Il Mattino 10.10.04
Cacciari e Esposito alla Feltrinelli
Il potere psichiatrico, Foucault nel terzo millennio
Costanza Falanga
Agli inizi degli anni Settanta, per la precisione tra il 1973 e il 1974, in un momento cruciale in tutto il mondo per i rivolgimenti sociali, politici, economici che avrebbe comportato, il filosofo Michel Foucault teneva una serie di lezioni al Collège de France. Siamo negli anni più effervescenti per il dibattito antipsichiatrico, per quella che fu la rivoluzione introdotta in Italia da Franco Basaglia e per gli esperimenti di Thomas Szasz. In questo clima Foucault riprende il tema della Storia della follia, in cui aveva ricostruito la genealogia del manicomio e del potere medico-psichiatrico come conseguenza del progresso del sapere scientifico. Oggi, a distanza di trent’anni, le lezioni tenute da Foucault al Collège rivivono ne Il potere psichiatrico, il saggio a cura di Mauro Bertano, edito da Feltrinelli, al centro dell’incontro inaugurale di ”Passaggi e confini”, la rassegna promossa dal Dipartimento di Salute mentale dell’Asl Napoli 1 diretto da Fausto Rossano.
Primo appuntamento della serie, l’evento dedicato alle lezioni di Foucault si è svolto ieri mattina a ”la Feltrinelli” di piazza dei Martiri (curato da Mauro Maldonato) con la partecipazione dei filosofi Massimo Cacciari (preside della Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano) e Roberto Esposito (docente di Filosofia teoretica a L’Orientale), degli psichiatri Antonino Lo Cascio, Sergio Mellina e Fausto Rossano. «Oggi è un giorno particolare, non solo perché ricorrono vent’anni dalla morte di Foucault, ma anche perché si celebra la giornata internazionale della salute mentale e il decennale della chiusura dell’ospedale psichiatrico ”Leonardo Bianchi”. Tutte queste coincidenze ci inducono a riflettere su quanto fatto fino ad oggi. Un manicomio più che un luogo fisico è uno schema mentale che si può ripetere sempre e oggi stiamo camminando sul crinale di una pericolosa controriforma», spiega Fausto Rossano nell’introdurre l’incontro, nel corso del quale Antonino Lo Cascio ha ricostruito tutta la storia appassionante del movimento antipsichiatrico italiano, cui ha contribuito non poco.
Ma qual è l’attualità di Foucault? Perché i suoi studi psichiatrici sono ancora un esempio?
«Foucault fu un critico feroce di ogni tipo di umanesimo. C’è una storia tra le tante citate nel libro che mi ha molto colpito. È la battaglia che s’instaura tra un medico e un folle, in cui il folle non dice cose abnormi del tipo ”Sono Napoleone”, ma semplicemente ”Sono meglio di te”. Tutto il lavoro del medico consiste nel riuscire a fargli accettare la sua uguaglianza agli altri», afferma Massimo Cacciari.
E prosegue: «Il problema più complesso in Foucault fu di spiegare la complicità che si viene a stabilire tra chi esercita il potere e il suo soggetto-oggetto. Perché, in realtà, il potere non cerca l’assoggettamento ma il proprio riconoscimento che implica, quindi, una complicità tra le parti. Ma il potere è ciò che produce tanto la vita quanto la morte e questo, oggi, è evidente in modo dirompente. La nostra follia non consiste nel vivere in un’epoca in cui tutto è storto? In cui tutte le nostre idee sono condizionate?».
«L’attualità di Foucault - spiega Roberto Esposito, di cui sta per uscire Bios. biopolitica e fisofia (dopodomani, edito da Einaudi) - sta nell’evidenziare il rapporto tra verità e realtà. Cos’è l’errore di un folle e della follia? L’errore è la verità della follia. La lotta che s’instaura tra medico e paziente è quella della realtà con la verità. Il passaggio da una fase all’altra della psichiatria è segnato da questo mutamento di strategia. Questo è anche il nucleo più importante del corso tenuto da Foucault».
La rassegna ”Passaggi e confini” prosegue con molti altri appuntamenti, tra cui, la presentazione del saggio Psichiatria prossima di Pino Riefolo (ed. Boringhieri) e Dell’apocalisse, un’antologia di scritti di autori vari, edita da Guida.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 10 ottobre 2004
Boncinelli: «troppe bugie su clonazione e biotecnologie»
L'Eco di Bergamo 10.10.04
Edoardo Boncinelli: troppe bugie su clonazione e biotecnologie
di Susanna Pesenti
Un invito a pensare bene, a pesare le parole. Soprattutto giornalisti e medici devono darsi una calmata, perché i «si dice» su celllule staminali, clonazione riproduttiva animale, clonazione terapeutica umana, stanno diventando un cocktail infernale di mezze verità, approssimazioni e franche bugie che impediscono non solo alla gente comune, ma agli stessi scienziati di avere un'idea chiara delle questioni in gioco. L'hanno detto, in maniera diversa, lo zoologo Carlo Alberto Redi, il biotecnologo Cesare Galli, il medico Giuseppe Remuzzi, il biologo Edoardo Boncinelli. Basta polveroni, cerchiamo di essere onesti a livello scientifico, avremo una base comune di informazione sulla quale potremo modulare le convinzioni di ciascuno e quindi arrivare ad esprimere un giudizio motivato come cittadini.«Le cellule staminali e la tecnologia che le circonda sono una grande promessa che non sappiamo quando si realizzerà». Edoardo Boncinelli, in maglietta con il logo di BergamoScienza, precisa per il cronista la sua posizione e riepiloga: «La clonazione l'avete inventata voi dei media. In laboratorio si è sempre detto clonaggio. Dieci anni fa si riuscì a far ringiovanire le cellule già caratterizzate fino allo stadio ancora indifferenziato, primo passo per ricostruire in laboratorio tessuti o organi per i trapianti. Ma per indirizzare le cellule occorrono le sostanze induttrici, che sono proteine. Sono molte e ne conosciamo solo due o tre. In alcuni casi potrebbe essere necessario anche un "ambiente" che contenga gli induttori. C'è tantissima ricerca da fare ancora. Ma di questo non parla mai nessuno...». Secondo punto: le cellule devono essere ancora in grado di riprodursi, non troppo differenziate e ancora disposte a farsi indirizzare. «Queste tre condizioni definiscono le cellule staminali che si trovano nell'embrione fino a 16 cellule, nell'embrione di qualche centinaio di cellule, nel feto, nel cordone ombelicale, e nell'adulto nel midollo osseo, nelle mucose e nel cervello. Quali cellule adoperare? In questo momento, onestamente, nessuno può sapere se le cellule adulte sono in grado di dare tutti i tipi di tessuto, se sono cioè totipotenti. Se lo fossero, avremmo risolto tutti i problemi etici». Gli eventuali tessuti o organi prodotti in laboratorio per essere utili devono essere compatibili, quindi provenire da cellule del soggetto. L'altra strada è prendere le cellule staminali da un embrione costruito con un nucleo ad hoc. Ma per molti non è lecito. «La questione è semplice - risponde il biologo - Se l'embrione prima di due settimane è un essere umano, questa tecnica non si deve adoperare perché non si usa un essere umano per salvarne un altro. Se non è un essere umano, il problema non si pone. É la società che deve dire che cosa si fa, che cosa no, che cosa può essere fatto gratis, che cosa a pagamento». La «questione embrione» centrale e ineludibile, è solo il primo dei problemi. Lo stato attuale delle ricerche infatti favorisce la confusione e le fughe in avanti, soprattuto, sostiene Boncinelli, in campo medico. L'enfasi sull'uso di staminali per riparare i tessuti secondo il direttore del Sissa di Trieste rischia di provocare cocenti delusioni: «Questi esperimenti non hanno ancora dato prova di funzionare nel tempo. Io sono un po' scettico che le staminali introdotte possano rimanere e riparare il danno e non si disperdano invece, o vengano rifiutate». C'è anche una terza via, alla quale Boncinelli pensa dal '97,che potrebbe risolvere la questione: la costruzione di una cellula artificiale, geneticamente su misura: «Ma per questo occorre moltissimo studio». Un problema urgentissimo è quello del controllo dei laboratori: si rischia la delocalizzazione selvaggia. Chi sta lavorando ora su embrioni umani?