sabato 2 ottobre 2004

Marx e il cristianesimo

una segnalazione di Roberto Altamura

Liberazione, Le lettere 2.10.04
Alienazione religiosa: Marx è molto chiaro
Lettera al direttore

Caro direttore, (a proposito del dibattito sull'essere comunisti e cattolici in atto fra i lettori di "Liberazione", ndr), il pensiero comunista impostato da Marx è molto chiaro sulla critica radicale alla religione e in particolare al cattolicesimo perchè considera il problema di primaria importanza non solo come evidenziazione degli errori storici delle religioni ma soprattutto, dal punto di vista teorico, come forma esemplare di alienazione. E, nella lotta politica concreta, mette continuamente in guardia i lavoratori dal coltivare ideologie religiose, rivendicando il primato della razionalità laica e scientifica. Consiglio a chi ha dei dubbi di leggere il prezioso libro "Marx: sulla religione", edito dalla Nuova Italia, che compendia i tanti scritti di Marx sull'argomento. Altro discorso è invece l'apprezzamento di certi meriti di singole personalità cristiane e qui il dialogo è certamente possibile. Ma dal punto di vista teorico la critica marxiana dell'alienazione religiosa è altrettanto netta chiara e profonda della critica dello sfruttamento capitalistico e anzi spesso mette in evidenza le tante analogie tra lo sfruttamento della forza lavoro tramite il modo di produzione capitalistico e l'alienazione delle coscienze dei lavoratori tramite l'ideologia religiosa e cristiana in particolare.

Pasquale Vilardo

Julio Cortázar
Edgar Allan Poe (1809-1849)

