giovedì 20 gennaio 2005

sinistra
dal Corsera: un'intervista a Fausto Bertinotti

Corriere della Sera 20.1.05
Bertinotti: non mi ritirerò mai Ai Ds dico di evitare i ricatti
Monica Guerzoni


ROMA - Onorevole Bertinotti, come si esce dal cul de sac delle primarie?
«Facendole».
Sandro Curzi dice che in cambio di un programma condiviso potrebbe rinunciare...
«Assolutamente no, non ci penso nemmeno».
Neanche se glielo chiede Prodi?
«Sono indisponibile. La mia candidatura è un punto inamovibile e per una ragione elementare di democrazia. La democrazia comincia da due e io sono il secondo».
Il terzo è Di Pietro, il quarto Pecoraro Scanio e il quinto potrebbe essere Piero Fassino.
«Buono, benissimo. Le candidature non sono un rischio, se uno si candida è perché ha in testa un progetto. Se in un partito ci sono più candidati a segretario vuol dire che pensano di guidarlo meglio, non che vogliano disfarlo. Si tratta di competere sotto l’ombrello di un comune progetto alternativo alle destre per sapere chi, meglio degli altri, guiderà questo processo. E non chi diventa il principe e dissolve la democrazia».
E il pressing dei Ds?
«Non ha alcuna possibilità di successo. La mia scelta non è in discussione, rispettarla è obbligatorio. In un quadro democratico bisogna accettare dei rischi. Anche la morte dà grande stabilità ma non è una bella ambizione. Meglio la vita, disordinata ma vita».
Perché ci tiene tanto a sfidare Prodi?
«Non si fanno le primarie per costituire un ticket o un tricket, ma per definire il candidato, cioè colui che coordina il programma ed esercita sul programma un’influenza superiore a chi perde».
E se perdesse lei, è disposto a «obbedire» come Prodi si aspetta da un «uomo d’onore»?
«Sarebbe il primo a riconoscere di essersi concesso una licenza letteraria. Tra persone che si rispettano non è richiesta l’obbedienza, il motto perinde ac cadaver (fedele fino alla morte - ndr) ha impegnato la storia dei gesuiti e non può impegnare un rapporto tra pari. Lo ringrazio per la definizione di uomo d’onore, che ci appartiene».
Conviene che lanciare le primarie sia stato un errore?
«Aver pensato di risolvere la contesa che aveva provocato l’impasse ricorrendo a uno strumento democratico è cosa straordinaria. Il primo carattere dell’alleanza è l’essere democratica, perciò l’elezione pugliese è un evento enorme dal punto di vista strategico».
Sì, ma la vittoria a sorpresa di Vendola ha aperto uno scontro che rischia di essere devastante.
«Chi teme questo vada a Bari vecchia o a Bitonto, vedrà se oggi credono di più o di meno nella possibilità di farcela. Guai a sciupare una straordinaria occasione per la democrazia. Io dico una, due, tre, mille primarie pugliesi. È la prima volta nella seconda Repubblica che invece di una manomissione della democrazia si produce una rinascita. Perché questo deve far paura? Possibile che non ci si ricordi cosa è stata la negoziazione nei collegi, quando erano gli eletti a scegliersi il collegio e non gli elettori a scegliersi i rappresentanti? Questo non mina la coalizione? Si, tanto che ha perso. Hanno fatto benissimo i Ds a chiedere primarie in tutti i collegi».
Sembra tanto una strategia per non farle più.
«La democrazia non deve essere usata come una clava e come un ricatto, lo dico come forma di rispetto nei confronti dei Ds. Ci sono stati momenti in cui la forza dell’apparato di un partito poteva alimentare sospetti nei confronti della democrazia diretta, ma non è più così. La relativa imprevedibilità del voto è una garanzia. Prendiamo coraggio e andiamo a una sfida in cui tutti possono competere. E se esce fuori una nuova classe dirigente diffusa, sarà un tonico».
E se esce fuori Veltroni?
«Tranquilli, le primarie sono un modo per risolvere i sospetti. Prodi è candidato, Veltroni no».
I Ds vogliono contare per quello che pesano, D’Alema dice che «la pazienza è finita».
«Una grande forza ha tutte le condizioni per pesare nella politica, visto che non ci sono complotti da sventare. Il complotto e la trasparenza della democrazia sono inconciliabili. La Quercia ha la forza di influenza che gli deriva dal suo radicamento e dalla sua capacità di proposta. Sennò la cosa è un po’ contraddittoria, per quale ragione i Ds chiedono primarie in tutti i collegi?».
Forse perché non le vogliono.
«Eh no, così non si può fare politica. Se un grande partito dice che le vuole in tutti i collegi devo crederci. Se anche uno volesse attribuire intenzioni malevole, le analisi delle mutazioni politiche dicono che nessun partito è in grado di maneggiare la democrazia come elemento di intimidazione. Facciamoci coraggio e pratichiamola, tutti».
Gli alleati l’hanno avvertita, se perde addio potere contrattuale.
«Vedremo. E poi, che eccesso di generosità, li ringrazio, ma avremo cura di difendere i nostri argomenti. Quel che chiedo è che la costruzione del programma sia un processo allargato, le forze politiche con il loro peso reale più le espressioni della società civile, i movimenti, i sindacati...».
Poi non dica che la Gad non pende a sinistra.
«Se la realtà sbilancia da qualche parte bisogna accettare la realtà».


Red-Pol/Col/Adnkronos 20-GEN-05 13:50
Bertinotti: mi candido a Primarie
il leader di Rifondazione conferma: "La mia candidatura è indiscutibile".


Questo quanto affermato in una nota da Bruxelles dal segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti.
"Sono venute da esponenti Ds - dice il segretario di Rifondazione comunista - pressioni e richieste qualche volta cortesi, qualche volta insistentemente puntute, di rinunciare alla mia candidatura nelle primarie. Tanto cortesemente, quanto fermamente, vorrei ricordare che la mia decisione di partecipare alle primarie è stata presa e resa pubblica all'indomani dell'annuncio da parte del presidente Romano Prodi della necessità politica della coalizione di procedere alle primarie in cui Prodi stesso naturalmente è il primo candidato. Ho semplicemente fatto il secondo per una elementare esigenza di rendere il confronto realmente democratico". Bertinotti sottolinea: "Anche la straordinaria, e per un certo verso irripetibile esperienza delle primarie in Puglia, ha messo in luce il grandissimo potenziale di partecipazione che c'è nella risorsa democratica. Si può competere per una leadership per molte ragioni. Starà agli elettori valutarne con il voto la fondatezza. L'importante è che venga rispettato da tutti l'esito che avranno le primarie. Questo per quello che ci riguarda è sempre stato fuori discussione e per questo la mia candidatura è dunque indiscutibile. Penso che sarebbe bene prenderne atto e disporsi tutti a mettere a valore dell'intera coalizione un appuntamento di democrazia".
Yahoo!Notizie
20 gennaio 2005
Psichiatria: allo studio le spie della "Sindrome di Medea", una ricerca dell'Università di Roma


Roma, 20 gen (Adnkronos Salute) - Definire i "campanelli di allarme" della Sindrome di Medea. Ovvero scoprire quei comportamenti che possono predire uno degli omicidi più agghiaccianti: la madre che toglie la vita al figlio. È questo l'obiettivo di una ricerca in corso presso l'Osservatorio dei comportamenti e della devianza che fa capo alla Cattedra di psicopatologia forense dell'università La Sapienza di Roma, diretta dal professor Vincenzo Mastronardi. ''Nel nostro studio - spiega all'Adnkronos Salute l'esperto che domani parteciperà a Roma a un convegno organizzato dal Dipartimento di Scienze psichiatriche e medicina psicologica dell'ateneo capitolino - stiamo esaminando i fattori di predizione, gli indicatori di rischio che possono predire un eventuale omicidio''. La ricerca è in una buona fase di attuazione e si basa anche su una serie di sfaccettature della personalità delle mamme omicide già emerse da un altro studio, anch'esso non concluso, condotto su 20 madri omicide recluse nell'ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere (Mn), in collaborazione con la direzione sanitaria del penitenziario. Fra gli elementi che ricorrono più di frequente nelle "madri Medea", soprattutto la non accettazione della propria identità sessuale e quindi di madre, ''donne cioè - commenta - che non accettandosi come tali rifiutano anche il ruolo genitoriale''. Ma anche la presenza di depressione maggiore con la conseguente chiusura in se stesse. ''Altro fenomeno che stiamo registrando è la frequente amnesia che si verifica immediatamente dopo l'omicidio, e che porta le madri a cancellare completamente dalla memoria, spesso per anni, cio' che hanno commesso''. (Fei/Adnkronos)

emilianet.it 20 gennaio 2005
"Normali" e insoddisfatti: al rave si sballano per scelta
A rivelarlo uno studio dell'Ausl condotto sui giovani che hanno partecipato allo street rave parade


BOLOGNA (20 gen. 2005) - Lavorano, vanno in palestra, al cinema e all'oratorio. Sono ragazzi "normali", che spesso vivono ancora in famiglia, insoddisfatti della vita che fanno e spaventati per il futuro come tanti altri: sono i giovani che hanno partecipato allo street rave parade 2004 di Bologna.
È quanto emerge dallo studio dell'Osservatorio Epidemiologico Metropolitano per le Dipendenze Patologiche dell'Azienda USL di Bologna, che verrà presentato domani 21 gennaio a operatori e tecnici del settore. Lo studio sfata almeno due luoghi comuni: i giovani che frequentano i rave e abusano di droghe e alcol non sono né emarginati né provengono da condizioni socio-culturali particolari, l'ebbrezza, lo "sballo", l'alterazione psicofisica sono consapevolmente ricercati e non sono il frutto della cattiva influenza del gruppo, dei luoghi frequentati o della semplice disponibilità della sostanza.
I giovani, almeno quelli che hanno partecipato al rave 2004, utilizzano sostanze per rilassarsi, socializzare, star svegli fino a tarda ora, alleviare la depressione, migliorare le prestazioni sessuali.
Come sottolinea Raimondo Pavarin, responsabile dell'Osservatorio, "tra i 590 intervistati, relativamente all'ultimo mese, 7 su 10 hanno dichiarato di aver usato stupefacenti, 1 su 2 di avere disturbi di tipo psicologici, 1 su 3 ha stili di vita ad alto rischio, come mischiare stupefacenti, alcol, o guidare dopo avere bevuto. Si tratta di un campione che comunque non rappresenta l'universo giovanile, e i risultati non vanno quindi generalizzati."
Gli intervistati hanno mediamente 24 anni, 38% donne, 96% italiani, 58% vive in famiglia, 6 su 10 lavorano, la metà studia, un 15% studia e lavora.
Dai diversi profili a rischio emergono: insoddisfazione, uso recente di stupefacenti, uso di droghe pesanti, abuso di alcol.
La ricerca conferma la diffusione dell'uso abituale di cannabinoidi, l'aumento del consumo di cocaina, ed evidenzia tre diversi modi di consumo: c'è chi usa solo cannabinoidi, ci sono i poliassuntori ( mix di cocaina, amfetamine, ecstasy, ketamina e alcol), e i consumatori di droghe pesanti (eroina, cocaina, crack).
Abbastanza preoccupanti, infine, i dati sull'età media di primo uso di alcune droghe: prima dei 16 anni per quanto riguarda i cannabinoidi (c'è un 10% che addirittura li prova prima dei 14 anni), a 18 si provano eroina, cocaina, benzodiazepine, ecstasy, popper e psicofarmaci. Se consideriamo poi tutte le droghe, un quindicenne su due ne ha già provata almeno una, in ordine di probabilità: cannabinoidi, popper, cocaina.

