Il Gazzettino Domenica, 3 Luglio 2005
PESARO
Bellocchio: «"I pugni in tasca"? Oggi non lo rifarei»
"I pugni in tasca"? «Parla di una ribellione parziale che oggi sicuramente non rifarei».
Marco Bellocchio tira le somme della sua carriera in occasione della tavola rotonda organizzata dalla Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, che quest'anno gli dedica l'Evento Speciale.
Proprio alla prima edizione del festival diretto oggi da Giovanni Spagnoletti e fondato da Bruno Torri e Lino Micciché, il regista piacentino avrebbe dovuto presentare il suo film nel '65, ma non fu possibile terminare in tempo la lavorazione.
Quarant'anni dopo, torna da protagonista nella cittadina marchigiana per parlare di quell'esperienza e ripercorrere i passi salienti del suo curriculum, dagli studi al Centro sperimentale di cinematografia al recente successo di "Buongiorno, notte", insieme a studiosi, amici e colleghi che lo hanno seguito ed accompagnato in questi anni: lo scenografo Marco Dentini, la costumista Lia Morandini, l'attrice Barbora Bobulova, la sceneggiatrice e aiuto regista Daniela Ceselli, la critica Patrizia Pistagnesi, lo psichiatra Gabriele Cavaggioni, il figlio e coproduttore Pier Giorgio Bellocchio. Un incontro aperto da Bruno Torri e preceduto dalla proiezione del documentario 'Buongiorno, Marco' di Roberto Dassoni.
Il Tempo 3.7.05
BELLOCCHIO SI SENTE SEMPRE UN RIBELLE
Non andrà a Venezia con «Il regista di matrimoni» ma senza polemiche
«MOSTRA DEL NUOVO CINEMA» DI PESARO
di VALERIO SAMMARCO
A LUI, quest'anno, la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro ha dedicato il 19° Evento Speciale, con una retrospettiva completa e fino al 10 luglio, sarà allestita un'esposizione dei suoi quadri. A pochi mesi dall'uscita del suo prossimo film, «Il regista di matrimoni», abbiamo incontrato Marco Bellocchio. Il suo ultimo film non sarà pronto per il prossimo Festival di Venezia, c’è qualche polemica? «L'appuntamento di Venezia ha un che di liberatorio, non foss'altro che poi il film sarebbe uscito subito nelle sale. E invece dovremo rimandare la distribuzione a Gennaio. Non c'è nessuna frattura con la Mostra di Venezia, anzi». Dopo quarant'anni di attività nel film c’è una riflessione sul mestiere di regista? «Assolutamente casuale. Certo, capisco che un soggetto del genere possa far pensare ad una meditazione "fattiva" sul mio lavoro. Effettivamente, il protagonista è un regista che abbandona la lavorazione di un film (l'ennesima trasposizione de "I promessi sposi") perché estremamente demotivato. Raggiungerà la Sicilia e qui si accorgerà che il suo "essere regista" non conta nulla. Però, almeno per il momento, non vuole essere avvisaglia di alcun ripensamento sul mio mestiere. Non è, per intenderci una riflessione alla 81/2 di Fellini». Il cinema è in crisi. E il suo mestiere di regista? «Se non avessi più niente da dire, sicuramente smetterei. Un film nasce da un'immagine, da qualcosa che ti "occupa", che ti batte nella mente. Questo, lo riconosco, è l'egoismo dell'artista: non pensa al pubblico, all'eventuale presa che un suo lavoro potrà avere. Pensa solo ed esclusivamente ad esprimere e, conseguentemente, a veicolare le sue ossessioni». Negli ultimi anni c'è stato un rinnovato interesse verso le sue opere. Perché? «Forse è cambiato il mio linguaggio, il mio modo di esprimermi. Non penso sia diventato più diretto, ma semplicemente è stato supportato da un aspetto realistico che ha permesso ad un pubblico più vasto di orientarsi. Dalla metà degli anni '70 alla metà degli '80 i miei film erano oggettivamente più difficili, più "aristocratici". Anche se il tanto vituperato "Diavolo in corpo" (1986) è stato comunque un successo a livello mondiale. "Diavolo in corpo", ricordo, venne accompagnato da chiacchiere e illazioni che col tempo sono andate però scemando». Lei ha dichiarato: "Tutt'altro che riconciliato, resto un ribelle che però oggi sceglie una lotta senza spargimento di sangue perché non credo più che la sola rabbia possa portare al cambiamento". Cosa occorre per un vero cambiamento? «La rabbia è scarsa di dialettica. Non rinuncio alla rabbia, ma certamente respingo il delitto. E cerco nella dialettica gli strumenti per tracciare una strada al cambiamento».
La Gazzetta di Parma 3.7.05
Bellocchio: «La politica mi ha deluso»
PESARO « Ho sempre cercato di essere libero e di fare quello in cui credevo, ma non sono un politico a caccia di consensi, sono solo un povero artista che ha delle immagini e cerca di rappresentarle meglio che può » . Cosí ha parlato di sè il regista Marco Bellocchio, ospite di una tavola rotonda al 41º Festival internazionale del Nuovo cinema di Pesaro, che gli ha dedicato una retrospettiva completa. Anche nel suo nuovo film «Il regista di matrimoni», che uscirà a gennaio, l'autore piacentino non cessa di mettere in discussione chiesa, Stato e famiglia. La sua è però una visione lontana dalla politica «diventata - ha dichiarato il regista - qualcosa di totalmente deludente. Ho votato sí ai quattro referendum, ma la coalizione di centrosinistra non ha niente da darmi e da dirmi: c'è troppa compromissione, troppo amministrativismo». In «Regista di matrimoni» Bellocchio parla di un regista che abbandona un film tratto da «I promessi sposi» e va in Sicilia. Qui incontra un collega specializzato in filmini matrimoniali che gli chiederà aiuto per il suo prossimo lavoro.
Altri articoli su Marco Bellocchio sono usciti oggi su Libertà e Il Giorno, citano anche Massimo Fagioli, ma sono irraggiungibili via Internet per chi non sia abbonato rispettive testate.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 3 luglio 2005
storia
dal fallimento della frenologia resta un'inquietante collezione
ricevuto da Gianluca Cangemi
New York Times
Negli scantinati della Cornell University
i reperti di una scienza che non scoprì nulla di significativo
Dalla frenologia una bizzarra eredità
70 cervelli conservati in formalina
di PETER EDIDIN
ITHACA (New York) - Nel seminterrato della Uris Hall, l'edificio che ospita il dipartimento di Psicologia della Cornell University, la professoressa Barbara L. Finlay apre una stanza chiusa a chiave, identificata da un foglietto scritto a mano come "La discarica degli svitati".
"Eccoli", dice Finlay, accendendo la luce nell'angusta saletta ingombra di strumenti da laboratorio. Su un lato, c'è un piccolo carrello a rotelle con sopra otto cervelli umani, conservati dentro barattoli di vetro riempiti di formaldeide. Sembrano di gomma. Uno dei cervelli, che appartiene a un criminale tristemente noto, giustiziato nel 1871, è verde.
"Una bella tonalità menta", suggerisce Finlay, che insegna scienze cognitive e del cervello alla Cornell da 30 anni. Fa ricerche sull'evoluzione e lo sviluppo del cervello ed è la curatrice della Wilder Brain Collection dell'università, una collezione di circa 70 cervelli, quasi tutti conservati sugli scaffali di uno stanzino ancora più piccolo di questo, una porta più in là.
I cervelli sul carrello di solito sono esposti in una teca di vetro, al secondo piano della Uris Hall. Non hanno scopi scientifici, dice Finlay, ma sono molto utili dal punto di vista pedagogico: gli studenti che passano vicino alla teca, dice, sono costretti a confrontarsi con il cervello.
"Voglio che si pongano la domanda 'Esiste qualcos'altro oppure no?'"
La maggior parte dei cervelli conservati qui, compresi due che appartenevano a dei bambini, non si sa di chi fossero. Sono quello che resta degli oltre 600 cervelli raccolti da Bert Green Wilder nella convinzione che potessero portare a scoperte rivoluzionarie nella comprensione dell'essere umano. Wilder era un illustre anatomista, ed è stato lui a creare il dipartimento di anatomia della Cornell. Nel 1889, fondò la Cornell Brain Society per raccogliere i cervelli di "persone istruite e ordinate", amici e colleghi compresi. Il suo, senza niente che lo distingua dagli altri, fluttua placidamente in una bottiglia sul carrello, dietro la porta.
Il periodo a cavallo tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX, fu l'"epoca d'oro" della raccolta di cervelli, dice Burrell - professore di matematica all'Università del Massachusetts, e autore del libro Postcards from the Brain Museum - un periodo in cui organizzazioni scientifiche, a Philadephia, a Parigi (un'associazione dal simpatico nome di Società di autopsia reciproca), a Tokyo, a Mosca e altrove cominciarono a raccogliere cervelli.
A guidare questi sforzi era in parte il desiderio di ricondurre la religione nell'ambito della scienza. Un'altra ragione era la convinzione, ereditata da Franz Joseph Gall, fondatore della frenologia, nel XVIII secolo, che le diverse parti del cervello svolgevano diverse funzioni.
Anche se gli esperti non erano in grado di classificare le persone in base ai bernoccoli sulla testa, era la teoria, se la scienza avesse condotto un'accurata comparazione dei cervelli alla fine sarebbe stato chiaro perché una persona era diversa dall'altra, perché uno era un genio e un altro un criminale. Il cervello avrebbe rivelato la persona.
I frenologi si sbagliavano. Mettere a confronto le anatomie di diversi cervelli non ha rivelato nulla di significativo. Con il tempo, la maggior parte delle collezioni di cervelli andarono disperse o furono eliminate, dimenticate e trascurate.