La Stampa TuttoLibri 2.10.04
POE Un bambino tra i fantasmi
Julio Cortázar

IL carattere del poeta non può essere compreso se si trascurano due circostanze capitali della sua infanzia: la pressione psicologica e affettiva accusata da un bambino che, non avendo i genitori, sa di poter vivere soltanto grazie alla carità altrui (carità estremamente peculiare, come si vedrà), e la vita del Sud. La Virginia, a quell’epoca, rappresentava lo spirito sudista molto più di quel che un’occhiata superficiale alla carta geografica degli Stati Uniti lascerebbe supporre. La cosiddetta «Linea Mason-Dixon», che delimitava l’estremità meridionale della Pennsylvania, valeva anche come confine tra quelle tendenze che sarebbero fermentate a Nord nell’abolizionismo, e a Sud nella difesa del regime schiavista e feudale. Edgar Poe crebbe come sudista - nonostante fosse nato a Boston - e non smise mai di sentirsi tale spiritualmente. Molte sue critiche alla democrazia, al progresso, alla credenza nella perfettibilità dei popoli provengono dal suo essere «un gentiluomo del Sud» radicato nei costumi mentali e morali modellati dalla vita virginiana. Altri elementi di stampo prettamente sudista avrebbero concorso a influenzare la sua immaginazione: le bambinaie nere, i domestici schiavi e un folclore nel quale le storie di fantasmi e i racconti sui cimiteri e sui cadaveri erranti nelle foreste provvidero a organizzare un ricco repertorio del sovrannaturale, su cui non mancò di fiorire una vivace aneddotica. John Allan, il suo quasi involontario protettore, era un commerciante scozzese emigrato a Richmond, dove era diventato socio di un’impresa dedita al commercio del tabacco e ad altre attività curiosamente disparate, ma tipiche di un tempo in cui gli Stati Uniti erano un immenso campo di prova. Uno dei settori dell’attività di John Allan era costituito dall’ufficio di rappresentanza di alcune riviste britanniche, e fu nei locali della Ellis & Allan che il piccolo Edgar ebbe l’opportunità di curvarsi, giovanissimo, sui magazines trimestrali scozzesi e inglesi, e di prendere contatto con un mondo erudito e pedante, «gotico» e romanzesco, critico e diffamatorio, in cui i cascami dell’ingegno del XVIII secolo si mescolavano con il romanticismo in piena eruzione, e in cui le ombre di Johnson, Addison e Pope cedevano lentamente alla folgorante presenza di Byron, alla poesia di Wordsworth e ai romanzi e ai racconti del terrore. Gran parte della tanto discussa cultura di Poe proveniva da quelle precoci letture.
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Tra i quattro e i cinque anni Edgar era un bel bambino con i riccioli bruni e i grandi occhi luminosi. Lesto com’era a impadronirsi delle poesie degli autori alla moda (Walter Scott, per esempio), le dame che si recavano in visita da Frances Allan all’ora del tè non si stancavano di sentirlo recitare, gravemente, appassionatamente, le estese composizioni apprese a memoria. Gli Allan provvedevano alla sua educazione con intelligenza, ma il mondo che lo circondava, a Richmond, si rivelava non meno utile dei libri. La sua mammy, la bambinaia nera di ogni figlio di famiglia ricca del Sud, dovette iniziarlo ai ritmi della gente di colore, la qual cosa spiegherebbe, in parte, il suo interesse posteriore, quasi ossessivo, per la scansione dei versi e per la magia ritmica che infiammano Il corvo, Ulalume, Annabel Lee. E vi era il mare, rappresentato dai suoi ambasciatori naturali, i capitani dei velieri, che si riunivano negli uffici della Ellis & Allan per discutere di affari e per brindare con i soci narrando lunghe avventure. Il piccolo Edgar dovette intravedere, trepidante ascoltatore, le prime immagini di Arthur Gordon Pym e del vortice del Maelström, e tutta quell’aria marina che impregnerà la sua letteratura e che egli seppe convogliare nelle velature che ancora sospingono le sue navi di fantasmi.
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Quando si critica la formazione letteraria e culturale di Poe non bisognerebbe dimenticare che negli anni 1831 e 1832, allorché la sua carriera di scrittore era definitivamente avviata, Edgar lavorava assillato dalla fame, dalla miseria e dalla paura; il fatto che riuscisse a tirare avanti, e a conquistare giorno dopo giorno nuovi gradini verso la sua perfezione letteraria, dimostra quanta forza fosse capace di sprigionare quel grande debole. Ma a volte Edgar perdeva le staffe. Non sappiamo se allora bevesse più del dovuto (anche se la più piccola dose gli era sempre fatale). Si era innamorato di Mary Devereaux, giovane e graziosa vicina dei Clemm. Per Mary, il poeta rappresentava il mistero, e in un certo modo il proibito, poiché già correvano voci sul suo passato, seminate in gran parte da lui stesso. Inoltre Edgar aveva quell’aspetto che avrebbe sempre soggiogato le donne che attraversavano la sua vita. La stessa Mary, moltissimi anni dopo, lo ricordava così: «Mr Poe era alto cinque piedi e otto pollici, aveva i capelli scuri, quasi neri, che portava molto lunghi e pettinati all’indietro, come gli studenti. I suoi capelli erano fini come la seta; gli occhi grandi e luminosi, grigi e penetranti. Aveva il viso completamente rasato. Il naso era lungo e dritto, e i lineamenti molto fini; la bocca, espressivamente bella. Era pallido, esangue, con la pelle gradevolmente olivastra. Guardava in maniera triste e malinconica. Era estremamente magro... ma aveva un atteggiamento raffinato, un portamento eretto e militaresco, e camminava con passo svelto. La cosa più incantevole di lui, tuttavia, erano i modi. Era elegante. Quando guardava qualcuno sembrava capace di leggerne i pensieri. Aveva una voce gradevole e musicale, ma non profonda. Indossava sempre una giacca nera abbottonata fino al collo... Non seguiva la moda, ma aveva un suo stile».
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Si è detto che Poe, nei periodi di depressione derivanti da una palese debolezza cardiaca, ricorresse all’alcol come a uno stimolante indispensabile. Appena beveva, il suo cervello ne pagava le conseguenze. Questo circolo vizioso dovette chiudersi ancora una volta a bordo, durante la traversata per Baltimora. A Richmond i medici lo avevano ammonito che una nuova ricaduta gli sarebbe stata fatale, e non si erano sbagliati. Il 29 settembre il battello attraccò a Baltimora; Poe doveva prendere il treno per Filadelfia, ma si rendeva necessaria un’attesa di molte ore. Fu in quelle ore che si decise il suo destino. Sappiamo che quando fece visita a un amico era già ebbro. Ciò che accadde dopo è soltanto argomento di congettura. Si apre una parentesi di cinque giorni, in capo ai quali un medico, un conoscente di Poe, ricevette un messaggio scritto frettolosamente a matita con cui lo si informava che un signore «alquanto male in arnese» aveva urgente bisogno del suo aiuto. Il biglietto proveniva da un tipografo che aveva riconosciuto Edgar Poe in un ubriaco semincosciente imbucato in una taverna e circondato dalla peggiore marmaglia di Baltimora. Erano giorni di elezioni e i partiti in lizza facevano votare più volte i poveri diavoli, ubriacandoli preventivamente per condurli da un seggio all’altro. Non esiste alcuna prova concreta, ma l’ipotesi più plausibile è che Poe sia stato utilizzato come votante, e infine abbandonato nella taverna dove l’avevano identificato. La descrizione che ne fece poi il medico dimostra che era ormai perduto per il mondo: solo con se stesso nel suo personale inferno in vita, consegnato definitivamente alle sue visioni. Quanto rimaneva delle sue forze (visse altri cinque giorni in un ospedale di Baltimora) bruciò in terribili allucinazioni, nella lotta con le infermiere che lo legavano, nell’invocazione disperata di Reynolds, l’esploratore polare che aveva influenzato la composizione di Gordon Pym e che ora, misteriosamente, si tramutava nel simbolo finale di quelle terre dell’aldilà che Edgar sembrava stesse vedendo, così come Pym aveva intravisto la gigantesca immagine di ghiaccio nell’ultimo istante del romanzo.
... Morì alle tre del mattino del 7 ottobre 1849. «Che Dio aiuti la mia povera anima», furono le sue ultime parole.