gazzettino.it 20 gennaio 2005
SANITÀ Secondo i dati della Direzione centrale della Salute e Protezione Sociale il numero delle ricette ha subito una drastica impennata
La spesa farmaceutica schizza verso l'alto

L’aumento in regione è stato del 9,3 per cento. In questo modo si rischia di sfondare il tetto massimo fissato al 13%

Udine - A dispetto delle previsioni, l'aumento della spesa farmaceutica regionale non conosce tregua. Al 30 settembre 2004, il conto lordo a carico del Servizio Sanitario del Friuli Venezia Giulia era di 187 milioni di euro mentre la spesa netta ha raggiunto i 174.605 milioni di euro. Se si raffronta quest'ultimo dato con quello riferito allo stesso periodo 2003 (159.679.000 euro) emerge un rialzo di 14.926.000 euro. In termini percentuale significa un 9,3% in più che rischia di sfondare il tetto al 13% fissato dal decreto 347 del 2001. Da che le ricette (6.653.506) hanno subito parimenti un'impennata al + 7,3%, a fronte della stessa utenza di 1.197.000 assistiti. I dati diramati dalla Direzione Centrale della Salute e Protezione Sociale, si riferiscono alle categorie di farmaci più richiesti nei primi sette mesi del 2004 rispetto allo stesso periodo 2003, tenuto anche conto che da luglio 2004 l'industria farmaceutica pratica uno sconto medio a favore del Servizio Sanitario Nazionale del 3,6%. Ma tant'è, l'incremento della spesa complessiva non conosce tregua, sia per l'aumento delle prescrizioni che per quello dei prezzi dei listini. Le maggiori incidenze di costo vengono dagli anticolesterolo e trigliceridi (statine); 12,475 milioni di euro pari ad un +20,6% sul 2003. Seguono nell'ordine i farmaci per l'ulcera (inibitori di pompa acida) con 10,8 milioni di euro (+16,7%), gli antipertensivi (sartani) e diuretici con 4.187 milioni di euro (+ 6,1%), gli omega3-trigliceridi (+5,7%), gli antinfiammatori (coxib) (+ 4,5%), gli antidepressivi. La rassegna (riferita sempre ai farmaci) fra le singole aziende regionali, evidenzia che la 4 "Medio Friuli" è stata la più spendacciona con 49,590 milioni di euro rispetto ai 44,711 milioni del 2003 (+ 10,8%). La lista dei conti in rosso prosegue con la 2 "Isontina" con un + 10,3%, la 1 "Triestina" con un + 9,3%, la 6 "Friuli Occidentale" con un + 8,7%, la 5 "Bassa Friulana" con un + 7,4% e la 3 "Alto Friuli" con un + 6,8%. Dalla Direzione Centrale della Salute, si spiega che il fenomeno è in parte "fisiologico", essendo imputabile sia all'aumento del numero dei trattamenti come pure alle indicazioni d'impiego dei farmaci. Senza contare che negli ultimi anni è risultata più estesa la rimborsabilità. Tutto però lascia presagire che senza l'adozione di opportuni correttivi, il trend sui farmaci continuerà a salire. Non per nulla la Regione è già corsa ai ripari con la sottoscrizione di un primo accordo pilota con l'Azienda sanitaria 4 Medio Friuli. La più estesa fra le aziende regionali con 340 mila assistiti ed una spesa annua sui 66 milioni di euro. Con tale accordo si punta a modificare i criteri di acquisto e distribuzione dei medicinali più costosi finora adottati, prevedendo un risparmio sino al 20%. Principio che è pure sancito da una delibera della Giunta regionale (la 2927 del 29 ottobre 2004), con tanto di accordo regione, aziende sanitarie, Federfarma, Assofarma e distributori Adf, sull'acquisto e distribuzione dei medicinali. Fra gli obiettivi, la razionalizzazione della spesa farmaceutica a parità di assistenza erogata; il mantenimento della capillarità sul territorio a favore dei pazienti, nonchè la ridistribuzione delle risorse dal versante amministrativo a quello sanitario. In pratica è l'azienda sanitaria ad acquistare direttamente dall'industria farmaceutica i medicinali a prezzi scontati. Tali farmaci (sono i più costosi per l'appunto e costituiscono circa il 7-8 % della globalità della spesa farmaceutica), vengono distribuiti a minor prezzo dalle farmacie convenzionate, con la clausola d'accordo che stabilisce che a farmacisti e grossisti sono riconosciuti margini inferiori rispetto alla distribuzione tradizionale. Le linee di gestione per l'assistenza farmaceutica 2005, oltre alla citata distribuzione diretta dei medicinali ad alto costo e primo ciclo di terapia in dimissione ospedaliera, comprendono altri criteri migliorativi; dall'avviamento di interventi di promozione dell'appropriatezza prescrittiva, alla revisione del prontuario farmaceutico, dal monitoraggio dei consumi al potenziamento nei distretti dell'attività di supporto ai medici di base. Cambia inoltre il criterio di attribuzione dei finanziamenti per la spesa farmaceutica convenzionate alle aziende sanitarie. Da quello attuale basato su quanto erogato dalle farmacie afferenti all'azienda sanitaria, indipendentemente dalla residenza del paziente, si passa alla "pesatura" della popolazione residente in ciascuna azienda, in funzione di età e sesso.
ilmessaggero.caltanet.it
Rai «Meno film, ma quelli giusti»


ROMA - Meno film, ma quelli giusti. È l'auspicio di Carlo Macchitella, direttore generale di Rai Cinema, per il 2005. «Anche il nostro budget, 30 milioni di Euro, è blindato, e passeremo così dai 15-20 titoli del 2003 e del 2004, a una decina», ha detto il manager di Piazza Adriana. Comunque in lavorazione o in partenza, per Rai Cinema, i nuovi film di Cristina Comencini (La bestia nel cuore), Marco Bellocchio (Il regista di matrimoni), Gianni Amelio (La stella che non c'è), Pupi Avati (La seconda notte di nozze), e anche il progetto di Maurizio Costanzo con protagonista il ballerino televisivo Kledi Kladiu.
«Si tratta - spiega Macchitella - di film sicuri, che realizziamo in coproduzione con aziende come Cattleya, Filmalbatros o DueA, e che hanno maggiori speranze di redditività. Altre produzioni, invece, sono in sospeso perchè legate all'ottenimento del fondo di garanzia. Esiste un ingorgo oggettivo, ma considero la legge Urbani comunque positiva perchè razionalizza il sistema, anche se è vero che parte in salita. Però la vitalità di un'industria non è data dal numero di film che produce».
una segnalazione di Loredana Riccio

Repubblica 20.1.05

il Nobel
Sen: la povertà non genera violenza


Roma- "Che cosa hanno fatto gli Stati Uniti o l'Europa per impedire che un quarto della popolazione del continente africano morisse di aids? Questa domanda tormenterà l'occidente per almeno un secolo". È il monito con cui Amartya Sen, professore di Economia e Filosofia ad Harvard, premio Nobel nel 1998, ha concluso ieri la sua lecture alla Luiss, davanti al presidente della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo e al leader dei Ds, Piero Fassino. Una lettura intorno al rapporto tra violenza e povertà. Perché se è evidente che le guerre e le violenze generano povertà, non è affatto scontato e diretto il rapporto inverso: le condizioni di miseria non sono di per sé causa di violenza. Erano forse poveri i terroristi che hanno colpito le torri gemelle? È povero Bin Laden? Mentre alla tremenda carestia che colpì nel 1840 l'Irlanda non seguì una stagione di violenze. Si sedimentarono però rancori che hanno alimentato nei decenni le successive violenze. Gli stessi che potrebbero sorgere in alcune popolazioni africane decimate dall'aids. "La memoria dell'indigenza - avverte Sen - contribuisce a generare grande ostilità". Dunque è un concetto "più ampio" di povertà quello che può essere all'origine di forme di violenza. Povertà intellettuale, intanto, che porta una parte dell'occidente ad ignorare il contributo della cultura orientale alla civiltà. Povertà o "mancanza di una voce politica", come nel caso dei palestinesi. Ma "una connessione molto importante" tra povertà e violenza arriva anche dal commercio internazionale delle armi: l'80 per cento dell'export è controllato dai 5 Paesi membri permanenti del Consiglio dell'Onu. (r.ma.)
Il Messaggero 20.1.05
Scoperte in Etiopia le ossa di una specie che risale a più di 4 milioni di anni fa
Nove "individui" trovati insieme: il più antico gruppo parentale
OMINIDI IN FAMIGLIA
di ROMEO BASSOLI


