera e la religiosità popolare, che ricompare, a tavola, nell´ultimo sogno).
Lama e Berlinguer definiscono in televisione deliranti e aberranti le mosse delle Brigate Rosse e li paragonano ai nazisti; ma in fondo, alla fine, la stessa protagonista comincia a interiorizzare questo giudizio del Pci e dei sindacati, sovrapponendo nei propri sogni, che si fanno sempre più ripensamenti, le ultime lettere di Moro a quelle dei condannati a morte della resistenza.
Certo nella realtà storica delle Br gli effetti visibili di qualche ripensamento sono cominciati, purtroppo, dopo diversi anni e dopo molti altri delitti, come qualcuno ha puntigliosamente ricordato. Non sembra realistico retrodatarli al rapimento, anche se del cammino dei sogni e dei pensieri nessuno può essere sicuro. Ma l´ultimo sogno, l´ultima musica, il doppio finale fanno comprendere e volentieri accettare questa e molte altre licenze storiche: la scena del prigioniero che esce e se ne va in una sottile pioggerella conquista lo spettatore in modo struggente. La donna del gruppo ha addormentato gli altri carcerieri e ha lasciato che il prigioniero uscisse, che tornasse libero senza condizioni: ha fatto quel che aveva implorato il Papa, quel che tanti italiani in buona fede avevano effettivamente sognato in quei 55 giorni. Che per qualche ex-brigatista questa conversione alla democrazia e all´umanità sia avvenuta davvero, anche se molti anni dopo, è sempre una grande vittoria del bene sul male. Anche Moro e mio padre, forse, ne sorriderebbero compiaciuti.
Bellocchio, i br convertiti e la vittoria di mio padre
di GIOVANNI BACHELET
Quando in una vetrina mi cade l´occhio sul libro di un terrorista di chiara fama, provo sentimenti simili a quelli espressi negli ultimi giorni da autorevoli e severi commenti a Buongiorno, notte. Provo la stessa costernazione di Nanni Moretti, quando, nel film La seconda volta di Mimmo Calopresti, rileggeva ingrugnato, esercitandosi al vogatore, la frase «ucciderne uno per educarne cento». In quegli anni ´70, non per tutti formidabili, molti si limitavano a scrivere questa frase sui muri (cosí come altri canticchiavano senza malizia «Lotta, lotta di lunga durata, lotta di popolo armato... »). Ma un piccolo nucleo, poche decine di persone in tutta Italia, cominciò purtroppo a metterla in pratica, mentre altrettanti, nel frattempo, avevano cominciato a mettere bombe e candelotti di dinamite qua e là. I Nar li misero anche sotto l´ufficio di mio padre, pochi mesi prima che fosse ucciso dalle Brigate Rosse.
Oltre alla libera ispirazione ad uno di questi libri (la cui autrice, come è stato ricordato, fu successivamente coinvolta nell´attentato a mio padre), anche il regista non m´ispirava grandi entusiasmi. Anzi, per la verità, aveva conquistato la mia antipatia fin da quando, a ventun´anni, avevo visto il suo film Matti da slegare. A me il suo matto che usciva dal manicomio, convinto che preti e padroni (non la propria malattia mentale) fossero la vera causa di tutti i guai, suoi e del mondo, sembrava più matto e pericoloso di prima. Ma allora dirlo non era molto di moda.
Se nonostante queste premesse il film è riuscito a conquistarmi, vuol dire che identici ingredienti - musiche, locomotive, falci e martelli, facce dei carnefici e formidabile umanità di Moro - parlano in modo diverso a diversi spettatori. Io, per esempio, non ci ho trovato attenuanti per i terroristi, ma, al contrario, aggravanti: l´effetto devastante dell´ideologia e della certezza di aver ragione, fino allo sradicamento della razionalità comune, dell´affetto (scena del neonato), della capacità di vedere, negli altri, uomini e non cose o simboli. Fino alla patologia mentale. Formidabile, in proposito, l´autocitazione (autocritica?) proprio di Matti da slegare, nascosta nelle brevi parole di Tina Anselmi sull´allora nuovissima legge Basaglia. Ho riconosciuto, insomma, percorsi intellettuali ed esistenziali pericolosissimi per sé e per gli altri, e mi è parsa molto utile la ricostruzione di alcuni passaggi chiave, affinché domani, anche davanti ad ingiustizie vere o in nome di un mondo meno ingiusto, i figli tengano gli occhi aperti, e sappiano evitarli.