Pochi anni dopo il suo arrivo in questa università, Finlay decise di fare qualcosa con quello che rimaneva della Wilder Collection. "I sotterranei della Stimson Hall, l'edificio della facoltà di biologia dall'altra parte della strada, erano pieni di cervelli", dice. "Era il 1978, e l'Università stava pensando di mandarli allo Smithsonian, o da qualche altra parte".
"Dissi che dovevamo tenerli. È una delle prime collezioni che ha cercato di fisicizzare il cervello, di tracciare la mappa delle capacità umane in strutture e aree specifiche".
L'amministrazione dell'università le ha dato il via libera, chiedendole di prendersi cura di quel sotterraneo di cervelli in via di deterioramento. Finlay ha arruolato alcuni studenti per trasferire quasi 200 cervelli, facendoli passare da una finestra del seminterrato e portandoli dall'altro lato della strada, alla Uris Hall.
Molti cervelli erano rinsecchiti o in cattive condizioni, quando Finlay ha preso in mano la collezione Wilder, e oltre 100 sono stati eliminati. Otto cervelli di cui è stato identificato il proprietario sono stati messi in esposizione. Il resto è stato chiuso nello stanzino.
La scienza in erba che stava dietro a queste collezioni tuttavia la possiamo ritrovare ancora oggi nelle neuroscienze. L'argomento più studiato è la coscienza, che cos'è e come faccia a emergere nel cervello. Gli scienziati "vanno a tentoni nel buio" per cercare la risposta, proprio come i loro colleghi del XIX secolo, dice Christof Koch, professore di biologia cognitiva e comportamentale al California Institute of Technology.
"Non sappiamo come faccia a emergere una mente da questa vasta raccolta di neuroni", dice Koch. "Non abbiamo un'intuizione che ci apra la strada. È come Aladino che sfrega la lampada e appare un genio".
"I cervelli mi aiutano a collocarmi in una linea continua di ricerca scientifica", dice la Finlay che in questi organi vede un primo tentativo di collegare il cervello e la natura intangibile della personalità."Il progresso da allora", dice, "è consistito nell'inserire questi campi di studio in contesti esplicativi più ampi. Le descrizioni fisiche e cognitive diventano più profonde, e questa è la tradizione, continuare ad aprire la finestra della comprensione".
(8 giugno 2005. Tratto dal supplemento New York Times-La Repubblica)
New York Times
Negli scantinati della Cornell University
i reperti di una scienza che non scoprì nulla di significativo
Dalla frenologia una bizzarra eredità
70 cervelli conservati in formalina
di PETER EDIDIN
ITHACA (New York) - Nel seminterrato della Uris Hall, l'edificio che ospita il dipartimento di Psicologia della Cornell University, la professoressa Barbara L. Finlay apre una stanza chiusa a chiave, identificata da un foglietto scritto a mano come "La discarica degli svitati".
"Eccoli", dice Finlay, accendendo la luce nell'angusta saletta ingombra di strumenti da laboratorio. Su un lato, c'è un piccolo carrello a rotelle con sopra otto cervelli umani, conservati dentro barattoli di vetro riempiti di formaldeide. Sembrano di gomma. Uno dei cervelli, che appartiene a un criminale tristemente noto, giustiziato nel 1871, è verde.
"Una bella tonalità menta", suggerisce Finlay, che insegna scienze cognitive e del cervello alla Cornell da 30 anni. Fa ricerche sull'evoluzione e lo sviluppo del cervello ed è la curatrice della Wilder Brain Collection dell'università, una collezione di circa 70 cervelli, quasi tutti conservati sugli scaffali di uno stanzino ancora più piccolo di questo, una porta più in là.
I cervelli sul carrello di solito sono esposti in una teca di vetro, al secondo piano della Uris Hall. Non hanno scopi scientifici, dice Finlay, ma sono molto utili dal punto di vista pedagogico: gli studenti che passano vicino alla teca, dice, sono costretti a confrontarsi con il cervello.
"Voglio che si pongano la domanda 'Esiste qualcos'altro oppure no?'"
La maggior parte dei cervelli conservati qui, compresi due che appartenevano a dei bambini, non si sa di chi fossero. Sono quello che resta degli oltre 600 cervelli raccolti da Bert Green Wilder nella convinzione che potessero portare a scoperte rivoluzionarie nella comprensione dell'essere umano. Wilder era un illustre anatomista, ed è stato lui a creare il dipartimento di anatomia della Cornell. Nel 1889, fondò la Cornell Brain Society per raccogliere i cervelli di "persone istruite e ordinate", amici e colleghi compresi. Il suo, senza niente che lo distingua dagli altri, fluttua placidamente in una bottiglia sul carrello, dietro la porta.
Il periodo a cavallo tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX, fu l'"epoca d'oro" della raccolta di cervelli, dice Burrell - professore di matematica all'Università del Massachusetts, e autore del libro Postcards from the Brain Museum - un periodo in cui organizzazioni scientifiche, a Philadephia, a Parigi (un'associazione dal simpatico nome di Società di autopsia reciproca), a Tokyo, a Mosca e altrove cominciarono a raccogliere cervelli.
A guidare questi sforzi era in parte il desiderio di ricondurre la religione nell'ambito della scienza. Un'altra ragione era la convinzione, ereditata da Franz Joseph Gall, fondatore della frenologia, nel XVIII secolo, che le diverse parti del cervello svolgevano diverse funzioni.
Anche se gli esperti non erano in grado di classificare le persone in base ai bernoccoli sulla testa, era la teoria, se la scienza avesse condotto un'accurata comparazione dei cervelli alla fine sarebbe stato chiaro perché una persona era diversa dall'altra, perché uno era un genio e un altro un criminale. Il cervello avrebbe rivelato la persona.
I frenologi si sbagliavano. Mettere a confronto le anatomie di diversi cervelli non ha rivelato nulla di significativo. Con il tempo, la maggior parte delle collezioni di cervelli andarono disperse o furono eliminate, dimenticate e trascurate.
Pochi anni dopo il suo arrivo in questa università, Finlay decise di fare qualcosa con quello che rimaneva della Wilder Collection. "I sotterranei della Stimson Hall, l'edificio della facoltà di biologia dall'altra parte della strada, erano pieni di cervelli", dice. "Era il 1978, e l'Università stava pensando di mandarli allo Smithsonian, o da qualche altra parte".
"Dissi che dovevamo tenerli. È una delle prime collezioni che ha cercato di fisicizzare il cervello, di tracciare la mappa delle capacità umane in strutture e aree specifiche".
L'amministrazione dell'università le ha dato il via libera, chiedendole di prendersi cura di quel sotterraneo di cervelli in via di deterioramento. Finlay ha arruolato alcuni studenti per trasferire quasi 200 cervelli, facendoli passare da una finestra del seminterrato e portandoli dall'altro lato della strada, alla Uris Hall.
Molti cervelli erano rinsecchiti o in cattive condizioni, quando Finlay ha preso in mano la collezione Wilder, e oltre 100 sono stati eliminati. Otto cervelli di cui è stato identificato il proprietario sono stati messi in esposizione. Il resto è stato chiuso nello stanzino.
La scienza in erba che stava dietro a queste collezioni tuttavia la possiamo ritrovare ancora oggi nelle neuroscienze. L'argomento più studiato è la coscienza, che cos'è e come faccia a emergere nel cervello. Gli scienziati "vanno a tentoni nel buio" per cercare la risposta, proprio come i loro colleghi del XIX secolo, dice Christof Koch, professore di biologia cognitiva e comportamentale al California Institute of Technology.
"Non sappiamo come faccia a emergere una mente da questa vasta raccolta di neuroni", dice Koch. "Non abbiamo un'intuizione che ci apra la strada. È come Aladino che sfrega la lampada e appare un genio".
"I cervelli mi aiutano a collocarmi in una linea continua di ricerca scientifica", dice la Finlay che in questi organi vede un primo tentativo di collegare il cervello e la natura intangibile della personalità."Il progresso da allora", dice, "è consistito nell'inserire questi campi di studio in contesti esplicativi più ampi. Le descrizioni fisiche e cognitive diventano più profonde, e questa è la tradizione, continuare ad aprire la finestra della comprensione".
(8 giugno 2005. Tratto dal supplemento New York Times-La Repubblica)
orgasmo
una questione genetica?
Corriere Salute 3.7.05
Metà delle donne scontente e insicure
Colpa dei geni se non hai l'orgasmo?
Basandosi sul confronto fra gemelle monovulari e non, una ricerca inglese formula l’ipotesi che sull’acme del piacere femminile pesi molto una predisposizione genetica
di Franca Porciani
L’indagine realizzata a Londra rivela l’insoddisfazione che serpeggia fra le donne del Regno Unito in tema di sesso. Ma anche le italiane, stando alle ricerche realizzate in tempi recenti, non sono più felici. Da un’indagine condotta qualche anno fa in 29 Paesi - per l’Italia, 1500 le donne coinvolte - emerge che solo il 32% delle intervistate si ritiene appagata dalla propria vita sessuale. Un altro sondaggio su 400 donne non sposate tra i 20 e i 30 anni, scopre che il 43% ammette di aver finto l’orgasmo almeno una volta e che il 39% ha paura di deludere il partner a letto. Una ricerca successiva, su un campione di mille persone di entrambi i sessi fra i 25 e i 70 anni, rivela che le donne sono ancora affascinate dalla fase del corteggiamento, tanto che il rapporto sessuale passa in seconda linea. Per finire, un’indagine della Società italiana di medicina generale, pubblicata sulla rivista "British Medical Journal" nel 2003, intervistando 300 donne, identifica una situazione di malessere importante: il 50% è infelice perché non riesce a raggiungere l’orgasmo. Ma la stessa indagine coniugata al maschile fotografa un maschio altrettanto in crisi: il 53% degli uomini si sente frustrato, fatica a raggiungere l’orgasmo o si blocca al momento della penetrazione.