storia delle donne
la presenza femminile nella Resistenza

Emilianet.it 2.10.04
La presenza femminile nella Resistenza
40 storiche a confronto a Reggio Emilia dal 7 al 9 ottobre per iniziativa dell'Istituto Alcide Cervi e della Società Italiana delle Storiche

REGGIO EMILIA (1 ott. 2004) - E' un momento di confronto e di ricerca senza precedenti sul ruolo femminile nella Resistenza e nella nascita della Repubblica italiana quello che si terrà a Reggio Emilia dal 7 al 9 ottobre. A promuoverlo è l'Istituto di storia Alcide Cervi, con l'alto patronato della Presidenza della Repubblica e in collaborazione con la Società Italiana delle Storiche, in occasione del 60° anniversario della costituzione dei Gruppi di difesa delle donne, che nel 1944 segnarono il passaggio delle donne da sostenitrici dei movimenti partigiani al ruolo di combattenti attive.
Un intreccio di storie, di testimonianze, di analisi e ricerche che per tre giorni si muoveranno tra guerra, politica, Resistenza e nascita della Repubblica, grazie al contributo di oltre 40 storiche (docenti universitarie, ricercatrici) e alcuni storici italiani.
"Uno scavo nella memoria della partecipazione delle donne alla Resistenza – hanno sottolineato in conferenza stampa il sen. Ugo Benassi, presidente dell'Istituto Cervi, l'on Franco Boiardi e la dr.ssa Paola Varesi, rispettivamente membro del consiglio e direttrice dell'Istituto stesso - membro del Consiglio dell'Istituto, ma anche nell'attualità di una presenza femminile che è stata non solo condizione imprescindibile per lo sviluppo del movimento partigiano nel Centro e nel Nord Italia, ma fondamentale per costruire nell'intero Paese un tessuto sociale che nel dopoguerra ha aperto il varco alla democrazia e al nuovo assetto costituzionale".
Patrocinato dal Comitato regionale per le celebrazioni del 60° della Resistenza, il convegno "Guerra, Resistenza, Politica: storie di donne" si articolerà in quattro sessioni: la prima, giovedì 7 ottobre con inizio alle ore 16,00, si terrà al Museo Cervi di Gattatico (quella che fu la casa dei sette fratelli Cervi, la cui uccisione segnò una delle pagine più tragiche della Registenza) sul tema "La mia Resistenza".
Emblematica la scelta della sede per la prima sessione, legata non solo ai fratelli Cervi, ma anche ad una straordinaria figura di donna: Genoeffa Cocconi Cervi – di cui ricorre il 60° della morte – che nel mondo rurale di allora e nelle sue povertà emergeva come modernissima figura di educatrice (tra le poche donne, in quell'epoca e nel mondo contadino, che sapesse leggere e radunasse i figli alla lettura).
Sul tema interverrannone parleranno, tra le altre, Marisa Cinciari Rodano, già vicepresidente della Camera dal 1958 al 1963), la senatrice Albertina Soliani, Nadia Spano, membro dell'Assemblea Costituente e deputata dal 1948 al 1958, Giglia Tedesco, vicepresidente del Senato dal 1983 al 1987. Presiederanno i lavori il sen. Ugo Benassi, Raffaella Baritono (presidente della Società Italiana delle Storiche), Sonia Masini (Presidente della Provincia di Reggio Emilia), Rossella Cantoni (Sindaco di Gattatico) e Luigi Grasselli (prorettore dell'Università di Modena e Reggio Emilia.
Le successive sessioni si terranno nell'aula Magna della sede reggiana dell'Università di Modena e Reggio Emilia. Venerdì 8, con inizio alle ore 9,00, si parlerà di "Guerra e violenza", mentre nel pomeriggio, con inizio alle ore 15,00, la riflessione verterà su "Resistenze". Sabato 9 ottobre, dalle ore 9,00 le testimonianze verteranno sul tema: "Patria/Patrie".
Il convegno è organizzato in collaborazione con la Provincia di Reggio Emilia, i Comuni di Reggio, Gattatico, Campegine, Poviglio, Cadelbosco Sopra, Castelnovo Sotto, l'Università di Modena e Reggio Emilia, l'Associazione nazionale ex parlamentari della Repubblica, Istoreco, ANPI, ALPI, APC e il Centro studi "Velia Vallini".
Info: Istituto A. Cervi – tel. 0522-678356 - G.S. – tel. 0522-546260