«Non si sa, l'unico laboratorio trasparente è quello di Newcastle in Inghilterra che ha chiesto l'autorizzazione e accettato i limiti imposti dalla legge del suo paese. Ma gli altri? I laboratori di ricerca bio sono sparsi in tutto il mondo e non più solo in alcuni paesi». Torna il problema di un'opinione pubblica ben informata, che possa accedere a dati credibili e che venga sottratta all'emotività, per esempio da parte della classe medica che secondo Boncinelli spinge troppo sulle biotecnologie rischiando l'effetto boomerang: «Anche la fecondazione assistita in fondo è un fatto portato avanti soprattutto dai medici». Aspettando che l'orizzonte biotecnologico si rischiari, l'Italia potrebbe assicurarsi un futuro investendo in nanotecnologie. Nessun problema etico, possibilità di applicazione vastissime, ottimo ritorno economico. Lo studio dei materiali, ma a livello molecolare. Anche qui Edoardo Boncinelli un'idea ce l'ha: «Le nanobiotecnologie, microsonde da mandare nel corpo che entrino nelle cellule e vedano quali sono cancerose. L'ho detto anni fa, Veronesi non ci credeva, adesso si tenta di farlo in tutto il mondo».
Edoardo Boncinelli: troppe bugie su clonazione e biotecnologie
di Susanna Pesenti
Un invito a pensare bene, a pesare le parole. Soprattutto giornalisti e medici devono darsi una calmata, perché i «si dice» su celllule staminali, clonazione riproduttiva animale, clonazione terapeutica umana, stanno diventando un cocktail infernale di mezze verità, approssimazioni e franche bugie che impediscono non solo alla gente comune, ma agli stessi scienziati di avere un'idea chiara delle questioni in gioco. L'hanno detto, in maniera diversa, lo zoologo Carlo Alberto Redi, il biotecnologo Cesare Galli, il medico Giuseppe Remuzzi, il biologo Edoardo Boncinelli. Basta polveroni, cerchiamo di essere onesti a livello scientifico, avremo una base comune di informazione sulla quale potremo modulare le convinzioni di ciascuno e quindi arrivare ad esprimere un giudizio motivato come cittadini.«Le cellule staminali e la tecnologia che le circonda sono una grande promessa che non sappiamo quando si realizzerà». Edoardo Boncinelli, in maglietta con il logo di BergamoScienza, precisa per il cronista la sua posizione e riepiloga: «La clonazione l'avete inventata voi dei media. In laboratorio si è sempre detto clonaggio. Dieci anni fa si riuscì a far ringiovanire le cellule già caratterizzate fino allo stadio ancora indifferenziato, primo passo per ricostruire in laboratorio tessuti o organi per i trapianti. Ma per indirizzare le cellule occorrono le sostanze induttrici, che sono proteine. Sono molte e ne conosciamo solo due o tre. In alcuni casi potrebbe essere necessario anche un "ambiente" che contenga gli induttori. C'è tantissima ricerca da fare ancora. Ma di questo non parla mai nessuno...». Secondo punto: le cellule devono essere ancora in grado di riprodursi, non troppo differenziate e ancora disposte a farsi indirizzare. «Queste tre condizioni definiscono le cellule staminali che si trovano nell'embrione fino a 16 cellule, nell'embrione di qualche centinaio di cellule, nel feto, nel cordone ombelicale, e nell'adulto nel midollo osseo, nelle mucose e nel cervello. Quali cellule adoperare? In questo momento, onestamente, nessuno può sapere se le cellule adulte sono in grado di dare tutti i tipi di tessuto, se sono cioè totipotenti. Se lo fossero, avremmo risolto tutti i problemi etici». Gli eventuali tessuti o organi prodotti in laboratorio per essere utili devono essere compatibili, quindi provenire da cellule del soggetto. L'altra strada è prendere le cellule staminali da un embrione costruito con un nucleo ad hoc. Ma per molti non è lecito. «La questione è semplice - risponde il biologo - Se l'embrione prima di due settimane è un essere umano, questa tecnica non si deve adoperare perché non si usa un essere umano per salvarne un altro. Se non è un essere umano, il problema non si pone. É la società che deve dire che cosa si fa, che cosa no, che cosa può essere fatto gratis, che cosa a pagamento». La «questione embrione» centrale e ineludibile, è solo il primo dei problemi. Lo stato attuale delle ricerche infatti favorisce la confusione e le fughe in avanti, soprattuto, sostiene Boncinelli, in campo medico. L'enfasi sull'uso di staminali per riparare i tessuti secondo il direttore del Sissa di Trieste rischia di provocare cocenti delusioni: «Questi esperimenti non hanno ancora dato prova di funzionare nel tempo. Io sono un po' scettico che le staminali introdotte possano rimanere e riparare il danno e non si disperdano invece, o vengano rifiutate». C'è anche una terza via, alla quale Boncinelli pensa dal '97,che potrebbe risolvere la questione: la costruzione di una cellula artificiale, geneticamente su misura: «Ma per questo occorre moltissimo studio». Un problema urgentissimo è quello del controllo dei laboratori: si rischia la delocalizzazione selvaggia. Chi sta lavorando ora su embrioni umani?«Non si sa, l'unico laboratorio trasparente è quello di Newcastle in Inghilterra che ha chiesto l'autorizzazione e accettato i limiti imposti dalla legge del suo paese. Ma gli altri? I laboratori di ricerca bio sono sparsi in tutto il mondo e non più solo in alcuni paesi». Torna il problema di un'opinione pubblica ben informata, che possa accedere a dati credibili e che venga sottratta all'emotività, per esempio da parte della classe medica che secondo Boncinelli spinge troppo sulle biotecnologie rischiando l'effetto boomerang: «Anche la fecondazione assistita in fondo è un fatto portato avanti soprattutto dai medici». Aspettando che l'orizzonte biotecnologico si rischiari, l'Italia potrebbe assicurarsi un futuro investendo in nanotecnologie. Nessun problema etico, possibilità di applicazione vastissime, ottimo ritorno economico. Lo studio dei materiali, ma a livello molecolare. Anche qui Edoardo Boncinelli un'idea ce l'ha: «Le nanobiotecnologie, microsonde da mandare nel corpo che entrino nelle cellule e vedano quali sono cancerose. L'ho detto anni fa, Veronesi non ci credeva, adesso si tenta di farlo in tutto il mondo».
