Repubblica 25.6.05
Intervista. Da Socrate a Nabokov lungo il cammino segreto che ha posto al centro la conturbante figura della ninfa
La storia della possessione erotica e di una maniera di avvicinarsi alla conoscenza raccontate in un libro
Viviamo in un'epoca dove la profusione delle immagini esterne ostacola quelle mentali
I greci riconoscevano che la nostra vita mentale è abitata da potenze che sfuggono a ogni controllo
La cristianità non ha avuto solo san Tommaso ma anche Meister Eckhart tra i suoi grandi pensatori
L'Incipit a Parigi è una grande città, nel senso in cui Londra e New York
Antonio Gnoli
MILANO. A volte si ha l'impressione che Roberto Calasso sia il prolungamento dei libri che legge, studia e ama. È il puro strumento attraverso cui essi generano altre storie, altre idee, altre avventure. Nelle pagine di questo scrittore tutto appare mosso e lieve, come una luce tremula che si alza dall'acqua delle grandi civiltà. Si è immerso in quella greca e indiana. Ha navigato nello spazio della modernità: intravisto terre dal paesaggio tormentato. E ogni volta è come se ricominciasse da capo. Il suo nuovo libro, una raccolta di saggi che ben lo rappresenta (incursioni nella letteratura, nel cinema, nella filosofia), è una silloge di gusti personali, curiosità, interessi. Ma ogni saggio, verrebbe da dire, è il gradino di un'unica scala, al cui vertice c'è un´idea di conoscenza che l'Occidente ha solo in minima parte frequentato, preferendo rimuovere la parte più enigmatica, quella nata dalle immagini. Il libro non a caso si intitola La follia che viene dalle Ninfe (Adelphi).
Lei sa quanto il tema delle Ninfe nel Novecento abbia affascinato personaggi come Warburg e Nabokov. E mi sembra significativo che a queste figure lei dedichi più che un riconoscimento.
«Nabokov, con la sua perversa ironia, si è ben guardato in Lolita dal rendere esplicito il tema, che però illumina il libro. Era una delle tante vie segrete che lasciava al buon lettore. Quanto a Warburg, la Ninfa - come si vede dalla corrispondenza con André Jolles - attraversa tutta la sua vita. Fino all'estremo ha voluto testimoniare il potere di quella immagine».
Lo subiva?
«Ne era posseduto».
Come fa un'immagine a possederci?
«È il potere che hanno i simulacri, anche quando vengono disconosciuti».
Platone nella Repubblica li condanna.
«È vero. Ma in altre opere Platone si riconosce nel simulacro. Nel Fedro soprattutto, dove sembra quasi voler chiedere scusa alla mitologia».
E lei sta dalla parte della Repubblica o del Fedro?
«Dalla parte del Fedro. I simulacri sono la via regale alla conoscenza. Una delle debolezze fondamentali di tutto quello che accade da qualche secolo (o millennio?) a questa parte risiede nel tentativo di arginare, deprezzare, disprezzare le immagini. Non riconoscendo la potenza che hanno. Oggi viviamo in un'epoca dove la profusione delle immagini esterne ostacola e spesso blocca la percezione delle immagini che ci accompagnano in ogni momento: le immagini mentali».
Lei sostiene che per i greci la possessione fu innanzitutto una forma primaria della conoscenza. Cosa intende dire?
«I greci riconoscevano che la nostra vita mentale è abitata da potenze che la sovrastano e sfuggono a ogni controllo»
Ma a un certo punto l´Occidente ha scelto un altro modo di conoscere: all´essere posseduto ha preferito il possedere.
«È un lungo processo, dove un passo simbolicamente decisivo viene compiuto da Cartesio. Non tanto con il Discorso sul metodo quanto con le Regulae ad directionem ingenii, dove teorizza che esiste solo ciò che viene imbrigliato nella procedura dell'enumerazione, quindi in una procedura di controllo gravida di conseguenze, a tutti i livelli: epistemologico, sociale, politico».
In altre parole, si esclude tutto ciò che non è riducibile al calcolo scientifico?
«Tutto quanto resta fuori dall'enumerazione viene trattato come fenomeno insignificante o patologico. Non a caso per il mondo moderno la possessione è solo un'esperienza di poveretti che vanno internati. Ma i greci non erano degli illusi. Sapevano benissimo quanto la possessione fosse pericolosa e quanto il "delirio divino" fosse diverso da quello degli psicopatici».
Cè differenza tra possessione, delirio e follia?
«Tutto parte dalla stessa parola, che è mania. I greci nel loro lessico distinguevano molto bene tra i vari tipi di possessione. Ma la cosa decisiva per capire il loro mondo è notare la preminenza che hanno attribuito alla possessione erotica. E qui appare la Ninfa - e con essa un dettaglio fondamentale che spesso viene trascurato: la possessione non investe soltanto gli uomini, i quali soggiacciono a varie passioni, ma agisce innanzitutto sugli dèi».
Parlare di possessione in qualche modo significa far riferimento a Dioniso. Ma la cultura greca ha conosciuto anche Apollo, ovvero l'esatto opposto.
«È stato Nietzsche, con un colpo di genio, a isolare questa polarità. Ma, nel santuario di Delfi, Apollo e Dioniso condividevano la conoscenza attraverso la possessione. L'unità greca non è data né da Atene né da Sparta, ma da Delfi. È il punto magnetico a cui si riferisce tutta la storia greca».
Ma una conoscenza che scaturisce dalla possessione che cosa è?
«La chiamerei conoscenza metamorfica, dove il rapporto che il soggetto ha con l'oggetto non è di rappresentazione ma di commistione. Ed è una via incompatibile con l'altra, che da Cartesio in poi ha segnato il corso del conoscere in Occidente».
Però già nel mondo greco c'era una via misterica e una razionale alla conoscenza.
«C'è una lotta antichissima fra le due conoscenze. Riassumibile nel dissidio fra filosofia e poesia di cui parla Platone nella Repubblica. Il mondo greco è pieno di resistenze e di attacchi agli dèi, alle immagini, alle passioni. Ma fino all'ultimo quel mondo difenderà la via misterica alla conoscenza. Le Dionisiache di Nonno sono l'ultimo, immenso poema epico in cui si ritrova integra questa maniera di conoscere».
Non ritiene che questo tipo di conoscenza sia oggi pericolosamente esposta a cadute e manipolazioni piuttosto discutibili?
«A che cosa pensa?».
Come lei sa il fenomeno della possessione tornò di moda nell'Ottocento con l'occultismo. Ma anche la proliferazione di ex voto nell'ambito del cattolicesimo fu un modo di legare in senso basso e popolare l'immagine al miracolo e alla guarigione.
«L'immagine è un'ordalia, una prova attraverso la quale si può passare o sviluppando un pensiero che sia all'altezza dell'oggetto o altrimenti restandone sopraffatti. Quanto all'occultismo, c'è sempre stato. In senso moderno, il contagio dei tavolini che ballano ha inizio nel 1848. Pochi fanno caso alle date di questa voga, che dall'Inghilterra e dalla Francia dilaga poi negli Stati Uniti: allo scuotimento generale corrisponde uno scuotimento psichico».
E le immagini che il cattolicesimo ha prodotto?
«Fino a un certo punto sono state all'altezza della sua storia. Ma il rapporto che oggi la Chiesa ha con esse è il segno più evidente della sua debolezza dottrinale. Le immagini che la cristianità ha sviluppato nel ventesimo secolo non reggono, quasi senza eccezione, alla prova estetica. È un fallimento che si può constatare entrando in una qualunque chiesa degli ultimi cento anni. Nessuna riesce a presentarsi come supporto adeguato della liturgia, che è fatta di immagini».
Lei come spiega questa involuzione?
«Non c´è più un pensiero in grado di sostenere la liturgia».
Ma il pensiero cattolico è stato un pensiero legato alla metafisica. È andato in direzione opposta al pensiero metamorfico.
«La cristianità non ha avuto solo san Tommaso ma anche Meister Eckhart, uno dei grandi pensatori dell'immagine».
Fu uno dei grandi pensatori della mistica.
«Ma una mistica non effusiva, non sentimentale. Eckhart fu innanzitutto un grande metafisico. Un pensatore che costruì un edificio di pensiero».
Perché nell'uso che lei fa della parola metafisica non tiene conto della condanna che a più riprese essa ha subito, a partire da Heidegger?
«Ormai c'è una fila troppo lunga di quelli che pretendono di parlare al di fuori della metafisica. Mi ricordano Berlinguer quando parlava di "fuoruscita" dal capitalismo. Quando dico metafisica intendo qualsiasi discorso che dia un nome preciso a ciò che è. E questo non avviene necessariamente in forme riconducibili ai trattati filosofici».
Il pensiero non si esaurisce nella filosofia?
«Certamente non si esaurisce in quella forma trattatistica che ha trovato in Kant la sua espressione suprema».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
sabato 25 giugno 2005
Radetsky si allarga...
Bertinotti: la Chiesa torna all’integralismo
La Stampa 25 Giugno 2005
HA DETTATO LEGGE
di Riccardo Barenghi
IL Papa non si è presentato ieri al Quirinale «solo» come un Papa, ossia il capo della Chiesa cattolica nonché dello Stato pontificio in visita ufficiale in Italia. Ma ha voluto incarnare – e lo ha dimostrato con decisione nel suo discorso – i panni di un leader politico, anzi del leader di un grande partito che ha appena vinto l’ultima consultazione elettorale. Se Stalin potesse ripetere oggi la sua battuta su «quante armate ha il Papa», lui gli potrebbe rispondere che c’è poco da scherzare, ne ha parecchie. Più di 40 milioni di persone, il 75 per cento degli italiani maggiorenni. Quelli cioè che si sono astenuti nel referendum sulla fecondazione assistita e che lui arruola, militarizza e alla cui testa si mette, sfidando i laici («la laicità sana»).
Ovviamente non è così, non tutti questi (non) elettori sono fedeli o seguaci di Ratzinger e Ruini. Anzi, probabilmente la maggior parte di loro si è astenuta non perché così gli avevano raccomandato di fare in parrocchia, ma per mille altre ragioni. Però non possono parlare, al loro posto parla il risultato che hanno prodotto. Interpretabile, naturalmente, ma inequivocabile se visto con gli occhi, la mente, e le intenzioni dell’attuale Pontefice. Il quale sa benissimo che questi milioni di astenuti non la pensano tutti e in tutto come lui, ma sa altrettanto bene che il segnale va colto al volo. E immediatamente rilanciato, portato all’incasso. Così si comportano i dirigenti della politica, così si è comportato ieri il Papa che dirigente politico non dovrebbe essere per statuto.
Si può obiettare che Ratzinger si sia semplicemente limitato a sottolineare per l’ennesima volta quali sono i valori fondamentali della sua dottrina. L’obiezione però è respinta dallo stesso Benedetto XVI. Il quale, dopo aver elencato le tre questioni che preoccupano di più la Chiesa – la tutela della famiglia fondata sul matrimonio (cioè no alle unioni di fatto, tantomeno gay), la difesa della vita fin dal concepimento (cioè no all’aborto), la scuola privata libera (cioè senza oneri per i fedeli e viceversa per lo Stato) – si è rivolto direttamente ai «legislatori italiani». Confidando che «nella loro saggezza sappiano dare ai problemi ora ricordati soluzioni umane, rispettose cioè dei valori inviolabili che sono in essi implicati».
Qui il Papa non ha solo espresso la sua opinione, non ha nemmeno semplicemente rimarcato i fondamenti etici della sua religione, e neanche si è «normalmente» ingerito negli affari italiani come tante volte hanno fatto nella storia i suoi predecessori e collaboratori (e lui stesso). Ha fatto qualcosa di più, ha letteralmente dettato la legge.