Nel film qualcuno potrebbe addirittura leggere, controluce, valori cristiani (autentici, depurati dalle crociate e dalla caccia alle streghe, come suggerisce ad un certo punto Moro) e valori civili: luci capaci di proiettarsi, da quella cella, anche sull´oggi, a fronte non solo delle BR e del loro marxismo-leninismo onirico, ma anche di un intero assetto nazionale e internazionale che, 25 anni fa, era ormai al tramonto, senza però che molti di noi, allora, se ne avvedessero. Forse se ne avvedeva Moro, che io consideravo un grande eroe della democrazia, ben prima che fosse rapito e ucciso.
Non so se Bellocchio volesse suscitare questi pensieri. Forse ciò che consente di avere reazioni anche molto diverse a seconda del punto di vista, è la sua scelta di mettere in primo piano il dato esistenziale, psicologico e a volte onirico; poi un background d´epoca (e molti altri ingredienti di qualità eccellente); e solo sullo sfondo, un po´ sfocati dal tempo ma autentici, non sovrapposti ad alcuna tesi precostituita, il giallo e i dilemmi dell´epoca. Cosí i due poli del film sono da un lato fatti e commenti che tutti hanno avuto sotto gli occhi (telegiornali e giornali), e dall´altro i fatti e i luoghi di quei tremendi 55 giorni, che, invece, nessuno ha visto e tutti hanno dovuto immaginare. Questo polo narrativo - la vita del prigioniero e dei suoi carcerieri-carnefici, che è in primo piano - sfugge brillantemente al rischio (e alla noia) di ricostruzioni minuziose di luoghi e spostamenti, di polemiche e verità processuali, scegliendo di abbandonare dichiaratamente la vera storia dei carcerieri in favore di una storia semplificata, romanzata e incrociata a sogni. Ma proprio per questo sfugge, a mio avviso, sia alla categoria del "giustificazionismo" che al «partito delle trattative», cui qualcuno lo ha associato.
Grazie a questa scelta originale ogni spettatore, come in uno specchio un po´ opaco e deformante, trova nel film qualcosa di diverso e personale. Chi all´epoca avesse avuto granitiche certezze è costretto, venticinque anni dopo, a ripensare e dubitare, sia che fosse a favore, sia che fosse contro le trattative. Perfino Andreotti, il Pci e il Papa, ci fanno, a ben vedere, una figura non troppo malvagia.
Inizialmente il discorso di Andreotti, con l´appello anche alle famiglie, suona falso e disprezzabile agli ascoltatori brigatisti, riuniti davanti alla televisione; ma poi, a più riprese, il film stesso suggerisce che quell´appello avrebbe potuto davvero colpire nel segno, raggiungendo qualcuno dei carcerieri. Lo testimonia il rapporto della protagonista con la zia, con la famiglia, con il loro comunismo all´antica, sano e ruspante (anch´esso immaginario, condito di una quanto mai improbabile commistione con la preghiera e la religiosità popolare, che ricompare, a tavola, nell´ultimo sogno).
Lama e Berlinguer definiscono in televisione deliranti e aberranti le mosse delle Brigate Rosse e li paragonano ai nazisti; ma in fondo, alla fine, la stessa protagonista comincia a interiorizzare questo giudizio del Pci e dei sindacati, sovrapponendo nei propri sogni, che si fanno sempre più ripensamenti, le ultime lettere di Moro a quelle dei condannati a morte della resistenza.
Certo nella realtà storica delle Br gli effetti visibili di qualche ripensamento sono cominciati, purtroppo, dopo diversi anni e dopo molti altri delitti, come qualcuno ha puntigliosamente ricordato. Non sembra realistico retrodatarli al rapimento, anche se del cammino dei sogni e dei pensieri nessuno può essere sicuro. Ma l´ultimo sogno, l´ultima musica, il doppio finale fanno comprendere e volentieri accettare questa e molte altre licenze storiche: la scena del prigioniero che esce e se ne va in una sottile pioggerella conquista lo spettatore in modo struggente. La donna del gruppo ha addormentato gli altri carcerieri e ha lasciato che il prigioniero uscisse, che tornasse libero senza condizioni: ha fatto quel che aveva implorato il Papa, quel che tanti italiani in buona fede avevano effettivamente sognato in quei 55 giorni. Che per qualche ex-brigatista questa conversione alla democrazia e all´umanità sia avvenuta davvero, anche se molti anni dopo, è sempre una grande vittoria del bene sul male. Anche Moro e mio padre, forse, ne sorriderebbero compiaciuti.