in morte di Derrida
l'impossibilità della conoscenza...
Corriere della Sera 10.10.04
ADDIO A DERRIDA
Il filosofo che negava la Verità
di EMANUELE SEVERINO
Jacques Derrida è stato uno dei maggiori protagonisti della cosiddetta «svolta linguistica» - della «svolta», cioè, che costituisce uno degli episodi centrali della filosofia del nostro tempo. Per comprenderne la portata ci si può riferire alla «svolta» compiuta nel XIX secolo dall’idealismo rispetto al realismo tradizionale, per il quale il mondo esiste anche se non è pensato dall’uomo. Anche il cosiddetto «senso comune» crede, insieme al realismo, che la terra, il cielo, i monti, il mare - e innanzi tutto Dio - esistano anche se non sono conosciuti e sperimentati dagli esseri umani.
Sono, come si usa dire, «là fuori». L’idealismo ha invece mostrato che quel «là fuori» è esso stesso qualcosa che stiamo pensando - anche qui, ora - e che dunque non sta al di fuori del pensiero, sì che il pensiero è già sin dall’inizio presso quel «là fuori» che ci si era illusi di anteporre e di rendere esterno al pensiero.
Qualcosa di analogo è accaduto anche nelle filosofie della «svolta linguistica». Ma andando oltre lo stesso idealismo e le filosofie che, come ad esempio la fenomenologia di Husserl, all’idealismo si sono in qualche modo rifatte. Come il realismo crede che la realtà sia indipendente ed esterna al pensiero, così l’intera tradizione filosofica crede che realtà e pensiero siano indipendenti dal linguaggio . Con gli altri esponenti della «svolta linguistica», ma secondo cadenze di grande originalità, Derrida ha mostrato che nemmeno il pensiero è «là fuori» rispetto al linguaggio, ma che la parola è già sin dall’inizio «là fuori», presso le cose e il pensiero che ci si illude di poter concepire come esterni e indipendenti dalla parola. «Il rapporto della parola con la cosa - aveva scritto Heidegger - non è una relazione fra la cosa da una parte e la parola dall’altra». E anche Wittgenstein aveva escluso che «qui ci sia la parola e là il significato» («Il denaro e la vacca che si può comperare con esso»).
Da questo principio - in qualche modo anticipato nel XVIII-XIX secolo da Hamann, Herder, Humboldt - anche Derrida ha tratto la conseguenza dell’impossibilità di una qualsiasi verità assoluta e definitiva. Il linguaggio è infatti storico, temporale; dunque i suoi contenuti sono provvisori; e questa provvisorietà avvolge il pensiero che dal linguaggio non può mai uscire. È a questo punto che il problema del linguaggio diventa estremamente complesso. Ho più volte osservato che esistono sostanziali analogie tra la tesi che il pensiero è condizionato dal linguaggio e tesi analoghe, come quella che il pensiero è condizionato dal cervello (o dalla storia, dalla materia, dall’inconscio, ecc.). Ed è analoga anche la sorte di tutte queste tesi.
Qui va soprattutto richiamato che la convinzione che il linguaggio abbia un carattere storico-temporale è sì fondata su uno dei principi più decisivi delle scienze storiche, il quale tuttavia, nonostante il suo esser costantemente condiviso, è soltanto un’ ipotesi , ossia qualcosa che, per quanto accreditata, non possiede una verità assoluta. Certo, senza ipotesi di questo genere non si può stare al mondo. Ma sulla base di un’ ipotesi ci si può permettere di negare perentoriamente l’esistenza di ogni verità assoluta? O Derrida ha inteso negarla ipoteticamente?
L'Unità 9.10.04
09.10.2004
Derrida, la verità sottosopra. Scompare il filosofo del decostruttivismo
di Beppe Sebaste
Scrivo queste frasi di fronte alla morte di qualcuno che ha contato molto per me, e mi trova del tutto impreparato ad affrontarla - lontano dai libri, dai miei appunti, lontano perfino dalla mia memoria. E mentre constato questa inadeguatezza, mi sembra di sentire risuonare anche a questo proposito il modello dei suoi ultimi insegnamenti - quelli che, direbbe Maurizio Ferraris, autore di una recente Introduzione a Derrida (Laterza), erano dedicati a una serie di «oggetti sociali», come la testimonianza appunto, come il segreto, l’ospitalità, il perdono, l’amicizia, il giudizio. I temi cioè dei suoi corsi e seminari ristretti cui sono stato per anni ospite e partecipante.
Si può perdonare solo l’imperdonabile, insegnava Derrida, senza che si cancelli l’oggetto di ciò per cui deve avvenire il perdono; si può ospitare, accogliere, solo se si è impreparati a farlo, magari nel cuore della notte e all’improvviso; si può donare solo quell’impossibile dono privo del fantasma di un debito e un credito, anche inconsci; così come, seguendo Agostino, si confessa non per informare qualcuno che sa già tutto, ma per dire che si sa di essere colpevoli. Così, dopo avere a lungo indugiato per eccesso di coinvolgimento di tematizzarlo in vita, mi trovo inerme e incapace di farlo ora in morte, e per questo corro il rischio di scriverne.