Metà delle donne scontente e insicure
Colpa dei geni se non hai l'orgasmo?
Basandosi sul confronto fra gemelle monovulari e non, una ricerca inglese formula l’ipotesi che sull’acme del piacere femminile pesi molto una predisposizione genetica
di Franca Porciani
L’indagine realizzata a Londra rivela l’insoddisfazione che serpeggia fra le donne del Regno Unito in tema di sesso. Ma anche le italiane, stando alle ricerche realizzate in tempi recenti, non sono più felici. Da un’indagine condotta qualche anno fa in 29 Paesi - per l’Italia, 1500 le donne coinvolte - emerge che solo il 32% delle intervistate si ritiene appagata dalla propria vita sessuale. Un altro sondaggio su 400 donne non sposate tra i 20 e i 30 anni, scopre che il 43% ammette di aver finto l’orgasmo almeno una volta e che il 39% ha paura di deludere il partner a letto. Una ricerca successiva, su un campione di mille persone di entrambi i sessi fra i 25 e i 70 anni, rivela che le donne sono ancora affascinate dalla fase del corteggiamento, tanto che il rapporto sessuale passa in seconda linea. Per finire, un’indagine della Società italiana di medicina generale, pubblicata sulla rivista "British Medical Journal" nel 2003, intervistando 300 donne, identifica una situazione di malessere importante: il 50% è infelice perché non riesce a raggiungere l’orgasmo. Ma la stessa indagine coniugata al maschile fotografa un maschio altrettanto in crisi: il 53% degli uomini si sente frustrato, fatica a raggiungere l’orgasmo o si blocca al momento della penetrazione.
insonnia e depressione
Corriere della Sera Salute 3.7.05
L'insonnia è donna
Le notti in bianco sono un problema che si declina al femminile 6 volte su 10. Ma dopo i cinquant'anni la predilezione per il gentil sesso aumenta e il rapporto tra femmine maschi insonni diventa di 3 a 1. Ragioni psicologiche ma anche ormonali all'origine della differenza.
L’insonnia si declina al femminile. Il problema, che riguarda 12 milioni di italiani, fa infatti le sue vittime in 6 casi su 10 tra le donne.
«Ma la percentuale aumenta nettamente dopo i 50 anni» precisa il professor Mario Guazzelli, ordinario di Psicologia generale della facoltà di medicina dell'università di Pisa. «quando il rapporto con i maschi diventa di 3 a 1». Numeri ribaditi durante il Congresso annuale della Società Italiana di Psichiatria in corso a Roma in questi giorni.
I motivi all’origine di questa preferenza delle notti in bianco per “l’altra metà del cielo”nella seconda parte della vita, sono di diversa natura.
«Alcunisono psicologici, legati al cambiamento del ruolo sociale della donna», spiega Guazzelli.
Ma ci sono anche ragioni ormonali. «La donna fertile» ricorda lo specialista «produce ormoni (i progestinici) che hanno un notevole potere ipnotico Ma questa protezione viene a mancare dalla menopausa in avanti».
E i rimedi? Ne esistono di specifici per le donne dopo la menopausa? «No», chiarisce l'esperto . «I rimedi sono gli stessi per l’uomo come per la donna: il ricorso a qualche farmaco per episodi di insonnia sporadici, e il ricorso invece allo specialista quando l’insonnia diventa cronica, cioè dura senza soluzione di continuità per almento tre settimane». «Lo specialista poi valuterà da caso a caso quali sono i rimedi più adatti, dall’igiene del sonno, ai farmaci alla psicoterapia cognitivo-comportamentale (che aiuta il paziente a capire come si mette in relazione con gli eventi e conl’ambiente) , che recenti studi indicano avere un’efficacia talvolta pari a quella dei farmaci».
Insonnia e depressione
A interessare in modo particolare gli psichiatri sotto il profilo epidemiologico è anche un altro “numero”, cioè il parallelismo che si riscontra tra incidenza di insonnia e depressione nei due sessi.
Se infatti nella seconda metà della vita l’insonnia colpisce le donne tre volte più spesso degli uomini, anche la depressione segue un andamento simile, preferendo il genti sesso in un rapporto di due a uno rispetto ai maschi.
«E in effetti non è strano» riprende Guazzelli, «perché alcuni dei motivi psicologici, e probabilmente anche ormonali che favoriscono l’insonnia nelle donne esercitano un ruolo simile anche in chiave pro-depressiva». «Tra l’altro la depressione è spesso preceduta da 15-20 giorni di insonnia. Tant’è vero che i pazienti che soffrono di depressione ricorrente si accorgono che la crisi sta arrivano proprio perché cominciano a non dormire. Si tratta in questi casi soprattutto di un’insonnia caratterizzata da risvelgi precoci, più che da difficoltà di addormentamento».
«Tra l’altro», sottolinea ancora Guazzelli, «quella tra depressione e insonnia è una relazione ben nota agli psichiatri da sempre, ma che aveva perso d’interesse dopo l’arrivo dei primi antidepressivi, che, essendo fortemente ipnotici facevano dormire fin troppo il depresso in cura. Ora, invece, con la disponibilità di antidepressivi privi di questo effetto collaterale il problema è tornato alla ribalta perché quando si mette in terapia un depresso si rischia, paradossalmente, che nel primo mese di terapia abbandoni la cura. Questo perché l’antidepressivo ci mette circa in mese a fare effetto, e nel frattempo nono si può contare nemmeno sulla sonnolenza indotta dal farmaco, quindi il malatro continua a essere depresso e a non dormire, e così si scoraggia».
«Un problema che va affrontato avvertendo il depresso di questa possibilità, ma soprattutto cercando di rimediare all’insonnia con altre strategie».
Come dormono gli psichiatri?
Psichiatri e psicooogi studieranno il proprio sonno per imparare a capirne meglio i problemi
Sembra un uovo di Colombo: eppure, quale prospettiva migliore per capire i problemi degli insonni, che analizzare se stessi e i propri, eventuali, disturbi del sonno? Attraverso questa autovalutazione, a partire da un questionario distribuito pressoché a tutti gli psichiatri italiani, si proverà a rendere più esperto il metodo di analisi delle patologie del sonno, che in effetti sono patologie dell’intera vita della mente.
E’ ormai acquisito che il sonno è uno stato molto complesso della vita psichica, con tutte le caratteristiche e l’instabilità della veglia, teatro di complesse interazioni dinamiche tra diverse strutture del cervello. Dunque, tutt’altro che assenza, vuoto, puro abbandono poetico. Del resto, psicologi e psichiatri sono attrezzati da tempo a valutare le ricadute degli stati patologici del sonno sull’equilibrio mentale. E’ dunque in questa prospettiva che psicologi clinici, psichiatri, biochimici e farmacologi hanno deciso di affrontare il tema dei rapporti tra insonnia e depressione e ansia, in particolare, integrando le competenze sui diversi aspetti del problema.
Chi dorme male e poco corre un rischio doppio di ammalarsi nel corpo. Gli insonni cronici soffrono sempre di disturbi mentali e, come controprova, è offerto il dato acquisito che nei pazienti psichiatrici c’è un’alta incidenza di disturbi del sonno.
Perciò clinici della Società Italiana di Neurofarmacologia (SINPF) e della Società Italiana di Psichiatria (SIP) hanno costituito un gruppo di studio – presentato appunto a Roma – per esplorare a fondo le interazioni tra sonno e equilibrio mentale. Tra gli animatori di questo gruppo di studio interdisciplinare, Mario Guazzelli, ordinario di psicologia generale Università di Pisa, gli psichiatri Alberto Siracusano, ordinario di psichiatria Università Tor Vergata, Roma, Marcello Cardini, ordinario a Bari e Enrico Smeraldi, ordinario Università San Raffaele di Milano; Giovanni Biggio, ordinario di farmacologia Università di Cagliari, Angelo Gemignani, neurofisiologo Università di Pisa.
Usa: troppo sonno per fare sesso
Molti americani sono talmente assonnati da avere problemi coniugali, da fare errori sul lavoro e non praticare alcuna attività sessuale, secondo una ricerca pubblicata oggi.
Un'indagine svolta dalla Fondazione Nazionale sul Sonno ha scoperto che il75% degli adulti ha spesso i sintomi di qualche disturbo del sonno come continui risvegli durante la notte o il russare. Ma pochi credono di avere problemi del sonno e la maggior parte non se ne cura. «La metà del paese dorme abbastanza bene- l'altra metà ha dei problemi», ha scritto nella pubblicazione il direttore della Fondazione Richard Gelula.
Qual è la causa? La ricerca tra più di 1.500 adulti ha mostrato che l'87% di solito ha visto la televisione nell'ora prima di andare a dormire, il 47% ha avuto rapporti sessuali e il 64% ha letto. «Solo la metà degli intervistati possono dire della maggior parte delle notti "Ho dormito bene"», spiega la Fondazione, che pubblica regolarmente delle ricerche che mostrano come gli americani non dormano abbastanza.
Circa un quarto delle persone sposate o che hanno una relazione stabile dichiarano di avere rapporti sessuali meno frequenti o di aver perso interesse per essi perché sono troppo insonnoliti. L'organizzazione raccomanda che persone adulte dormano tra le 7 e le 9 ore a notte mentre l'indagine ha rivelato che gli americani dormono in media 6,9 ore.