Marco Bellocchio: ovazioni a Toronto e il laboratorio di Bobbio
Libertà 14.9.03
“Corti” in visione, c'è talento tra i giovani allievi
A Bobbio serata su lavori della “scuola” di Bellocchio. Per il regista ovazioni a Toronto
di Manuel Monteverdi
Mentre il regista Marco Bellocchio, ieri a Toronto è stato accolto da vere e proprie ovazioni dopo la proiezione di Buongiorno, notte in chiusura del Festival cinematografico canadese, prosegue a Bobbio il progetto “Fare Cinema”: non una semplice rassegna di ottime pellicole italiane, di ieri e di oggi ma, soprattutto, un laboratorio cinematografico in cui allievi provenienti da tutta Italia approfondiscono quelle conoscenze tecniche della settima arte che potrebbero trasformarli in accreditati registi. Proprio in quest'ottica si è consumata la quarta serata bobbiese di “scuola”, nel corso della quale si sono avvicendati sei cortometraggi frutto, in gran parte, del prolifico lavoro svolto negli ultimi due anni di corso. Ha aperto la serata A un millimetro dal cuore di Iole Natoli, un mediometraggio (circa 28' di durata) strutturato su flashback, che racconta l'incontro improvviso e passionale di un uomo e una donna. La Natoli, presente in sala, ha ricordato le collaborazioni - come segretaria di edizione - con Ettore Scola e lo stesso Bellocchio (qui in una particina di attore), dai quali ha appreso le nozioni cinematografiche necessarie alla realizzazione della sua opera prima. L'amore, seppur travagliato, è anche il tema di Manfrina, corto di Katjuscia Fantini, nel quale la telecamera pedina una coppia in rotta di collisione: lui non lavora, lei ne detesta l'inerzia del vivere ma, tra mille sfoghi e incomprensioni, i due continuano ad amarsi. Tocco molto raffinato e femminile. Va rilevato che proprio la Fantini ha preso parte al progetto “Sicurezza stradale” (a cui hanno collaborato il Comune di Piacenza, quello di Modena, la Città di Bobbio, Borgonovo Valtidone e Ziano) dirigendo Mentre tu aspetti, beffardo crocevia di destini umani: una ragazzina, il giorno del compleanno, attende l'arrivo della madre; quest'ultima, alla guida di un'auto, si scontra con un motorino guidato da un adolescente. I due hanno una cosa in comune: stanno cercando il regalo per la stessa persona. Decisamente “sui generis” Local Habitation di Luca Giberti, un monologo da interpretare come suggestiva riflessione filosofica sulla scienza e sul suo rapporto con il genere umano; quasi agli antipodi Dove sei di Jacqueline Valenti, cortometraggio muto, ambientato a Bobbio e avvolto da un raffinato bianco e nero, che richiama il nostro cinema neorealista del secondo dopoguerra. Davvero stupefacenti, infine, le pellicole di Sonia Giardina e Massimo D'Orzi. La Giardina ha realizzato un documentario intitolato Fantasmagorie e miti dei passages coperti parigini, una lezione di storia francese - narrata da una voce fuori campo - che parte da uno scorcio cittadino come quello delle “passeggiate” di Parigi e arriva alla ricostruzione storico-sociale di una nazione; i passages tornano indietro nel tempo e vivono le proprie vicende fino ad arrivare ai giorni nostri come luoghi delle rivoluzioni, delle cospirazioni, del progresso e come “acquari umani” abitati da giocatori, delinquenti e prostitute seppur contraddittoriamente abbelliti da café, librerie e teatri. Anche Massimo D'Orzi ha scelto il connotato storico per La rosa più bella del nostro giardino, un viaggio tra le macerie della ex Jugoslavia, ripreso quasi interamente in soggettiva e intervallato da frammenti cinematografici del passato: da Trono di sangue di Akira Kurosawa a Germania anno zero di Roberto Rossellini, per passare attraverso tre classici di Tarkovskij come Andrei Rubliov, Stalker e L'infanzia di Ivan. Fusione tra documentario, dramma e neorealismo, a rimarcare la follia della guerra, la cupidigia dell'uomo e la speranza come unico effimero rimedio alla disperazione.