Le ultime opere di Derrida espongono con chiarezza definitiva il rischio di un «pensare secondo l’aporia», facendo dell’esperienza della filosofia una sorta di «possibilità dell’impossibilità», parafrasando quanto Heidegger scriveva a proposito della morte. Raggiungendo il detto secolare, trasmessoci anche da Montaigne, che vuole che la filosofia consista nell’imparare a morire, per quanto incessante, cioè infinito, ne sia il compito.
Jacques Derrida non è stato solo un grandissimo filosofo, ma forse l’ultimo dei filosofi, in un’epoca distante come poche da questa pratica e da questo modo di stare nel mondo. E lo si ama anche per questo, per come ha preso sul serio, molto sul serio la filosofia. Derrida è quindi importante non solo per avere saputo creare un linguaggio e un «sistema» nuovi, così nuovi e spiazzanti che ancora in questi anni l’americano Richard Rorty, quando non sapeva che pesci prendere, poneva Derrida nell’ambito della letteratura, come una specie di Joyce da imbalsamare in un limbo e così proteggerci dal coinvolgimento perturbante del suo pensiero che ci impone di risponderne e di rispondere. Sì, c’è nella sua opera una «eccedenza» della filosofia, eccesso e s-fondamento, come ebbe a dire Derrida a proposito di uno dei suoi maestri, Lévinas, e non faceva troppa distinzione tra il repertorio delle opere dette filosofiche e quelle dette letterarie.
Ma Derrida è importante anche perché tutta la sua opera è dedicata, e quindi legata (nel senso dell’eredità e del legame), alla rilettura della tradizione filosofica. E in questo legame, in questa dedica, c’è onestà, rigore, coerenza, sobrietà, e anche un’intrinseca, forse dissimulata umiltà, che la si sappia o no vedere dietro il lussureggiante, magistrale, a volte frastornante virtuosismo dei suoi testi e lezioni. Infine, lui che ha ingaggiato un forse definitivo conflitto contro il mito della presenza, cuore della metafisica, ha anche saputo impegnarsi fino in fondo in una riflessione sul presente, come mostra anche l’ultima recentissima intervista a Le Monde. Che parla della propria morte; ma anche di politica, di Europa, di pace, di disarmo.
Dovendo scegliere e sintetizzare malamente la sua opera secondo parametri di divulgazione, ricorderei quello che disse lui stesso a proposito del concetto di «decostruzione», tra i più commentati e abusati dai suoi stessi allievi. La decostruzione, disse Derrida, è una sorta di psicanalisi, della filosofia, di cui la metafisica sarebbe la principale nevrosi. Psicanalizzare la filosofia comporta il portarne alla luce le rimozioni, di cui la principale è la materialità della scrittura da lui allargata alla nozione di «traccia», ma anche tutte le opposizioni secolari e i dualismi che ne dipendono, natura/cultura, presenza/assenza, soggetto/oggetto, intelligibile/sensibile, ecc. Il compito che Derrida si è assegnato è stato dunque immenso.
Se la cultura occidentale e tutta la nostra tradizione filosofica ha valorizzato la voce, facendo della scrittura un sostituto della sua presenza immediata, uno dei compiti che si è assunto Derrida è stato considerare questo abbassamento della scrittura ricostruendo un’altra storia dei segni scritti, e quindi un’altra lettura della tradizione filosofica, probabilmente della stessa nostra «civiltà». Dopo i suoi primi commenti alla fenomenologia di Husserl e alla sua valorizzazione della presenza a sé, imparentata con la voce (la sua Introduzione alle origini della geometria è del 1962), nel 1967 Derrida pubblicò una serie di studi fondamentali dedicati a questa rimozione della materialità - cioè della scrittura, della morte e dell’assenza - nella nostra cultura: La scrittura e la differenza, La voce e il fenomeno e Della Grammatologia.
La riflessione di quest’ultimo permette di coniugare la liberazione della memoria e l’esteriorizzazione delle tracce attraverso una nozione, già allora, di archivio (uno dei temi della riflessione di Derrida negli ultimi anni), perché dai graffiti dell’età del neolitico ai file dei computer ciò che permane è l’estensione delle possibilità di riserve, di stoccaggio, il che è già un equivalente dell’analisi della differenza.
E veniamo alla nozione, sempre degli anni ’60, di differenza, che lui scrisse con la «a», differanza. La decostruzione stessa prende forma da questa pratica ed enunciazione: in francese, différence e différance suonano allo stesso modo, il che permette, performativamente, di fare ciò che il neologismo dice. Non solo differire come non ripetizione del medesimo, e come rinvio nel tempo, indefinitamente; ma mostrandone ciò che viene rimosso - l’assente, inudibile, invisibile traccia - nella voce, il grafema diverso e differito che pure permane nel fonema uguale e medesimo. Tenere conto della différance è già smontare le illusioni della «presenza». La scrittura non supplisce la presenza, vi è sempre una distanza irriducibile, che la retorica della presa diretta delle «nuove» tecnologie della comunicazione di oggi non può smentire (anche il mittente di un sms può essere già morto al momento della sua ricezione). È la questione della testamentarietà dei testi, di ogni letteratura. Ma è anche la questione della Disseminazione (titolo di un’altra sua opera), che indica insieme l’an-archia della scrittura e la dipendenza della nostra civiltà dal totalitarismo dei dettami platonici, di cui il divieto alla fecondazione eterologa è l’ultima attualizzazione: la scrittura è il rimosso perché fuori dal controllo del Padre, del Potere, frutto di una disseminazione che non si può assoggettare politicamente.
Ma alla giustezza dell’analisi di Derrida partecipa, per sintetizzare brutalmente, l’evidenza del fatto che non è mai esistito un linguaggio primo, vergine di scrittura. E dimostrarne l’infondatezza significa anche minare la possibilità di una presenza a sé, sui cui si fonda ogni metafisica. Viceversa, è l’etica che si apre come necessità.
Repubblica 9.10.04
Nel suo pensiero la nozione di scrittura ha un ruolo centrale: egli sostiene che l'intera tradizione filosofica occidentale svaluta il segno scritto e privilegia il segno orale. Derrida divenne famoso soprattutto per il decostruzionismo e per la sua metafora della filosofia come una "carta postale" che ha valore se non giunge mai a destinazione.