Pezzi di mani, di dita di mandibole. Denti. È ciò che resta di un antico gruppo di ominidi nella depressione assolata di Mar, in Etiopia, in una località che la gente del posto chiama As Duina.
Erano sparsi su un terreno di origine vulcanica i resti di quella che probabilmente era una famiglia, la più antica famiglia mai ritrovata, forse una tribù composta da poche persone. Nove piccoli ominidi alti un metro e trenta (ma chissà, è una stima fatta senza avere un preziosissimo fossile di femore, la pietra di paragone per misurare qualsiasi essere vivente antico) appartenenti alla specie Ardipithecus ramidus che sono vissuti qui tra i 4 milioni e 300.000 e i 4 milioni e mezzo di anni fa. Non ancora uomini, ma quasi certamente esseri che avevano già superato la biforcazione evolutiva che ha separato la famiglia dell'umanità da quella delle scimmie antropomorfe. Insomma, una famiglia di ominidi, antenati molto alla lontana. Ma antenati.
A trovarli è stato un gruppo di paleontologi dell'università dell'Indiana (StatiUniti) guidati da Sileshi Semaw, del dipartimento di antropologia, che hanno scritto sulla rivista scientifica britannica Nature di oggi l'articolo scientifico che racconta la scoperta.
Le ossa dei nove ominidi erano mischiate a resti fossili di animali che vivevano nello stesso tempo, il Pleistocene, scimmie, talpe e erbivori simili alle mucche. «Sì, questo gruppo di ominidi, famiglia o tribù che fosse, viveva in un ambiente ricco e complicato, un vero mosaico ecologico — dice Sileshi Semaw, una foresta molto aperta o una savana che confinava con una zona più ricca di alberi».
Quello che sembra certo è che la famigliola di Ardipithecus ramidus se ne andava in giro in posizione eretta, sulle due ganibe (zampe?) posteriori. Ma non per questo viveva nella savana aperta, in grotte o in ripari temporanei.
«È probabile che questo gruppo di omninidì vivesse soprattutto sugli alberi spiega la professoressa Olga Rickard, paleontologa e doncete di antropologia molecolare all'Università Tor Vergata di Roma. Fino a poco tempo fà si pensava che la posizione eretta, il muoversi da bipede, coincidesse con la discesa degli ominidi dagli alberi. Oggi sappiamo che non è così. E dalla famiglia degli Ardipithecus ramidus ci verrà probabilmente una conferma.
La posizione eretta non è stata una conquista da poco: ha permesso tra l'altro il rapporto sessuale "faccia a faccia". Secondo alcuni ricercatori questo ha reso possibile riconoscere il partner sessuale e avrebbe spinto verso la formazione di famiglie più stabili: i maschi che riconoscevano la femmina le procuravano anche il cibo consentendo una cura più prolungata nel tempo dei bambini (dei cuccioli?). Insomma, se quei nove ominidi di As Duma erano una famiglia, lo debbono anche alla posizione.
Tre anni fa, sempre in Etiopia, erano stati trovati i primi, pochi resti di questa specie. Un pezzo di mandibola e un dito. Si pensava, per la verità, che fosse molto più antica: quasi sei milioni di anni. Può darsi che questa specie sia leggermente diversa.
Il bello, ora, è ricostruire il mondo di questi esseri viventi. Tanto per cominciare: che cosa mangiavano? «Probabilmente erano frugivori - spiega Olga Rickards - si nutrivano in prevalenza di vegetali, bacche. Ma non disdegnavano la carne». Una delle idee che i paleoantropologi si sono fatti di questa specie è che gli individui andavano in giro in gruppi, seguendo la fioritura delle piante, ma anche cacciando piccoli animali, se capitava.
Erano soli al mondo? Per Sileshi Semaw sì. "C'era una sola specie di ominidi in tutto il mondo in quel periodo, ed erano gli Ardipithecus ramidus", spiega.
Attorno a loro vivevano però molte specie animali diverse perché, come spiegano i ricercatori dell'Indiana, la famiglia viveva «in un ambiente ricco di acqua: c'erano probabilmente paludi, sorgenti e ruscelli. Non mancavano però, probabilmente, periodi di siccità e di secchezza». La più antica famiglia mai trovata ha lasciato poche ossa dietro di sé. Ma ha continuato a scrivere una storia che, qualche centinaia di migliaia di anni dopo, avrebbe generato Lucy, il famosissimo scheletro di ominide, uno dei più completi mai trovato. Lucy era un Australopiteco vissuto 3,7 milioni di anni fa. Quando la famiglia di As Duma era già un mucchietto di fossili destinati a un grande futuro.
Corriere della Sera 20.1.05
Tra inconscio e realtà
GLI SCHERZI DELLA MEMORIA
di Gillo Dorfles


Forse molte persone hanno avuto occasione di sperimentare quello strano fenomeno che consiste nel fatto di "vivere" una determinata situazione, assistere a un evento, trovarsi in un luogo, come se fosse una cosa già vista. Si tratta di quel fenomeno del "dejà vu" così ben analizzato a suo tempo dal grande Bergson (nel suo libro L'énergie spirituelle) e che viene giustificato dal filosofo come se si trattasse di uno sdoppiamento percettivo: ricordare quanto si è appena percepito; dunque è un "ricordo del presente" o anche un "falso riconoscimento". (Un fenomeno, oltretutto, molto analogo a quell'episodio narrato da Goethe, - e che con termine scientifico viene definito "autoscopia" - quando, andando a spasso a cavallo, vide venirgli incontro l'immagine vivente di se stesso, poi tosto scomparsa: altro esempio di "falso riconoscimento").
Sappiamo bene che la nostra memoria è pronta a giocare di questi e di ben altri brutti tiri; a cominciare dal dilemma tra la "memoria di rievocazione", ossia il ricordo di eventi lontani nel tempo, a una "memoria di fissazione" relativa a fatti o nozioni appena accaduti e già svaniti (non solo nel caso di demenze senili).
Ma non è certo di questi dati del nostro sistema mnemonico che intendo occuparmi, dato che si tratta di nozioni ben note e più volte discusse; quello che, invece, è forse meno noto e che concerne altri meccanismi della nostra attività mentale e persino creativa, è la presenza di altre due peculiari tipologie mnemoniche: una memoria "esplicita" - cosciente, "verbalizzabile", che costituisce la storia autobiografica del soggetto; e, per contro, una "memoria implicita" che si riferisce alla prime esperienze infantili per cui non è né cosciente né verbalizzata, dunque preverbale e presimbolica, e costituente un nucleo inconscio non legato alla rimozione; ma tale da poter influenzare il futuro evolversi della personalità del soggetto condizionandone il comportamento e magari le potenzialità creative e artistiche.
Di questa dicotomia mnestica ragiona, con il consueto acume, lo psicanalista (ma soprattutto cattedratico di neuroscienze) Mauro Mancia nel suo recente saggio Sentire le parole (Bollati Boringhieri) dove questa duplice memoria viene analizzata, non solo da un punto di vista neurologico (la ancora imperfetta maturità di strutture necessarie per una memoria rimotiva: ippocampo, corteccia temporale, ecc.) ma da un punto di vista psicanalitico che giustifica la presenza di ricordi non "rimovibili" in quanto non ancora coscienti. Ricordi, oltretutto, che possono risalire anche al di là della stessa primissima infanzia, addirittura a quella fase prenatale nella quale: "gli psicolinguisti attribuiscono molta importanza alla voce materna memorizzata dal feto".
E, sia detto per inciso - perché non identificare proprio in questa fase il verificarsi di quell'"imprinting" linguistico che, secondo Chomsky, verrebbe a costituire la base prima della capacità "innata" di apprendimento del linguaggio infantile?.
Ma non è solo l'aspetto che riguarda l'apprendimento o meno della parlata che merita di essere analizzato quanto il fatto - secondo Mancia - che i ricordi dell'epoca dominata dalla memoria implicita non possono essere rievocati, perché troppo sprofondati nel magma dell'inconscio; e non possono pertanto neppure subire una rimozione attraverso una manovra (psicoanalitica) che ne metta in luce elementi rimossi come avviene per i ricordi della memoria esplitica.
Eppure - ed è qui che il fenomeno appare più conturbante e passibile di contrastanti interpretazioni - tale ricordo - non cosciente, non rimovibile neppure attraverso l'analisi - è tuttavia in grado di agire anche a lunga distanza di tempo, diventando l'artefice di potenzialità espressive, creative; ma anche, ovviamente psicogene e di difficile "manovrabilità". In questo modo: "La creatività umana appare come un ri-creare collegato alla memoria implicita (e quindi all'inconscio non rimosso) la quale non è passibile di ricordo, ma può essere rappresentata nell'attività creativa".
Può esistere, insomma, una doppia memoria: quella dei nostri ricordi e quella dei "non ricordi", che possono però continuare a "lavorare" nei recessi della nostra mente e a un certo punto "reclamare i propri diritti". Il che peraltro non toglie che questa attività creativa e artistica una volta rimessa in gioco possa essere tutt'altro che di indiscusso valore: gli scherzi della memoria implicita possono mettere in circolazione anche immagini tutt'altro che esteticamente accettabili!
Non intendo certo soffermarmi più oltre sui molti affascinanti "casi clinici" che l'autore riporta e che, di per sé, meriterebbero di trasformarsi in altrettante trame di vite romanzate (come quella di una signora che, avendo sbaragliato le resistenze della sua memoria implicita, si era inaspettatamente rilevata scultrice); ma per quanto riguarda i meccanismi e i risvolti della nostra memoria credo davvero che una maggior consapevolezza degli stessi potrebbe giustificare molte avventure e disavventure della nostra esistenza e permettere di renderci conto fino a che punto la consapevolezza dei meccanismi psicogeni, da un lato, e delle architetture neuronali dall'altro, possa essere in grado di chiarire il rapporto, da sempre oscuro e criptico, tra l'attività simbolizzatrice e creativa dell'individuo e la presenza di precoci traumi in quell'area della nostra memoria (implicita) che costituì il primo (inconscio) e inesplorabile nuleo della nostra attività cognitiva.
Giovedì 20 Gennaio 2005
«Sbalzi di umore, un male sociale»
Lo psichiatra Koukopoulos: in aumento i casi di depressione bipolare
CARLA MASSI


ROMA - Un disturbo psichico come fonte sana di ispirazione artistica. Per la letteratura come per la musica. Rossini, Hendel e Stendhal soffrivano della stessa malattia: la depressione bipolare. Quella particolare forma in cui il paziente passa, in tempi più o meno lunghi, da una fase di euforia e superattività ad un fase di buio e immobilità. Possono passare mesi in uno stato di esagerato benessere e mesi a contemplare il soffitto della stanza. “Il barbiere di Siviglia” di Rossini, “Il Messia” di Hendel e “La Certosa di Parma”, secondo gli storici della Medicina, sarebbero nati proprio nel momento in cui i tre artisti stavano attraversando il momento di sovraeccitazione. La prova sarebbe il tempo ridottissimo che tutti e tre hanno impiegato per i loro lavori: l’opera buffa rossiniana sarebbe stata scritta in 14 giorni, “La Certosa di Parma” in cinque e “Il Messia” in due settimane.
«Per gli artisti, quella fase - spiega lo psichiatra Athanasios Koukopoulos Direttore del centro Lucio Bini che, per domani e sabato, ha organizzato a Roma all’ hotel Nazionale, un congresso su “Fallimenti terapeutici nei pazienti bipolari: nuove strategie” - si traduce in grande energia e produttività. Per gli altri, invece, il disturbo è spesso davvero devastante».
Come riesce il paziente a convivere con questi continui alti e bassi?
«Ci riesce molto male, soffre. Passa dall’esaltazione durante la quale prende decisioni anche azzardate, spende e rovina legami a stadi di profonda tristezza. Tutto questo, nel quotidiano, si trasforma in un vero handicap».
Ma ci si rende conto di star male anche quando si è nella fase di eccitazione?
«E’ più difficile. Dal momento che si avverte uno stato di profondo benessere, ci si sente forti e si fanno progetti grandiosi. Se ne accorgono tutti quelli che gli sono accanto, i familiari. Spesso preoccupati di tanta euforia».
Euforia accompagnata da quali altri comportamenti?
«La persona è particolarmente irritabile, insofferente, aggressivo, non sopporta critiche. Soprattutto quando, ad essere colpito, è un adolescente».
Allora, quando il paziente riesce a rendersi conto di star male?
«Quando entra nella fase cupa, quando scende nell’abisso e non ha più energie. E’ in quel momento che si rende conto di vivere in una dimensione fuori scala. Sia in uno stadio che nell’altro».
Questa forma di depressione, a vostro avviso, è molto più frequente di qualche anno fa. Avete individuato le cause?
«La depressione bipolare colpisce circa il 5% della popolazione. E l’incidenza è aumentata per il largo consumo di alcol e cocaina. Che potenziano il disturbo».
Il congresso si occuperà delle ricadute, dei pazienti che non rispondono alla terapia. Situazione frequente?
«Capita anche perché troppo spesso vengono sottovalutati i periodi di eccitazione. Si crede che il paziente, perché allegro, sia guarito dall’umor nero».
Vuol dire che diagnosi e terapia vanno riviste?
«Sicuramente rilette. Non è possibile curare questi pazienti solo con farmaci antidepressivi. Occorre utilizzare anche degli stabilizzanti dell’umore, come è il litio».
Yahoo Salute 209.1.05
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
Figli di depressi a rischio di disturbi psichici
Il Pensiero Scientifico Editore
di
Paola Mariano