La Stampa 25 Giugno 2005
IL NO A NOZZE GAY, ABORTO E RICERCA SUGLI EMBRIONI
Le parole di Ratzinger sorprendono il Colle
Davanti al Capo dello Stato ha tracciato una linea netta
ROMA. VI sono eventi preparati fin nei minimi dettagli, che pur svolgendosi, almeno in apparenza, esattamente come previsto, finiscono, come per mistero, per assumere un significato diverso da quello che ci si aspettava. Così è stato per la visita di Stato che ieri Benedetto XVI ha compiuto al Quirinale. Per esempio, il discorso che il Papa ha pronunciato a fine cerimonia nel salone dei Corazzieri era già noto fin dalla mattinata ai consiglieri del Quirinale, che lo avevano gentilmente ricevuto in lieve anticipo dalla segreteria del pontefice. Eppure, mentre Benedetto XVI scandiva con precisione le parole con il tono di voce calmo e gentile, con gli occhi sorridenti e senza scomporsi in un gesto, Carlo Azeglio Ciampi appariva sempre più in imbarazzo. Così come molti dei politici che erano di fronte a lui tradivano sempre più l'impressione di trovarsi di fronte non un mite, sia pur rigoroso, teologo, ma l'incarnazione del «papa victor», l'uomo che, a pochi giorni dall'ultimo voto referendario, aveva ordinato ai cattolici di «astenersi dal fare tutto ciò che non piace a Dio», travolgendo le scomposte schiere laico-illuministe. E adesso, dopo aver ricevuto da Ciampi un'annunciata e ovvia rivendicazione di laicità dello Stato italiano assieme, però, al riconoscimento dell'identità cattolica dell'Europa e a tante altre buone parole, il Papa, con quella che Erasmo da Rotterdam avrebbe chiamato «suavis clericorum malitia» (la soave malizia dei preti), stava tracciando una linea netta sul pavimento di marmo del salone. Tutti la potevano vedere. E la sorpresa era piuttosto palpabile.
Ciampi aveva dato tutte le disposizioni possibili perché la visita di Benedetto XVI, la sua prima all'estero, la prima al Quirinale, si svolgesse in modo perfetto. La regia dei saluti istituzionali al Papa, appena varcato il «confine», da parte del vicepresidente del consiglio e poi del sindaco di Roma sotto il Campidoglio. La scorta dei corazzieri in pompa magna fino a piazza Venezia e poi, di lì al Quirinale, di un plotone di trentadue uomini a cavallo. E poi gli staffieri in livrea cremisi e polpe blu scuro. Sui pennoni del torrino, in fondo al cortile delle cerimonie, il vessillo bianco-giallo garriva assieme al tricolore e alle stelle disegnate da Arsene Heitz per la bandiera dell'Unione europea.
Ciampi, mentre aspettava la Mercedes scoperta con targa SCV1 su un tappeto ai bordi del cortile, pregustava il lungo momento in cui avrebbe potuto guidare il suo nuovo amico attraverso il labirinto di corridoi del Quirinale, mostrandogli questa e quest'altra bellezza. E' quindi rimasto un po' sorpreso, quando, dopo aver gentilmente segnalato al Papa molte opere lasciate dai pontefici, si è sentito chiedere davanti a due arazzi: «Anche questi?». Il consigliere culturale Luigi Godart, con un sussulto quasi ghibellino, ha chiuso l'argomento: «No, sono arrivati dopo il 1870». Ciampi aveva anche pensato a dove buttare la conversazione privata: avrebbe parlato della guerra, cercando di stimolare ricordi comuni (come poi è stato: si ricordava il Papa quella domenica del giugno 1941...? Se la ricordava.) e poi dell'Europa, dei giovani e della pace.
Avrebbe dovuto essere l'ultima visita di Giovanni Paolo II, del Papa amico, ma Ciampi, cattolico, era contento di poter stringere subito i rapporti con un uomo che, appena eletto, lo aveva ricevuto molto cordialmente in Vaticano, pur facendogli fare sette minuti di anticamera. Ma poi papa Ratzinger era stato gentilissimo anche con donna Franca, confermando la sua fama di uomo dolce. Ciampi, come Humphrey Bogart in Casablanca, pensava «all'inizio di una grande amicizia». E così, per evitare malintesi o improvvisi incidenti, aveva informato il Vaticano che il suo discorso avrebbe contenuto una peraltro doverosa rivendicazione di laicità dello Stato italiano. L'«orgogliosa» rivendicazione era un atto dovuto per un presidente di fronte a un Papa, soprattutto dopo le recenti polemiche suscitate dalle prese di posizione del cardinale Camillo Ruini. Ma non avrebbe significato niente più di questo. In compenso il presidente avrebbe sottolineato l'eccellenza, l'esemplarità dei rapporti tra Repubblica italiana e Santa sede. E avrebbe offerto a Benedetto XVI, papa europeo che vuole incidere sull'Europa, quell'atteso riconoscimento: «Il patrimonio cristiano e umanistico della civiltà italiana è un elemento unificante della identità europea». Il Papa poteva essere certo che, se fosse dipeso da Ciampi, la costituzione europea avrebbe contenuto un riferimento alle radici cristiane.
Ciampi, insomma, aveva preparato per Joseph Ratzinger un'accoglienza in guanti bianchi e si aspettava, probabilmente, di essere ricambiato con un alato discorso sui massimi problemi dell'umanità. Invece il Papa si era preparato una risposta che, in termini calcistici, potrebbe essere quasi definita come un'entrata con i piedi a martello. Lui era venuto al Quirinale per annunciare che rivendicava la libertà di continuare a battersi contro le unioni tra omosessuali, contro la ricerca sugli embrioni, contro l'aborto e a favore di maggiori finanziamenti alle scuole cattoliche. Lo ha fatto parlando con la voce dolce di un maestro prealpino e indossando quelle scarpe rosse da fatina, senza rivendicare orgogli, ma duro come una spada. Tutto è andato bene, quindi. Ma non si può dire che sia proprio andata come nelle previsioni.
La Stampa 25 Giugno 2005
IL SEGRETARIO DI RIFONDAZIONE COMUNISTA: «E’ IN GIOCO LA LAICITÀ»
intervista
Bertinotti: la Chiesa torna all’integralismo
«Mi colpisce nell’intervento di Benedetto XVI l’insistenza su un punto:
l’influenza vaticana sulla costruzione e l’esercizio dei poteri statuali»
Fabio Martini
ROMA. ONOREVOLE Bertinotti, lei comunista e ateo ma sensibile a quel che si muove nella Chiesa, non pensa che sia oramai palpabile un cambio di approccio tra Ratzinger e Wojtyla?
«Difficile rispondere. Da un lato pesa la vicinanza e collaborazione che c’è stata tra i due ma anche la “divisione del lavoro” e gli stessi profili appaiono molto distinti. Ma siamo ai primi passi di un pontificato e mi sembrerebbe arbitrario rilevare differenze, giudizi che richiedono un passo lungo».
Sarà presto ma quel poco non è già eloquente?
«Di primissimo acchito si può notare come il pontificato di Giovanni Paolo II abbia guardato prevalentemente al mondo anche quando è intervenuto sui principii della fede, mentre ora c’è una ripresa di attenzione all’Italia».
Dal Quirinale, cuore dello Stato italiano, al presidente Ciampi che indicava le cose che si possono fare assieme, papa Ratzinger ha spiegato quel che sta a cuore alla Chiesa...
«E’ vero, ora la Chiesa chiede allo Stato. In questo senso vedo affievolirsi lo spirito conciliare che si esprimeva nella formula “camminare insieme” “uomini e donne di buona volontà”. Quel mettere l’accento su una categoria, il popolo, che fu uno scandalo fruttuoso».
Cosa vuole la “nuova” Chiesa di papa Ratzinger?
«Quello che mi colpisce nel discorso è la torsione attraverso la quale si insiste su un punto: l’influenza della Chiesa sulla costruzione e l’esercizio dei poteri statuali. Una martellante istanza di condizionamento da parte della religione cattolica sulla realtà temporale».
Una vocazione allo Stato etico?
«No. La mia critica al pontefice è molto forte ma io parlo di condizionamento, non del proporsi una dipendenza».
Durante il referendum i vescovi hanno fatto legittimamente sentire la propria voce...
«Dalla vicenda del referendum, il Papa ricava una lezione generale: riconosce che le realtà temporali si reggono con “norme loro proprie” ma senza escludere riferimenti etici che trovano il fondamento ultimo nella religione. Una formula raffinata che sembra mettere in discussione un principio per me fondamentale: Stato e la politica devono avere un fondamento autonomo che li rendono capaci di legiferare e di legittimare il potere temporale».
Una disquisizione sottile per dire che per lei è in gioco un valore essenziale dello Stato moderno?
«Io penso che questo approccio possa corrodere le fondamenta stesse dell’idea laica dello Stato».
Laico è diventato un termine così vago che lo utilizzano tutti, non le pare?
«E’ vero, ma in Italia la laicità si esprime in un corpo di norme, di riferimenti etici che formano la Costituzione, fondamento dell’autonomia laica dello Stato».
Nel testo del discorso pontificio si assegna all’Italia la missione di diffondere le radici cristiane in Europa e nel “sottotesto” è come se fosse scritto: l’Italia sia l’anti-Spagna...
«Quel che non c’è non glielo attribuirei ma quel che c’è sì. C’è una esortazione all’Italia come luogo privilegiato per l’estensione delle radici cristiane».
Quelle radici sono incontestabili, o no?
«Certo. Ma vorrei che fossero messe egualmente in valore le radici che vengono dal mondo classico, le radici giudaiche, le altre esperienze religiose che hanno attraversato il Mediterraneo come l’Islam. Le cento città. Il Rinascimento, l’illuminismo francese, il grande contributo del movimento operaio. Il letto su cui scorre la vita quotidiana italiana non si può ridurre tutto ad una sola fonte: questa è un’operazione intregralista che rischia di dividere, laddove c’è bisogno di unire nella costruzione di una cultura condivisa di un popolo».
In passato, nel “catalogo” di Wojtyla o dello stesso Ruini, c’erano tanti valori ai quali potevano appellarsi conservatori o progressisti - vita ma anche pace, scuola privata ma anche critica del mercato - mentre papa Ratzinger non le sembra che abbia “stretto”?
«Sulla scuola bisognerà aspettare se e quando il Papa vorrà sviluppare questo discorso, ma sembra un ragionamento che guarda alla scuola confessionale, ma quel che è già netto è una richiesta della tutela fondata sul matrimonio che, essendo già salvaguardata nella Costituzione italiana, sembra essere uno sbarramento verso il riconoscimento di altri unioni. E la preoccupazione sulla vita umana sembra rinviare ad una critica alla legge sull’aborto».
Il Messaggero Sabato 25 Giugno 2005
L’appello per gli istituti privati crea disagio
Ciampi ha sempre difeso l’istruzione pubblica.
ROMA - (...)
quando il Pontefice e il capo dello Stato si sono trasferiti nel Salone delle Feste del Quirinale per i discorsi ufficiali l’atmosfera era pacata, serena. Il suo intervento Ciampi l’aveva scritto personalmente. Le ultime correzioni le aveva apportate ieri mattina insieme al segretario generale del Quirinale, Gifuni. Carlo Azeglio Ciampi era concentrato. Sapeva che l’appuntamento era di quelli che segnano la storia di un settennato. Anche perché era la prima volta che il successore di papa Wojtyla si presentava al cospetto di un capo di Stato straniero.
Quindi le parole sono state accuratamente calibrate, i concetti passati al setaccio per evitare qualsiasi possibile malinteso sul significato che non da oggi lo stesso Ciampi attribuisce alla doverosa laicità certo non al laicismo, dello Stato italiano.
Non hanno destato eccessiva sorpresa ed erano perfettamente legittimi - nella risposta di papa Benedetto XVI - i meticolosi e precisi richiami alle preoccupazioni che accompagnano questo inizio di pontificato: a cominciare dal problema della famiglia fondata sul matrimonio e a quello della difesa della vita «dal suo concepimento fino al suo termine naturale».
Quel che, in qualche modo, ha creato un certo disagio è stato il riferimento papale alla scuola privata con l’appello perché i genitori possano decidere liberamente l’istruzione dei loro figli senza l’onere di ulteriori gravami. Su questo punto, Ciampi non ha detto alcunché.
Ma la posizione del Quirinale è chiara ed è stata espressa in più occasione, soprattutto in occasione dei discorsi al Vittoriano per l’apertura dell’anno scolastico.
La difesa del «sistema scolastico nazionale» è sempre stata decisa e netta perché «esso ha contribuito più di ogni altro alla costruzione di una patria unita, all’educazione di cittadini consapevoli». Dunque: resta un impegno prioritario e non si tocca.
P. Ca.
La Stampa 25 Giugno 2005
LE REAZIONI AL MESSAGGIO DEL PONTEFICE: APPLAUSI DEL CENTRODESTRA, MOLTI DISTINGUO NEL CENTROSINISTRA
Berlusconi: totale accordo con Benedetto XVI
Prodi: l’Unione ha posizioni diverse
Andrea di Robilant
ROMA. Il discorso «interventista» pronunciato al Quirinale da Benedetto XVI ha ricevuto il plauso convinto di tutto il centro destra, a cominciare da Silvio Berlusconi, mentre nel centro sinistra le reazioni sono state più modulate, con molti distinguo e qualche critica nemmeno tanto velata.
Il passaggio indubbiamente più controverso è stato quello in cui il Pontefice ha ribadito con vigore che la Chiesa rimane fortemente impegnata in difesa della vita «sin dal suo concepimento», della famiglia fondata sul matrimonio e della scuola privata cattolica.