L'insonnia è donna
Le notti in bianco sono un problema che si declina al femminile 6 volte su 10. Ma dopo i cinquant'anni la predilezione per il gentil sesso aumenta e il rapporto tra femmine maschi insonni diventa di 3 a 1. Ragioni psicologiche ma anche ormonali all'origine della differenza.
L’insonnia si declina al femminile. Il problema, che riguarda 12 milioni di italiani, fa infatti le sue vittime in 6 casi su 10 tra le donne.
«Ma la percentuale aumenta nettamente dopo i 50 anni» precisa il professor Mario Guazzelli, ordinario di Psicologia generale della facoltà di medicina dell'università di Pisa. «quando il rapporto con i maschi diventa di 3 a 1». Numeri ribaditi durante il Congresso annuale della Società Italiana di Psichiatria in corso a Roma in questi giorni.
I motivi all’origine di questa preferenza delle notti in bianco per “l’altra metà del cielo”nella seconda parte della vita, sono di diversa natura.
«Alcunisono psicologici, legati al cambiamento del ruolo sociale della donna», spiega Guazzelli.
Ma ci sono anche ragioni ormonali. «La donna fertile» ricorda lo specialista «produce ormoni (i progestinici) che hanno un notevole potere ipnotico Ma questa protezione viene a mancare dalla menopausa in avanti».
E i rimedi? Ne esistono di specifici per le donne dopo la menopausa? «No», chiarisce l'esperto . «I rimedi sono gli stessi per l’uomo come per la donna: il ricorso a qualche farmaco per episodi di insonnia sporadici, e il ricorso invece allo specialista quando l’insonnia diventa cronica, cioè dura senza soluzione di continuità per almento tre settimane». «Lo specialista poi valuterà da caso a caso quali sono i rimedi più adatti, dall’igiene del sonno, ai farmaci alla psicoterapia cognitivo-comportamentale (che aiuta il paziente a capire come si mette in relazione con gli eventi e conl’ambiente) , che recenti studi indicano avere un’efficacia talvolta pari a quella dei farmaci».
Insonnia e depressione
A interessare in modo particolare gli psichiatri sotto il profilo epidemiologico è anche un altro “numero”, cioè il parallelismo che si riscontra tra incidenza di insonnia e depressione nei due sessi.
Se infatti nella seconda metà della vita l’insonnia colpisce le donne tre volte più spesso degli uomini, anche la depressione segue un andamento simile, preferendo il genti sesso in un rapporto di due a uno rispetto ai maschi.
«E in effetti non è strano» riprende Guazzelli, «perché alcuni dei motivi psicologici, e probabilmente anche ormonali che favoriscono l’insonnia nelle donne esercitano un ruolo simile anche in chiave pro-depressiva». «Tra l’altro la depressione è spesso preceduta da 15-20 giorni di insonnia. Tant’è vero che i pazienti che soffrono di depressione ricorrente si accorgono che la crisi sta arrivano proprio perché cominciano a non dormire. Si tratta in questi casi soprattutto di un’insonnia caratterizzata da risvelgi precoci, più che da difficoltà di addormentamento».
«Tra l’altro», sottolinea ancora Guazzelli, «quella tra depressione e insonnia è una relazione ben nota agli psichiatri da sempre, ma che aveva perso d’interesse dopo l’arrivo dei primi antidepressivi, che, essendo fortemente ipnotici facevano dormire fin troppo il depresso in cura. Ora, invece, con la disponibilità di antidepressivi privi di questo effetto collaterale il problema è tornato alla ribalta perché quando si mette in terapia un depresso si rischia, paradossalmente, che nel primo mese di terapia abbandoni la cura. Questo perché l’antidepressivo ci mette circa in mese a fare effetto, e nel frattempo nono si può contare nemmeno sulla sonnolenza indotta dal farmaco, quindi il malatro continua a essere depresso e a non dormire, e così si scoraggia».
«Un problema che va affrontato avvertendo il depresso di questa possibilità, ma soprattutto cercando di rimediare all’insonnia con altre strategie».
Come dormono gli psichiatri?
Psichiatri e psicooogi studieranno il proprio sonno per imparare a capirne meglio i problemi
Sembra un uovo di Colombo: eppure, quale prospettiva migliore per capire i problemi degli insonni, che analizzare se stessi e i propri, eventuali, disturbi del sonno? Attraverso questa autovalutazione, a partire da un questionario distribuito pressoché a tutti gli psichiatri italiani, si proverà a rendere più esperto il metodo di analisi delle patologie del sonno, che in effetti sono patologie dell’intera vita della mente.
E’ ormai acquisito che il sonno è uno stato molto complesso della vita psichica, con tutte le caratteristiche e l’instabilità della veglia, teatro di complesse interazioni dinamiche tra diverse strutture del cervello. Dunque, tutt’altro che assenza, vuoto, puro abbandono poetico. Del resto, psicologi e psichiatri sono attrezzati da tempo a valutare le ricadute degli stati patologici del sonno sull’equilibrio mentale. E’ dunque in questa prospettiva che psicologi clinici, psichiatri, biochimici e farmacologi hanno deciso di affrontare il tema dei rapporti tra insonnia e depressione e ansia, in particolare, integrando le competenze sui diversi aspetti del problema.
Chi dorme male e poco corre un rischio doppio di ammalarsi nel corpo. Gli insonni cronici soffrono sempre di disturbi mentali e, come controprova, è offerto il dato acquisito che nei pazienti psichiatrici c’è un’alta incidenza di disturbi del sonno.
Perciò clinici della Società Italiana di Neurofarmacologia (SINPF) e della Società Italiana di Psichiatria (SIP) hanno costituito un gruppo di studio – presentato appunto a Roma – per esplorare a fondo le interazioni tra sonno e equilibrio mentale. Tra gli animatori di questo gruppo di studio interdisciplinare, Mario Guazzelli, ordinario di psicologia generale Università di Pisa, gli psichiatri Alberto Siracusano, ordinario di psichiatria Università Tor Vergata, Roma, Marcello Cardini, ordinario a Bari e Enrico Smeraldi, ordinario Università San Raffaele di Milano; Giovanni Biggio, ordinario di farmacologia Università di Cagliari, Angelo Gemignani, neurofisiologo Università di Pisa.
24 giugno 2005
Usa: troppo sonno per fare sesso
Molti americani sono talmente assonnati da avere problemi coniugali, da fare errori sul lavoro e non praticare alcuna attività sessuale, secondo una ricerca pubblicata oggi.
Un'indagine svolta dalla Fondazione Nazionale sul Sonno ha scoperto che il75% degli adulti ha spesso i sintomi di qualche disturbo del sonno come continui risvegli durante la notte o il russare. Ma pochi credono di avere problemi del sonno e la maggior parte non se ne cura. «La metà del paese dorme abbastanza bene- l'altra metà ha dei problemi», ha scritto nella pubblicazione il direttore della Fondazione Richard Gelula.
Qual è la causa? La ricerca tra più di 1.500 adulti ha mostrato che l'87% di solito ha visto la televisione nell'ora prima di andare a dormire, il 47% ha avuto rapporti sessuali e il 64% ha letto. «Solo la metà degli intervistati possono dire della maggior parte delle notti "Ho dormito bene"», spiega la Fondazione, che pubblica regolarmente delle ricerche che mostrano come gli americani non dormano abbastanza.
Circa un quarto delle persone sposate o che hanno una relazione stabile dichiarano di avere rapporti sessuali meno frequenti o di aver perso interesse per essi perché sono troppo insonnoliti. L'organizzazione raccomanda che persone adulte dormano tra le 7 e le 9 ore a notte mentre l'indagine ha rivelato che gli americani dormono in media 6,9 ore.
24 giugno 2005
il cervello è come il codice fiscale
ANSA Venerdì 1 Luglio 2005, 19:10
IL CERVELLO: È COME IL CODICE FISCALE, LE CONSONANTI FANNO CAPIRE LA PAROLA
(ANSA) - ROMA, 1 lug - Sono le consonanti che dicono al cervello come distinguere le parole nel discorso, un poco come avviene per l'identificazione di una persona con il codice fiscale.
Quando ascoltiamo il flusso di un discorso il nostro cervello riceve infatti informazioni diverse da vocali e consonanti. E sarebbero queste ultime a permetterci di distinguere le parole all'interno dello scorrere di suoni che si alternano. E' il risultato del lavoro scientifico di un'equipe formata, tra gli altri, da ricercatori della Scuola Internazionale di Studi Avanzati di Trieste. Come dimostrato da precedenti studi di psico-linguistica, per individuare le diverse parole, chi ascolta un discorso utilizza un meccanismo statistico chiamato TP (ovvero Transational Probability), basato sul principio che ci sia una maggiore probabilita' che ad alcuni suoni ne seguano determinati altri. Per esempio, e' piu' probabile che dopo il suono 'elefan' si abbia la sillaba 'te' piuttosto che 'ca'. Calcoli che il nostro cervello esegue normalmente non solo con le parole, ma anche con le note, le immagini e via dicendo. Nello studio, pubblicato sull'ultimo numero di Psychological Science, i ricercatori sostengono la tesi secondo cui in tale meccanismo consonanti e vocali giocherebbero un ruolo differente: le consonanti servirebbero principalmente a individuare le parole, mentre le vocali veicolerebbero le informazioni grammaticali. Il nostro e' quindi sensibile a questa differenza, utilizzando calcoli probabilistici per identificare le parole, ma non le regole grammaticali espresse all'interno di queste. ''Alcuni studiosi prima di noi hanno concluso che si potrebbe imparare un linguaggio semplicemente sfruttando queste sorprendenti capacita' statistiche. Nello studio noi invece ci siamo concentrati sugli eventuali limiti di tali capacita' computazionali che il linguaggio impone al sistema di calcolo statistico'' dice Luca Bonatti, uno dei ricercatori della SISSA di Trieste che ha partecipato al lavoro. La ricerca e' stata realizzata su decine di persone che parlano francese e la scelta della lingua non e' stata casuale: questi esperimenti, infatti, sono possibili solo con idiomi che possiedono molti suoni vocalici, come il francese che ne ha sedici. La teoria funzionerebbe esclusivamente all'interno di sistemi linguistici. In organismi come i primati non umani che non possiedono il linguaggio, e dunque ne' vocabolario ne' grammatica, infatti succederebbe esattamente il contrario. Altri ricercatori hanno infatti notato che nelle scimmie questi calcoli vengono effettuati sulle vocali, che per loro sono solo semplici suoni e non pacchetti di informazione con valenza grammaticale. (ANSA).