(c) 1998-2002 - LIBERTA'
“Corti” in visione, c'è talento tra i giovani allievi
A Bobbio serata su lavori della “scuola” di Bellocchio. Per il regista ovazioni a Toronto
di Manuel Monteverdi
Mentre il regista Marco Bellocchio, ieri a Toronto è stato accolto da vere e proprie ovazioni dopo la proiezione di Buongiorno, notte in chiusura del Festival cinematografico canadese, prosegue a Bobbio il progetto “Fare Cinema”: non una semplice rassegna di ottime pellicole italiane, di ieri e di oggi ma, soprattutto, un laboratorio cinematografico in cui allievi provenienti da tutta Italia approfondiscono quelle conoscenze tecniche della settima arte che potrebbero trasformarli in accreditati registi. Proprio in quest'ottica si è consumata la quarta serata bobbiese di “scuola”, nel corso della quale si sono avvicendati sei cortometraggi frutto, in gran parte, del prolifico lavoro svolto negli ultimi due anni di corso. Ha aperto la serata A un millimetro dal cuore di Iole Natoli, un mediometraggio (circa 28' di durata) strutturato su flashback, che racconta l'incontro improvviso e passionale di un uomo e una donna. La Natoli, presente in sala, ha ricordato le collaborazioni - come segretaria di edizione - con Ettore Scola e lo stesso Bellocchio (qui in una particina di attore), dai quali ha appreso le nozioni cinematografiche necessarie alla realizzazione della sua opera prima. L'amore, seppur travagliato, è anche il tema di Manfrina, corto di Katjuscia Fantini, nel quale la telecamera pedina una coppia in rotta di collisione: lui non lavora, lei ne detesta l'inerzia del vivere ma, tra mille sfoghi e incomprensioni, i due continuano ad amarsi. Tocco molto raffinato e femminile. Va rilevato che proprio la Fantini ha preso parte al progetto “Sicurezza stradale” (a cui hanno collaborato il Comune di Piacenza, quello di Modena, la Città di Bobbio, Borgonovo Valtidone e Ziano) dirigendo Mentre tu aspetti, beffardo crocevia di destini umani: una ragazzina, il giorno del compleanno, attende l'arrivo della madre; quest'ultima, alla guida di un'auto, si scontra con un motorino guidato da un adolescente. I due hanno una cosa in comune: stanno cercando il regalo per la stessa persona. Decisamente “sui generis” Local Habitation di Luca Giberti, un monologo da interpretare come suggestiva riflessione filosofica sulla scienza e sul suo rapporto con il genere umano; quasi agli antipodi Dove sei di Jacqueline Valenti, cortometraggio muto, ambientato a Bobbio e avvolto da un raffinato bianco e nero, che richiama il nostro cinema neorealista del secondo dopoguerra. Davvero stupefacenti, infine, le pellicole di Sonia Giardina e Massimo D'Orzi. La Giardina ha realizzato un documentario intitolato Fantasmagorie e miti dei passages coperti parigini, una lezione di storia francese - narrata da una voce fuori campo - che parte da uno scorcio cittadino come quello delle “passeggiate” di Parigi e arriva alla ricostruzione storico-sociale di una nazione; i passages tornano indietro nel tempo e vivono le proprie vicende fino ad arrivare ai giorni nostri come luoghi delle rivoluzioni, delle cospirazioni, del progresso e come “acquari umani” abitati da giocatori, delinquenti e prostitute seppur contraddittoriamente abbelliti da café, librerie e teatri. Anche Massimo D'Orzi ha scelto il connotato storico per La rosa più bella del nostro giardino, un viaggio tra le macerie della ex Jugoslavia, ripreso quasi interamente in soggettiva e intervallato da frammenti cinematografici del passato: da Trono di sangue di Akira Kurosawa a Germania anno zero di Roberto Rossellini, per passare attraverso tre classici di Tarkovskij come Andrei Rubliov, Stalker e L'infanzia di Ivan. Fusione tra documentario, dramma e neorealismo, a rimarcare la follia della guerra, la cupidigia dell'uomo e la speranza come unico effimero rimedio alla disperazione.