[...]
Derrida ha contribuito a una completa rivisitazione dei concetti e delle categorie proprie della filosofia classica occidentale. Proprio muovendosi dal pensiero di Heidegger, Derrida ha affermato l'impossibilità di conoscere l'essere attraverso il linguaggio, in quanto l'essere è "differenza" rispetto a qualunque forma individuale.
La Stampa
10 Ottobre 2004
STRONCATO DAL CANCRO IL FILOSOFO FRANCESE PADRE DEL DECOSTRUZIONISMO. AVEVA 74 ANNI
DERRIDA
[...]
Al centro della riflessione di Derrida - e del suo concetto di «decostruzione» - c'è la lingua. Aveva detto poche settimane fa, nell'ultima grande intervista a Le Monde (di cui pubblichiamo un ampio stralcio in questa pagina): «Amo il francese come amo la mia vita, l'amo come uno straniero che è stato accolto e che si è appropriato di questa lingua come la sola possibile per lui». E poi ancora: «Lasciare delle tracce nella lingua francese: ecco cosa mi interessa. Io vivo di questa passione, se non per la Francia, per qualcosa che la lingua francese ha incorporato da secoli».
[...]
Era sposato con una psicanalista, ma ha avuto un figlio da un'altra donna, anch'essa psicanalista, Sylviane Agacinski, ora moglie di Lionel Jospin.
La Stampa 10 Ottobre 2004
L’ULTIMA INTERVISTA. LA MALATTIA, LA SOPRAVVIVENZA, IL FUTURO DELL’EUROPA
«Imparare a vivere significa imparare
a morire: non ci sono mai riuscito»
Copyright Le Monde
«SONO gravemente malato. Sorvoliamo», sospira Jacques Derrida, nella sua casa di Ris-Orangis, vicino a Parigi.
D’accordo. Parliamo piuttosto del suo «Spettri di Marx», uscito in Francia nel ‘93. Un libro cruciale, che si apre con questo esordio enigmatico: «Qualcuno, voi o io, s’avanza e dice: vorrei finalmente imparare a vivere». Più di dieci anni dopo, a che punto è lei, con questo desiderio di «saper vivere»?
«Imparare a vivere è anche maturare, educare. Apostrofare qualcuno per dirgli “adesso ti insegno a vivere” significa - a volte su un tono minaccioso - ti raddrizzo io. Poi, la domanda più difficile: vivere, si può imparare? Insegnare? Si può imparare, per disciplina o apprendistato, per esperienza o sperimentazione, ad accettare, o meglio, ad affermare la vita? Per rispondere alla sua domanda: no, non ho mai imparato a vivere. Imparare a vivere dovrebbe significare imparare a morire, assumere - per accettarla - la mortalità assoluta (senza salvezza né resurrezione né redenzione). Da Platone in poi, è l’antica ingiunzione filosofica: filosofare è imparare a morire. E poiché adesso alcuni problemi di salute si fanno per me pressanti, la questione della sopravvivenza o del rinvio della condanna, che mi ha assillato in ogni istante della mia vita, oggi prende una colorazione ancora diversa».
Nei suoi lavori ritorna spesso la parola «generazione», concetto delicato da maneggiare: come indicare ciò che, a nome suo, viene trasmesso alla generazione successiva?
«Di questa parola io mi servo in modo un po’ vigliacco. Si può essere il contemporaneo “anacronistico” di una “generazione” passata o futura. Essere fedele a quelli che vengono associati alla mia “generazione”, essere il custode di una eredità differenziata ma comune, vuol dire due cose: tenere - anche contro tutto e tutti - a alcune esigenze condivise, da Lacan a Althusser, passando per Foucault, Barthes, Deleuze, Blanchot e tutti gli scrittori, poeti, filosofi o psicanalisti fortunatamente ancora in vita, dai quali ho ereditato qualcosa. Così, per metonimia, io indico un modo di scrivere e di pensare intransigente, addirittura incorruttibile, che non si lascia spaventare dal fatto che l’opinione pubblica o i media potrebbero costringerci alla semplificazione. Ma occorre anche ricordare che in quell’epoca “felice” nulla era irenico. Le differenze e le controversie infuriavano in quell’ambiente che tutto era, tranne che omogeneo. Dunque anche la fedeltà prende qualche volta la forma della infedeltà e della distanza. Occorre essere fedeli a queste differenze, cioè continuare la discussione. Quanto ho detto della mia generazione vale ovviamente anche per il passato, dalla Bibbia a Platone, Kant, Marx, Freud, Heidegger e così via. Non voglio rinunciare ad alcunché, non posso. Imparare a vivere è sempre narcisistico: si vuole vivere il più possibile, salvarsi, perseverare e coltivare tutte quelle cose che, infinitamente più grandi e potenti di noi, fanno comunque parte di quel piccolo “io” dal quale traboccano. Chiedermi di rinunciare a ciò che mi ha formato, a ciò che ho tanto amato, è chiedermi di morire. In quella fedeltà c’è una sorta di istinto di conservazione».
Lei ha inventato una forma, una scrittura della sopravvivenza, che ben si adatta a questa impazienza della fedeltà.
«Se avessi inventato una scrittura, l’avrei fatto come una rivoluzione senza fine. In ogni situazione occorre creare una modalità di esposizione appropriata, inventare la legge dell’evento singolare, tener conto del destinatario presunto o desiderato. Ogni libro è una pedagogia destinata a formare il suo lettore. Le produzioni editoriali di massa non formano i lettori, ma presuppongono in modo fantasmatico un lettore già programmato. Al punto che finiscono per dare forma a questo destinatario mediocre che hanno postulato».
Lei in generale ha difficoltà a dire «noi» - «noi filosofi», ad esempio. Ma, a mano a mano che si dispiega il nuovo disordine mondiale, lei sembra sempre meno reticente a dire «noi europei». Già in «Oggi l’Europa», che lei ha scritto al tempo della prima Guerra del Golfo, lei si presentava come un «vecchio europeo», come «una sorta di meticcio europeo».
«Effettivamente dire “noi” m’imbarazza, ma mi capita di dirlo. Se di questi tempi mi capita di dire “noi europei”, è congiunturale: tutto quello che, della tradizione europea, può essere de-costruito non impedisce che, proprio per tutto quello che è successo in Europa, in seguito ai Lumi, in seguito al restringimento di questo piccolo continente e all’enorme senso di colpa che attraversa ormai la sua cultura (totalitarismo, nazismo, genocidi, olocausto, colonizzazione e decolonizzazione, e così via), oggi, nella nostra situazione geopolitica, l’Europa - un’altra Europa ma con la stessa memoria - possa (o almeno questo è il mio auspicio) ritrovarsi sia contro la politica egemonica americana sia contro un teocratismo arabo-islamico senza Lumi e senza futuro politico.