La depressione può rappresentare una piaga ereditaria che si allarga a macchia d’olio nel corso delle generazioni, dando alla luce sempre più individui con disturbi di varia entità o a loro volta depressi. Lo rivela un'indagine pubblicata sugli Archives of General Psychiatry da esperti del Columbia University Medical Center e del New York State Psychiatric Institute.In pratica bambini con genitori e nonni malati di depressione rischiano più del doppio di soffrire a loro volta di disturbi psichici rispetto ai figli di persone sane. Il loro “calvario” può cominciare prima dell’adolescenza con disturbi d’ansia e dell’umore che però poi negli anni a venire possono sfociare in crisi depressive.
Secondo quanto riferito dal team leader Myrna Weissman gli psichiatri hanno stimato che il 60 per cento di figli e nipoti di depressi ha a sua volta un disturbo psichico che compare già prima dell'adolescenza. Invece questa percentuale non supera il 28 per cento nelle famiglie senza questi problemi.

Questo studio, cominciato su 47 membri di famiglie prese in esame nell’arco di 20 anni e due generazioni, è il più vasto mai compiuto finora per dimostrare il peso dell’eredità della grave malattia, ha sottolineato la Weissman. Alla generazione successiva i membri delle famiglie presi in esame erano 86, alla generazione ancora seguente 161, tutti con età media di 12 anni. La diffusione di disturbi d’ansia e dell’umore nei bambini, nonché la trasformazione di questi disturbi in depressione nella loro adolescenza, si intensificano di generazione in generazione.

“Figli e nipoti di individui depressi”, ha avvertito la Weissman, “sono ad altissimo rischio di disturbi d’ansia e dell’umore anche da piccoli. Dovrebbero quindi essere sottoposti ad eventuali trattamenti non appena queste sintomatologie compaiono, o quanto meno monitorati con attenzione e continuità per prevenire negli anni a venire complicazioni psichiche”.

Fonte: Weissman MM, Wickramaratne P, Nomura Y et al. Families at high and low risk for depression: a 3-generation study. Arch Gen Psychiatry 2005; 62.

storia
un dossier della Stampa su Auschwitz

La Stampa 20 Gennaio 2005
Elie Wiesel all’Onu


La tragedia dell’Olocausto sarà ricordata lunedì prossimo in una sessione speciale dell’Assemblea Generale dell’Onu, su richiesta di Usa, Ue, Russia, Canada, Australia e Nuova Zelanda, appoggiata da diversi paesi arabi. Il discorso principale sarà teneto dal premio Nobel per la pace Elie Wiesel, sopravvissuto di Auschwitz.

CREDERE L’INCREDIBILE
di Barbara Spinelli


NOI non sappiamo che cosa sia realistico o non realistico: noi qui stiamo morendo tutti! Vai a dire questo!». Con queste parole Leon Feiner, attivista dell’organizzazione Jewish Socialist Bund, si accomiatò da Jan Karski nel '42, dopo l'invasione nazista della Polonia. Era ormai chiuso nella trappola che Varsavia era divenuta per gli ebrei, e Karski era la sua unica speranza. Karski era un diplomatico polacco, cattolico, che nel ’41 era entrato clandestinamente nel Paese occupato e aveva visto l'essenziale: il ghetto di Varsavia, il campo di sterminio di Belzec alla frontiera con l'Ucraina, le stelle gialle, l'uccisione per le strade di donne, bambini. Era un testimone prezioso e fu incaricato di raccontare gli eventi a Londra e in America, mostrando i filmati presi nella spedizione. Non fu ascoltato, se non da pochi. Non gli credette nessuno, tranne qualche spirito profetico. Fu così sempre, nei genocidi del XX secolo.
Dopo aver letto il rapporto di Karski e visto i suoi film, Ignacy Schwarzbart in nome del Consiglio nazionale polacco di Londra inviò un telegramma al Congresso Ebraico Mondiale, alla fine del ’42: «Ebrei in Polonia quasi completamente annientati - STOP - A Belzec costretti scavare loro tomba suicidio di massa centinaia di bambini gettati vivi in canali di scolo - STOP - Ebrei nudi trascinati camere della morte - STOP - Migliaia di vittime quotidiane intera Polonia - STOP - Credere l'incredibile - STOP».
Credere l'incredibile: ecco la frase che spiega tanti misteri, nelle reazioni del mondo a Auschwitz. Che spiega il silenzio, l'indifferenza delle democrazie, dei maestri di pensiero e di religione. Furono numerosi perfino gli ebrei, a non credere: negli Stati Uniti, Karski non riuscì a smuovere Felix Frankfurter, giudice della Corte Suprema, e Isaiah Berlin - nel '42 lavorava all'ambasciata britannica di Washington - non vedeva più di un pogrom, una persecuzione abituale. Stessa reazione l'ebbero dirigenti sionisti come Nahum Goldman, Chaim Weizmann, David Ben-Gurion. Scrive la studiosa Samantha Power, in un libro esemplare, che i rappresentanti della civiltà vivevano in «un crepuscolo tra il sapere e il non sapere» (Voci dall'Inferno, Baldini Castoldi Dalai 2004).
Questo era dunque il contesto, in cui i contemporanei di Auschwitz pensavano, operavano, prima della liberazione dei campi sessant'anni fa. Questa la sensibilità ottenebrata, la mancata percezione del carattere inedito dell'orrore: il contesto è qualcosa che gli storici non possono ignorare, e che secondo molti giustifica silenzi e omissioni non solo durante, ma dopo lo sterminio. Lo si è potuto constatare nell'avvincente dibattito aperto dal Corriere della Sera su Pio XII e l'ordine, nel '46, di non restituire alle famiglie i bambini ebrei salvati e battezzati durante il genocidio.
La storia non si giudica con il metro del presente, è stato detto. E certamente non possiamo ignorare tutti quegli ingredienti (il contesto appunto, o come si dice oggi il comune sentire, l'orientamento largamente diffuso all'epoca dei fatti) che sono la stoffa di cui da sempre è fatto il Zeitgeist, e cioè quello spirito dei tempi teorizzato da Hegel e descritto da Goethe come «predominio» di un pensiero che «s'impossessa delle masse» e non tollera pareri contrari. Karski e altri non furono ascoltati, e tale era il Zeitgeist degli Anni 30 e 40. Lo era per vari motivi. Perché le sovranità degli Stati erano intangibili, e la lotta a Hitler era contro la sua espansione militare. Il crimine era talmente inconcepibile da sembrare non possibile. Gli ebrei erano stati perseguitati tante volte, e non si vide lo strappo. Ma soprattutto non c'era un nome, per dirlo. Il crimine era non solo inconcepibile ma ineffabile, dunque condannato a restare nel crepuscolo tra dire e non dire, agire e non agire.
Il richiamo allo Spirito dei Tempi si comprende, ma non è in realtà di enorme aiuto. Quel che avvenne durante il genocidio e dopo chiarisce il perché di tante rimozioni (compresa la rimozione in Israele; compresa la rimozione favorita dai comunisti in Est Europa: nei Lager le lapidi tacitavano il martirio degli ebrei, giudicato secondario rispetto a quello dei comunisti), ma è utile più per una cura di guarigione dopo il delitto, che per una cura che lo scongiuri. La questione davvero cruciale è un’altra, e la lezione di Auschwitz non concerne tanto l'espiazione-riparazione quanto la prevenzione. Come dice Freud criticando Dostoevskij: quel che conta nell'etica è evitare di fare il male, non anelare a lacerate espiazioni. E la memoria giova se salvaguarda i due ricordi: come si patì l'orrore e lo si pensò dopo, ma anche come fu intuito e ritenuto scongiurabile prima, se testimoni e moniti fossero stati ascoltati. Di questo gli storici non si occupano molto, anche perché la figura del testimone non ha sempre diritto di cittadinanza nei loro archivi.
Eppure è questo che può aiutare a capire, ad agire: la rievocazione degli allarmi che furono lanciati da un certo numero di illuminati. Lo studio del loro carattere, del loro metodo. Esaminando le opere di chi seppe dire l'orrore, si apprende una grande lezione: non è necessaria una vista specialmente acuta, né occorre attendere di avere un'idea sulle idee del genocidio (questo il significato di vocaboli improbi come concettualizzazione, contestualizzazione della Shoah). È sufficiente avere una quantità modica di decenza, non influenzabile dalle circostanze. E per istituzioni come il Papa di Roma, è sufficiente - lo ricorda Claudio Magris - rammentare che la Chiesa non è figlia del Zeitgeist ma difende «verità ritenute immutabili». L'antigiudaismo tradizionale che allignava nel cristianesimo aveva creato un clima favorevole all'antisemitismo hitleriano ma non aveva a che fare con Auschwitz.
Qualcosa di nuovo era apparso in Europa, un antisemitismo che non spingeva gli ebrei né a convertirsi né a fuggire ma che li chiudeva in spazi chiusi e li annientava. E il nuovo che irrompe nel presente, solo uno sguardo profetico può intuirlo: non perché il profeta anticipi l'avvenire, ma perché sa descrivere il presente. Solo i profeti e i vigili hanno quel che serve: non una visione storicizzata dell'etica ma un'immaginazione morale, e la capacità di dare un nome all'Inferno. Non mancarono uomini simili, dotati di fantasia etica. Basta ricordare due nomi, a parte Karski.
Il primo è Arnold Schönberg: nel libro Un Programma in Quattro Punti per l'Ebraismo, scritto fra il '33 e il '38, il musicista fa la lista meticolosa degli ebrei minacciati da Hitler che vivono in Germania, Austria, Europa centro-orientale: «C'è posto nel mondo per circa 7 milioni di persone? O questi milioni sono condannati alla finale rovina? A divenire un popolo estinto, affamato, macellato?». Schönberg fa capire che non l'eroismo s'impone. Basta un po' d'anticonformismo, ed essere «osservatori svegli, realistici». Così l'immaginazione morale si mette a servizio del realismo, solitamente evocato per giustificare omissioni. Schönberg aveva visto montare l'antisemitismo nuovo fin dai primi Anni 20, in Austria.
Il secondo è Raphael Lemkin, un giurista polacco che dopo il genocidio degli armeni nel '15 aveva capito quale disastro può nascere da crimini prima non visti, poi impuniti. Poco prima di invadere la Polonia, Hitler aveva rassicurato così i comandanti del proprio esercito: «Chi ricorda ancora, oggi, il genocidio degli armeni?». Nessuno lo ricordava perché non esisteva ancora un nome per simile crimine, e solo il nome poteva fondare secondo Lemkin una giurisprudenza internazionale. Il 24 agosto '41, mentre i nazisti avanzavano in Russia, Churchill aveva detto alla Bbc: «Interi distretti vengono sterminati, migliaia sono le esecuzioni a sangue freddo. Dall'invasione dei Mongoli non s'è visto un mattatoio simile. Siamo in presenza d'un crimine senza nome».
Grazie a Lemkin, il crimine senza nome riceverà invece un nome, già nel '43: genocidio. E una volta trovato il nome si potrà poi legiferare. Nel '48, l'Onu approva una Convenzione sul genocidio, e a Norimberga il reato di cui saranno accusati i nazisti sarà genocidio. Negli Anni Cinquanta si troverà il nome di Olocausto (lo storico ebreo Poliakov nel '51, lo scrittore cattolico Mauriac nel '58). Poi, sulla scia del film di Claude Lanzmann, si parlerà di Shoah.
Dare un nome è cruciale, se si vuol far fronte agli stermini prima che succedano. Per Ruanda e Bosnia non si volle usare la parola genocidio, perché la convenzione Onu comporta il dovere d'intervento. Anche l'annientamento con armi chimiche di circa 100.000 curdi iracheni nell'87 non fu chiamato genocidio. Furono le amministrazioni Reagan e Bush senior a opporsi, perché Saddam era allora un prezioso alleato. Divenne nemico da abbattere quando stava diventando, grazie a ispezioni e sanzioni, nella sostanza innocuo.
Il motivo per cui contano più i prodromi che la successiva elaborazione della colpa è che nel futuro varrà la pena prevenire ecatombi simili, piuttosto che trovare il modo più eccelso di piangere i morti. Per far questo, bisogna non solo dare il nome al delitto, come ha fatto Lemkin, ma riscrivere un intero vocabolario, a partire dall'esperienza di Auschwitz. Bisogna ridefinire la classica politica di potenza e dunque la sovranità assoluta degli Stati, stabilendo che essi non possono fare qualsiasi cosa sul proprio territorio. Bisogna avere l'immaginazione morale atta a dire l'indicibile, l'incredibile. Non bisogna dare colori metafisici agli eventi: Auschwitz è uno sterminio di popoli (ebrei, polacchi, zingari); non è né un misterico sacrificio (un Olocausto) né un'esperienza che riguarda solo gli ebrei. E non sono coinvolti solo etnie ma modi di essere, di vivere (malati mentali, omosessuali). Bisogna rivedere il concetto di comune civiltà umana, liberandola dagli unanimismi: la civiltà umana, dice Ignatieff, è unita nella coscienza della propria diversità. Nessun essere sulla terra si differenzia come gli uomini (per colore di pelle, religione, stili di vita), ed è questo il tesoro da salvare.
È perché non c'è ancora questo vocabolario che tanti tabù, legati a Auschwitz, rischiano oggi di cadere. Tra questi: l'eugenetica; o la tortura dei prigionieri di guerra, costretti a denudarsi e a vedersi umiliati nella propria religione (Abu Ghraib). Torna infine il bisogno di capro espiatorio: il bisogno di individuare categorie nemiche, per appartenenza religiosa o modi di vita.
Come dice Ignatieff, il genocidio comincia con la promessa di creare un mondo senza diversi, senza nemici, fatto di gente tutta eguale. Comincia con un'utopia, e quest'utopia mortifera è dentro ciascuno di noi. E siccome l'utopia è dentro di noi, e l'orientamento diffuso tra la gente e i politici tende negli ultimi tempi a assecondarla, Auschwitz è sempre di nuovo possibile.