deliri pericolosi...
«la teologia cattolica è scienza»!!

Il Tempo 2.10.04
Perché è scienza la teologia cattolica
di ROBERTO BUSA s.j.
Si svolge oggi nell’Aula Magna de «La Sapienza» di Roma (inizio alle 15) il convegno «I poteri della mente e gli stati di coscienza». Parleranno scrittori, psicologi e docenti universitari, affrontando il tema dai punti di vista laico e religioso. Tra i partecipanti, il prof. Giuseppe Nappi («Alla ricerca dei perduti Déi»), lo scrittore Carlo Lucarelli, e il gesuita Roberto Busa, tra i massimi studiosi di Sant’Agostino. Della relazione di Busa anticipamo la pagina iniziale.

LA TEOLOGIA cattolica è un mazzo di scienze. Alla parola scienza dò il significato antico di quella attività umana che scopre e poi esprime le strutture di qualsiasi porzione del reale (...). Le porzioni del gran mar dell’essere delle quali essa si occupa sono panoramiche: dalle prime sorgenti del cosmo e di noi in esso, all’ultimo orizzonte verso cui tutto è in evoluzione: in altre parole i rapporti umani fra tempo ed eternità. La teologia cattolica si sviluppa su due livelli: uno è la teologia naturale o filosofica, chiamata spesso anche «teodicea»; l’altra la teologia sacra o rivelata, la quale è la principale. Ambedue, come ogni altra scienza, si muovono con la stessa forza euristica che è la «logica», luce dell’intelligenza d’ogni uomo, quella che genera ogni parlare. Perciò le due teologie non sono parallele, bensì parti di un tutto.
La prima, la filosofica, cerca l’origine e la destinazione del cosmo e dell’uomo, analizzando quanto essi ci mostrano di se stessi attraverso i cinque oblò dei nostri sensi, cioè essa parte dell’esperienza. La teologia sacra esamina parimente la storia dell’umanità e vi scorge e analizza i fatti d’una rivelazione, per amore libero, da parte del Creatore: infatti Egli, come un commediografo regista, inserì nel suo copione di compatire e interloquire con gli altri personaggi sul loro stesso palcoscenico.
Ogni filosofia in generale confrontata con la teologia sacra, presenta un paradosso linguistico o - se preferite una parola oggi più usata che precisata - un paradosso semiotico o semeiotico.
Ogni filosofia parte (o dovrebbe partire) dall’esame della realtà dell’uomo nel tempo-spazio: perciò è l’ermeneutica della lingua esclusiva di Dio: solo per Lui infatti parlare è creare: ogni cosa è Sua parola quadrimensionale, completa di evoluzione in tempo e storia (...).
La teologia sacra all’opposto è l’ermeneutica dei linguaggi storici umani, distribuiti nello spazio-tempo, insediati negli autori ispirati, talora a loro insaputa, dal Creatore, che li usò come suoi portavoce. (...). Per natura di cose, la teologia non ha bisogno di strumenti, se non indirettamente. (...). Per sua natura lo sviluppo della teologia si presenta più simile a quello per esempio delle scienze mediche e delle ingegnerie civili, le quali operarono in qualsiasi cultura, proporzionalmente a essa. La teologia cattolica operò infatti dagli inizi della Chiesa e poi lungo tutto il corso della sua storia, affinandosi e specializzandosi, facendo per dire così una sua gymkana attraverso l’evoluzione di culture e di lingue. Ed è un luogo comune constatare che fin dagli inizi ogni crisi conflittuale fra dottrina cattolica e suoi, mai mancati, contraddittori, portò essa a interrogarsi e ristudiare le proprie espressioni. La teologia cattolica, come le menzionate medicina e ingegneria, è scienza, anzitutto (...): non teoria, non scienza pura, bensì scienza applicata (...).