IL CERVELLO: È COME IL CODICE FISCALE, LE CONSONANTI FANNO CAPIRE LA PAROLA
(ANSA) - ROMA, 1 lug - Sono le consonanti che dicono al cervello come distinguere le parole nel discorso, un poco come avviene per l'identificazione di una persona con il codice fiscale.
Quando ascoltiamo il flusso di un discorso il nostro cervello riceve infatti informazioni diverse da vocali e consonanti. E sarebbero queste ultime a permetterci di distinguere le parole all'interno dello scorrere di suoni che si alternano. E' il risultato del lavoro scientifico di un'equipe formata, tra gli altri, da ricercatori della Scuola Internazionale di Studi Avanzati di Trieste. Come dimostrato da precedenti studi di psico-linguistica, per individuare le diverse parole, chi ascolta un discorso utilizza un meccanismo statistico chiamato TP (ovvero Transational Probability), basato sul principio che ci sia una maggiore probabilita' che ad alcuni suoni ne seguano determinati altri. Per esempio, e' piu' probabile che dopo il suono 'elefan' si abbia la sillaba 'te' piuttosto che 'ca'. Calcoli che il nostro cervello esegue normalmente non solo con le parole, ma anche con le note, le immagini e via dicendo. Nello studio, pubblicato sull'ultimo numero di Psychological Science, i ricercatori sostengono la tesi secondo cui in tale meccanismo consonanti e vocali giocherebbero un ruolo differente: le consonanti servirebbero principalmente a individuare le parole, mentre le vocali veicolerebbero le informazioni grammaticali. Il nostro e' quindi sensibile a questa differenza, utilizzando calcoli probabilistici per identificare le parole, ma non le regole grammaticali espresse all'interno di queste. ''Alcuni studiosi prima di noi hanno concluso che si potrebbe imparare un linguaggio semplicemente sfruttando queste sorprendenti capacita' statistiche. Nello studio noi invece ci siamo concentrati sugli eventuali limiti di tali capacita' computazionali che il linguaggio impone al sistema di calcolo statistico'' dice Luca Bonatti, uno dei ricercatori della SISSA di Trieste che ha partecipato al lavoro. La ricerca e' stata realizzata su decine di persone che parlano francese e la scelta della lingua non e' stata casuale: questi esperimenti, infatti, sono possibili solo con idiomi che possiedono molti suoni vocalici, come il francese che ne ha sedici. La teoria funzionerebbe esclusivamente all'interno di sistemi linguistici. In organismi come i primati non umani che non possiedono il linguaggio, e dunque ne' vocabolario ne' grammatica, infatti succederebbe esattamente il contrario. Altri ricercatori hanno infatti notato che nelle scimmie questi calcoli vengono effettuati sulle vocali, che per loro sono solo semplici suoni e non pacchetti di informazione con valenza grammaticale. (ANSA).
il professor Gabriel Levi
sul rischio depressione nei bambini
una segnalazione di Franco Pantalei
Repubblica Salute
Bambino-tartaruga, un potenziale depresso
I primi segnali del malessere sono individuabili ben prima dell'età scolare. Impariamo a riconoscerli
di Gabriel Levi *
È abbastanza facile capire che un adolescente possa sentirsi depresso. La tristezza esistenziale fa parte dell'adolescenza. Risulta più difficile identificarsi con la tristezza e la depressione dei ragazzi dagli otto anni in su. Ma poi mettiamo a fuoco i nascondimenti che caratterizzano queste età, in cui spesso si è più maturi di quanto si dovrebbe. E poi ci sono le battaglie con la scuola, i tantissimi impegni, gli amici che spesso si abbandonano l'un l'altro.
prima dei sei anni
Possibile che un bambino così piccolo possa essere depresso? Depressi in piccola parte si nasce ed in piccola parte ci si diventa. Esiste una predisposizione temperamentale, genetica. Esiste un orientamento educativo che premia gli atteggiamenti depressivi (di rinuncia, di inadeguatezza, di vergogna, di responsabilizzazione, di umiliazione, di colpa, di solitudine, di disperazione).
Ma quando e come avviene la saldatura tra questi circuiti psicologici che costruiscono la depressione? In concreto, tra i 2 e i 6 anni i bambini non sono depressi, ma possono sviluppare una costellazione di sentimenti e di comportamenti, che li espone ad un rischio per la depressione. Esplorano, con un unico viaggio complessivo, il mondo esterno, il mondo delle proprie capacità ed il mondo dei propri desideri e delle proprie paure.
OBIETTIVI-FILTRI
In questo lunghissimo arco della vita, i bambini fotografano il mondo usando due tipi di obiettivi-filtri: quello proprio e quello degli adulti importanti. Ma è da vedere quale filtro fornisce le immagini in bianco e nero e quale quelle a colori. Mentre attivano le loro competenze esplorative i bambini cercano di costruirsi un mondo tutto loro (la mappa dei loro movimenti e delle loro sensazioni). I viaggi e le esplorazioni dei bambini assomigliano in tutto e per tutto a quelli dei grandi esploratori. Non si può viaggiare senza sperimentare il fascino del nuovo, senza vivere i dubbi e le paure del rischio, senza la fragilità della solitudine, senza consumare abbandoni e rabbie. In fondo, il più semplice viaggio di un bambino si conclude con l'invenzione di un mondo nuovo con cui si possono fare nuovi giochi Questa scoperta del viaggio, con la capacità di sfidare i pericoli, corrisponde alla costruzione di uno stile di vita, più o meno aperto a scommettere sui propri desideri.
LA DIPENDENZA
Su questa area di sviluppo incidono i fattori temperamentali ed educativi cui avevamo prima accennato. Ci sono bambini che hanno, da subito, meno piacere a esplorare e sperimentare. Pur attenti al mondo ed ai fatti intorno a loro, sono dei bambini-tartaruga, che vivono dentro la loro eterna casetta... Si entusiasmano con difficoltà. Si arrendono con facilità. Vivono ogni esperienza con fatica e qualche lagna. Sono dipendenti da tutti: prima dalla mamma e poi dai coetanei. Ci sono adulti che di questi bambini colgono solo l'arrendevolezza e la disponibilità a dipendere. Questi adulti, in realtà molto spesso coccolano, anche troppo, questi bambini tristi ed impacciati. Li proteggono, perché danno l'impressione di mettercela tutta. Quello che non emerge, in questo tipo di rapporti, è un certo clima di cupezza, di rinuncia. In qualche momento di verità, l'adulto coglie il senso di solitudine del bambino-tartaruga, ma non riesce a percepirne la rabbia collegata con la paralisi.
Ostacoli e scuola
Il rischio depressivo consiste in questa fragilità emotiva. Nella difficoltà ad esprimere, ma persino a capire i propri sentimenti. Nella tendenza a vivere traumi e conflitti come catastrofi. Davanti ad un ostacolo, come le tartarughe chiudono la casa per restarci, oppure, come le lumache, perdono il guscio e vanno ancora più piano. Le singole culture delle famiglie possono facilitare alcune vie di uscita, che esprimono sia la triste sensazione di non farcela, sia un tentativo di condividere il problema emotivo. Qualche bambino diventa un piccolo grande malato. Il disagio si sposta dalla mente al corpo. La rappresentazione della malattia fornisce una possibilità maggiore alla comunicazione del dolore. Ma la sofferenza psicologica si maschera ancora di più. Qualche bambino dimostra il suo scarso investimento sulla realtà, imparando a non imparare. Se si tratta la scuola come una mamma cattiva e severa, si ricevono molte attenzioni. Anche troppe. Il legame con i genitori (che si trasformano in maestri) diventa molto più forte. La casa della tartaruga diventa una prigione. In qualche modo, ci si protegge da un mondo pericoloso. Qualche altro, crescendo, si traveste da buffone. Provocando gli altri, fingendo di essere sempre in movimento, si nascondono la sensazione di esser soli e la paralisi emotiva. Talora si costruiscono rapporti di gruppo, basati sulla legge delle piccole bande, dove si trovano sentimenti di alleanza, basati sulla dipendenza reciproca.
I SILENZI
Prima di assumere questi ruoli francamente depressivi, il bambino a rischio sta, per un lungo periodo, fermo.... in attesa di qualche cambiamento. Con lo sguardo segue i giochi degli altri bambini. Con il silenzio, segnala il desiderio di ricevere una carica che lo aiuti ad uscire dall'inibizione che lo consuma.