La fabbrica di morte
dove le vittime diventano carnefici
di Giovanni De Luna


TRATTENERE la memoria della Shoah, impedire che fugga via dai nostri ricordi, sepolta sotto le macerie del Novecento, travolta dalla smania di archiviare in fretta «il secolo degli orrori». Non è facile. Sono troppi gli «eccessi» novecenteschi ambientati in scenari di violenza e di morte: i milioni di «uomini di marmo» inghiottiti nel gulag, i corpi dissolti dai lampi acceccanti di Hiroshima e Nagasaki, le vittime dei bombardamenti di Dresda e Amburgo, che bruciavano nel fosforo delle bombe alleate.
Sempre, in tutti questi casi, il Novecento ha messo in scena una violenza eccessiva, sproporzionata rispetto ai risultati che si volevano ottenere; e tuttavia questi scopi erano in qualche modo riconoscibili; per quanto perversa, c'era comunque una logica strategico-militare dietro l'uso dell'atomica o dei bombardamenti contro i civili, così come c'era nell'ossessione produttivistica che alimentava il delirio totalitario dello stalinismo. Nello sterminio degli ebrei deciso dai nazisti c'era invece esclusivamente un progetto totale di morte: ed è questa unicità che lo rende per sempre «un passato che non deve passare».
Quale che sia la configurazione assunta dagli altri orrori novecenteschi, solo Auschwitz fu concepito e realizzato come una fabbrica di morte. Vista dall'esterno, la sua struttura sembrava quella di un gigantesco opificio, al cui interno funzionava una catena di montaggio ispirata al modello della tayloristica divisione del lavoro. Il convoglio dei condannati arrivava alla banchina di mattina; il pomeriggio, erano già stati uccisi e i vestiti immagazzinati. I morti venivano caricati su vagoncini ribaltabili e trasportati alle fosse comuni. All'inizio non c'erano forni crematori. Nella primavera del 1942, tuttavia, i cadaveri vennero disseppelliti e bruciati. Le prime uccisioni col gas si registrarono nel settembre 1941 nella cantina del blocco n. 11 del Lager principale. Nel 1942 ci si spostò a Birkenau, trasformando in camere a gas due case coloniche situate in un boschetto ai limiti del campo.
Le quattro grandi fabbriche della morte vere e proprie entrarono in funzione tra il marzo e il giugno del 1943: ogni unità era fornita di stanze per la svestizione dei deportati, di vani (camufatti da docce) in cui avveniva l'esecuzione immettendo ossido di carbonio o acido cianidrico, di fornaci per l'incenerimento dei cadaveri. Dopo le esecuzioni, si azionavano i ventilatori per aerare le camere, si toglieva il catenaccio dalla porta e le squadre degli addetti entravano per innaffiare i cadaveri con spruzzi d'acqua e poi trascinarli fuori. I corpi non giacevano sparpagliati, ma erano accatastati l'uno sull'altro. Il gas fatto penetrare dall'esterno era letale prima all'altezza del suolo e raggiungeva gli strati d'aria superiori solo poco alla volta. Perciò quegli sventurati si calpestavano a vicenda, tentando di arrampicarsi l'uno sull'altro; più in alto si arrivava, più tardi si moriva. Quelli che si erano trascinati fino alla porta e non erano ancora morti venivano uccisi a colpi di pistola al momento dell'ingresso delle SS nella camera a gas. Successivamente si trasferivano i corpi in altri locali fino ai «banchi di sfruttamento», dove agivano i dentisti (strappavano i denti d'oro e il piombo delle protesi), i barbieri (tagliavano i capelli) mentre i fuochisti continuavano a riempire i forni. Quando i morti erano trasformati in cenere, le camere a gas e le stanze di svestizione venivano ripulite per ospitare i componenti della tradotta successiva.
Il ciclo di lavorazione non era ancora finito. Già a quello stadio aveva comunque prodotto le sue merci. Quando gli Alleati giunsero ad Auschwitz, all'interno dei sei magazzini che restavano ancora in piedi i liberatori trovarono 348.820 abiti da uomo, 836.255 vestiti e cappotti da donna, 5.525 paia di scarpe da donna, 13.964 tappeti, montagne di vestiti per bambini, occhiali, pennelli da barba e protesi dentarie. Nell'area della conceria erano depositate sette tonnellate di capelli. E non bastava. Le vittime erano state uccise, ma i loro corpi non trovavano ancora pace. Ci fu sempre un accanimento maniacale nel distruggerli, nel farli scomparire. Dopo essere stati bruciati, le ceneri venivano sminuzzate, triturate fino a ridursi a una polvere impalpabile. Questa ossessione lascia emergere un'altra delle specificità assolute del Lager: i nazisti si impegnarono consapevolmente a non «lasciare nessuna traccia», a fare sparire qualunque resto. «Non si pronuncerà il kaddish» aveva detto Goebbels nel suo discorso analizzato da Hannah Arendt nel 1942, «cioè vi uccideremo senza resti e senza memorie».
C'era però un punto debole in questa strategia che coniugava sterminio e oblio. Esattamente come per la catena di montaggio della fabbrica fordista, risiedeva nel punto di frizione tra l'organizzazione del lavoro e i lavoratori. Nessun operaio di mestiere, in questo caso, e nessun sindacato, ma una manodopera altrettanto specializzata, le cui mansioni erano stabilite all'interno di una delirante tabella produttiva e le cui forme di reclutamento e selezione attitudinale aggiungevano solo orrore a orrore. Le «squadre speciali» (Sonderkommando) dei campi di sterminio erano composte da deportati (soprattutto ebrei) incaricati di eseguire le funzioni legate al processo di messa a morte dei loro compagni; per Primo Levi furono «il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo», il tentativo di «spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti». Erano tutti destinati a essere uccisi. Le SS non lasciavano testimoni, soprattutto quei testimoni; la cancellazione del crimine era importante quanto il crimine stesso.
Ma proprio in questi uomini dannati a veder morire i loro cari, ad aiutare gli aguzzini nelle loro stragi, a intervenire sui corpi dei morti in pratiche fino ad allora inconcepibili, scattò la scintilla della rivolta. Penso al terribile «Nessuno vi crederà» che le SS gridavano ai prigionieri per privarli anche di quell'«appello alla storia» che era la loro unica speranza di vendetta. Direttamente contro il cuore di tenebra di questa strategia i membri del Sonderkommando scagliarono le armi della loro disperazione, con tutta la forza che attingevano all'odio per i loro carnefici. Ecco perché consegnarono talvolta le loro testimonianze al segreto della terra: gli scavi effettuati intorno ai forni di Auschwitz hanno rivelato - spesso molto tempo dopo la Liberazione - scritti sconvolgenti, quasi illeggibili, di questi schiavi della morte. Bottiglie nella terra, in un certo senso, tranne che non avevano sempre una bottiglia dove conservare il loro messaggio. Nella migliore delle ipotesi, una ciotola di metallo.
«Questo l'ho scritto nel periodo in cui mi sono trovato nel Sonderkommando. \ Ho voluto lasciare, con molti altri appunti, un ricordo per il mondo futuro di pace, affinché si sappia quel che è successo qui. L'ho sotterrato nelle ceneri, pensando che era il posto più sicuro, che vi scaveranno di certo, per trovare le tracce di milioni di uomini scomparsi. \ Cercatore, scava ovunque, in ogni pezzetto di terra. Vi sono nascosti i documenti miei e di altre persone, documenti che gettano una luce cruda su tutto ciò che è successo qui. Siamo noi, gli operai del Sonderkommando che li abbiamo disseminati in tutto il terreno, per quanto abbiamo potuto, affinché il mondo trovi tracce palpabili dei milioni di uccisi. Anche noi abbiamo perduto la speranza di vivere fino alla liberazione».
Furono tutti uccisi, ma i loro messaggi hanno permesso alla memoria di sconfiggere l'oblio.