«L’Europa si trova nella necessità di assumersi una nuova responsabilità. Non parlo della comunità europea come esiste o si disegna nella sua attuale maggioranza (neoliberale), virtualmente minacciata di guerre intestine, ma di un’Europa futura, e che si cerca. In Europa e altrove. Quella che viene chiamata “Europa” ha delle responsabilità da accettare, per il futuro dell’umanità e del diritto internazionale. In questo caso non esiterei a dire “noi europei”. Non si tratta di augurarsi la costituzione di un’Europa come superpotenza militare, che protegge il suo mercato e fa da contrappeso agli altri blocchi, ma di un’Europa che pianti il seme di una nuova politica altermondialista. Che è l’unica via d’uscita possibile. Questa forza è in marcia. Anche se le sue ragioni sono ancora confuse, io penso che più nulla la fermerà. Quando dico Europa, dico questo: un’Europa altermondialista che trasforma il concetto e le pratiche della sovranità e del diritto internazionale. E che dispone di una vera forza armata, indipendente dalla Nato e dagli Usa: una potenza militare che, né offensiva né difensiva né preventiva, intervenga senza ritardi al servizio delle risoluzioni finalmente rispettate di una nuova Onu».
Sull’Europa non le sembra di essere in guerra con se stesso? Da un lato lei sottolinea che gli attentati dell’11 settembre hanno distrutto la vecchia grammatica geopolitica delle potenze sovrane, marcando così la crisi di una certa idea della politica che lei definisce come propriamente europea. Dall’altro, mantiene un attaccamento a questo spirito europeo, a cominciare dall’ideale cosmopolitico di un diritto internazionale di cui lei poi descrive, giustamente, il declino. O la sopravvivenza...
«Occorre “risollevare” la cosmopolitica, come scrivevo nel ‘97 in Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo! Quando si dice “politica”, si ricorre a una parola greca, un concetto europeo che ha sempre presupposto lo Stato, la forma “polis” legata al territorio nazionale e all’autoctonia. Quali che siano le rotture all’interno di questa storia, questa idea di politica resta dominante, nel momento stesso in cui molte forze si stanno dislocando: la sovranità dello Stato non è più legata a un territorio, e neppure le tecnologie della comunicazione e la strategia militare. Questa dislocazione mette effettivamente in crisi la vecchia idea europea di politica. E della guerra, della distinzione tra civile e militare, terrorismo nazionale o internazionale. Non credo però che ci si debba arrabbiare con la politica. E neppure con la sovranità, di cui io penso bene in certe situazioni, ad esempio per lottare contro certe forze mondiali del mercato. Anche lì si tratta di un’eredità europea, che va conservata e trasformata.
«È vero, sono in guerra con me stesso e dico cose contraddittorie. Questa guerra a volte la vedo come una guerra terrificante e penosa, ma so anche che è la vita. Non troverò pace se non nel riposo eterno. Non posso dunque dire che accetto consapevolmente questa contraddizione, ma so anche che è ciò che mi fa vivere e mi fa porre la famosa domanda: “come imparare a vivere?”».
In due libri recenti («Chaque fois unique, la fin du monde» e «Béliers»), lei ritorna sulla grande questione della salvezza, del lutto impossibile, insomma, della sopravvivenza.
«Come ho già detto - e ben prima delle esperienze di sopravvivenza che vivo oggi - ho rimarcato che la sopravvivenza è un concetto originale, che costituisce la struttura stessa di ciò che chiamiamo esistenza. Noi siamo strutturalmente dei sopravvissuti, segnati da questa struttura della traccia, del testamento. La sopravvivenza è la vita al di là della vita, la vita più che la vita, e il mio discorso non è mortifero, tutt’altro, è l’affermazione di un vivente che preferisce il vivere - e dunque il sopravvivere - alla morte, perché la sopravvivenza è la vita più intensa possibile. Non sono mai così ossessionato dalla necessità di morire come nei momenti di felicità. Gioire e piangere la morte che incombe, per me sono la stessa cosa».
La Stampa 10 Ottobre 2004
Grande e oscuro
Il fascino discreto
dell’obliquità
di Franca D’Agostini
[...]
I temi centrali del suo lavoro allora lanciati sono piuttosto noti: anzitutto l'idea che abbiamo a che fare con una differenza che è insieme temporale (differire nel tempo) e spaziale o strutturale, e le due cose sono così legate che solo un piccolo scarto grafico, la famosa «a» della «différance», ne registra il divergere; quindi, e conseguentemente, che esiste un certo primato del linguaggio scritto su quello parlato; infine, l'idea che la logica alla base del nostro pensare, scrivere, interpretare, sia una dialettica aperta, priva di sintesi, e dunque il compito del filosofo consista nel «decostruire» il linguaggio, mostrando come in ogni posizione teorica sia in gioco una dicotomia che è per lo più una falsa dicotomia (perché i due termini si annullano a vicenda, o se ne vanno ciascuno per suo conto, o perché l'uno contiene l'altro). Impossibile ricordare tutte le successive opere, circa 70 (l'Introduzione a Derrida, di Maurizio Ferraris, pubblicata l'anno scorso da Laterza, contiene una bibliografia dettagliata).
La maggiore fortuna di Derrida sbocciava in seguito, fiancheggiata dalla parallela diffusione del postmodernismo. Una fortuna controversa. Il primo celebre attacco è di John Searle, una polemica i cui termini sono fissati in Limited Inc. (1990, tradotto da Cortina, nel 1997). Ma ancora più famosa è la lettera di protesta contro l'assegnazione a Derrida della laurea honoris causa all'Università di Oxford, firmata da un buon numero di eminenti personalità della filosofia mondiale, e apparsa sul Times il 9 maggio 1992.
Due sono i principali rimproveri che gli sono stati rivolti: l'abbandonarsi a uno stile oscuro, e l'aver successo tra un pubblico «popolare» e non accademico. Ma forse queste erano anche ragioni di merito. A differenza di altri filosofi celebrati dai media Derrida non è mai venuto a patti con il linguaggio comune. Dotato in ciò di una certa purezza, ha sempre continuato a usare quello stile del tutto particolare che Rorty definì «ironico», e il cui segreto motivo conduttore è l'idea che le posizioni teoriche non possano proporsi come tali, in modo diretto, pena la ricaduta nella dialettica della decostruzione. Per questo, onestamente, Derrida non si è mai avventurato a fornire una presentazione razionale delle sue teorie. Si è limitato invece, come ha detto di se stesso, a scrivere «piccoli saggi obliqui». Il fatto che questi piccoli saggi contenessero, ancorché in obliquo, un grande pensiero, forse oggi lo dobbiamo ammettere.