Repubblica Salute
Bambino-tartaruga, un potenziale depresso
I primi segnali del malessere sono individuabili ben prima dell'età scolare. Impariamo a riconoscerli
di Gabriel Levi *
È abbastanza facile capire che un adolescente possa sentirsi depresso. La tristezza esistenziale fa parte dell'adolescenza. Risulta più difficile identificarsi con la tristezza e la depressione dei ragazzi dagli otto anni in su. Ma poi mettiamo a fuoco i nascondimenti che caratterizzano queste età, in cui spesso si è più maturi di quanto si dovrebbe. E poi ci sono le battaglie con la scuola, i tantissimi impegni, gli amici che spesso si abbandonano l'un l'altro.
prima dei sei anni
Possibile che un bambino così piccolo possa essere depresso? Depressi in piccola parte si nasce ed in piccola parte ci si diventa. Esiste una predisposizione temperamentale, genetica. Esiste un orientamento educativo che premia gli atteggiamenti depressivi (di rinuncia, di inadeguatezza, di vergogna, di responsabilizzazione, di umiliazione, di colpa, di solitudine, di disperazione).
Ma quando e come avviene la saldatura tra questi circuiti psicologici che costruiscono la depressione? In concreto, tra i 2 e i 6 anni i bambini non sono depressi, ma possono sviluppare una costellazione di sentimenti e di comportamenti, che li espone ad un rischio per la depressione. Esplorano, con un unico viaggio complessivo, il mondo esterno, il mondo delle proprie capacità ed il mondo dei propri desideri e delle proprie paure.
OBIETTIVI-FILTRI
In questo lunghissimo arco della vita, i bambini fotografano il mondo usando due tipi di obiettivi-filtri: quello proprio e quello degli adulti importanti. Ma è da vedere quale filtro fornisce le immagini in bianco e nero e quale quelle a colori. Mentre attivano le loro competenze esplorative i bambini cercano di costruirsi un mondo tutto loro (la mappa dei loro movimenti e delle loro sensazioni). I viaggi e le esplorazioni dei bambini assomigliano in tutto e per tutto a quelli dei grandi esploratori. Non si può viaggiare senza sperimentare il fascino del nuovo, senza vivere i dubbi e le paure del rischio, senza la fragilità della solitudine, senza consumare abbandoni e rabbie. In fondo, il più semplice viaggio di un bambino si conclude con l'invenzione di un mondo nuovo con cui si possono fare nuovi giochi Questa scoperta del viaggio, con la capacità di sfidare i pericoli, corrisponde alla costruzione di uno stile di vita, più o meno aperto a scommettere sui propri desideri.
LA DIPENDENZA
Su questa area di sviluppo incidono i fattori temperamentali ed educativi cui avevamo prima accennato. Ci sono bambini che hanno, da subito, meno piacere a esplorare e sperimentare. Pur attenti al mondo ed ai fatti intorno a loro, sono dei bambini-tartaruga, che vivono dentro la loro eterna casetta... Si entusiasmano con difficoltà. Si arrendono con facilità. Vivono ogni esperienza con fatica e qualche lagna. Sono dipendenti da tutti: prima dalla mamma e poi dai coetanei. Ci sono adulti che di questi bambini colgono solo l'arrendevolezza e la disponibilità a dipendere. Questi adulti, in realtà molto spesso coccolano, anche troppo, questi bambini tristi ed impacciati. Li proteggono, perché danno l'impressione di mettercela tutta. Quello che non emerge, in questo tipo di rapporti, è un certo clima di cupezza, di rinuncia. In qualche momento di verità, l'adulto coglie il senso di solitudine del bambino-tartaruga, ma non riesce a percepirne la rabbia collegata con la paralisi.
Ostacoli e scuola
Il rischio depressivo consiste in questa fragilità emotiva. Nella difficoltà ad esprimere, ma persino a capire i propri sentimenti. Nella tendenza a vivere traumi e conflitti come catastrofi. Davanti ad un ostacolo, come le tartarughe chiudono la casa per restarci, oppure, come le lumache, perdono il guscio e vanno ancora più piano. Le singole culture delle famiglie possono facilitare alcune vie di uscita, che esprimono sia la triste sensazione di non farcela, sia un tentativo di condividere il problema emotivo. Qualche bambino diventa un piccolo grande malato. Il disagio si sposta dalla mente al corpo. La rappresentazione della malattia fornisce una possibilità maggiore alla comunicazione del dolore. Ma la sofferenza psicologica si maschera ancora di più. Qualche bambino dimostra il suo scarso investimento sulla realtà, imparando a non imparare. Se si tratta la scuola come una mamma cattiva e severa, si ricevono molte attenzioni. Anche troppe. Il legame con i genitori (che si trasformano in maestri) diventa molto più forte. La casa della tartaruga diventa una prigione. In qualche modo, ci si protegge da un mondo pericoloso. Qualche altro, crescendo, si traveste da buffone. Provocando gli altri, fingendo di essere sempre in movimento, si nascondono la sensazione di esser soli e la paralisi emotiva. Talora si costruiscono rapporti di gruppo, basati sulla legge delle piccole bande, dove si trovano sentimenti di alleanza, basati sulla dipendenza reciproca.
I SILENZI
Prima di assumere questi ruoli francamente depressivi, il bambino a rischio sta, per un lungo periodo, fermo.... in attesa di qualche cambiamento. Con lo sguardo segue i giochi degli altri bambini. Con il silenzio, segnala il desiderio di ricevere una carica che lo aiuti ad uscire dall'inibizione che lo consuma.
* Ord. Neuropsichiatria Infantile, Università "La Sapienza" di Roma
PAOLO CONTE:
la musica è femmina
Repubblica 03 LUGLIO 2005
L'INCONTRO
Cantanti di culto
Lo vogliono alla Carnegie Hall di Manhattan, al Kodak Theatre di Los Angeles, nei grandi casinò di Las Vegas. Ma lui è pigro, in aereo soffre di claustrofobia e preferisce restare nella campagna di Asti con il suo pianoforte a inventare canzoni, a cercarne il profumo, a inseguirle con tanto più gusto quanto più si fanno desiderare "perché la musica è femmina", a dare vita a una gabbia di suoni e di poesia
«A un certo punto della mia vita cominciai a tenermi le canzoni nel cassetto. Per un autore l´esecuzione di un interprete è un onore e insieme un tradimento»
PAOLO CONTE
di GIUSEPPE VIDETTI
BOLOGNA. Il disegnatore Bill Griffith, quello di "Zippy", che gli ha voluto fare un ritratto, ha colto perfettamente la sua maschera: le rughe, i baffi, gli occhi buoni, lo sguardo di chi ne ha viste di tutti i colori ma nasconde tutto dietro un broncio bonario. Griffith è uno dei tanti ammiratori americani di Paolo Conte. C´era anche Vincent Gallo al suo concerto a Broadway, nel prezioso Supper Club, quando «l'avvocato» tornò a Manhattan dopo il sold out al Blue Note. A questo punto, la Carnegie Hall gli spetterebbe di diritto. «Invece sono io che li faccio aspettare», borbotta Conte. Ma come? Le hanno offerto la Carnegie Hall e lei ha detto no? «Perché lei c´è stato? Di che colore è? Bianca, vero?». Un tempo, forse. Adesso è bianco sporco. «Sono due anni che mi invitano, ma non ho voglia di affrontare viaggi. Io di natura sono pigro. Soffro di claustrofobia e non mi piace stare chiuso troppo a lungo dentro un aereo. Mi vogliono a Las Vegas, ma che c'entro io coi casinò? E al Kodak Theatre di Los Angeles, dove danno gli Oscar. Magari ci andrò quando il nuovo airbus, quello spazioso con le camere da letto e l'idromassaggio, comincerà a volare. Per adesso non mi va di stare in scatola».
«Me lo fa un autografo? È per il mio moroso», la signora ha già pronte carta e penna. «Ma sì, per lei questo e altro. Meglio tenerselo buono il moroso». Nel ristorante dell'albergo si respira un'aria fin de siècle. Moquette bordeaux, lampadari a gocce (tante gocce), corrimano di velluto (bordeaux). E una habituée fatta su misura, divina, con tanto di quel rosa addosso, dalle scarpe al cappello, che neanche Barbara Cartland. «Una eccentrica miliardaria che qui a Bologna conoscono tutti», informa il cameriere azzimato. Le camere da letto sono rivestite di stoffa a fiori. Rose dappertutto, persino sugli interruttori della luce. «Io qui sto bene», dice Conte, che è a Bologna per provare alcune nuove canzoni che eseguirà nel tour estivo in giro per l´Europa; unica serata italiana all'Arena di Verona, il 26 luglio. Un evento che verrà registrato per un cd e un dvd di prossima pubblicazione. «Non mi piacciono gli alberghi della new economy, quelli dove in camera si entra con la scheda magnetica. L'alberghetto, invece, mi dà sicurezza. Scelgo quelli che hanno un gusto di casa, vecchio stile, con delle visibili vestigia del passato, come quelle due colonnine di marmo lì accanto all'ascensore, vede?». Il cartello «vietato fumare» è l'unico richiamo al presente. «Io per fortuna ho smesso da tanto tempo. Lo faccio solo di nascosto. Anzi, diciamo proprio che ho smesso di fumare, se no mia moglie si arrabbia. Niente sigarette, niente cioccolata».