Feste e benessere
con vista sull’orrore
di Mirella Serri


IL Capodanno del 1943 fu particolarmente piacevole all'albergo Rasthof affollato di SS e relative famiglie. Per intrattenere gli ospiti erano arrivati appositamente da Vienna un comico, un presentatore e un gruppo di attrici: lo champagne scorreva a fiumi e non mancavano paté e cibi prelibati. Le tavolate straripavano di incontenibile allegria. Auschwitz, in quegli anni di guerra, conosceva un momento di splendore e di benessere. Ma intanto, anche in quella notte di festa, a pochi metri di distanza, stridendo sui binari, si fermavano i treni «speciali» per il Lager che scaricavano i deportati ebrei a cui - ironia della sorte - veniva estorto perfino il prezzo del biglietto verso la morte, 4 pfennige per gli adulti, 2 per i bambini mentre ai soldati che li scortavano le ferrovie tedesche applicavano lo sconto per comitive. La storia del più grande campo di sterminio, dove morirono oltre un milione di persone, fino a oggi non è mai stata integralmente ricostruita: ora viene ripercorsa dal minuzioso e dettagliato racconto di Sybille Steinbacher intitolato, appunto, Auschwitz, che uscirà a giorni da Einaudi.
È nella primavera del 1941 che si avvia la «rinascenza» economica e culturale dell'ex Oswiecim, la cittadina polacca che, dopo essere stata occupata dai nazisti, è considerata uno degli avamposti dello Stato nazionalsocialista. È la I. G. Farben, industria produttrice di materiali bellici, che ne fa la fortuna decidendo di impiantare una nuova fabbrica nei pressi del Lager comandato dal feroce Rudolf Höss. La Farben si installa a soli sette chilometri dal campo di sterminio e non è l'unica industria a fiutare l'affare dell'utilizzo di schiavi-operai: come api sul miele, si gettano sul mercato dello sfruttamento fino alla morte dei detenuti la società mineraria e metallurgica Teschen, l'Azienda fornitrice di Energia Alta Slesia, la Freidrich Krupp e tante altre ancora in un elenco ben nutrito.
Auschwitz diventa così nei progetti del Reich una città-modello: a un prestigioso architetto, Hans Stosberg, viene commissionato lo sviluppo urbano in modo da attirare lavoratori specializzati, professionisti, imprenditori. Nelle baracche del campo di sterminio l'orrore non conosce limiti ma ad Auschwitz fioriscono residenze spaziose e accoglienti, dotate di elettrodomestici, riscaldamento e lavanderia centralizzata, scuole (ben dodici), stadi con piscine e campi sportivi, e un teatro dove per le SS più volte la settimana vengono eseguite ottime rappresentazioni teatrali e concerti.
L'immigrazione è notevole e da settemila si raggiungono i 55 mila abitanti. Vivono e prosperano tutti all'ombra del campo di concentramento e fingono di ignorare - insieme con i dipendenti delle ferrovie nei cui ranghi in questi anni non si registrerà alcun caso di licenziamento - di che natura sia l'odore dolciastro che proviene dai forni crematori e di chi siano i cadaveri che ogni giorno si ritrovavano lungo i binari. Un mistero che si chiarirà quando nel pomeriggio del 27 gennaio 1945 i soldati della LX Armata del primo fronte ucraino entreranno finalmente ad Auschwitz e troveranno circa settemila sopravissuti e anche sette tonnellate di capelli umani già imballati e pronti per essere spediti.

1959, Levi risponde alla figlia di un fascista,
che chiede la verità
SU «SPECCHIO DEI TEMPI» APPARE LA LETTERA DI UNA TREDICENNE COLPITA DALLE IMMAGINI DI UNA MOSTRA SULLA DEPORTAZIONE
LO SCRITTORE LE SPIEGA CHE IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI IN QUESTO CASO È UN ERRORE ANZI QUASI UN DELITTO:
PUÒ MASCHERARE QUELLO COLPEVOLE DEI RESPONSABILI, DIFFERIRE E ELUDERE IL GIUDIZIO STORICO
di Alberto Cavaglion

TRA decennale della Liberazione (1955) e centenario dell'Unità (1961) si svolge in Italia, e segnatamente a Torino, una discussione che merita di essere ricostruita. Oggetto del contendere è la Resistenza: ci si chiede se sia lecito definirla un «secondo Risorgimento». Nel 1961 il dilemma troverà una sua niente affatto pacifica collocazione in una sala dedicata alla guerra partigiana dentro il Museo del Risorgimento di Torino. Schiacciato fra questi due contendenti non muniti della stessa forza (a quell'epoca la Resistenza fungeva da traino per la memoria collettiva) inutilmente s'affanna un convitato di pietra, che nessuno vuole ascoltare: il Deportato. Che spazio gli viene dato in questi musei e in questi studi? Scarso, del tutto occasionale. Solo dopo il processo Eichmann (1961), in Italia come in Francia, s'inizierà a parlare di Shoah. Oggi esiste una Giornata della Memoria, ma spesso dimentichiamo che la memoria di Auschwitz ha faticato non poco a farsi riconoscere un diritto di cittadinanza dalla storiografia.
A Torino la discussione si anima intorno ad alcune esposizioni, che danno origine a conferenze, opuscoli, articoli di giornale. Oggi, su questo interessante periodo si sta iniziando a lavorare con molta serietà: penso in particolare, per la memoria della Shoah in Italia, ma soprattutto, per una visione comparativa, agli studi che di qua e di là delle Alpi stanno realizzando Elisabetta Ruffini e Paola Bertilotti.
Il 28 maggio 1955, nella solenne sede di Palazzo Madama, s'inaugura una mostra sulla Resistenza; alla deportazione viene riservato un solo pannello, uno scarno disegno. C'è da ritenere che Levi abbia espresso il suo rammarico, tanto è vero che qualche settimana dopo la città di Torino, dedicando alla mostra di Palazzo Madama e al decennale della Resistenza un numero monografico della sua rivista ufficiale, chiede a Levi un articolo che è uno dei suoi primi e più intensi (Deportati. Anniversario). Nell'attesa lo scrittore lavora alla revisione di Se questo è un uomo, vi aggiunge un capitolo (Iniziazione), muta non poco lo stile. Ma il tempo passa e perché le cose riprendano a muoversi si deve attendere l'estate del 1959 quando il libro viene finalmente ristampato da Einaudi.
Il ritorno in libreria non avrà la stessa risonanza che qualche mese dopo avrà una seconda mostra, questa volta incentrata sulla deportazione e allestita, senza però la solennità dell'altra, al piano terra del Palazzo Carignano, nelle sale dell'Unione Culturale. Vi sono esposti non più soltanto un disegno, ma alcune decine di fotografie, qualche cimelio, una casacca, una gamella, un cucchiaio.
La mostra era stata allestita già nel 1955 del decennale della Liberazione, ma per iniziativa del sindaco di Carpi, Bruno Losi, deciso a onorare la memoria del campo di Fossoli, il grande campo di transito vicino a Modena, dove fu prigioniero lo stessi Levi. A Torino arriva alla fine di un periplo che dura quasi quattro anni, ma qui conosce un successo di critica, che non ha avuto altrove. Marziano Bernardi ne scrive in termini entusiastici sulla Stampa del 17 novembre, Luigi Carluccio sulla Gazzetta del Popolo. Visto il successo l'Unione Culturale organizza conferenze di approfondimento, ad una di queste Levi fa la sua prima uscita in pubblico. Agli incontri di dicembre partecipano: Alessandro Galante Garrone, Bruno Vasari, Sergio Sarri, Lidia Beccaria Rolfi, Franco Davide, Giovanni Floris, Alberto Todros, Norberto Bobbio, Raimondo Luraghi e altri. La mostra, per il suo contenuto, produce l'effetto di una scossa. Alla rubrica di Specchio dei tempi giungono decine e decine di lettere di visitatori colpiti soprattutto dalla durezza di quelle immagini raccapriccianti.
Fra i molti messaggi giunti in redazione vi è il piccolo carteggio fra una bambina senza nome e lo stesso Levi. Dei due scritti, paradossalmente, quello della ragazzina colpisce la nostra curiosità più della replica di Levi (finora sfuggita ai suoi critici e non inserita nella sua bibliografia). Come sempre Levi trova l'equilibrio giusto fra fermezza e disponibilità ad ascoltare, ma a rileggere il breve dialogo, colpisce soprattutto il coraggio di chi non esita a definirsi «figlia di un fascista che vorrebbe sapere la verità». «È la lettera che attendevamo», risponde Levi, sperando che l'innocenza, finalmente, riesca a scuotere l'indifferenza davanti a quei suoni provenienti dal sottosuolo.
Tredicenne nel 1959, la bambina di allora dovrebbe avere oggi una sessantina di anni. Mutato di molto l'orizzonte delle sue e delle nostre conoscenze che cosa penserà della sua sincera sorpresa di allora?