Berlusconi, fermandosi a parlare con i giornalisti nel cortile d’onore del Quirinale dopo la partenza del Pontefice, nell’esaltare «la coerenza assoluta» di Benedetto XVI, ha dichiarato di essere «personalmente in totale accordo» con la posizione della Chiesa sulla difesa della vita sin dal suo concepimento.
Anche per Romano Prodi, «la difesa della vita» deve rimanere la nostra «stella polare» nel momento in cui ci troviamo di fronte a dilemmi nuovi che toccano la vita e la morte. Ma il leader del centro sinistra ha riconosciuto, in una sua intervista a Radio vaticana, di essere alla guida di una schieramento con posizioni diverse su questo delicatissimo argomento. E così, anche per non lasciare il campo interamente agli avversari, ha tenuto a ricordare che quando era al governo si adoperò «per mettere risorse a disposizione della scuola privata» - uno sforzo che va «indubbiamente portato avanti».
Ma è sull’argomento delle radici cristiane dell’Europa - annosa questione sulla quale il Papa è tornato anche ieri - che Prodi si è voluto soffermare, assicurando agli ascoltatori di aver partecipato «con tanta passione e tanto a lungo» al tentativo poi fallito di inserire un accenno alle radici cristiane nella travagliatissima Costituzione europea.
«Non è stato possibile solo per la tradizione passata di alcuni Stati - ha spiegato - ma io credo che una grande maggioranza di cittadini aderivano completamente a quel principio».
Nel centro destra il messaggio di Benedetto XVI ha ricevuto un’adesione univoca. «E’ possibile una laicità dello Stato agganciata a valori morali che hanno fondamento nella religione», ha detto Rocco Buttiglione, ministro per i Beni culturali. «E il Papa ha anche indicato le aree nelle quali sono in gioco valori essenziali per la persona umana, che sono oggetto della cura della Chiesa ma anche dello Stato».
Per il presidente della Camera Pier Ferdinando Casini le parole del Papa non sono soltanto uno stimolo ma «un indirizzo concreto per quanti sono impegnati nella vita pubblica».
E Gianni Alemanno, ministro per le Politiche agricole e leader emergente di Alleanza nazionale, è stato ancora più esplicito, appoggiando il richiamo del Papa «alle risposte che tutte le istituzioni devono dare alla presenza dei valori cattolici nello Stato italiano».
Per non criticare apertamente il Pontefice, molti esponenti del centro sinistra, tra cui Vannino Chiti, coordinatore della segreteria dei Ds, hanno preferito elogiare le parole di Carlo Azeglio Ciampi sulla laicità dello Stato. La Voce repubblicana, organo del Pri, ha «particolarmente apprezzato le parole severe e rigorose del Capo dello Stato». E il presidente dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio ha elogiato «l’alto spessore» del discorso di Ciampi.
Ma Daniele Capezzone, segretario dei Radicali, ha messo in guardia: «Papa Ratzinger è già pronto con la Cei alla prossima campagna elettorale, e rivendica di esserne attore». E c’è chi, come Maura Cossutta dei Comunisti italiani e Fabio Mussi del Correntone diessino, ha trovato fuori luogo l’espressione «sana laicità» usata dal Papa. «La laicità è un concetto nitido che non ha bisogno di aggettivi», ha spiegato Mussi.
HA DETTATO LEGGE
di Riccardo Barenghi
IL Papa non si è presentato ieri al Quirinale «solo» come un Papa, ossia il capo della Chiesa cattolica nonché dello Stato pontificio in visita ufficiale in Italia. Ma ha voluto incarnare – e lo ha dimostrato con decisione nel suo discorso – i panni di un leader politico, anzi del leader di un grande partito che ha appena vinto l’ultima consultazione elettorale. Se Stalin potesse ripetere oggi la sua battuta su «quante armate ha il Papa», lui gli potrebbe rispondere che c’è poco da scherzare, ne ha parecchie. Più di 40 milioni di persone, il 75 per cento degli italiani maggiorenni. Quelli cioè che si sono astenuti nel referendum sulla fecondazione assistita e che lui arruola, militarizza e alla cui testa si mette, sfidando i laici («la laicità sana»).
Ovviamente non è così, non tutti questi (non) elettori sono fedeli o seguaci di Ratzinger e Ruini. Anzi, probabilmente la maggior parte di loro si è astenuta non perché così gli avevano raccomandato di fare in parrocchia, ma per mille altre ragioni. Però non possono parlare, al loro posto parla il risultato che hanno prodotto. Interpretabile, naturalmente, ma inequivocabile se visto con gli occhi, la mente, e le intenzioni dell’attuale Pontefice. Il quale sa benissimo che questi milioni di astenuti non la pensano tutti e in tutto come lui, ma sa altrettanto bene che il segnale va colto al volo. E immediatamente rilanciato, portato all’incasso. Così si comportano i dirigenti della politica, così si è comportato ieri il Papa che dirigente politico non dovrebbe essere per statuto.
Si può obiettare che Ratzinger si sia semplicemente limitato a sottolineare per l’ennesima volta quali sono i valori fondamentali della sua dottrina. L’obiezione però è respinta dallo stesso Benedetto XVI. Il quale, dopo aver elencato le tre questioni che preoccupano di più la Chiesa – la tutela della famiglia fondata sul matrimonio (cioè no alle unioni di fatto, tantomeno gay), la difesa della vita fin dal concepimento (cioè no all’aborto), la scuola privata libera (cioè senza oneri per i fedeli e viceversa per lo Stato) – si è rivolto direttamente ai «legislatori italiani». Confidando che «nella loro saggezza sappiano dare ai problemi ora ricordati soluzioni umane, rispettose cioè dei valori inviolabili che sono in essi implicati».
Qui il Papa non ha solo espresso la sua opinione, non ha nemmeno semplicemente rimarcato i fondamenti etici della sua religione, e neanche si è «normalmente» ingerito negli affari italiani come tante volte hanno fatto nella storia i suoi predecessori e collaboratori (e lui stesso). Ha fatto qualcosa di più, ha letteralmente dettato la legge.
La Stampa 25 Giugno 2005
IL NO A NOZZE GAY, ABORTO E RICERCA SUGLI EMBRIONI
Le parole di Ratzinger sorprendono il Colle
Davanti al Capo dello Stato ha tracciato una linea netta
ROMA. VI sono eventi preparati fin nei minimi dettagli, che pur svolgendosi, almeno in apparenza, esattamente come previsto, finiscono, come per mistero, per assumere un significato diverso da quello che ci si aspettava. Così è stato per la visita di Stato che ieri Benedetto XVI ha compiuto al Quirinale. Per esempio, il discorso che il Papa ha pronunciato a fine cerimonia nel salone dei Corazzieri era già noto fin dalla mattinata ai consiglieri del Quirinale, che lo avevano gentilmente ricevuto in lieve anticipo dalla segreteria del pontefice. Eppure, mentre Benedetto XVI scandiva con precisione le parole con il tono di voce calmo e gentile, con gli occhi sorridenti e senza scomporsi in un gesto, Carlo Azeglio Ciampi appariva sempre più in imbarazzo. Così come molti dei politici che erano di fronte a lui tradivano sempre più l'impressione di trovarsi di fronte non un mite, sia pur rigoroso, teologo, ma l'incarnazione del «papa victor», l'uomo che, a pochi giorni dall'ultimo voto referendario, aveva ordinato ai cattolici di «astenersi dal fare tutto ciò che non piace a Dio», travolgendo le scomposte schiere laico-illuministe. E adesso, dopo aver ricevuto da Ciampi un'annunciata e ovvia rivendicazione di laicità dello Stato italiano assieme, però, al riconoscimento dell'identità cattolica dell'Europa e a tante altre buone parole, il Papa, con quella che Erasmo da Rotterdam avrebbe chiamato «suavis clericorum malitia» (la soave malizia dei preti), stava tracciando una linea netta sul pavimento di marmo del salone. Tutti la potevano vedere. E la sorpresa era piuttosto palpabile.
Ciampi aveva dato tutte le disposizioni possibili perché la visita di Benedetto XVI, la sua prima all'estero, la prima al Quirinale, si svolgesse in modo perfetto. La regia dei saluti istituzionali al Papa, appena varcato il «confine», da parte del vicepresidente del consiglio e poi del sindaco di Roma sotto il Campidoglio. La scorta dei corazzieri in pompa magna fino a piazza Venezia e poi, di lì al Quirinale, di un plotone di trentadue uomini a cavallo. E poi gli staffieri in livrea cremisi e polpe blu scuro. Sui pennoni del torrino, in fondo al cortile delle cerimonie, il vessillo bianco-giallo garriva assieme al tricolore e alle stelle disegnate da Arsene Heitz per la bandiera dell'Unione europea.
Ciampi, mentre aspettava la Mercedes scoperta con targa SCV1 su un tappeto ai bordi del cortile, pregustava il lungo momento in cui avrebbe potuto guidare il suo nuovo amico attraverso il labirinto di corridoi del Quirinale, mostrandogli questa e quest'altra bellezza. E' quindi rimasto un po' sorpreso, quando, dopo aver gentilmente segnalato al Papa molte opere lasciate dai pontefici, si è sentito chiedere davanti a due arazzi: «Anche questi?». Il consigliere culturale Luigi Godart, con un sussulto quasi ghibellino, ha chiuso l'argomento: «No, sono arrivati dopo il 1870». Ciampi aveva anche pensato a dove buttare la conversazione privata: avrebbe parlato della guerra, cercando di stimolare ricordi comuni (come poi è stato: si ricordava il Papa quella domenica del giugno 1941...? Se la ricordava.) e poi dell'Europa, dei giovani e della pace.
Avrebbe dovuto essere l'ultima visita di Giovanni Paolo II, del Papa amico, ma Ciampi, cattolico, era contento di poter stringere subito i rapporti con un uomo che, appena eletto, lo aveva ricevuto molto cordialmente in Vaticano, pur facendogli fare sette minuti di anticamera. Ma poi papa Ratzinger era stato gentilissimo anche con donna Franca, confermando la sua fama di uomo dolce. Ciampi, come Humphrey Bogart in Casablanca, pensava «all'inizio di una grande amicizia». E così, per evitare malintesi o improvvisi incidenti, aveva informato il Vaticano che il suo discorso avrebbe contenuto una peraltro doverosa rivendicazione di laicità dello Stato italiano. L'«orgogliosa» rivendicazione era un atto dovuto per un presidente di fronte a un Papa, soprattutto dopo le recenti polemiche suscitate dalle prese di posizione del cardinale Camillo Ruini. Ma non avrebbe significato niente più di questo. In compenso il presidente avrebbe sottolineato l'eccellenza, l'esemplarità dei rapporti tra Repubblica italiana e Santa sede. E avrebbe offerto a Benedetto XVI, papa europeo che vuole incidere sull'Europa, quell'atteso riconoscimento: «Il patrimonio cristiano e umanistico della civiltà italiana è un elemento unificante della identità europea». Il Papa poteva essere certo che, se fosse dipeso da Ciampi, la costituzione europea avrebbe contenuto un riferimento alle radici cristiane.
Ciampi, insomma, aveva preparato per Joseph Ratzinger un'accoglienza in guanti bianchi e si aspettava, probabilmente, di essere ricambiato con un alato discorso sui massimi problemi dell'umanità. Invece il Papa si era preparato una risposta che, in termini calcistici, potrebbe essere quasi definita come un'entrata con i piedi a martello. Lui era venuto al Quirinale per annunciare che rivendicava la libertà di continuare a battersi contro le unioni tra omosessuali, contro la ricerca sugli embrioni, contro l'aborto e a favore di maggiori finanziamenti alle scuole cattoliche. Lo ha fatto parlando con la voce dolce di un maestro prealpino e indossando quelle scarpe rosse da fatina, senza rivendicare orgogli, ma duro come una spada. Tutto è andato bene, quindi. Ma non si può dire che sia proprio andata come nelle previsioni.
La Stampa 25 Giugno 2005
IL SEGRETARIO DI RIFONDAZIONE COMUNISTA: «E’ IN GIOCO LA LAICITÀ»
intervista
Bertinotti: la Chiesa torna all’integralismo
«Mi colpisce nell’intervento di Benedetto XVI l’insistenza su un punto:
l’influenza vaticana sulla costruzione e l’esercizio dei poteri statuali»
Fabio Martini
ROMA. ONOREVOLE Bertinotti, lei comunista e ateo ma sensibile a quel che si muove nella Chiesa, non pensa che sia oramai palpabile un cambio di approccio tra Ratzinger e Wojtyla?