Conte, all'estero, è un "cult singer". Brian Eno lo chiama «Il re del kazoo». «In realtà questa è una storia che è partita da me. Una volta mi chiesero, cosa ti piacerebbe che scrivessero sul tuo epitaffio? E io: "È stato il miglior suonatore di kazoo del mondo". A me questa etichetta va benissimo, abdico volentieri a qualunque riferimento vocale e mi sparo tutta una carriera sul kazoo. È uno strumento di origini antiche, primitive. Si costruiva facilmente anche in casa. Io e mio fratello, da bambini, lo facevamo con il pettine e la carta velina. Nel periodo in cui tenevo concerti da solo, perché l'orchestra non potevo permettermela, mio fratello Giorgio mi regalò un vero kazoo, che ho sempre conservato gelosamente, perché usandolo avevo l'impressione di avere alle spalle un'orchestra fantasma. Mi piace il fatto che sia uno strumento con una vaga parvenza umana, perché alla fine sempre di vocalismo si tratta. A proposito, ma Brian Eno quanti anni ha?». Cinquantasette. «Sa quanti ne ho io?». Se non sbaglio, è nato il 6 gennaio del 1938. «No, quello è Celentano. Io sono del 6 gennaio del ‘37. Siamo stati entrambi portati non dalla Befana, come si tende a dire, ma dai Re Magi».
Con Adriano, all'epoca in cui Conte cercava interpreti per le sue canzoni, l'intesa fu facile, immediata. Il risultato, memorabile: Azzurro. «Io, come autore, cercavo una credibilità vocale. Non mi soffermavo troppo sul personaggio. Non mi piaceva chi cantava da cantante, preferivo quelli che usavano la lingua italiana in modo credibile, naturale. Ecco perché mi è sempre piaciuto tantissimo Celentano. E Aznavour, che ha tutto quello che un cantante deve avere. Per me gli anni Sessanta furono il periodo in cui i testi si presero la rivincita sulla musica. Ci sono state delle canzoni italiane degli anni Trenta e Quaranta che erano meravigliose, ma liricamente deboli: linguaggio ampolloso, forzato, rime mal congegnate. Negli anni Sessanta ci fu una rinascita di valori poetici, che in Francia c'era ormai da tempo, Brassens, e prima ancora i testi della Piaf. Tutto questo si esaltava nella qualità interpretativa di voci non perfette, ma uniche».
Si parla delle canzoni del dopoguerra, influenzate dallo swing, con i testi un po´ appesantiti dal quel senso di disorientamento che l'Italia della ricostruzione stava attraversando. Come Perduto amore... Conte fa corna e scongiuri. «Forse lei non lo sa, ma ci sono canzoni che non vanno nominate». Perché, portano jella? «Sì, e io sono assai superstizioso». Più del gatto nero? «No, quello invece mi sta simpatico. Ma nel nostro mondo certe canzoni, certi colori (il viola, ma anche il verde) meglio tenerli alla larga. Ce n'è anche una famosa di Gershwin nella lista nera».
Nel periodo di grande euforia della canzone italiana, gli anni Sessanta, quando la Pavone arrivava al Cantagiro in Jaguar rosa, l'avvocato di Asti, dietro le quinte, scriveva successi da classifica. «Ne ho viste di tutti i colori. Mi facevano molta simpatia i cantanti di allora. Mi ricordo l'Equipe 84, Maurizio Vandelli che arrivava con la Rolls e Alfio Cantarella con la Ferrari. Era un mondo che io cercavo di capire. Sentivo che quegli artisti avevano potere e delle grandi potenzialità, anche se molti di loro erano dei bravi "ricopiatori" di cose straniere. Ma siccome io non avevo sentito gli originali, perché ascoltavo solo jazz, non avevo notizie precise di quel che avveniva in America o in Inghilterra, quindi mi sembravano tutti dei geni, degli innovatori. Poi, a un certo punto, mi accorsi che stavo scrivendo in una maniera meno esportabile, canzoni che non avrei potuto facilmente mettere in mano ad altri, più ermetiche. Non ricordo quale fu il primo brano che mi rifiutai di dare, ma a un certo punto cominciai a tenermi le canzoni nel cassetto. Temevo che non sarebbero state capite. Per un autore, l'esecuzione di un interprete è un grande onore, ma allo stesso tempo un tradimento, al contrario: sapevo che Azzurro era un gran pezzo, ma se non avessi avuto un grande interprete come Celentano, sarebbe rimasto molto più nascosto. Ancora adesso, quando scrivo una canzone, lo faccio sempre con il miraggio che la possa cantare qualcun altro, Stevie Wonder, Aznavour...».
Quando si ha la certezza di aver scritto un capolavoro? «Lo senti a peso. Ci può essere una canzone che ti è molto cara, che ha dentro qualcosa a cui tieni enormemente, però la senti che è piccola. C'è invece quell'altra che è obiettivamente più comprensibile, ti piace e può piacere agli altri. Puoi farci intorno tutte le masturbazioni estetico-intellettuali che vuoi, ma ci sono canzoni che a peso cantano, altre meno, altre per niente. Ne abbiamo sentite di tutti i colori in questi anni sul potere di una canzone. Personalmente, non ho mai condiviso la presunzione che una canzone possa cambiare il mondo. Posso capire che una canzone possa far compagnia, siglare un periodo della vita, mettere un sigillo su una storia d'amore. È un mezzo di comunicazione nella misura in cui l'arte, in ogni caso, comunica. Una canzone può segnare un'epoca, questo sì. La canzone ha un odore e può portarti il profumo di una certa situazione, di un momento. Se ascolto Ma l'amore no, sono investito immediatamente dal veleno di quegli anni di guerra».
Molto jazz, dischi e libri che spesso restano lì mesi ad aspettare di essere aperti o ascoltati. Poca televisione. «Il telegiornale, ma non sempre. I film belli purtroppo li trasmettono solo dopo mezzanotte. Ma ho alcuni vizietti, cose che la televisione italiana riesce a fare benissimo: La squadra, anzitutto. E poi, su quell'onda, me li sono fatti tutti, Distretto di polizia, Montalbano, Don Matteo, Carabinieri. Ma il top rimane La squadra con Tony Sperandeo. Istintivamente invece, ancora prima che partissero, ho rifiutato in blocco tutti i reality show. Non li reggo. Se riescono a mettere in piedi qualcosa come Music farm, la crisi del disco deve esserci davvero».
Paolo Conte ha una bella casa in città, ad Asti, «con la veranda che è il mio angolo speciale». Da qualche anno, però, preferisce la campagna, a dieci chilometri dal centro. «Per me ogni angolo è buono per inventare una canzone, basta che ci sia un pianoforte. I libri di giurisprudenza, per affetto, li ho ancora tutti, ma non li apro mai. Non ho rimpianti dal punto di vista professionale, ma a volte, nelle notti d'insonnia, mi torna in mente un caso che seguivo, e cerco di ricordarmi qualche elemento di diritto, piccole nostalgie... Ma sono contento che sull'avvocato abbia prevalso l'artista».
Strano che un autore dalla fantasia così fervida, che ha concepito un work in progress affascinante come Razmataz, non abbia ancora messo mano a un romanzo. «Ho avuto diverse richieste da persone molto simpatiche di case editrici, ma non è il mio mestiere. Io non sono forte sulla traccia lunga. Di un romanzo, riuscirei a inventare un bell'ingresso e un discreto finale, ma poi mi manca tutto il congegno centrale. Tutto quel che ho scritto, l'ho sempre scritto con l'alibi della musica, su gabbie già disegnate dai suoni. Non saprei scrivere neanche poesie sganciate dalla musica, mi sentirei esposto alle intemperie se lo facessi. La verità è che non ho niente di urgente da dire».
Che astuzie usa l'avvocato quando una buona canzone tarda ad arrivare? «Mi piace quando si fa un po' desiderare, come una bella donna. La musica è femmina». Che tipo di donna l'affascina di più? Una Gilda fatale ed esotica che balla il tango con casqué? «Come per tutti quelli della mia generazione, la più vicina è sempre la più bella».
L'INCONTRO
Cantanti di culto
Lo vogliono alla Carnegie Hall di Manhattan, al Kodak Theatre di Los Angeles, nei grandi casinò di Las Vegas. Ma lui è pigro, in aereo soffre di claustrofobia e preferisce restare nella campagna di Asti con il suo pianoforte a inventare canzoni, a cercarne il profumo, a inseguirle con tanto più gusto quanto più si fanno desiderare "perché la musica è femmina", a dare vita a una gabbia di suoni e di poesia
«A un certo punto della mia vita cominciai a tenermi le canzoni nel cassetto. Per un autore l´esecuzione di un interprete è un onore e insieme un tradimento»
PAOLO CONTE
di GIUSEPPE VIDETTI
BOLOGNA. Il disegnatore Bill Griffith, quello di "Zippy", che gli ha voluto fare un ritratto, ha colto perfettamente la sua maschera: le rughe, i baffi, gli occhi buoni, lo sguardo di chi ne ha viste di tutti i colori ma nasconde tutto dietro un broncio bonario. Griffith è uno dei tanti ammiratori americani di Paolo Conte. C´era anche Vincent Gallo al suo concerto a Broadway, nel prezioso Supper Club, quando «l'avvocato» tornò a Manhattan dopo il sold out al Blue Note. A questo punto, la Carnegie Hall gli spetterebbe di diritto. «Invece sono io che li faccio aspettare», borbotta Conte. Ma come? Le hanno offerto la Carnegie Hall e lei ha detto no? «Perché lei c´è stato? Di che colore è? Bianca, vero?». Un tempo, forse. Adesso è bianco sporco. «Sono due anni che mi invitano, ma non ho voglia di affrontare viaggi. Io di natura sono pigro. Soffro di claustrofobia e non mi piace stare chiuso troppo a lungo dentro un aereo. Mi vogliono a Las Vegas, ma che c'entro io coi casinò? E al Kodak Theatre di Los Angeles, dove danno gli Oscar. Magari ci andrò quando il nuovo airbus, quello spazioso con le camere da letto e l'idromassaggio, comincerà a volare. Per adesso non mi va di stare in scatola».