Le SS ci guardavano
per loro eravamo
come gli scarafaggi

di Massimo Numa

SESSANT’ANNI dopo Auschwitz. Nedo Fiano, 80 anni, fiorentino residente a Milano, è uno dei pochi ebrei italiani sopravvissuti al campo di sterminio («Non sono rimaste più di quindici persone, oggi», dice commosso). In questi giorni è impegnato ovunque in una serie innumerevole di incontri: scuole, centri culturali, varie associazioni. Ogni volta racconta l’Olocausto vissuto sulla pelle, ripetendo - spiega - le stesse parole, gli stessi accenti. Ripercorrendo come in trance lo stesso dolore. Un modo estenuante di mantenere viva la memoria. Ma, invece di sentirsi rassicurato, il dottor Fiano - che è un combattente nato - è in preda a un crescente senso di inquietudine. Come se i decenni passati, nella coscienza di molti, specie nei più giovani, avessero lentamente dilavato il segno unico e profondo dell’Olocausto. «La ritualità, ecco. Il pericolo di trasmettere alla società di oggi quasi il senso di una “memoria obbligata”, mentre attorno a noi sembrano riemergere, in tutta Europa, le antiche ombre dell’antisemitismo», dice. Le vicende medio-orientali hanno trascinato Israele nel vortice di un odio che unisce le due estreme, destra e sinistra. Il newswire di Indymedia, il sito degli antagonisti, vomita ogni giorno post carichi di un odio che va ben oltre alle critiche (legittime) allo Stato di Israele. Il termine «nazisionisti», per esempio, è condiviso, martellante, ripetuto sino alla nausea.
Fiano: «E’ una situazione che ci rattrista immensamente; fa riflettere anche sul significato del “giorno della memoria” qui, nel cuore dell’Occidente. Ma non importa. Continueremo a raccontare Auschwitz, a ripetere con le stesse parole ogni minuto particolare del lager». Difficile aprire varchi nuovi nella sensibilità collettiva per spiegare Auschwitz, che è il «non luogo» per eccellenza, dove - nella parte delle SS - recitano i «non uomini». Il pensiero deve partire da questo punto».
Nel suo lungo racconto, lui che parla perfettamente il tedesco, ama sottolineare le sfumature che solo chi era in grado di conoscere la lingua dei «non uomini» era in grado di cogliere subito, appena sceso sulla banchina della stazione del campo. Aveva 19 anni, erano i primi di giugno 1944: «...I nazisti ci guardavano come fossimo stati degli scarafaggi. E come per gli scarafaggi, nessuno prova ritegno a schiacciarli, così era per noi. Il nazista disse che aveva bisogno di qualche interprete. "Chi parla tedesco?" chiese. Ero impietrito, immobile. E proprio quando pensavo che questo esame fosse finito, ho sentito una spinta sulla schiena, una mano che mi mandava avanti a offrire la mia disponibilità d’interprete. Eravamo dei privilegiati, lavoravamo sulla banchina d’arrivo della stazione di Auschwitz-Birkenau».
Il «non luogo», sessant’anni dopo, va raccontato in ogni dettaglio. Il distacco, l’analisi storica, Fiano li ha dentro di sé. Ma è di nuovo sulla banchina di Birkenau-Auschwitz, mentre fa il suo lavoro. Cioè, accogliere i deportati che arrivano da tutta Europa. «Avevamo lavorato duro per trasferire sui camion centinaia di valigie, mentre i nostri occhi vagavano con partecipazione tra quella povera gente impaurita, che sarebbe stata gassata e cremata nel giro di poche ore. “Dove siamo? Dove ci portano? Cosa ci faranno?”, erano le domande angosciate di ognuno. “Non vi accadrà niente. State tranquilli, andrete a fare una doccia. Coraggio!”. Malgrado cercassimo di tranquillizzarli, potevamo forse dir loro la verità? A cosa sarebbe servito?».
Ad accogliere queste persone sulla soglia della camera a gas c’era fra gli altri Shlomo Venezia, ebreo originario di Salonicco, in Italia dal ‘45, casa a Roma. Oggi ha 81 anni. Fece parte del Sonderkommando di Auschwitz, un gruppo di prigionieri obbligati a rimuovere i cadaveri dopo le gassazioni di massa. In tutto il mondo sono sopravvissuti in «quattro o cinque, non di più», dice. L’ultimo Sonderkommando si va estinguendo. Shlomo, nel lager, ha perso la mamma e le sorelline. Ricordi lucidissimi: «Il tedesco che ci comandava si chiamava Moll, l’hanno giustiziato i polacchi. E poi un mio amico, Leone C. che faceva il bancario ad Atene, incaricato di strappare i denti d’oro ai morti, anche lui non c’è più». L’orrore si muta in nuove lacrime: «...Quando hanno aperto la porta di una camera a gas, non era come la prima sera, allora era il sotterraneo, la sala dove la gente si svestiva. Quando veniva la gente, la prima cosa che diceva il tedesco era: “Achtung, achtung”, con quella voce che ti entrava dentro le ossa. C’erano in quella stanza degli attaccapanni e ognuno di questi aveva un numero. Il tedesco diceva a tutti di appendere la loro roba e di ricordarsi il numero del proprio attaccapanni così da ritrovarla all’uscita dalla doccia. La gente era convinta di andare a fare la doccia e, infatti, c’era una grande stanza con tante docce finte. Alcuni cercavano di andare per primi, per esempio le donne con i bambini piccoli... Chiudevano la porta, simile a quella dei frigoriferi dei macellai, una doppia porta con al centro lo spioncino per vedere l’interno... Il tedesco apriva la botola che era camuffata dall’erba quando non c’era la neve e metteva dentro questo gas velenoso che si chiama Ziklon B. Dopo dieci minuti tutti quelli che stavano dentro erano asfissiati. Allora entrava il Sonderkommando. Io dovevo tagliare i capelli».
E Goti Bauer, milanese che fu schiava nel campo di lavoro di Birkenau: «In lontananza vedevamo una bianca casetta di contadini. Sembrava un miraggio, gente vi entrava, gente ne usciva: era la vita. Dal camino saliva un filo di fumo: immaginavi la pentola sulla stufa, la famiglia intorno al desco. Ricordo quella casa come il più grande desiderio che io abbia mai avuto: potervi arrivare, scaldarmi al tepore di quella stufa, passarvi il resto dei miei giorni».
Giuliana Tedeschi, 91 anni, torinese, mamma di due figlie, per molto tempo dopo il ritorno non ha mai parlato di Auschwitz: «Una questione mia, una forma di ritegno. Ma una volta, andando a scuola, vedendo da lontano una ciminiera, precipitai nello sgomento. Mi ricordava il crematorio, che per noi era l’ossessione di ogni minuto, un incubo che per anni ho cercato di spiegare a tutti. Potevamo finire in cenere per nulla, anche quando non te lo aspettavi... E’ sempre più difficile far capire alle nuove generazioni cos’è l’Olocausto. I ragazzi leggono poco, e non per colpa loro. Andrebbero indirizzati dai professori, e questo accade raramente; alcuni non lo sanno fare. Ed è forte il rischio di commemorazioni rituali, che non incidono più nelle coscienze».
E non si possono non ricordare le parole di Rudolph Hoss, il comandante di Auschwitz, impiccato il 16 aprile 1947 proprio davanti al Krematorium 1 del «non luogo»: «Non potevo permettermi di giudicare se questo sterminio in massa degli ebrei fosse o no necessario, la mia mente non arrivava tanto in là. Se il Führer in persona aveva ordinato la “soluzione finale della questione ebraica”, un vecchio nazionalsocialista, e tanto più un ufficiale delle SS, non poteva neppure pensare di entrare nel merito».

un'analisi di Edoarda Masi
sulla Cina

ilmanifesto.it 18 gennaio 2005
China-market, direttive di partito


La gestione autoritaria dello stato come premessa indispensabile per una via cinese al capitalismo liberista. E' questa la tesi dello studioso Wang Hui presentata in un recente seminario all'Università di Bologna. Una critica alla gestione del potere politico di Pechino che parte dalla rivolta di Tienanmen per rivendicare un libero mercato «non capitalistico» e libertà civili e politiche. E che chiama in causa il ruolo del nazionalismo nella «resistenza» alla globalizzazione economica
EDOARDA MASI

Su quanto è accaduto in Cina dal 1978 alla fine del secolo, sembra utile iniziare una discussione con le voci cinesi indipendenti: Wang Hui, che da anni dirige la interessante rivista Dushu («Letture»), ed è autore di numerose opere sulla storia della cultura cinese moderna, ha pubblicato nel 2003 presso la Harvard University Press la raccolta di saggi China's New Order: Society, Politics, and Economy in Transition, che muovono dal contesto delle ricerche e delle interpretazioni critiche emerse fra i giovani, gli studiosi e gli intellettuali nell'ultimo trentennio. (Lo studioso cinese è stato recentemente in Italia invitato dalla Facoltà di lingue dell'Università di Bologna, dove ha tenuto la scorsa settimana un seminario attorno proprio alla sue riflessioni sulla Cina). Centrale risulta la questione della rottura-continuità fra presente e passato socialista: su dove si collochi la rottura e dove la continuità. Wang Hui rileva che lo stato (post-socialista o sedicente socialista) totalitario repressivo delle libertà civili e sociali, contro il quale (ad un tempo con la critica al socialismo) si invocano democrazia, modernità e neoliberismo, esercita invece la sua funzione autoritaria per instaurare, con più forza, il liberismo capitalistico. Non solo non è contrario né assente nell'affermazione del cosiddetto mercato, ma quest'ultimo non avrebbe mai potuto prevalere senza l'appoggio pesante e dispotico dello stato. Secondo Wang, in Cina lo stato diventa esplicitamente e pienamente promotore-gestore del liberismo capitalistico dopo la rivolta del 1989.

Lo stato dello sviluppo
Quel movimento - al quale sarebbe seguita la svolta sociopolitica maggiore - è stato a parere di Wang un fenomeno complesso, nel quale confluirono componenti diverse e opposte: popolari, sostanzialmente (se pure in parte inconsciamente) orientate alla conquista di libertà non solo politiche ma anche economiche e sociali; «gruppi di interesse»; intellettuali (che si dividono in vari modi a favore dell'una o dell'altra componente). Credo che l'espressione «gruppi di interesse» designi in sostanza i gestori del capitale e i relativi esponenti e clienti politici e mediatici.

La crisi rivelata dalle molteplici istanze di libertà indusse lo stato a riaffermare la propria funzione repressiva e di imposizione dell'«ordine» e a rallentare momentaneamente il ritmo troppo veloce delle «riforme»: ma col fine, subito dopo perseguito, di procedere a queste ultime in termini irreversibili e - per così dire - imponendole dall'alto, senza più spazio alcuno per le «libertà».