«Difficile rispondere. Da un lato pesa la vicinanza e collaborazione che c’è stata tra i due ma anche la “divisione del lavoro” e gli stessi profili appaiono molto distinti. Ma siamo ai primi passi di un pontificato e mi sembrerebbe arbitrario rilevare differenze, giudizi che richiedono un passo lungo».
Sarà presto ma quel poco non è già eloquente?
«Di primissimo acchito si può notare come il pontificato di Giovanni Paolo II abbia guardato prevalentemente al mondo anche quando è intervenuto sui principii della fede, mentre ora c’è una ripresa di attenzione all’Italia».
Dal Quirinale, cuore dello Stato italiano, al presidente Ciampi che indicava le cose che si possono fare assieme, papa Ratzinger ha spiegato quel che sta a cuore alla Chiesa...
«E’ vero, ora la Chiesa chiede allo Stato. In questo senso vedo affievolirsi lo spirito conciliare che si esprimeva nella formula “camminare insieme” “uomini e donne di buona volontà”. Quel mettere l’accento su una categoria, il popolo, che fu uno scandalo fruttuoso».
Cosa vuole la “nuova” Chiesa di papa Ratzinger?
«Quello che mi colpisce nel discorso è la torsione attraverso la quale si insiste su un punto: l’influenza della Chiesa sulla costruzione e l’esercizio dei poteri statuali. Una martellante istanza di condizionamento da parte della religione cattolica sulla realtà temporale».
Una vocazione allo Stato etico?
«No. La mia critica al pontefice è molto forte ma io parlo di condizionamento, non del proporsi una dipendenza».
Durante il referendum i vescovi hanno fatto legittimamente sentire la propria voce...
«Dalla vicenda del referendum, il Papa ricava una lezione generale: riconosce che le realtà temporali si reggono con “norme loro proprie” ma senza escludere riferimenti etici che trovano il fondamento ultimo nella religione. Una formula raffinata che sembra mettere in discussione un principio per me fondamentale: Stato e la politica devono avere un fondamento autonomo che li rendono capaci di legiferare e di legittimare il potere temporale».
Una disquisizione sottile per dire che per lei è in gioco un valore essenziale dello Stato moderno?
«Io penso che questo approccio possa corrodere le fondamenta stesse dell’idea laica dello Stato».
Laico è diventato un termine così vago che lo utilizzano tutti, non le pare?
«E’ vero, ma in Italia la laicità si esprime in un corpo di norme, di riferimenti etici che formano la Costituzione, fondamento dell’autonomia laica dello Stato».
Nel testo del discorso pontificio si assegna all’Italia la missione di diffondere le radici cristiane in Europa e nel “sottotesto” è come se fosse scritto: l’Italia sia l’anti-Spagna...
«Quel che non c’è non glielo attribuirei ma quel che c’è sì. C’è una esortazione all’Italia come luogo privilegiato per l’estensione delle radici cristiane».
Quelle radici sono incontestabili, o no?
«Certo. Ma vorrei che fossero messe egualmente in valore le radici che vengono dal mondo classico, le radici giudaiche, le altre esperienze religiose che hanno attraversato il Mediterraneo come l’Islam. Le cento città. Il Rinascimento, l’illuminismo francese, il grande contributo del movimento operaio. Il letto su cui scorre la vita quotidiana italiana non si può ridurre tutto ad una sola fonte: questa è un’operazione intregralista che rischia di dividere, laddove c’è bisogno di unire nella costruzione di una cultura condivisa di un popolo».
In passato, nel “catalogo” di Wojtyla o dello stesso Ruini, c’erano tanti valori ai quali potevano appellarsi conservatori o progressisti - vita ma anche pace, scuola privata ma anche critica del mercato - mentre papa Ratzinger non le sembra che abbia “stretto”?
«Sulla scuola bisognerà aspettare se e quando il Papa vorrà sviluppare questo discorso, ma sembra un ragionamento che guarda alla scuola confessionale, ma quel che è già netto è una richiesta della tutela fondata sul matrimonio che, essendo già salvaguardata nella Costituzione italiana, sembra essere uno sbarramento verso il riconoscimento di altri unioni. E la preoccupazione sulla vita umana sembra rinviare ad una critica alla legge sull’aborto».
Il Messaggero Sabato 25 Giugno 2005
L’appello per gli istituti privati crea disagio
Ciampi ha sempre difeso l’istruzione pubblica.
ROMA - (...)
quando il Pontefice e il capo dello Stato si sono trasferiti nel Salone delle Feste del Quirinale per i discorsi ufficiali l’atmosfera era pacata, serena. Il suo intervento Ciampi l’aveva scritto personalmente. Le ultime correzioni le aveva apportate ieri mattina insieme al segretario generale del Quirinale, Gifuni. Carlo Azeglio Ciampi era concentrato. Sapeva che l’appuntamento era di quelli che segnano la storia di un settennato. Anche perché era la prima volta che il successore di papa Wojtyla si presentava al cospetto di un capo di Stato straniero.
Quindi le parole sono state accuratamente calibrate, i concetti passati al setaccio per evitare qualsiasi possibile malinteso sul significato che non da oggi lo stesso Ciampi attribuisce alla doverosa laicità certo non al laicismo, dello Stato italiano.
Non hanno destato eccessiva sorpresa ed erano perfettamente legittimi - nella risposta di papa Benedetto XVI - i meticolosi e precisi richiami alle preoccupazioni che accompagnano questo inizio di pontificato: a cominciare dal problema della famiglia fondata sul matrimonio e a quello della difesa della vita «dal suo concepimento fino al suo termine naturale».
Quel che, in qualche modo, ha creato un certo disagio è stato il riferimento papale alla scuola privata con l’appello perché i genitori possano decidere liberamente l’istruzione dei loro figli senza l’onere di ulteriori gravami. Su questo punto, Ciampi non ha detto alcunché.
Ma la posizione del Quirinale è chiara ed è stata espressa in più occasione, soprattutto in occasione dei discorsi al Vittoriano per l’apertura dell’anno scolastico.
La difesa del «sistema scolastico nazionale» è sempre stata decisa e netta perché «esso ha contribuito più di ogni altro alla costruzione di una patria unita, all’educazione di cittadini consapevoli». Dunque: resta un impegno prioritario e non si tocca.
P. Ca.
La Stampa 25 Giugno 2005
LE REAZIONI AL MESSAGGIO DEL PONTEFICE: APPLAUSI DEL CENTRODESTRA, MOLTI DISTINGUO NEL CENTROSINISTRA
Berlusconi: totale accordo con Benedetto XVI
Prodi: l’Unione ha posizioni diverse
Andrea di Robilant
ROMA. Il discorso «interventista» pronunciato al Quirinale da Benedetto XVI ha ricevuto il plauso convinto di tutto il centro destra, a cominciare da Silvio Berlusconi, mentre nel centro sinistra le reazioni sono state più modulate, con molti distinguo e qualche critica nemmeno tanto velata.
Il passaggio indubbiamente più controverso è stato quello in cui il Pontefice ha ribadito con vigore che la Chiesa rimane fortemente impegnata in difesa della vita «sin dal suo concepimento», della famiglia fondata sul matrimonio e della scuola privata cattolica.
Berlusconi, fermandosi a parlare con i giornalisti nel cortile d’onore del Quirinale dopo la partenza del Pontefice, nell’esaltare «la coerenza assoluta» di Benedetto XVI, ha dichiarato di essere «personalmente in totale accordo» con la posizione della Chiesa sulla difesa della vita sin dal suo concepimento.
Anche per Romano Prodi, «la difesa della vita» deve rimanere la nostra «stella polare» nel momento in cui ci troviamo di fronte a dilemmi nuovi che toccano la vita e la morte. Ma il leader del centro sinistra ha riconosciuto, in una sua intervista a Radio vaticana, di essere alla guida di una schieramento con posizioni diverse su questo delicatissimo argomento. E così, anche per non lasciare il campo interamente agli avversari, ha tenuto a ricordare che quando era al governo si adoperò «per mettere risorse a disposizione della scuola privata» - uno sforzo che va «indubbiamente portato avanti».
Ma è sull’argomento delle radici cristiane dell’Europa - annosa questione sulla quale il Papa è tornato anche ieri - che Prodi si è voluto soffermare, assicurando agli ascoltatori di aver partecipato «con tanta passione e tanto a lungo» al tentativo poi fallito di inserire un accenno alle radici cristiane nella travagliatissima Costituzione europea.
«Non è stato possibile solo per la tradizione passata di alcuni Stati - ha spiegato - ma io credo che una grande maggioranza di cittadini aderivano completamente a quel principio».
Nel centro destra il messaggio di Benedetto XVI ha ricevuto un’adesione univoca. «E’ possibile una laicità dello Stato agganciata a valori morali che hanno fondamento nella religione», ha detto Rocco Buttiglione, ministro per i Beni culturali. «E il Papa ha anche indicato le aree nelle quali sono in gioco valori essenziali per la persona umana, che sono oggetto della cura della Chiesa ma anche dello Stato».
Per il presidente della Camera Pier Ferdinando Casini le parole del Papa non sono soltanto uno stimolo ma «un indirizzo concreto per quanti sono impegnati nella vita pubblica».
E Gianni Alemanno, ministro per le Politiche agricole e leader emergente di Alleanza nazionale, è stato ancora più esplicito, appoggiando il richiamo del Papa «alle risposte che tutte le istituzioni devono dare alla presenza dei valori cattolici nello Stato italiano».
Per non criticare apertamente il Pontefice, molti esponenti del centro sinistra, tra cui Vannino Chiti, coordinatore della segreteria dei Ds, hanno preferito elogiare le parole di Carlo Azeglio Ciampi sulla laicità dello Stato. La Voce repubblicana, organo del Pri, ha «particolarmente apprezzato le parole severe e rigorose del Capo dello Stato». E il presidente dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio ha elogiato «l’alto spessore» del discorso di Ciampi.
Ma Daniele Capezzone, segretario dei Radicali, ha messo in guardia: «Papa Ratzinger è già pronto con la Cei alla prossima campagna elettorale, e rivendica di esserne attore». E c’è chi, come Maura Cossutta dei Comunisti italiani e Fabio Mussi del Correntone diessino, ha trovato fuori luogo l’espressione «sana laicità» usata dal Papa. «La laicità è un concetto nitido che non ha bisogno di aggettivi», ha spiegato Mussi.
Le Scienze
bella scoperta davvero...!
La Scienze 25.06.2005
Schizofrenia e agenti esterni
Molti pazienti faticano ad attribuire a se stessi la causa di un evento
Gli individui sani possiedono la capacità di distinguere fra gli eventi che avvengono come risultato delle proprie azioni e quelli causati dalle azioni altrui. Questa capacità sembra essere disturbata in coloro che sperimentano molti tipi di convinzioni errate o di allucinazioni, comprese quelle associate con la schizofrenia. In presenza di queste illusioni, l'informazione sensoriale autoprodotta viene erroneamente percepita come causata da un'influenza esterna.
In uno studio pubblicato sul numero del 21 giugno della rivista "Current Biology", un gruppo di ricercatori guidato da Axel Lindner dell'Hertie Institute for Clinical Brain Research e del California Institute of Technology ha studiato come gli individui sani e i pazienti schizofrenici interpretano il proprio mondo visivo. In particolare, gli scienziati fanno luce sull'associazione fra il disturbo della capacità di attribuire a se stessi le cause di un evento e i sintomi della schizofrenia.
I ricercatori hanno confrontato le capacità dei soggetti di distinguere un moto che avviene nel mondo esterno da quello causato dai movimenti dei propri occhi. In entrambi i casi le immagini passano sulla superficie della retina, ma normalmente il cervello le interpreta in maniera differente a seconda del fatto che la testa e gli occhi restino fermi o meno. Lirdner e colleghi hanno osservato una chiara correlazione fra la forza di alcune allucinazioni sperimentate dai pazienti schizofrenici e la quantità di "movimenti esterni" che questi pazienti percepiscono mentre muovono i propri occhi. Questa correlazione suggerisce che le illusioni della schizofrenia possano dipendere dal malfunzionamento di un meccanismo generale che consente agli individui sani di attribuire correttamente le cause delle esperienze sensoriali.
Schizofrenia e agenti esterni
Molti pazienti faticano ad attribuire a se stessi la causa di un evento
Gli individui sani possiedono la capacità di distinguere fra gli eventi che avvengono come risultato delle proprie azioni e quelli causati dalle azioni altrui. Questa capacità sembra essere disturbata in coloro che sperimentano molti tipi di convinzioni errate o di allucinazioni, comprese quelle associate con la schizofrenia. In presenza di queste illusioni, l'informazione sensoriale autoprodotta viene erroneamente percepita come causata da un'influenza esterna.