«Me lo fa un autografo? È per il mio moroso», la signora ha già pronte carta e penna. «Ma sì, per lei questo e altro. Meglio tenerselo buono il moroso». Nel ristorante dell'albergo si respira un'aria fin de siècle. Moquette bordeaux, lampadari a gocce (tante gocce), corrimano di velluto (bordeaux). E una habituée fatta su misura, divina, con tanto di quel rosa addosso, dalle scarpe al cappello, che neanche Barbara Cartland. «Una eccentrica miliardaria che qui a Bologna conoscono tutti», informa il cameriere azzimato. Le camere da letto sono rivestite di stoffa a fiori. Rose dappertutto, persino sugli interruttori della luce. «Io qui sto bene», dice Conte, che è a Bologna per provare alcune nuove canzoni che eseguirà nel tour estivo in giro per l´Europa; unica serata italiana all'Arena di Verona, il 26 luglio. Un evento che verrà registrato per un cd e un dvd di prossima pubblicazione. «Non mi piacciono gli alberghi della new economy, quelli dove in camera si entra con la scheda magnetica. L'alberghetto, invece, mi dà sicurezza. Scelgo quelli che hanno un gusto di casa, vecchio stile, con delle visibili vestigia del passato, come quelle due colonnine di marmo lì accanto all'ascensore, vede?». Il cartello «vietato fumare» è l'unico richiamo al presente. «Io per fortuna ho smesso da tanto tempo. Lo faccio solo di nascosto. Anzi, diciamo proprio che ho smesso di fumare, se no mia moglie si arrabbia. Niente sigarette, niente cioccolata».
Conte, all'estero, è un "cult singer". Brian Eno lo chiama «Il re del kazoo». «In realtà questa è una storia che è partita da me. Una volta mi chiesero, cosa ti piacerebbe che scrivessero sul tuo epitaffio? E io: "È stato il miglior suonatore di kazoo del mondo". A me questa etichetta va benissimo, abdico volentieri a qualunque riferimento vocale e mi sparo tutta una carriera sul kazoo. È uno strumento di origini antiche, primitive. Si costruiva facilmente anche in casa. Io e mio fratello, da bambini, lo facevamo con il pettine e la carta velina. Nel periodo in cui tenevo concerti da solo, perché l'orchestra non potevo permettermela, mio fratello Giorgio mi regalò un vero kazoo, che ho sempre conservato gelosamente, perché usandolo avevo l'impressione di avere alle spalle un'orchestra fantasma. Mi piace il fatto che sia uno strumento con una vaga parvenza umana, perché alla fine sempre di vocalismo si tratta. A proposito, ma Brian Eno quanti anni ha?». Cinquantasette. «Sa quanti ne ho io?». Se non sbaglio, è nato il 6 gennaio del 1938. «No, quello è Celentano. Io sono del 6 gennaio del ‘37. Siamo stati entrambi portati non dalla Befana, come si tende a dire, ma dai Re Magi».
Con Adriano, all'epoca in cui Conte cercava interpreti per le sue canzoni, l'intesa fu facile, immediata. Il risultato, memorabile: Azzurro. «Io, come autore, cercavo una credibilità vocale. Non mi soffermavo troppo sul personaggio. Non mi piaceva chi cantava da cantante, preferivo quelli che usavano la lingua italiana in modo credibile, naturale. Ecco perché mi è sempre piaciuto tantissimo Celentano. E Aznavour, che ha tutto quello che un cantante deve avere. Per me gli anni Sessanta furono il periodo in cui i testi si presero la rivincita sulla musica. Ci sono state delle canzoni italiane degli anni Trenta e Quaranta che erano meravigliose, ma liricamente deboli: linguaggio ampolloso, forzato, rime mal congegnate. Negli anni Sessanta ci fu una rinascita di valori poetici, che in Francia c'era ormai da tempo, Brassens, e prima ancora i testi della Piaf. Tutto questo si esaltava nella qualità interpretativa di voci non perfette, ma uniche».
Si parla delle canzoni del dopoguerra, influenzate dallo swing, con i testi un po´ appesantiti dal quel senso di disorientamento che l'Italia della ricostruzione stava attraversando. Come Perduto amore... Conte fa corna e scongiuri. «Forse lei non lo sa, ma ci sono canzoni che non vanno nominate». Perché, portano jella? «Sì, e io sono assai superstizioso». Più del gatto nero? «No, quello invece mi sta simpatico. Ma nel nostro mondo certe canzoni, certi colori (il viola, ma anche il verde) meglio tenerli alla larga. Ce n'è anche una famosa di Gershwin nella lista nera».
Nel periodo di grande euforia della canzone italiana, gli anni Sessanta, quando la Pavone arrivava al Cantagiro in Jaguar rosa, l'avvocato di Asti, dietro le quinte, scriveva successi da classifica. «Ne ho viste di tutti i colori. Mi facevano molta simpatia i cantanti di allora. Mi ricordo l'Equipe 84, Maurizio Vandelli che arrivava con la Rolls e Alfio Cantarella con la Ferrari. Era un mondo che io cercavo di capire. Sentivo che quegli artisti avevano potere e delle grandi potenzialità, anche se molti di loro erano dei bravi "ricopiatori" di cose straniere. Ma siccome io non avevo sentito gli originali, perché ascoltavo solo jazz, non avevo notizie precise di quel che avveniva in America o in Inghilterra, quindi mi sembravano tutti dei geni, degli innovatori. Poi, a un certo punto, mi accorsi che stavo scrivendo in una maniera meno esportabile, canzoni che non avrei potuto facilmente mettere in mano ad altri, più ermetiche. Non ricordo quale fu il primo brano che mi rifiutai di dare, ma a un certo punto cominciai a tenermi le canzoni nel cassetto. Temevo che non sarebbero state capite. Per un autore, l'esecuzione di un interprete è un grande onore, ma allo stesso tempo un tradimento, al contrario: sapevo che Azzurro era un gran pezzo, ma se non avessi avuto un grande interprete come Celentano, sarebbe rimasto molto più nascosto. Ancora adesso, quando scrivo una canzone, lo faccio sempre con il miraggio che la possa cantare qualcun altro, Stevie Wonder, Aznavour...».
Quando si ha la certezza di aver scritto un capolavoro? «Lo senti a peso. Ci può essere una canzone che ti è molto cara, che ha dentro qualcosa a cui tieni enormemente, però la senti che è piccola. C'è invece quell'altra che è obiettivamente più comprensibile, ti piace e può piacere agli altri. Puoi farci intorno tutte le masturbazioni estetico-intellettuali che vuoi, ma ci sono canzoni che a peso cantano, altre meno, altre per niente. Ne abbiamo sentite di tutti i colori in questi anni sul potere di una canzone. Personalmente, non ho mai condiviso la presunzione che una canzone possa cambiare il mondo. Posso capire che una canzone possa far compagnia, siglare un periodo della vita, mettere un sigillo su una storia d'amore. È un mezzo di comunicazione nella misura in cui l'arte, in ogni caso, comunica. Una canzone può segnare un'epoca, questo sì. La canzone ha un odore e può portarti il profumo di una certa situazione, di un momento. Se ascolto Ma l'amore no, sono investito immediatamente dal veleno di quegli anni di guerra».
Molto jazz, dischi e libri che spesso restano lì mesi ad aspettare di essere aperti o ascoltati. Poca televisione. «Il telegiornale, ma non sempre. I film belli purtroppo li trasmettono solo dopo mezzanotte. Ma ho alcuni vizietti, cose che la televisione italiana riesce a fare benissimo: La squadra, anzitutto. E poi, su quell'onda, me li sono fatti tutti, Distretto di polizia, Montalbano, Don Matteo, Carabinieri. Ma il top rimane La squadra con Tony Sperandeo. Istintivamente invece, ancora prima che partissero, ho rifiutato in blocco tutti i reality show. Non li reggo. Se riescono a mettere in piedi qualcosa come Music farm, la crisi del disco deve esserci davvero».
Paolo Conte ha una bella casa in città, ad Asti, «con la veranda che è il mio angolo speciale». Da qualche anno, però, preferisce la campagna, a dieci chilometri dal centro. «Per me ogni angolo è buono per inventare una canzone, basta che ci sia un pianoforte. I libri di giurisprudenza, per affetto, li ho ancora tutti, ma non li apro mai. Non ho rimpianti dal punto di vista professionale, ma a volte, nelle notti d'insonnia, mi torna in mente un caso che seguivo, e cerco di ricordarmi qualche elemento di diritto, piccole nostalgie... Ma sono contento che sull'avvocato abbia prevalso l'artista».
Strano che un autore dalla fantasia così fervida, che ha concepito un work in progress affascinante come Razmataz, non abbia ancora messo mano a un romanzo. «Ho avuto diverse richieste da persone molto simpatiche di case editrici, ma non è il mio mestiere. Io non sono forte sulla traccia lunga. Di un romanzo, riuscirei a inventare un bell'ingresso e un discreto finale, ma poi mi manca tutto il congegno centrale. Tutto quel che ho scritto, l'ho sempre scritto con l'alibi della musica, su gabbie già disegnate dai suoni. Non saprei scrivere neanche poesie sganciate dalla musica, mi sentirei esposto alle intemperie se lo facessi. La verità è che non ho niente di urgente da dire».
Che astuzie usa l'avvocato quando una buona canzone tarda ad arrivare? «Mi piace quando si fa un po' desiderare, come una bella donna. La musica è femmina». Che tipo di donna l'affascina di più? Una Gilda fatale ed esotica che balla il tango con casqué? «Come per tutti quelli della mia generazione, la più vicina è sempre la più bella».
Iscriviti a:
Post (Atom)