(c) 1998-2002 - LIBERTA'
Roberto Herlitzka
Corriere della Sera 14.9.03
«Scopro il successo a 65 anni grazie al film su Aldo Moro»
Herlitzka: a teatro tante delusioni, ora la gente mi chiede autografi
di Giuseppina Manin
Scoprirsi famoso a 65 anni. Quando le rughe tracciano solchi impietosi, quando i capelli sono ormai bianchi. «Beh, per me questo non è proprio un problema: il mio viso è sempre stato scavato da ombre, segnato come in un disegno a carboncino», scherza Roberto Herlitzka, che, con quella faccia un po' così, austera, nobile, dolente, anomala come il suo cognome (è nato a Torino da famiglia cecoslovacca) ha dovuto fare i conti per tutta la vita. «In un teatro dove sempre più detta legge l'intrattenimento, il botteghino, io non sono mai stato corteggiato dagli impresari. Che a quelli come me preferiscono veline e comici televisivi. Pazienza. Un tempo questo mi amareggiava un po', ormai non più. Il teatro di consumo non mi ha mai interessato, ho sempre fatto scelte improntate alla qualità, alla ricerca. Il mio divertimento è il testo, i miei complici registi non convenzionali, da Orazio Costa, il mio maestro, a Gabriele Lavia, da Peter Stein ad Antonio Calenda. Per questo sono come sono: meno ricco, meno celebre di altri, ma forse più libero e felice».
E ora, che si ritrova travolto da improvviso successo per aver interpretato Moro in Buongiorno, notte di Bellocchio?
«Un certo effetto lo fa. Sono arrivato alla Mostra del Cinema quasi in incognito, sono ripartito con la gente che mi fermava per strada a chiedermi autografi. Confesso: è una grande gioia. In fondo si fa l'attore per questo, per piacere agli altri. Il narcisismo è la molla di questo mestiere. Certo, poi si trasforma in altro, in voglia di comunicare, di trasmettere emozioni. Ma se alla fine la platea non ti applaude...»
Insomma, questo film l'ha trasformata in star...
«Non scherziamo, per diventare un divo ci vuole altro... No, non mi illudo. Pensare "è fatta" alla mia età sarebbe sciocco. Non lo dico per modestia, non lo sono. Conosco il mio valore ma non intendo certo cambiar vita ora. Ma se le lodi per il film di Bellocchio mi porteranno altre buone occasioni, al cinema o in scena, non mi tirerò indietro».
Domani intanto torna in teatro, a Benevento debutterà con un «Otello» molto particolare...
«Infatti si intitola "ExOtello", da "Otello". Un esperimento drammaturgico che avevo già tentato con un "ExAmleto". Grandi ruoli che non ho mai potuto interpretare. L'amoroso, colui che seduce le donne, non sono io. Come Otello non sarei credibile, la mia faccia mi condanna a Iago. Ma come Iago posso ripercorre tutta la storia, evocare i fantasmi degli altri personaggi, Otello, Desdemona... Alla fine del dramma Shakespeare lo condanna a una "lunga tortura che non uccide", a rivivere in eterno il suo tormento. E allora, da dentro un carcere foderato di specchi che lo costringono ad aversi sempre davanti, ecco che quell'artefice del male, ormai vecchio, ricostruisce i complessi meccanismi che l'hanno portato, tra odio e amore, a tanto misfatto».
Da un carcere all'altro, da quello di Aldo Moro a quello di Iago...
«E prima ce n'è stato un terzo. In un testo di Claudio Magris, "La Mostra", avevo impersonato il pittore triestino Vito Timmel, finito in manicomio. In fondo, a fare il prigioniero mi sento a mio agio. Lo sono anch'io del mio lavoro, una passione totale e totalizzante. Questo mestiere non sarebbe sopportabile altrimenti».
Ha avuto paura a calarsi nei panni difficili di Moro?