Wang sottolinea la mistificazione che vorrebbe far passare per «libero mercato» la cancellazione della libertà e del mercato, attraverso l'imposizione di rigidissimi vincoli da parte di colossi transnazionali e grazie alla tirannide esercitata dalle burocrazie in complicità e a tutela degli stessi. Scrive nel saggio Alternative globalization and the Question of the Modern: «All'interno, attraverso il decentramento del potere politico, lo stato ha promosso un processo di privatizzazione con l'autonomia dell'impresa e la riforma del sistema finanziario; ha sviluppato rapporti mercantili in ogni settore della vita sociale e, pur con una grossa crescita economica, ha dissolto il sistema di garanzie sociali e ristrutturato i rapporti fra le classi e gli strati sociali. All'esterno, con le riforme del commercio estero e del sistema finanziario, gradualmente ha portato la Cina nell'ambito dei rapporti di mercato globali governati dall'Wto (l'Organizzazione mondiale del commercio, n.d.r.) e dall'Fmi, quindi ha riorganizzato i rapporti legali e contrattuali nella società in concerto con l'ordine economico del neoliberismo.[...] Dopo il 1989 meccanismi di interazione fra stato e mercato son venuti a sostituire quelli fra stato e società». Il compito assegnato agli intellettuali critici è di distinguere fra l'ideologia del mercato e le politiche effettivamente adottate, e di svelare i meccanismi anti-mercato entro la società del mercato.

Il processo rilevato da Wang Hui è analogo a quello in corso nelle democrazie liberali, dove lo stato va trasformandosi in un agente diretto del capitale, con la progressiva cancellazione dei margini di autonomia politica che in una fase precedente gli venivano assegnati. Ma la descrizione è assai meno semplice a proposito della Cina - dove il punto di partenza è una società postrivoluzionaria, caratterizzata per un verso da una forte interazione fra stato e società, e per l'altro (prima e durante la rivoluzione culturale, quando si andò molto oltre l'esperienza sovietica nella ricerca di una via socialista) attraversata da una critica «rivoluzionaria» dei suoi aspetti non democratici e non socialisti.

Il capitale postcapitalistico
Il concetto di «via capitalistica», allora largamente divulgato, non era lontano da quello di una «via del capitale postcapitalistico»: incompatibile con la realizzazione della piena umanità dei lavoratori. In Cina, va qui sintenticamente ricordato, c'era un'alta consapevolezza del problema. Era venuta alla luce nelle discussioni, negli esperimenti e nei conflitti degli anni Sessanta e Settanta non solo l'espropriazione del potere decisionale dei lavoratori attraverso il processo di accentramento e la sottrazione del lavoro in eccedenza attuate per via politica, ma in primo luogo l'incompatibilità fra gli interessi dei lavoratori e la gestione dell'economia ereditata dal capitalismo e tuttora dominata dal meccanismo di riproduzione del capitale. Si era arrivati a una critica, ma non a proporre un'alternativa capace di sradicare il capitale: il ritorno al sistema autoritario, col fallimento della rivoluzione culturale, è finalizzato a mettere a tacere in primo luogo i lavoratori, ai quali pure era stata offerta una chance; e che in assenza di una proposta alternativa oltre la pura ribellione hanno necessariamente subito una sconfitta.

Con la vittoria delle forze loro antagoniste, era inevitabile che il paese finisse, a passo a passo, col volgersi al ritorno al vero a proprio capitalismo. Il fallimento del processo rivoluzionario ha lasciato una situazione estremamente confusa, dove nei dati oggettivi e nelle interpretazioni si intrecciano frammenti di diversa origine e spesso in reciproca contraddizione.

Mentre le esperienze delle società postrivoluzionarie e specialmente di quella cinese confermano il legame necessario - e già presente come aspirazione nell'originaria ipotesi socialista - fra l'istanza del socialismo quale «autogestione dei produttori» e la democrazia, nelle formulazioni di Wang Hui si inserisce l'aspirazione a un «libero mercato» effettivo, differente e anzi opposto al capitalismo neoliberista. Quasi che libero mercato e democrazia dovessero necessariamente fare tutt'uno. È una posizione assai vicina a quella di Noam Chomsky. Distinguere fra mercato e «mercato» capitalistico è utile per non confondere fra loro le diverse forme di scambio di merci esistite nel corso della storia (incluso un mercato mondiale, almeno a partire dalla fine del XVI secolo) e per aver chiara, d'altra parte, la specificità e unicità del sistema del capitale; piuttosto dubbia appare invece l'idea di un «ritorno» a forme di mercato non capitalistiche, alternativa all'ipotesi socialista, la quale però è in ogni caso da riformulare.

È opportuno considerare quanto Wang Hui scrive sulla questione della modernità nel saggio Alternative Globalization and the Question of the Modern. In realtà la cosa riguarda non solo la specificità cinese: nei fatti e nelle idee, l'epoca fondata sul progresso e sulla modernità si è esaurita. Non c'è più spazio per quei fatti e quelle idee nella versione borghese e, per contro, nella versione «proletaria»: neppure uno spazio residuo in paesi come la Cina, già «arretrati» e socialisti. Andrebbe quindi discussa anche la «crescita», se applicata a un'ipotesi socialista. [Sulla messa in questione del concetto di crescita vanno ricordati, fra gli altri, i recenti testi di Serge Latouche Pour une sociétè de décroissance, «Le monde diplomatique», novembre 2003; Il Sud avrà diritto alla decrescita?, «Le monde diplomatique-Il manifesto», novembre 2004]. E andrebbe riconsiderata la storia culturale della Cina del XX secolo.

Qui la «modernità», dalla fine dei Qing a Mao Zedong, è stata sempre collegata all'ipotesi anticolonialista e socialista; d'altra parte, viene introdotta, ripetutamente, dalla colonizzazione. Il paradosso, non cinese ma universale, si trova già nell'ambito del marxismo, là dove, in una visione di «filosofia della storia», il proletariato è concepito come erede della borghesia. Nella teoria il paradosso è apparentemente superato con lo strumento della dialettica. Ma nella concretezza storica ha portato il socialismo alla crisi. Questo infatti ha assunto l'ideologia della crescita, che non equivale al graduale arricchimento delle conoscenze e al miglioramento delle condizioni materiali, e non è insita necessariamente in ogni società storica.

L'ideologia della crescita
L'associazione dell'idea di progresso con quella di cresscita economica è inesistente prima dell'introduzione dell'economia capitalistica. Possiamo accettare la categoria di «progresso» quale ci è stata trasmessa dal pensiero ottocentesco? Il modo in cui oggi è possibile ipotizzare la fine del dominio del capitale e un'alternativa ad esso si configura negli stessi termini in cui veniva descritta nella tradizione marxista?

Che cosa può intendersi per sviluppo, che sia diverso dall'ideologia della crescita - copertura teorica della riproduzione allargata del capitale, da chiunque e comunque gestita? Impossibile quindi senza il profitto, e lo sfruttamento del lavoro - cioè di interi strati sociali: in Cina, e oggi nel contesto globalizzato, in primo luogo del lavoro nelle zone rurali. Che il cosiddetto «sottosviluppo» dei paesi ex colonizzati o neocolonizzati sia risultato e parte integrante dello «sviluppo» capitalistico globale è stato ampiamente dimostrato. Il concetto di sottosviluppo come condizione di partenza di alcuni paesi è impraticabile e fa parte dell'ideologia del capitalismo. Dopo gli esperimenti sovietico e cinese, dove la scelta della riproduzione allargata del capitale associata all'idea di «progresso» è stata fra le condizioni di fondo piuttosto che l'effetto del sistema autoritario, quale strada si può indicare, che escluda nella sostanza la riproduzione del capitale (da chiunque gestito)?

Del pensiero marxista la storia ha confermato però un punto essenziale: la contrapposizione, oggi esasperata, di capitale e lavoro. Quindi l'uscita dalla modernità non si può prospettare per la via «postmoderna», né il proletariato può essere sostituito da una a-classista «società» (o «società civile»), che includa in un'unica entità strati sociali polarmente opposti, in conflitto non conciliabile; né gli appartenenti alla stessa nazione. Si tratta di mistificazioni ideologiche introdotte per celare il luogo e la sostanza del conflitto. Il problema, finora non risolto ma in generale neppure impostato, è per il lavoro di trovare la strada che conduca all'uscita dalla soggezione al capitale. Vanno individuati i soggetti nei quali si incarna il lavoro (è il nemico stesso a indicarceli) e va definito come sia possibile collegarli (giacché il capitale opera attivamente per frammentarli e isolarli). In una nuova «analisi delle classi» delle società andrebbe affrontato, fra l'altro, il problema complesso e centrale delle nuove estese «classi medie», che in gran parte sono formate da lavoratori eppure, nella veste di consumatori, per ideologia introiettata costituiscono la base di consenso degli stati globalizzanti e dei politici neoliberisti di ogni colore.

La resistenza nazionale
Protagonisti della ricerca sono senza dubbio i lavoratori più sfruttati dell'Asia e dell'America latina, in gran parte abitanti delle zone rurali, sempre più direttamente controllate dal capitale. In questa ricerca e in questa lotta il contributo cinese è importantissimo, sia per il peso del «continente Cina» nell'economia e nella cultura mondiali, sia per l'alto livello teorico che potrebbe caratterizzarlo. A patto che almeno una minoranza illuminata della cultura cinese sappia uscire dalle secche del nazionalismo. Infatti, è impressionante come l'ambiguo intreccio di resistenza al capitale e nazionalismo si ripeta oggi (perfino, a volte, nelle pagine di un autore di pensiero indipendente come Wang Hui) negli stessi termini di settant'anni fa. Come se non fossero esistite la critica di Lu Xun e la stessa rivoluzione cinese.

Va però riconosciuto che l'ambiguità era rimasta nel seno di questa e nella politica di Mao Zedong. Che non sia stata mai esplicitamente affrontata ed effettivamente risolta pesa oggi duramente - in un contesto mondiale dove sui nazionalismi conta e fa leva il nemico, come su ogni altra ideologia o religione che allontani lo spettro della lotta di classe.

Un reale internazionalismo è irraggiungibile se non si crea un fronte internazionale del lavoro contro il capitale, e si punta invece al sistema difensivo dei singoli stati-nazione entro il quadro del capitalismo globale (che è poi la linea di fondo dell'attuale governo cinese). Wang Hui lo ammette, quando chiede la «globalizzazione del movimento del lavoro». Ma ricade subito dopo nella trappola del nazionalismo, magari allargato all'intera regione est-asiatica - allargamento dell'Asean, ecc. per resistere agli Usa: metodi validi, purché ne sia preliminarmente riconosciuta la funzione tattica e strumentale.