alla caccia della superforza

La Stampa TuttoScienze 29.9.04
PER ESPLORARE IL MICROCOSMO

ERA la teoria di Weinberg, Glashow e Salam a suggerire che due forze fondamentali della natura, quella elettromagnetica (che domina la nostra vita, regolando la chimica, l’elettronica, la luce e le altre radiazioni) e l’interazione debole (che regola i fenomeni legati alla radioattività) hanno una radice comune. E la teoria nel 1979 aveva avuto anche la consacrazione del premio Nobel ai suoi tre ideatori. Mancava però ancora la prova sperimentale. Bisognava trovare le particelle W e Z che trasportano la forza unificata, cioè l’interazione elettro-debole. La loro scoperta, compiuta nel 1982 al Cern, ha segnato il sorpasso della fisica europea su quella americana. «Sono contento che W e Z esistano davvero - commentò all’epoca Weinberg - perché così non dovrò restituire il Nobel». Nel 1976 al Cern era entrato in funzione il Super Proto Sincrotrone, SPS, un anello di magneti lungo sette chilometri costruito in un tunnel a 40 metri di profondità tra Svizzera e Francia. Questa macchina era in funzione da due anni quando Carlo Rubbia propose di modificarla per fare scontrare non più protoni contro bersagli esterni ma protoni e antiprotoni accelerati in direzioni opposte nello stesso sottile tubo a vuoto, raddoppiando così l’energia di collisione. La difficoltà stava nel tener insieme i pacchetti di protoni e antiprotoni: entrambi, infatti, essendo formati da particelle con la stessa carica elettrica (positiva i protoni, negativa gli antiprotoni) tendono a disperdersi in quanto le cariche uguali si respingono. L’ingegnere olandese Simon Van der Meer riuscì a risolvere questo problema: si ottennero così collisioni ad energia due volte più alta e W e Z divennero una realtà sperimentale. Già nel 1984 Rubbia e Van der Meer ricevevano il Nobel per la fisica. La macchina successiva, il Lep, Large Electron Collider, lunga 27 chilometri ed entrata in funzione nel 1989, ha poi studiato a fondo le due particelle ed ha fornito la prova indiretta che esistono tre e soltanto tre famiglie di particelle, a conferma del Modello Standard elaborato dai fisici negli ultimi quarant’anni, contribuendo inoltre all’individuazione del sesto e ultimo quark, il Top, scoperto poi al Fermilab di Chicago. Nel 1992 un altro premio Nobel andava a un fisico del Cern, Georges Charpack, per l’invenzione della «camera multifili», un rivelatore di particelle subnucleari che ha poi trovato applicazione anche nella diagnostica medica. Tre anni dopo, nel 1995, Walter Oelert, con la collaborazione di Mario Macrì, riusciva a creare per la prima volta atomi di anti-idrogeno: 9 in tutto, che però nel 2002 divennero più di 50 mila: era l’inizio dello studio fisico del primo anti-elemento della anti-tavola di Mendelejev. Un altro risultato di grande rilievo è datato 2000: la produzione di un plasma di quark e gluoni 20 volte più denso di un nucleo atomico che ha riprodotto le condizioni dell’universo a meno di un miliardesimo di secondo dal Big Bang. Intanto, per rendere più efficiente lo scambio di dati tra i fisici di tutto il mondo, Tim Berners Lee e Robert Caillau avevano ideato il software ipertestuale www per mettere in contatto computer con standard diversi tramite Internet: il primo server entrò in funzione al Cern nel 1990, il secondo a Stanford nel 1991, nel 1994 i server collegati erano 10 mila, oggi sono 50 milioni. Quelle tre w hanno rivoluzionato l’informazione, il costume, l’economia, forse anche la politica. Ora al Cern sta nascendo LHC, Large Hadron Collider, un acceleratore di protoni che aprirà nel 2007 una nuova fisica dando la caccia alla particella di Higgs, l’ultimo tassello latitante del Modello Standard. Per analizzare i dati si userà Grid, un software che mette in comune la potenza di calcolo dei computer in Rete. L’impatto di Grid sulla nostra vita quotidiana al momento non è prevedibile, come non lo era quello delle tre w nel 1900.