«Ne ho sentito tutto il peso. Per fortuna al mio fianco avevo Bellocchio. E' stato un lungo lavoro di sottrazione, che mi ha fatto anche ripensare alla nostra storia. Quello statista, allora così criticato, quegli altri suoi colleghi che appaiono alla fine, visti oggi, a confronto con l'attuale classe politica, sembrano dei giganti. Moro aveva un altissimo senso dello stato».
Lei ha avuto altre avventure cinematografiche. E a sorpresa, tra i suoi film, ce n' è anche uno a luci quasi rosse...
«Già, Il corpo dell'anima . Qualcuno l'ha visto così, ma era un film d'autore, di Piscicelli. Sono felicissimo d'averlo fatto, un'occasione rara per uno come me. C'era molta ironia in quell'anziano professore, studioso di Santa Teresa d'Avila che si lascia iniziare al sesso da una disinibita domestica. E poi da allora, nel mio quartiere hanno cominciato a guardarmi con occhi diversi».
Nelle sfide lei non si tira mai indietro?
«Anzi, mi divertono molto. Tra un po' diventerò donna. Anzi madre. Una novantenne, nazista incallita, vampira verso la figlia che, inorridita, se la ritrova davanti dopo anni. Un testo tratto da "Lasciami andare, madre" di Helga Schneider, la regia sarà della Wertmuller. Eh sì, il teatro come la vita è sempre pieno di sorprese».
Repubblica 14.9.03
Herlitzka stasera a Benevento
"Per Bellocchio Monicelli poteva pensare all´ex aequo
di Giulio Baffi
NAPOLI - «Se ripenso al film di Bellocchio mi convinco che in teatro si agisce su tragedie fantastiche, immaginarie, su personaggi inventati su cui si può anche scherzare, quando invece l´eroe tragico è vero non ci possono essere licenze, invenzioni o tradimenti». Roberto Herlitzka, autore e protagonista, stasera mette in scena in prima nazionale a Benevento Città Spettacolo, il suo ExOtello, affidando a Jago riflessioni e rimorsi.
Soddisfatto della sua partecipazione a Buongiorno, notte?
«Un´esperienza molto bella, ho sentito profondamente questa tragedia che a suo tempo mi aveva colpito moltissimo e certo l´emozione che provai allora mi è servita, ma la guida di Bellocchio è stata fondamentale, direi ispiratrice».
Eppure il film non è stato apprezzato come si pensava.
«Perché? Mi sembra sia un film amatissimo, a giudicare almeno dall´entusiasmo del pubblico, non solo di Venezia ma anche a Roma e in altre città. Una risposta assolutamente eccezionale. È raro che un film oggi scateni questo entusiasmo. Certo c´è stata la delusione di Venezia, e c´è poco da dire. Il film non è andato bene a Monicelli, ma tutti hanno diritto ad avere le proprie idee».
Le è sembrato ci fosse una forzatura?
«Assolutamente sì. Si potevano premiare entrambi i film; esistono gli ex-aequo naturalmente, esistono premi prestigiosi che potevano essere assegnati. Invece ne è uscita fuori una scortesia, un premio modesto accompagnato dalla dichiarazione di Monicelli che ha detto che il film non meritava neanche quel piccolo riconoscimento. È evidente che a Venezia c´era un´antipatia nei confronti del film».
Il pubblico invece...
«I giovani che l´hanno visto a Venezia hanno dato ben tre premi a Bellocchio. Questo significa che ha saputo parlare anche a una generazione che non ha vissuto quei giorni tanto tragici».
Seleziona le scelte artistiche tanto al cinema quanto a teatro?
«Sono nato e anche un po´ cresciuto come attore di teatro, il cinema mi piace enormemente, ne ho fatto saltuariamente però, e in film di non grande circuito. Ma che devo fare? Non mi chiamano. Non dico che accetterei qualunque cosa, ma non ho avuto molte occasioni di rifiutare film di grande richiamo».
Dopo il successo di Buongiorno, notte magari sarà più richiesto.
«Magari, ma devono sbrigarsi: non sono mica un giovane attore».
E il teatro?
«Anche lì sono anomalo. Non che io mi senta discriminato, ma è un fatto che sono stato molto più presente con compagnie di teatro off. Tutto sommato la mia storia non è poi così diversa nei due campi. Sarà anche per la disponibilità a avventure teatrali che altri snobberebbero. Non ho avuto però grandi offerte dai teatri ufficiali c´è voluto Peter Sein con Zio Vania o lo Stabile di Trieste diretto da Calenda».