La Gazzetta del Mezzogiorno10.10.04
Nelle «cartoline» di Derrida un addio alla verità
MARIO DE PASQUALE
[...]
La filosofia moderna ha prodotto un pensiero metafisico, che ha presunto di poter conquistare la verità oggettiva e in nome di quel possesso ha assunto atteggiamenti di onnipotenza, di dominio e di violenza, di intolleranza verso ogni «differenza», di rifiuto della pluralità delle verità.
La modernità ha fondato questa presunzione sulla convinzione che il soggetto fosse in grado di cogliere la verità presente nella propria coscienza (per questo ha prodotto un pensiero dell'identità e della presenza), e che fosse in grado di esprimerla attraverso la sua voce (il logocentrismo e il fonocentrismo secondo Derrida hanno caratterizzato la tradizione filosofica da Platone a Husserl).
Proprio la coscienza è invece secondo Derrida una grande illusione; non è il luogo originario di un'identità forte che produce o scopre verità. Il soggetto, come risulta da buona parte della filosofia e della scienza del '900 (specialmente in Freud e in Nietzsche), è spesso il risultato di forze che non sono presenti alla coscienza e la verità non siamo in grado di conoscerla se non attraverso le nostre parole.
La coscienza per Derrida è un concetto da abbandonare. Noi conosciamo le cose attraverso il linguaggio, attraverso i concetti e i discorsi che la tradizione ci trasmette nei testi scritti e con cui ci confrontiamo, che interpretiamo e deformiamo continuamente. La scrittura, lungi dall'essere semplice raddoppiamento e copia dell'originale verità che nasce in una coscienza, è sempre presa di distanza dall'originale vivente («La farmacia di Platone», in La disseminazione, Jaca Book ed., 1989, pp.105).
Le parole ci permettono di comprendere le cose e di fare esperienza del mondo, ma le parole vengono da una tradizione, fondata sui testi scritti, in cui siamo immersi, che utilizziamo per comprendere noi, il mondo e gli altri. Ma nel fare questo non possiamo mai avere la presunzione di cogliere l'essenza stessa della realtà, di essere in presenza della verità. La scrittura ci mette soltanto sulle tracce delle cose e del loro senso. Inevitabilmente nella lettura dei testi operiamo un tradimento rispetto al passato, costruiamo una differenza rispetto ad esso, spostiamo in avanti il senso delle cose, senza avere mai la presunzione di avere il possesso di una verità definitiva, e tuttavia creiamo il nuovo. Decostruire i testi significa sottoporli a nuove domande, a continue nuove interpretazioni che svelino sempre nuovi contenuti, nuovi significati, che ci possono offrire una pluralità di nuove prospettive di pensiero e di vita, cioè ulteriore differenza rispetto alla tradizione.
Proprio perché la sua è una filosofia decostruttiva, la sua scrittura è originale e complessa, in cui si intrecciano filosofia, psicoanalisi, linguistica, analisi testuale, gusto del paradosso e del gioco di parole. I suoi paradossi e i suoi giochi di parole, spesso irritanti, in realtà sono, come egli stesso afferma, «fuochi di parole, che intendono consumare i segni fino alla cenere…. slogare l'unità verbale, l'integrità della voce, frangere o effrangere la superficie calmadelle parole già dette, sottoponendo il loro corpo a una ginnastica allo stesso tempo gioiosa, irreligiosa e crudele»; sono finalizzati alla potenza della decostruzione dei testi, tendono a far emergere contraddizioni e nuovi significati.
Quella di Derrida è una scrittura molto lontana dal tradizionale discorso filosofico volto a presentare in modo semplice una tesi, i suoi presupposti, gli elementi di validità, le conclusioni, in modo concettuale, lineare, argomentativi e univoco. È una scrittura plurivoca, demistificante di ogni forma di idealizzazione e autorassicurazione, che non vuole risolvere i problemi, ma evidenziare aporie e contraddizioni dei discorsi su di essi, ampliarli, per far nascere altro pensiero, altra differenza, altra novità creativa.
La sua è una scrittura che molti non ritengono tipicamente filosofica (ammessa che vi sia) ma per molti aspetti letteraria. In alcune opere (La carte postale, 1980), Derrida scrive brani di lettere, senza fare nomi di eventuali destinatari, per sottolineare che «scrivere è scrivere per chiunque, continuamente, senza sapere chi leggerà i messaggi»; si tratta di disseminare segni linguistici, nuovo senso, sperando nella lettura e nella decostruzione, non di incontrare singole coscienze, ma pensieri che si alimentano di tracce di altri pensieri.
La filosofia in Derrida ha un'ispirazione etico-politica in quanto intende affermare la necessità di riconoscere come strutturali la pluralità e la diversità dei modi di vivere e di pensare degli uomini. Derrida è stato certamente una figura di filosofo militante, impegnato nelle più significative battaglie della nostra epoca (ricordiamo quella in favore dell'ospitalità degli stranieri e del rispetto delle diverse tradizioni, dell'insegnamento della filosofia nei licei, della libertà di insegnamento nell'università, ecc.).
Per lui fare filosofia significava anche pensare i fenomeni sociali e politici del nostro tempo, pensare il loro senso per noi. Lo ha fatto fino agli ultimi giorni. In una delle sue ultime interviste, rilasciata a G. Borradori per il volume laterziano Filosofia del terrore (2004), Derrida legge l'11 settembre come parte iniziale di un «teatro arcaico della violenza» destinato a crescere in modo smisurato nel futuro grazie alle terribili potenzialità della tecnoscienza, che annullerà i confini tra guerra e terrorismo e che alimenterà paure impensabili. Perciò egli affida alla filosofia nuovi compiti: ripensare le categorie della politica, della guerra, del terrorismo.