In uno studio pubblicato sul numero del 21 giugno della rivista "Current Biology", un gruppo di ricercatori guidato da Axel Lindner dell'Hertie Institute for Clinical Brain Research e del California Institute of Technology ha studiato come gli individui sani e i pazienti schizofrenici interpretano il proprio mondo visivo. In particolare, gli scienziati fanno luce sull'associazione fra il disturbo della capacità di attribuire a se stessi le cause di un evento e i sintomi della schizofrenia.
I ricercatori hanno confrontato le capacità dei soggetti di distinguere un moto che avviene nel mondo esterno da quello causato dai movimenti dei propri occhi. In entrambi i casi le immagini passano sulla superficie della retina, ma normalmente il cervello le interpreta in maniera differente a seconda del fatto che la testa e gli occhi restino fermi o meno. Lirdner e colleghi hanno osservato una chiara correlazione fra la forza di alcune allucinazioni sperimentate dai pazienti schizofrenici e la quantità di "movimenti esterni" che questi pazienti percepiscono mentre muovono i propri occhi. Questa correlazione suggerisce che le illusioni della schizofrenia possano dipendere dal malfunzionamento di un meccanismo generale che consente agli individui sani di attribuire correttamente le cause delle esperienze sensoriali.
A. Lindner, P. Thier, T. T. J. Kircher, T. Haarmeier, D. T. Leube, "Disorders of Agency in Schizophrenia Correlate with an Inability to Compensate for the Sensory Consequences of Actions". Current Biology, Vol. 15, 1119–1124 (21 giugno 2005). DOI 10.1016/j.cub.2005.05.049
© 1999 - 2005 Le Scienze S.p.A.
© 1999 - 2005 Le Scienze S.p.A.
insonnia, secondo la SIP
Il Mattino 25.6.05
Dodici milioni di italiani soffrono di insonnia, oltre la metà sono donne
Psichiatria, per le donne troppe notti in bianco
Roma. Si rigirano nel letto notte dopo notte. Contano le pecore. Prendono tranquillanti o buttano giù un bicchiere di vino sperando che faccia calare le palpebre nel sonno ristoratore tanto atteso. Sono le vittime di Madama «Insonnia». Almeno 12 milioni di italiani sono condannati a trascorrere notti in bianco e 6 volte su 10 si tratta di una donna. Non è che stiano meglio negli altri paesi europei, dove a non chiudere occhio è il 34% degli adulti. Un male comune e diffuso, insomma, da cui potrebbero non essere immuni nemmeno gli «angeli custodi» della psiche: scoprire come dormono gli psichiatri è l’obiettivo di una ricerca che, attraverso la somministrazione di un questionario a tutti gli psichiatri, vuole indagare sui misteri del sonno e illuminare gli angoli bui della mente. È ormai acquisito che il sonno è uno stato molto complesso della vita psichica, con tutte le caratteristiche e l’instabilità della veglia, teatro di complesse interazioni dinamiche tra diverse strutture del cervello. Dunque, tutt’altro che assenza, vuoto, puro abbandono poetico. Del resto, psicologi e psichiatri sono attrezzati da tempo a valutare le ricadute degli stati patologici del sonno sull’equilibrio mentale. È dunque in questa prospettiva che psicologi clinici, psichiatri, biochimici e farmacologi hanno deciso di affrontare il tema dei rapporti tra insonnia e depressione e ansia, in particolare, integrando le competenze sui diversi aspetti del problema. Chi dorme male e poco corre un rischio doppio di ammalarsi nel corpo. Gli insonni cronici soffrono sempre di disturbi mentali e, come controprova, è offerto il dato acquisito che nei pazienti psichiatrici c’è un’alta incidenza di disturbi del sonno. Guardate l’orologio stanotte: se vi capita di svegliarvi attorno alle quattro, e se ciò si ripete, forse vi state avvicinando a una fase di depressione. Proprio con il superamento degli antidepressivi di prima generazione, che inducevano pesante sonnolenza nei pazienti sottoposti a trattamento, e con l’adozione dei nuovi farmaci privi di questo sgradito effetto collaterale, è potentemente tornata di attualità la connessione tra insonnia e disturbo d’umore e ansia. La malattia - ammettono gli esperti - è ancora un mistero nelle sue origini, ed è attualmente virtualmente incurabile. Negli Usa, il National Institute of health (Nih) ha deciso di investire 200 milioni di dollari per lo studio della patologia e dei fenomeni neurobiologici che potrebbero esserne la causa. A Roma, clinici della Società Italiana di Neurofarmacologia (SINPF) e della Società Italiana di Psichiatria (SIP) hanno presentato il gruppo di studio costituito proprio per esplorare le interazioni tra sonno e equilibrio mentale. Ne fanno parte Mario Guazzelli, ordinario di psicologia generale dell’Università di Pisa, gli psichiatri Alberto Siracusano, ordinario di psichiatria dell’Università Tor Vergata di Roma, Marcello Cardini, ordinario a Bari e Enrico Smeraldi, ordinario dell’Università San Raffaele di Milano; Giovanni Biggio, ordinario di farmacologia Università di Cagliari, Angelo Gemignani, neurofisiologo Università di Pisa.
Dodici milioni di italiani soffrono di insonnia, oltre la metà sono donne
Psichiatria, per le donne troppe notti in bianco
Roma. Si rigirano nel letto notte dopo notte. Contano le pecore. Prendono tranquillanti o buttano giù un bicchiere di vino sperando che faccia calare le palpebre nel sonno ristoratore tanto atteso. Sono le vittime di Madama «Insonnia». Almeno 12 milioni di italiani sono condannati a trascorrere notti in bianco e 6 volte su 10 si tratta di una donna. Non è che stiano meglio negli altri paesi europei, dove a non chiudere occhio è il 34% degli adulti. Un male comune e diffuso, insomma, da cui potrebbero non essere immuni nemmeno gli «angeli custodi» della psiche: scoprire come dormono gli psichiatri è l’obiettivo di una ricerca che, attraverso la somministrazione di un questionario a tutti gli psichiatri, vuole indagare sui misteri del sonno e illuminare gli angoli bui della mente. È ormai acquisito che il sonno è uno stato molto complesso della vita psichica, con tutte le caratteristiche e l’instabilità della veglia, teatro di complesse interazioni dinamiche tra diverse strutture del cervello. Dunque, tutt’altro che assenza, vuoto, puro abbandono poetico. Del resto, psicologi e psichiatri sono attrezzati da tempo a valutare le ricadute degli stati patologici del sonno sull’equilibrio mentale. È dunque in questa prospettiva che psicologi clinici, psichiatri, biochimici e farmacologi hanno deciso di affrontare il tema dei rapporti tra insonnia e depressione e ansia, in particolare, integrando le competenze sui diversi aspetti del problema. Chi dorme male e poco corre un rischio doppio di ammalarsi nel corpo. Gli insonni cronici soffrono sempre di disturbi mentali e, come controprova, è offerto il dato acquisito che nei pazienti psichiatrici c’è un’alta incidenza di disturbi del sonno. Guardate l’orologio stanotte: se vi capita di svegliarvi attorno alle quattro, e se ciò si ripete, forse vi state avvicinando a una fase di depressione. Proprio con il superamento degli antidepressivi di prima generazione, che inducevano pesante sonnolenza nei pazienti sottoposti a trattamento, e con l’adozione dei nuovi farmaci privi di questo sgradito effetto collaterale, è potentemente tornata di attualità la connessione tra insonnia e disturbo d’umore e ansia. La malattia - ammettono gli esperti - è ancora un mistero nelle sue origini, ed è attualmente virtualmente incurabile. Negli Usa, il National Institute of health (Nih) ha deciso di investire 200 milioni di dollari per lo studio della patologia e dei fenomeni neurobiologici che potrebbero esserne la causa. A Roma, clinici della Società Italiana di Neurofarmacologia (SINPF) e della Società Italiana di Psichiatria (SIP) hanno presentato il gruppo di studio costituito proprio per esplorare le interazioni tra sonno e equilibrio mentale. Ne fanno parte Mario Guazzelli, ordinario di psicologia generale dell’Università di Pisa, gli psichiatri Alberto Siracusano, ordinario di psichiatria dell’Università Tor Vergata di Roma, Marcello Cardini, ordinario a Bari e Enrico Smeraldi, ordinario dell’Università San Raffaele di Milano; Giovanni Biggio, ordinario di farmacologia Università di Cagliari, Angelo Gemignani, neurofisiologo Università di Pisa.
Heinrich von Kleist
La Stampa TuttoLibri 25.6.05
Kleist, un geniale colpo di pistola
«Un inquieto batter d'ali»: il grande romantico che mise in imbarazzo Goethe, una biografia che sfiora il romanzo
Marta Morazzoni
IL duplice colpo di pistola che uccise prima Henriette Vogel, malata di cancro, e poi lo scrittore trentaseienne Heinrich Kleist produsse senza dubbio un'eco sconcertante a quel tempo, era il 21 novembre del 1811; ma suscita scalpore e annessa curiosità anche oggi, che di Kleist conosciamo la qualità letteraria, e ne ammiriamo la personalità eccezionale nel contesto del romanticismo di cui fu figlio e magari vittima. Ma chi era infine questo artista dall'aria adolescente, dallo sguardo mite e inquietante? Un uomo di grandi passioni, un insoddisfatto e un insicuro, o un provocatore nell'arte e nella vita? E la donna morta con lui e per mano di lui? Come definire il loro letale rapporto? Erano amici? innamorati? solidali? Ecco, forse a una lettura più ravvicinata, quest'ultimo termine, per altro pieno di ambiguità, sembra il più convincente. Solidali nella delusione e nell'esaltazione, inetti ad un amore tra comuni mortali e per questo determinati a spostare più in là, oltre il confine della vita, il compimento delle aspirazioni qui frustrate. Il lavoro che Anna Maria Carpi ha prodotto intorno alla vita dello scrittore tedesco che mise, forse, in imbarazzo Goethe per la prepotenza di uno stile assolutamente eterodosso, va a cercare nelle pieghe della vita, non felice e non fortunata, dell'artista, per portare alla luce certe ragioni che alla ragione sfuggono. La materia è interessante e il lavoro della Carpi si muove su un piano rispondente alle sollecitazioni che vengono da una così ardua personalità, sicché definire biografia la sua lunga inchiesta sul soggetto Kleist sarebbe riduttivo. Il personaggio (e uso un termine volutamente improprio, ma credo adatto all'operazione della Carpi) si presta a qualcosa di più che alla pura raccolta ed enucleazione e analisi dei dati inerenti alla vita e alle opere; in certo senso sollecita ad una elaborazione e ad una non dico invenzione, ma certo interpretazione chiara e coinvolgente, dentro cui riconosciamo la convinzione e la qualità di interprete della Carpi. Ci sono, in questa operazione che sfiora il romanzo, tutti i dati oggettivi di una biografia, c'è anche di più: nel primo capitolo, che si apre con l'annotazione dei commenti privati e di giornali sulla tragica morte dello scrittore, entriamo nel vivo del problema che Kleist ha rappresentato per i suoi amici e parenti, nel vivo del mistero che ha suscitato tra coloro che lo conoscevano, che lo stimavano o ne diffidavano, e quindi videro nella sua strana morte la conseguenza di una strana vita. Se ne rammaricarono come di una grave perdita, o la deprecarono, in ogni modo ci si interrogarono senza approdare ad una risposta ultima: una pazzia alla Werther, disse qualcuno, l'esaltazione della purezza di un'anima, secondo altri, mentre Federico Schlegel commentava: «Come nelle sue opere, così anche nella vita Kleist ha scambiato la pazzia per genialità». Lo riporto perché mi sembra il commento più consonante al controverso modo in cui la sua epoca considerò quello che per noi oggi, nonché essere un pazzo, è un vertice della letteratura tedesca. Forse per lui tutto cominciò dal tentativo di evadere dalla mediocre condizione di una famiglia di piccola nobiltà di Francoforte sull'Oder, da un esacerbato senso del disagio che gli veniva dal desiderio di essere uno scrittore senza scendere a compromessi con le mezze misure del mondo; e infatti puntualmente il mondo, che ha sempre i suoi metodi efficaci contro la diversità, lo aspettava al varco per disfare quello che lui credeva di aver fatto: relazioni, amicizie, lavoro, una rivista fondata su criteri innovativi e un giornale che offriva al pubblico prussiano il piacere della cronaca. Certo, non fu solo vittima, ebbe le sue impennate umorali, ma infine tutto, ribellioni e pentimenti, tutto parve a fondo perduto: tutto, tranne otto opere teatrali, dei magnifici racconti, i saggi. Il trucido mondo di Arminio, la ferocia amorosa di Pentesilea, l'ambiguità dell'Anfitrione, la perfida, esilarante figura del giudice Adamo, nome paradigmatico per il protagonista della Brocca rotta, raccontano nella mediazione della finzione comica o tragica i passi di un lungo tormento: niente nella vita di Kleist è andato per il verso giusto, niente, tranne la sua straordinaria forza di artista.