«Scopro il successo a 65 anni grazie al film su Aldo Moro»
Herlitzka: a teatro tante delusioni, ora la gente mi chiede autografi
di Giuseppina Manin
Scoprirsi famoso a 65 anni. Quando le rughe tracciano solchi impietosi, quando i capelli sono ormai bianchi. «Beh, per me questo non è proprio un problema: il mio viso è sempre stato scavato da ombre, segnato come in un disegno a carboncino», scherza Roberto Herlitzka, che, con quella faccia un po' così, austera, nobile, dolente, anomala come il suo cognome (è nato a Torino da famiglia cecoslovacca) ha dovuto fare i conti per tutta la vita. «In un teatro dove sempre più detta legge l'intrattenimento, il botteghino, io non sono mai stato corteggiato dagli impresari. Che a quelli come me preferiscono veline e comici televisivi. Pazienza. Un tempo questo mi amareggiava un po', ormai non più. Il teatro di consumo non mi ha mai interessato, ho sempre fatto scelte improntate alla qualità, alla ricerca. Il mio divertimento è il testo, i miei complici registi non convenzionali, da Orazio Costa, il mio maestro, a Gabriele Lavia, da Peter Stein ad Antonio Calenda. Per questo sono come sono: meno ricco, meno celebre di altri, ma forse più libero e felice».
E ora, che si ritrova travolto da improvviso successo per aver interpretato Moro in Buongiorno, notte di Bellocchio?
«Un certo effetto lo fa. Sono arrivato alla Mostra del Cinema quasi in incognito, sono ripartito con la gente che mi fermava per strada a chiedermi autografi. Confesso: è una grande gioia. In fondo si fa l'attore per questo, per piacere agli altri. Il narcisismo è la molla di questo mestiere. Certo, poi si trasforma in altro, in voglia di comunicare, di trasmettere emozioni. Ma se alla fine la platea non ti applaude...»
Insomma, questo film l'ha trasformata in star...
«Non scherziamo, per diventare un divo ci vuole altro... No, non mi illudo. Pensare "è fatta" alla mia età sarebbe sciocco. Non lo dico per modestia, non lo sono. Conosco il mio valore ma non intendo certo cambiar vita ora. Ma se le lodi per il film di Bellocchio mi porteranno altre buone occasioni, al cinema o in scena, non mi tirerò indietro».
Domani intanto torna in teatro, a Benevento debutterà con un «Otello» molto particolare...
«Infatti si intitola "ExOtello", da "Otello". Un esperimento drammaturgico che avevo già tentato con un "ExAmleto". Grandi ruoli che non ho mai potuto interpretare. L'amoroso, colui che seduce le donne, non sono io. Come Otello non sarei credibile, la mia faccia mi condanna a Iago. Ma come Iago posso ripercorre tutta la storia, evocare i fantasmi degli altri personaggi, Otello, Desdemona... Alla fine del dramma Shakespeare lo condanna a una "lunga tortura che non uccide", a rivivere in eterno il suo tormento. E allora, da dentro un carcere foderato di specchi che lo costringono ad aversi sempre davanti, ecco che quell'artefice del male, ormai vecchio, ricostruisce i complessi meccanismi che l'hanno portato, tra odio e amore, a tanto misfatto».
Da un carcere all'altro, da quello di Aldo Moro a quello di Iago...
«E prima ce n'è stato un terzo. In un testo di Claudio Magris, "La Mostra", avevo impersonato il pittore triestino Vito Timmel, finito in manicomio. In fondo, a fare il prigioniero mi sento a mio agio. Lo sono anch'io del mio lavoro, una passione totale e totalizzante. Questo mestiere non sarebbe sopportabile altrimenti».
Ha avuto paura a calarsi nei panni difficili di Moro?
«Ne ho sentito tutto il peso. Per fortuna al mio fianco avevo Bellocchio. E' stato un lungo lavoro di sottrazione, che mi ha fatto anche ripensare alla nostra storia. Quello statista, allora così criticato, quegli altri suoi colleghi che appaiono alla fine, visti oggi, a confronto con l'attuale classe politica, sembrano dei giganti. Moro aveva un altissimo senso dello stato».