da Giotto a Malevic

Il Messaggero Sabato 2 Ottobre 2004
Aperta alle Scuderie del Quirinale la mostra che raccoglie 190 opere di maestri italiani e russi
Da Giotto a Malevic, il filo rosso
di FABIO ISMAN

«Galleria d’inestimabile valore», sancisce il ministro dei Beni culturali Giuliano Urbani; «la visita mi ha procurato grandi emozioni», confessa il suo omologo Alexander Sokolov (che è anche buon violinista), lieto perché, appena tornato a Mosca, lo attende la firma di un accordo tra l’Accademia di Santa Cecilia e il Conservatorio di Mosca; «la Russia porta fortuna alle Scuderie del Quirinale», celia Gianni Borgna, assessore alla Cultura, pensando all’inaugurazione con gl’impressionisti dall’Ermitage; Irina Antonova, che dirige il museo Puskin, dove la mostra si trasferirà nel 2005, e, da sempre, è il nume tutelare dei beni culturali nel suo paese, ammette che gli studiosi italiani e russi, organizzando la rassegna, «non sempre erano d’accordo; ma il clima di lavoro è stato magnifico»: alle Scuderie del Quirinale, la mostra Da Giotto a Malevic, la reciproca meraviglia (fino al 9 gennaio, catalogo Electa) apre in modo solenne. Allinea quasi 190 opere nell’arco di otto secoli, tra cui molti capolavori dei due Paesi; è il primo atto di un ”festival russo”, che animerà Roma a dicembre.
Dalla comune genesi bizantina (eccezionali icone, splendidi oggetti dal Tesoro di San Marco), all’epoca in cui l’Italia (Vladimir Sedov) «esportava la bellezza»: e il Rinascimento della penisola muta anche le immagini sacre, introduce il ritratto in quella terra immensa e lontana, dove già alcuni italiani costruivano fortezze e palazzi (e non potevano più tornare in Italia, perché lo zar temeva di perderli); fino ai tempi in cui, con Pietro il Grande ed Elisabetta, nasce il collezionismo (ed ecco un Tiepolo, ecco i Canova finiti così lontano), gli italiani firmano la nuova città del Nord (Trezzini, Rinaldi, Rastrelli, Quarenghi, Rossi, tanto che il famoso scrittore, chimico e astronomo Michail Lomonosov sospira: «Come sei bella, a Roma sei diventata simile»); e al Novecento, in cui le avanguardie dialogano a distanza, e Marinetti, nel 1914 in Russia per mietere proseliti, viene malamente respinto e tacciato di provincialismo.
Il tutto, attraverso dipinti significativi (pur se mancano i Tiziano che l’artista aveva nello studio alla sua morte, venduti dai Barbarigo all’Ermitage), con accostamenti che parlano da soli: Foscolo è accanto a Puskin; a distanza di dieci anni, due principesse di Hayez e Zarjanko sono nella medesima posa, così come lo erano stati, nel secolo prima, il conte Razumovskij ritratto di Pompeo Batoni e un Demidov di Dmitrij Levickij; il barbone di Pellizza da Volpedo nell’ Autoritratto si misura con l’onor del mento di Ivan Siskin, pittore eternato da Kramskoj. E siamo alle “sfide della modernità”: da Giotto, a Malevic; con contorno di De Chirico, Modigliani, Boccioni, dei primi Morandi e Carrà; e di Tatlin, Larionov e Gonciarova, nonché due artisti russi che la Russia riconosce scarsamente come propri, Chagall e Kandinskij: signori, la mostra è servita.