Kleist, un geniale colpo di pistola
«Un inquieto batter d'ali»: il grande romantico che mise in imbarazzo Goethe, una biografia che sfiora il romanzo
Marta Morazzoni
IL duplice colpo di pistola che uccise prima Henriette Vogel, malata di cancro, e poi lo scrittore trentaseienne Heinrich Kleist produsse senza dubbio un'eco sconcertante a quel tempo, era il 21 novembre del 1811; ma suscita scalpore e annessa curiosità anche oggi, che di Kleist conosciamo la qualità letteraria, e ne ammiriamo la personalità eccezionale nel contesto del romanticismo di cui fu figlio e magari vittima. Ma chi era infine questo artista dall'aria adolescente, dallo sguardo mite e inquietante? Un uomo di grandi passioni, un insoddisfatto e un insicuro, o un provocatore nell'arte e nella vita? E la donna morta con lui e per mano di lui? Come definire il loro letale rapporto? Erano amici? innamorati? solidali? Ecco, forse a una lettura più ravvicinata, quest'ultimo termine, per altro pieno di ambiguità, sembra il più convincente. Solidali nella delusione e nell'esaltazione, inetti ad un amore tra comuni mortali e per questo determinati a spostare più in là, oltre il confine della vita, il compimento delle aspirazioni qui frustrate. Il lavoro che Anna Maria Carpi ha prodotto intorno alla vita dello scrittore tedesco che mise, forse, in imbarazzo Goethe per la prepotenza di uno stile assolutamente eterodosso, va a cercare nelle pieghe della vita, non felice e non fortunata, dell'artista, per portare alla luce certe ragioni che alla ragione sfuggono. La materia è interessante e il lavoro della Carpi si muove su un piano rispondente alle sollecitazioni che vengono da una così ardua personalità, sicché definire biografia la sua lunga inchiesta sul soggetto Kleist sarebbe riduttivo. Il personaggio (e uso un termine volutamente improprio, ma credo adatto all'operazione della Carpi) si presta a qualcosa di più che alla pura raccolta ed enucleazione e analisi dei dati inerenti alla vita e alle opere; in certo senso sollecita ad una elaborazione e ad una non dico invenzione, ma certo interpretazione chiara e coinvolgente, dentro cui riconosciamo la convinzione e la qualità di interprete della Carpi. Ci sono, in questa operazione che sfiora il romanzo, tutti i dati oggettivi di una biografia, c'è anche di più: nel primo capitolo, che si apre con l'annotazione dei commenti privati e di giornali sulla tragica morte dello scrittore, entriamo nel vivo del problema che Kleist ha rappresentato per i suoi amici e parenti, nel vivo del mistero che ha suscitato tra coloro che lo conoscevano, che lo stimavano o ne diffidavano, e quindi videro nella sua strana morte la conseguenza di una strana vita. Se ne rammaricarono come di una grave perdita, o la deprecarono, in ogni modo ci si interrogarono senza approdare ad una risposta ultima: una pazzia alla Werther, disse qualcuno, l'esaltazione della purezza di un'anima, secondo altri, mentre Federico Schlegel commentava: «Come nelle sue opere, così anche nella vita Kleist ha scambiato la pazzia per genialità». Lo riporto perché mi sembra il commento più consonante al controverso modo in cui la sua epoca considerò quello che per noi oggi, nonché essere un pazzo, è un vertice della letteratura tedesca. Forse per lui tutto cominciò dal tentativo di evadere dalla mediocre condizione di una famiglia di piccola nobiltà di Francoforte sull'Oder, da un esacerbato senso del disagio che gli veniva dal desiderio di essere uno scrittore senza scendere a compromessi con le mezze misure del mondo; e infatti puntualmente il mondo, che ha sempre i suoi metodi efficaci contro la diversità, lo aspettava al varco per disfare quello che lui credeva di aver fatto: relazioni, amicizie, lavoro, una rivista fondata su criteri innovativi e un giornale che offriva al pubblico prussiano il piacere della cronaca. Certo, non fu solo vittima, ebbe le sue impennate umorali, ma infine tutto, ribellioni e pentimenti, tutto parve a fondo perduto: tutto, tranne otto opere teatrali, dei magnifici racconti, i saggi. Il trucido mondo di Arminio, la ferocia amorosa di Pentesilea, l'ambiguità dell'Anfitrione, la perfida, esilarante figura del giudice Adamo, nome paradigmatico per il protagonista della Brocca rotta, raccontano nella mediazione della finzione comica o tragica i passi di un lungo tormento: niente nella vita di Kleist è andato per il verso giusto, niente, tranne la sua straordinaria forza di artista.
Anna Maria Carpi
Un inquieto batter d'ali
Vita di Heinrich von Kleist
Mondadori, pp. 354, e22
BIOGRAFIA
Un inquieto batter d'ali
Vita di Heinrich von Kleist
Mondadori, pp. 354, e22
BIOGRAFIA
Guantanamo
deontologia medica Usa
Corriere della Sera 25.6.05
GUANTANAMO Detenuti impauriti Colpa dei medici
WASHINGTON - Interrogatori da brivido a Guantanamo, con i medici militari pronti a suggerire come aumentare il livello di stress dei detenuti, portarne al limite la paura, far leva sulla loro debolezza. La notizia è stata rivelata dal New York Times , secondo cui i sanitari di Guantanamo, attingendo informazioni preziose dalle cartelle sanitarie, consigliavano il personale addetto agli interrogatori su come «spremere» al limite i detenuti. Ma un portavoce del Pentagono ha respinto le accuse: i medici nelle carceri - ha spiegato - non rispondono a regole etiche, perché non sono chiamati in causa in veste di sanitari, ma come consulenti della psicologia del detenuto
il manifesto 25.6.05
I medici orwelliani di Guantanamo. Per torturare meglio
Scandalo nello scandalo: gli specialisti incaricati di trovare i punti deboli nella psiche dei detenuti e riferli poi agli addetti agli «interrogatori»
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK. Qualcuno ha presente Winston Smith, il protagonista di 1984 di Orwell? Lui ha un segreto: una profonda fobìa per i topi. Quegli animali fanno schifo - e un po' paura - a tutti, naturalmente. Ma per lui quella paura è una condizione patologica, appunto una fobìa, che lo paralizza e lo priva di qualsiasi difesa. E infatti quando l'apparato poliziesco di Oceania, appreso quel suo segreto, lo sottopone a un «trattamento» a base di topi, la resistenza di Winston viene meno, confessa tutto ciò che loro vogliono e denuncia perfino la sua amata come la vera responsabile. Ebbene, qualcosa di simile sta accadendo a Guantanamo, la prigione nella base militare americana a Cuba che non finisce mai di fornire nuovi esempi di ignominia. Si è infatti scoperto, grazie al New England Journal of Medicine, una rivista scientifica di grande prestigio, che le cartelle cliniche dei detenuti di Guantanamo, come quelle dei prigionieri in Afghanistan e in Iraq, sono «a disposizione» degli addetti agli interrogatori, i quali possono così usarle come un'arma aggiuntiva da usare contro i detenuti. In sostanza, oltre alle pratiche già note - privarli del sonno, tenerli in isolamento prolungato, costringerli a restare in posizioni dolorose, soffocarli a lasciarli respirare un attimo prima che cedano, picchiarli, sottoporli a provocazioni sessuali, profanare il Corano di fronte a loro - c'è anche quella di sfruttare i loro punti deboli, fisici o psicologici, che i medici che in teoria dovrebbero occuparsi della loro salute provvedono a fornire agli addetti agli interrogatori.
La notizia si era già affacciata l'altro ieri, grazie a un'anticipazione dell'articolo del New England Journal of Medicine, ma dato l'enorme interesse che ha suscitato, ieri la rivista lo ha messo interamente nel suo sito Internet. Ecco così il caso del detenuto (rigorosamente anonimo) per il quale il buio ha lo stesso effetto che hanno i topi per Winston Smith; del medico (anche lui anonimo) che annota diligentemente la cosa sulla sua cartella clinica; di quella cartella che finisce nelle mani degli addetti agli interrogatori i quali la sfruttano a dovere; ed ecco anche un documento «ufficiale ma non pubblico», nel senso che è stato regolarmente approvato dall'autorità ma non reso di pubblico dominio, che serve a «sollevare» i medici da eventuali perplessità etiche. Datato 6 agosto 2002, il documento dice che le informazioni fornite dalle «persone nemiche sotto il controllo degli Stati Uniti ... non sono confidenziali e non sono soggette al privilegio» (del rapporto fra medico e paziente) e che anzi il personale medico ha l'ordine preciso di riferire «ogni informazione che può servire al successo di una operazione militare o di una missione di sicurezza nazionale». Vari medici (sempre anonimi) intervistati dalla rivista spiegano poi che questo «programa» di coinvolgerli nella «strategia degli interrogatori» era stato eloborato esplicitamente per «incrementare la paura e l'angoscia fra i detenuti come un mezzo di ottenere informazioni». Insomma, fra i regali che questa amministrazione ha fatto al livello di civiltà generale c'è anche il «rilassamento» dell'etica medica.
Il New York Times, che ha ripreso la storia del New England Journal of Medicine aggiungendoci del suo, riporta i commenti di un portavoce del Pentagono, Bryan Whitman, il quale si produce in una spericolata arrampicata sugli specchi. Secondo lui i medici militari vanno divisi in due categorie: quelli con il compito di sovrintendere al «trattamento umano dei detenuti» e quelli che hanno «altri ruoli», per esempio quello di «scienziati del comportamento», cioè coloro che definiscono il «carattere» di un soggetto. Questi ultimi, dice Whitman, «siccome non sono medici curanti non sono neanche tenuti a seguire i dettami etici». ciniche e cretine, le parole del portavoce del Pentagono mostrano una cosa forse importante: che l'autorità ufficiale non nega l'esistenza di questa pratica. Una delle tante prove di strafottenza dell'amministrazione o il segno che sono finiti i tempi della smentita sistematica con il risultato di venire poi regolarmente sbugiardati? Potrebbe esserne la prova un episodio avvenuto ieri all'Onu, quando un rappresentante americano ha ammesso, per la prima volta formalmente, la pratica della tortura di fronte alla commissione che sta preparando il rapporto sulla situazione dei diritti umani nel mondo. Precisando peraltro che si è trattato di «casi isolati» e che i responsabili sono militari «di basso rango».
GUANTANAMO Detenuti impauriti Colpa dei medici
WASHINGTON - Interrogatori da brivido a Guantanamo, con i medici militari pronti a suggerire come aumentare il livello di stress dei detenuti, portarne al limite la paura, far leva sulla loro debolezza. La notizia è stata rivelata dal New York Times , secondo cui i sanitari di Guantanamo, attingendo informazioni preziose dalle cartelle sanitarie, consigliavano il personale addetto agli interrogatori su come «spremere» al limite i detenuti. Ma un portavoce del Pentagono ha respinto le accuse: i medici nelle carceri - ha spiegato - non rispondono a regole etiche, perché non sono chiamati in causa in veste di sanitari, ma come consulenti della psicologia del detenuto
il manifesto 25.6.05
I medici orwelliani di Guantanamo. Per torturare meglio
Scandalo nello scandalo: gli specialisti incaricati di trovare i punti deboli nella psiche dei detenuti e riferli poi agli addetti agli «interrogatori»
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK. Qualcuno ha presente Winston Smith, il protagonista di 1984 di Orwell? Lui ha un segreto: una profonda fobìa per i topi. Quegli animali fanno schifo - e un po' paura - a tutti, naturalmente. Ma per lui quella paura è una condizione patologica, appunto una fobìa, che lo paralizza e lo priva di qualsiasi difesa. E infatti quando l'apparato poliziesco di Oceania, appreso quel suo segreto, lo sottopone a un «trattamento» a base di topi, la resistenza di Winston viene meno, confessa tutto ciò che loro vogliono e denuncia perfino la sua amata come la vera responsabile. Ebbene, qualcosa di simile sta accadendo a Guantanamo, la prigione nella base militare americana a Cuba che non finisce mai di fornire nuovi esempi di ignominia. Si è infatti scoperto, grazie al New England Journal of Medicine, una rivista scientifica di grande prestigio, che le cartelle cliniche dei detenuti di Guantanamo, come quelle dei prigionieri in Afghanistan e in Iraq, sono «a disposizione» degli addetti agli interrogatori, i quali possono così usarle come un'arma aggiuntiva da usare contro i detenuti. In sostanza, oltre alle pratiche già note - privarli del sonno, tenerli in isolamento prolungato, costringerli a restare in posizioni dolorose, soffocarli a lasciarli respirare un attimo prima che cedano, picchiarli, sottoporli a provocazioni sessuali, profanare il Corano di fronte a loro - c'è anche quella di sfruttare i loro punti deboli, fisici o psicologici, che i medici che in teoria dovrebbero occuparsi della loro salute provvedono a fornire agli addetti agli interrogatori.