Lei ha avuto altre avventure cinematografiche. E a sorpresa, tra i suoi film, ce n' è anche uno a luci quasi rosse...
«Già, Il corpo dell'anima . Qualcuno l'ha visto così, ma era un film d'autore, di Piscicelli. Sono felicissimo d'averlo fatto, un'occasione rara per uno come me. C'era molta ironia in quell'anziano professore, studioso di Santa Teresa d'Avila che si lascia iniziare al sesso da una disinibita domestica. E poi da allora, nel mio quartiere hanno cominciato a guardarmi con occhi diversi».
Nelle sfide lei non si tira mai indietro?
«Anzi, mi divertono molto. Tra un po' diventerò donna. Anzi madre. Una novantenne, nazista incallita, vampira verso la figlia che, inorridita, se la ritrova davanti dopo anni. Un testo tratto da "Lasciami andare, madre" di Helga Schneider, la regia sarà della Wertmuller. Eh sì, il teatro come la vita è sempre pieno di sorprese».
Repubblica 14.9.03
Herlitzka stasera a Benevento
"Per Bellocchio Monicelli poteva pensare all´ex aequo
di Giulio Baffi
NAPOLI - «Se ripenso al film di Bellocchio mi convinco che in teatro si agisce su tragedie fantastiche, immaginarie, su personaggi inventati su cui si può anche scherzare, quando invece l´eroe tragico è vero non ci possono essere licenze, invenzioni o tradimenti». Roberto Herlitzka, autore e protagonista, stasera mette in scena in prima nazionale a Benevento Città Spettacolo, il suo ExOtello, affidando a Jago riflessioni e rimorsi.
Soddisfatto della sua partecipazione a Buongiorno, notte?
«Un´esperienza molto bella, ho sentito profondamente questa tragedia che a suo tempo mi aveva colpito moltissimo e certo l´emozione che provai allora mi è servita, ma la guida di Bellocchio è stata fondamentale, direi ispiratrice».
Eppure il film non è stato apprezzato come si pensava.
«Perché? Mi sembra sia un film amatissimo, a giudicare almeno dall´entusiasmo del pubblico, non solo di Venezia ma anche a Roma e in altre città. Una risposta assolutamente eccezionale. È raro che un film oggi scateni questo entusiasmo. Certo c´è stata la delusione di Venezia, e c´è poco da dire. Il film non è andato bene a Monicelli, ma tutti hanno diritto ad avere le proprie idee».
Le è sembrato ci fosse una forzatura?
«Assolutamente sì. Si potevano premiare entrambi i film; esistono gli ex-aequo naturalmente, esistono premi prestigiosi che potevano essere assegnati. Invece ne è uscita fuori una scortesia, un premio modesto accompagnato dalla dichiarazione di Monicelli che ha detto che il film non meritava neanche quel piccolo riconoscimento. È evidente che a Venezia c´era un´antipatia nei confronti del film».
Il pubblico invece...
«I giovani che l´hanno visto a Venezia hanno dato ben tre premi a Bellocchio. Questo significa che ha saputo parlare anche a una generazione che non ha vissuto quei giorni tanto tragici».
Seleziona le scelte artistiche tanto al cinema quanto a teatro?
«Sono nato e anche un po´ cresciuto come attore di teatro, il cinema mi piace enormemente, ne ho fatto saltuariamente però, e in film di non grande circuito. Ma che devo fare? Non mi chiamano. Non dico che accetterei qualunque cosa, ma non ho avuto molte occasioni di rifiutare film di grande richiamo».
Dopo il successo di Buongiorno, notte magari sarà più richiesto.
«Magari, ma devono sbrigarsi: non sono mica un giovane attore».
E il teatro?
«Anche lì sono anomalo. Non che io mi senta discriminato, ma è un fatto che sono stato molto più presente con compagnie di teatro off. Tutto sommato la mia storia non è poi così diversa nei due campi. Sarà anche per la disponibilità a avventure teatrali che altri snobberebbero. Non ho avuto però grandi offerte dai teatri ufficiali c´è voluto Peter Sein con Zio Vania o lo Stabile di Trieste diretto da Calenda».
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