La notizia si era già affacciata l'altro ieri, grazie a un'anticipazione dell'articolo del New England Journal of Medicine, ma dato l'enorme interesse che ha suscitato, ieri la rivista lo ha messo interamente nel suo sito Internet. Ecco così il caso del detenuto (rigorosamente anonimo) per il quale il buio ha lo stesso effetto che hanno i topi per Winston Smith; del medico (anche lui anonimo) che annota diligentemente la cosa sulla sua cartella clinica; di quella cartella che finisce nelle mani degli addetti agli interrogatori i quali la sfruttano a dovere; ed ecco anche un documento «ufficiale ma non pubblico», nel senso che è stato regolarmente approvato dall'autorità ma non reso di pubblico dominio, che serve a «sollevare» i medici da eventuali perplessità etiche. Datato 6 agosto 2002, il documento dice che le informazioni fornite dalle «persone nemiche sotto il controllo degli Stati Uniti ... non sono confidenziali e non sono soggette al privilegio» (del rapporto fra medico e paziente) e che anzi il personale medico ha l'ordine preciso di riferire «ogni informazione che può servire al successo di una operazione militare o di una missione di sicurezza nazionale». Vari medici (sempre anonimi) intervistati dalla rivista spiegano poi che questo «programa» di coinvolgerli nella «strategia degli interrogatori» era stato eloborato esplicitamente per «incrementare la paura e l'angoscia fra i detenuti come un mezzo di ottenere informazioni». Insomma, fra i regali che questa amministrazione ha fatto al livello di civiltà generale c'è anche il «rilassamento» dell'etica medica.
Il New York Times, che ha ripreso la storia del New England Journal of Medicine aggiungendoci del suo, riporta i commenti di un portavoce del Pentagono, Bryan Whitman, il quale si produce in una spericolata arrampicata sugli specchi. Secondo lui i medici militari vanno divisi in due categorie: quelli con il compito di sovrintendere al «trattamento umano dei detenuti» e quelli che hanno «altri ruoli», per esempio quello di «scienziati del comportamento», cioè coloro che definiscono il «carattere» di un soggetto. Questi ultimi, dice Whitman, «siccome non sono medici curanti non sono neanche tenuti a seguire i dettami etici». ciniche e cretine, le parole del portavoce del Pentagono mostrano una cosa forse importante: che l'autorità ufficiale non nega l'esistenza di questa pratica. Una delle tante prove di strafottenza dell'amministrazione o il segno che sono finiti i tempi della smentita sistematica con il risultato di venire poi regolarmente sbugiardati? Potrebbe esserne la prova un episodio avvenuto ieri all'Onu, quando un rappresentante americano ha ammesso, per la prima volta formalmente, la pratica della tortura di fronte alla commissione che sta preparando il rapporto sulla situazione dei diritti umani nel mondo. Precisando peraltro che si è trattato di «casi isolati» e che i responsabili sono militari «di basso rango».
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Corriere della Sera 25.6.05
La decisione del governo di centrodestra
Sì alle adozioni internazionali per le coppie gay in Olanda
Ma. G.
Le coppie gay in Olanda potranno adottare bambini stranieri. E’ il governo del premier Balkenende, di centrodestra, a rompere un altro tabù e a mettere i Paesi Bassi di nuovo in prima linea, nella ricerca dell’eguaglianza e pari diritti tra le coppie eterosessuali e quelle omosessuali. Il progetto (il cui testo è tuttora segreto) è stato adottato ieri dal Consiglio dei ministri dell’Aja. Per diventare legge dovrà ora ottenere l’approvazione (scontata) di una commissione di saggi e poi il via libero definitivo del Parlamento. Ma anche quest’ultimo pare ormai assicurato.
E’ stata proprio l’Olanda, primo Paese al mondo, a legalizzare i matrimoni omosessuali. Succedeva quattro anni fa. Poi vennero il Belgio, parte del Canada, il Massachusetts negli Stati Uniti (un tema che influenzò non poco la campagna elettorale, e che fu fortemente osteggiato dal presidente Bush). Infine, dal 30 settembre, si è aggiunta la Spagna di Zapatero.
La nuova legge sulle adozioni dall’estero nasce proprio per correggere ed emendare le norme create nel 2001. L’attuale legislazione olandese, infatti, consente il matrimonio ma prevede restrizioni per quanto riguarda i figli delle coppie omosessuali. Potevano essere adottati bambini olandesi, ma non all’estero; le lesbiche dovevano dimostrare di vivere insieme da tre anni prima di poter diventare «legittimi genitori» dei figli delle partner.
Proprio per questo, un bambino straniero veniva spesso adottato da uno solo dei partner (l’adozione ai single in Olanda è consentita) e andava poi a vivere con entrambi. Sotterfugi, che i fautori della nuova legge sostengono di aver voluto eliminare. Così come dicono d’aver voluto sciogliere tutte le intricate questioni legali (per esempio l’eredità) che la normativa ancora in vigore lasciava in una sorta di limbo.
La nuova legge, tuttavia, ha trovato forti resistenze all’interno del governo. Ostile, per esempio, il ministro della Giustizia, Piete Hein Donner. «Nessun Paese del mondo - ha detto - accetterà più di concederci il suo consenso alle adozioni di bambini. E non solo per le coppie omosessuali, ma neppure per quelle eterosessuali che non possono avere figli». Contrario anche il ministro delle Finanze, nonché presidente dei liberali francofoni, Didier Reynders. «Il dibattito non è ancora maturo», ha sostenuto, argomentando che occorre un confronto più ampio con la società civile. Non sono mancati tentativi di ritardare l’iniziativa. La commissione Giustizia della Camera, riunitasi all’inizio di giugno per dare il via libera al provvedimento, ha avviato consultazioni supplementari, allungando inevitabilmente i tempi.
Il premier Balkenende si è tuttavia deciso ad andare avanti, dopo aver riscontrato una chiara maggioranza parlamentare. A votare sì è il blocco dell’opposizione: socialisti, liberali fiamminghi, verdi. A favore anche i cristiano sociali fiamminghi, anch’essi all’opposizione, mentre i liberali francofoni hanno lasciato libertà di voto. I numeri per far passare la legge non dovrebbero mancare.
E sulla stessa strada dei Paesi Bassi sembra volersi avviare ancora una volta il confinante Belgio, che ha legalizzato nel 2003 il matrimonio tra omosessuali, ma ha escluso finora l’adozione.
La decisione del governo di centrodestra
Sì alle adozioni internazionali per le coppie gay in Olanda
Ma. G.
Le coppie gay in Olanda potranno adottare bambini stranieri. E’ il governo del premier Balkenende, di centrodestra, a rompere un altro tabù e a mettere i Paesi Bassi di nuovo in prima linea, nella ricerca dell’eguaglianza e pari diritti tra le coppie eterosessuali e quelle omosessuali. Il progetto (il cui testo è tuttora segreto) è stato adottato ieri dal Consiglio dei ministri dell’Aja. Per diventare legge dovrà ora ottenere l’approvazione (scontata) di una commissione di saggi e poi il via libero definitivo del Parlamento. Ma anche quest’ultimo pare ormai assicurato.
E’ stata proprio l’Olanda, primo Paese al mondo, a legalizzare i matrimoni omosessuali. Succedeva quattro anni fa. Poi vennero il Belgio, parte del Canada, il Massachusetts negli Stati Uniti (un tema che influenzò non poco la campagna elettorale, e che fu fortemente osteggiato dal presidente Bush). Infine, dal 30 settembre, si è aggiunta la Spagna di Zapatero.
La nuova legge sulle adozioni dall’estero nasce proprio per correggere ed emendare le norme create nel 2001. L’attuale legislazione olandese, infatti, consente il matrimonio ma prevede restrizioni per quanto riguarda i figli delle coppie omosessuali. Potevano essere adottati bambini olandesi, ma non all’estero; le lesbiche dovevano dimostrare di vivere insieme da tre anni prima di poter diventare «legittimi genitori» dei figli delle partner.
Proprio per questo, un bambino straniero veniva spesso adottato da uno solo dei partner (l’adozione ai single in Olanda è consentita) e andava poi a vivere con entrambi. Sotterfugi, che i fautori della nuova legge sostengono di aver voluto eliminare. Così come dicono d’aver voluto sciogliere tutte le intricate questioni legali (per esempio l’eredità) che la normativa ancora in vigore lasciava in una sorta di limbo.
La nuova legge, tuttavia, ha trovato forti resistenze all’interno del governo. Ostile, per esempio, il ministro della Giustizia, Piete Hein Donner. «Nessun Paese del mondo - ha detto - accetterà più di concederci il suo consenso alle adozioni di bambini. E non solo per le coppie omosessuali, ma neppure per quelle eterosessuali che non possono avere figli». Contrario anche il ministro delle Finanze, nonché presidente dei liberali francofoni, Didier Reynders. «Il dibattito non è ancora maturo», ha sostenuto, argomentando che occorre un confronto più ampio con la società civile. Non sono mancati tentativi di ritardare l’iniziativa. La commissione Giustizia della Camera, riunitasi all’inizio di giugno per dare il via libera al provvedimento, ha avviato consultazioni supplementari, allungando inevitabilmente i tempi.
Il premier Balkenende si è tuttavia deciso ad andare avanti, dopo aver riscontrato una chiara maggioranza parlamentare. A votare sì è il blocco dell’opposizione: socialisti, liberali fiamminghi, verdi. A favore anche i cristiano sociali fiamminghi, anch’essi all’opposizione, mentre i liberali francofoni hanno lasciato libertà di voto. I numeri per far passare la legge non dovrebbero mancare.
E sulla stessa strada dei Paesi Bassi sembra volersi avviare ancora una volta il confinante Belgio, che ha legalizzato nel 2003 il matrimonio tra omosessuali, ma ha escluso finora l’adozione.
quando "il manifesto" parla di psicologia...
il manifesto 25.6.05
VIOLENZA SUI MINORI
A che gioco giochiamo?
NATALIA GREGORINI*
Facciamo che tu prendi i cattivi ed io i buoni? Così il mucchio di soldatini viene diviso e schierato su due file contrapposte. Nell'ordinarli i due bambini si immergono completamente nel ruolo che hanno scelto e quando il combattimento ha inizio sanno perfettamente cosa fare. Il «cattivo» agita con furia distruttiva i suoi soldati e sorride: finalmente può dare sfogo alle sue fantasie più atroci, senza il timore di rimproveri o giudizi. Libero anche da quello sgradevole senso di colpa che tanto spesso lo affligge. Il «buono», dal canto suo, stringe con presa ferma e orgogliosa i suoi soldati che dentro di sé già chiama Eroi. Li vede come uomini valorosi e impavidi, paladini della giustizia e del bene comune, estranei a sentimenti di odio, rabbia, invidia e, men che meno, di egoismo. Questo vissuto di totale bontà lo fa sentire forte e intimamente migliore del suo avversario. Combattono. Finita la battaglia tutti i soldatini, buoni e cattivi, vengono raccolti e gettati alla rinfusa nel sacchetto. I bambini se ne vanno di corsa, soddisfatti del loro gioco e più tranquilli. Hanno preso un po' più di confidenza con le proprie parti, buone e cattive. E' più facile farlo conoscendole una alla volta. Arriva il giorno in cui il sacchetto dei soldatini viene lasciato da parte, riposto in soffitta. I bambini crescono ma l'uomo è per sua natura abitudinario e nostalgico. Ama tornare su terreni già conosciuti ed ha bisogno di farlo soprattutto quando si deve confrontare con eventi penosi che ne mettono in crisi l'equilibrio e che lo spaventano. E cosa c'è di più penoso e spaventoso di un bambino che invece di ricevere cure, amore e protezione dai propri genitori, viene da questi violato e maltrattato nel corpo e nella psiche? L'abuso all'infanzia, in tutte le sue forme (maltrattamento fisico e psicologico, abuso sessuale, violenza assistita e cure insufficienti o inadeguate) attiva in chi, direttamente o indirettamente, ne viene a conoscenza emozioni intense e per lo più penose: tristezza, disgusto, rabbia, impotenza, senso di colpa. Per molti può essere difficile accettare un tale stato di sofferenza e allora... corrono in soffitta, affannati tirano fuori i soldatini e senza esitazione scelgono: io prendo i buoni. Tornano a giocare come avevano fatto tanti anni prima, da bambini. La differenza è che ora si dimenticano che stanno giocando. Non fanno i buoni, sono i buoni e di conseguenza gli altri, gli abusanti, i cattivi. E li chiamano «mostri». Perchè rende meglio l'idea e aiuta a differenziare ancor più nettamente i due schieramenti. Fanno della loro convinzione di assoluta bontà la spada con cui dare la «caccia al mostro» e proteggere quelle fragilità proprie del loro «bambino interno». Ma il gioco non può durare a lungo.
Secondo la psicologia del profondo la mente umana si articola attraverso coppie di opposti (bene-male, amore-odio, potenza-impotenza) le cui polarità sono intimamente connesse anche se in genere solo una delle due prevale a livello manifesto, rimanendo l'altra nascosta in aree più buie e remote delle psiche, pronta però ad emergere qualora le circostanze lo permettano. Il prevalere di una polarità sull'altra dipende in larga misura dall'esperienze di cura e accudimento che si sono ricevute nel tempo, di quanto ci si è sentiti amati e protetti ovvero rifiutati e minacciati. Ci sono persone alle quali le esperienze di vita hanno impedito di scegliere. Le frustrazioni e le carenze subite, soprattutto dal punto di vista affettivo, hanno impedito loro di sviluppare adeguatamente le polarità dell'amore, della fiducia, della possibilità di potenza sul mondo, facendo prevalere l'odio per non essere stati amati, la sfiducia nella possibilità di essere capiti e protetti, l'impotenza rispetto alle violenze e ai soprusi subiti. E' come se queste persone avessero dovuto sempre prendere i cattivi, fino a identificarsi pienamente in questo ruolo, perdendo la consapevolezza dei propri aspetti buoni. E a fare il cattivo con il tempo ci si abitua: ci si costruisce sopra un'identità e una corazza che garantisce l'esistenza stessa, cancellando il ricordo dei dolori subiti. La bipolarità costitutiva dell'uomo in questi casi si sbilancia, polarizzandosi rigidamente su un aspetto e relegando nel buio della psiche quello opposto.
Questo meccanismo spesso impedisce di trasformare le esperienze di accudimento negative ricevute nell'infanzia, spingendo invece a perpetuarle, più o meno consapevolmente. La possibilità di bloccare la trasmissione da una generazione all'altra di modelli relazionali disfunzionali necessita dell'attivazione da parte di un elemento esterno della polarità rimasta inespressa. Se questo non accade, se viene a mancare l'opportunità di prendere i buoni, di vedere come ci si sente a fare i buoni, la scelta continua a essere obbligata. Tu fai il cattivo.
C'è un altro fatto. Chi nell'infanzia è stato «mal-trattato» rispetto ai bisogni fisici ed emotivi, crescendo può incontrare difficoltà nel prendersi cura del proprio corpo e delle proprie emozioni. La dimensione infantile sofferente, rimasta a lungo inascoltata dall'esterno continua ad esserlo anche dall'interno: può venire dimenticata, negata nei suoi aspetti di dolore, idealizzata o anche normalizzata al fine di garantire il proseguo dello sviluppo. Queste strategie difensive possono anche risultare funzionali a garantire un soddisfacente adattamento in ambito sociale e lavorativo ma penalizzano la piena realizzazione dell'individuo e, soprattutto, con facilità entrano in crisi con l'accesso alla genitorialità, quando cioè l'elemento dimenticato o negato dall'interno viene riattivato dall'esterno. Il «bambino reale», rappresentato dal figlio appena nato, va a risvegliare, con i suoi bisogni di cura, protezione e affetto, il «bambino interno» del genitore «cattivo», un bambino spesso sofferente e a lungo dimenticato. La difficoltà di contenere e gestire questa dimensione interna può interferire con la disponibilità del genitore a occuparsi in modo amorevole del proprio figlio. Un figlio che con i suoi bisogni e le sue richieste può acquisire valenze minacciose e persecutorie per l'equilibrio dell'adulto. La dimensione della genitorialità in questo caso viene attivata prevalentemente nella sua polarità negativa, con aspetti di aggressività e distruttività che prendono il sopravvento su quelli di cura e protezione. Così invece di alimentare e proteggere la vita il genitore che si trova in questa rigida polarizzazione interna può arrivare ad agire sul figlio fantasie aggressive o omicide.
In questo meccanismo, che all'inizio può sembrare un semplice gioco, sta la natura transgenerazionale dell'abuso, dove le vittime di oggi saranno i carnefici, gli abusanti, di domani se non si interviene curando, oltre che punendo e giudicando. In questo meccanismo risiede anche la responsabilità di quanti, nell'impossibilità di contattare il proprio dolore e le proprie parti «cattive», si barricano nel ruolo di buoni, rincorrendo i mostri esterni e rinunciando così a comprendere e a trasformare. Le radici della violenza sono da ricercarsi nella sofferenza, quelle del dogmatismo e del radicalismo di idee e valori nella scissione e nella paura che la alimenta. A che gioco giochiamo?
VIOLENZA SUI MINORI
A che gioco giochiamo?
NATALIA GREGORINI*
Facciamo che tu prendi i cattivi ed io i buoni? Così il mucchio di soldatini viene diviso e schierato su due file contrapposte. Nell'ordinarli i due bambini si immergono completamente nel ruolo che hanno scelto e quando il combattimento ha inizio sanno perfettamente cosa fare. Il «cattivo» agita con furia distruttiva i suoi soldati e sorride: finalmente può dare sfogo alle sue fantasie più atroci, senza il timore di rimproveri o giudizi. Libero anche da quello sgradevole senso di colpa che tanto spesso lo affligge. Il «buono», dal canto suo, stringe con presa ferma e orgogliosa i suoi soldati che dentro di sé già chiama Eroi. Li vede come uomini valorosi e impavidi, paladini della giustizia e del bene comune, estranei a sentimenti di odio, rabbia, invidia e, men che meno, di egoismo. Questo vissuto di totale bontà lo fa sentire forte e intimamente migliore del suo avversario. Combattono. Finita la battaglia tutti i soldatini, buoni e cattivi, vengono raccolti e gettati alla rinfusa nel sacchetto. I bambini se ne vanno di corsa, soddisfatti del loro gioco e più tranquilli. Hanno preso un po' più di confidenza con le proprie parti, buone e cattive. E' più facile farlo conoscendole una alla volta. Arriva il giorno in cui il sacchetto dei soldatini viene lasciato da parte, riposto in soffitta. I bambini crescono ma l'uomo è per sua natura abitudinario e nostalgico. Ama tornare su terreni già conosciuti ed ha bisogno di farlo soprattutto quando si deve confrontare con eventi penosi che ne mettono in crisi l'equilibrio e che lo spaventano. E cosa c'è di più penoso e spaventoso di un bambino che invece di ricevere cure, amore e protezione dai propri genitori, viene da questi violato e maltrattato nel corpo e nella psiche? L'abuso all'infanzia, in tutte le sue forme (maltrattamento fisico e psicologico, abuso sessuale, violenza assistita e cure insufficienti o inadeguate) attiva in chi, direttamente o indirettamente, ne viene a conoscenza emozioni intense e per lo più penose: tristezza, disgusto, rabbia, impotenza, senso di colpa. Per molti può essere difficile accettare un tale stato di sofferenza e allora... corrono in soffitta, affannati tirano fuori i soldatini e senza esitazione scelgono: io prendo i buoni. Tornano a giocare come avevano fatto tanti anni prima, da bambini. La differenza è che ora si dimenticano che stanno giocando. Non fanno i buoni, sono i buoni e di conseguenza gli altri, gli abusanti, i cattivi. E li chiamano «mostri». Perchè rende meglio l'idea e aiuta a differenziare ancor più nettamente i due schieramenti. Fanno della loro convinzione di assoluta bontà la spada con cui dare la «caccia al mostro» e proteggere quelle fragilità proprie del loro «bambino interno». Ma il gioco non può durare a lungo.
Secondo la psicologia del profondo la mente umana si articola attraverso coppie di opposti (bene-male, amore-odio, potenza-impotenza) le cui polarità sono intimamente connesse anche se in genere solo una delle due prevale a livello manifesto, rimanendo l'altra nascosta in aree più buie e remote delle psiche, pronta però ad emergere qualora le circostanze lo permettano. Il prevalere di una polarità sull'altra dipende in larga misura dall'esperienze di cura e accudimento che si sono ricevute nel tempo, di quanto ci si è sentiti amati e protetti ovvero rifiutati e minacciati. Ci sono persone alle quali le esperienze di vita hanno impedito di scegliere. Le frustrazioni e le carenze subite, soprattutto dal punto di vista affettivo, hanno impedito loro di sviluppare adeguatamente le polarità dell'amore, della fiducia, della possibilità di potenza sul mondo, facendo prevalere l'odio per non essere stati amati, la sfiducia nella possibilità di essere capiti e protetti, l'impotenza rispetto alle violenze e ai soprusi subiti. E' come se queste persone avessero dovuto sempre prendere i cattivi, fino a identificarsi pienamente in questo ruolo, perdendo la consapevolezza dei propri aspetti buoni. E a fare il cattivo con il tempo ci si abitua: ci si costruisce sopra un'identità e una corazza che garantisce l'esistenza stessa, cancellando il ricordo dei dolori subiti. La bipolarità costitutiva dell'uomo in questi casi si sbilancia, polarizzandosi rigidamente su un aspetto e relegando nel buio della psiche quello opposto.
Questo meccanismo spesso impedisce di trasformare le esperienze di accudimento negative ricevute nell'infanzia, spingendo invece a perpetuarle, più o meno consapevolmente. La possibilità di bloccare la trasmissione da una generazione all'altra di modelli relazionali disfunzionali necessita dell'attivazione da parte di un elemento esterno della polarità rimasta inespressa. Se questo non accade, se viene a mancare l'opportunità di prendere i buoni, di vedere come ci si sente a fare i buoni, la scelta continua a essere obbligata. Tu fai il cattivo.
C'è un altro fatto. Chi nell'infanzia è stato «mal-trattato» rispetto ai bisogni fisici ed emotivi, crescendo può incontrare difficoltà nel prendersi cura del proprio corpo e delle proprie emozioni. La dimensione infantile sofferente, rimasta a lungo inascoltata dall'esterno continua ad esserlo anche dall'interno: può venire dimenticata, negata nei suoi aspetti di dolore, idealizzata o anche normalizzata al fine di garantire il proseguo dello sviluppo. Queste strategie difensive possono anche risultare funzionali a garantire un soddisfacente adattamento in ambito sociale e lavorativo ma penalizzano la piena realizzazione dell'individuo e, soprattutto, con facilità entrano in crisi con l'accesso alla genitorialità, quando cioè l'elemento dimenticato o negato dall'interno viene riattivato dall'esterno. Il «bambino reale», rappresentato dal figlio appena nato, va a risvegliare, con i suoi bisogni di cura, protezione e affetto, il «bambino interno» del genitore «cattivo», un bambino spesso sofferente e a lungo dimenticato. La difficoltà di contenere e gestire questa dimensione interna può interferire con la disponibilità del genitore a occuparsi in modo amorevole del proprio figlio. Un figlio che con i suoi bisogni e le sue richieste può acquisire valenze minacciose e persecutorie per l'equilibrio dell'adulto. La dimensione della genitorialità in questo caso viene attivata prevalentemente nella sua polarità negativa, con aspetti di aggressività e distruttività che prendono il sopravvento su quelli di cura e protezione. Così invece di alimentare e proteggere la vita il genitore che si trova in questa rigida polarizzazione interna può arrivare ad agire sul figlio fantasie aggressive o omicide.
In questo meccanismo, che all'inizio può sembrare un semplice gioco, sta la natura transgenerazionale dell'abuso, dove le vittime di oggi saranno i carnefici, gli abusanti, di domani se non si interviene curando, oltre che punendo e giudicando. In questo meccanismo risiede anche la responsabilità di quanti, nell'impossibilità di contattare il proprio dolore e le proprie parti «cattive», si barricano nel ruolo di buoni, rincorrendo i mostri esterni e rinunciando così a comprendere e a trasformare. Le radici della violenza sono da ricercarsi nella sofferenza, quelle del dogmatismo e del radicalismo di idee e valori nella scissione e nella paura che la alimenta. A che gioco giochiamo?
*psicologa
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