Corriere della Sera 10.10.04
Un continuo dialogo con Husserl e Freud
È come se si fosse spezzato qualcosa, in un discorso a tutto campo che si è evoluto senza interruzione dai primi anni Sessanta ad oggi. Nell’insegnamento di Derrida echeggiano i grandi del Novecento. Gadamer e Levinas, per esempio, cui proprio questo ebreo algerino - che ha segnato la vita intellettuale parigina, seminando nel contempo lo scompiglio sull’altra sponda dell’Atlantico - tributò l’ultimo omaggio, con una melanconica riflessione su quell’irreparabile «fine di un mondo» che è, appunto, la morte. Ma soprattutto Freud, Husserl e Nietzsche: sono loro i capisaldi, i punti di forza da cui Derrida parte per entrare nel dibattito dello strutturalismo francese.
Di Freud recupera un breve testo dedicato al Notes magico, che registra le tracce di una punta finché con uno strappo non siano cancellate. E da lì (passando per Rousseau e Lacan) prende l’idea di graffio, di scrittura: all’origine del linguaggio non c’è il parlato, la tradizione orale, ma la traccia scritta che precede il fiato, la voce.
Chi prende la parola vive un’esperienza euforica: gli pare d’essere un piccolo dio che, col suo pensiero, dà la propria impronta all’informe cera del linguaggio. E’ questa l’onnipotenza che Derrida vede al centro della tradizione filosofica classica: quella greca del Logos.
Ma chi parla ignora che la lingua di cui si serve lo sovrasta con la potenza delle sue lettere. Qui il discorso di Derrida s’incrocia con quello di Lacan: per entrambi, si tratta di togliere il primato all’uomo e alla sua pretesa personalità, per mettere in luce le strutture linguistiche e familiari (le leggi della parentela, il complesso di Edipo) che lo fanno diventare quello che è.
Spodestato dal proprio mondo, l’uomo è sottomesso a leggi che gli sfuggono. Derrida rompe, così, con una tradizione millenaria e con il suo strapotere.
Le conseguenze non tardano a farsi sentire. I testi letterari e filosofici vengono interpretati in modo nuovo: è una vera e propria rivoluzione, soprattutto negli Usa dove egli, con una serie di interventi, dà l’avvio al famosissimo «decostruzionismo», attorno al quale si sono versati fiumi d’inchiostro.
Declassando qualsiasi rigida assunzione critica, il «decostruzionismo» autorizza ogni lettura. Contro le chiusure specialistiche si afferma una nuova apertura: è come un invito a farsi prendere per mano dal testo, a lasciarsi guidare dalla forza stessa della lingua. I punti di vista si moltiplicano. Gli studi, piano piano, escono dal testo per incontrare le ragioni più diverse: quelle delle minoranze etniche e sessuali.
La vecchia talpa del comunismo, di cui parla Bataille, scava ora le sue gallerie attraverso grandi pagine: mentre gli «epigoni» si scatenano in ogni direzione, Derrida si concentra su un suo modo, ostico ma inconfondibile, di fare critica. Si abbandona a una sorta di deriva interna e, applicando il suo udito infallibile, entra nelle pieghe delle frasi, ascolta l’effetto delle singole parole, interviene nello scorrere delle lettere.
Nascono pagine memorabili di grande fascino ma anche di grande difficoltà, dove tuttavia non tarda a farsi strada un nuovo illuminismo.
Non resta, ora, che chiedersi chi possa, dopo Derrida, prendere su di sé un mondo che muore, perché questo tipo di dialogo possa continuare, sia pure con tutte le difficoltà che comporta.
ADDIO A DERRIDA
Il filosofo che negava la Verità
di EMANUELE SEVERINO
Jacques Derrida è stato uno dei maggiori protagonisti della cosiddetta «svolta linguistica» - della «svolta», cioè, che costituisce uno degli episodi centrali della filosofia del nostro tempo. Per comprenderne la portata ci si può riferire alla «svolta» compiuta nel XIX secolo dall’idealismo rispetto al realismo tradizionale, per il quale il mondo esiste anche se non è pensato dall’uomo. Anche il cosiddetto «senso comune» crede, insieme al realismo, che la terra, il cielo, i monti, il mare - e innanzi tutto Dio - esistano anche se non sono conosciuti e sperimentati dagli esseri umani.
Sono, come si usa dire, «là fuori». L’idealismo ha invece mostrato che quel «là fuori» è esso stesso qualcosa che stiamo pensando - anche qui, ora - e che dunque non sta al di fuori del pensiero, sì che il pensiero è già sin dall’inizio presso quel «là fuori» che ci si era illusi di anteporre e di rendere esterno al pensiero.
Qualcosa di analogo è accaduto anche nelle filosofie della «svolta linguistica». Ma andando oltre lo stesso idealismo e le filosofie che, come ad esempio la fenomenologia di Husserl, all’idealismo si sono in qualche modo rifatte. Come il realismo crede che la realtà sia indipendente ed esterna al pensiero, così l’intera tradizione filosofica crede che realtà e pensiero siano indipendenti dal linguaggio . Con gli altri esponenti della «svolta linguistica», ma secondo cadenze di grande originalità, Derrida ha mostrato che nemmeno il pensiero è «là fuori» rispetto al linguaggio, ma che la parola è già sin dall’inizio «là fuori», presso le cose e il pensiero che ci si illude di poter concepire come esterni e indipendenti dalla parola. «Il rapporto della parola con la cosa - aveva scritto Heidegger - non è una relazione fra la cosa da una parte e la parola dall’altra». E anche Wittgenstein aveva escluso che «qui ci sia la parola e là il significato» («Il denaro e la vacca che si può comperare con esso»).
Da questo principio - in qualche modo anticipato nel XVIII-XIX secolo da Hamann, Herder, Humboldt - anche Derrida ha tratto la conseguenza dell’impossibilità di una qualsiasi verità assoluta e definitiva. Il linguaggio è infatti storico, temporale; dunque i suoi contenuti sono provvisori; e questa provvisorietà avvolge il pensiero che dal linguaggio non può mai uscire. È a questo punto che il problema del linguaggio diventa estremamente complesso. Ho più volte osservato che esistono sostanziali analogie tra la tesi che il pensiero è condizionato dal linguaggio e tesi analoghe, come quella che il pensiero è condizionato dal cervello (o dalla storia, dalla materia, dall’inconscio, ecc.). Ed è analoga anche la sorte di tutte queste tesi.
Qui va soprattutto richiamato che la convinzione che il linguaggio abbia un carattere storico-temporale è sì fondata su uno dei principi più decisivi delle scienze storiche, il quale tuttavia, nonostante il suo esser costantemente condiviso, è soltanto un’ ipotesi , ossia qualcosa che, per quanto accreditata, non possiede una verità assoluta. Certo, senza ipotesi di questo genere non si può stare al mondo. Ma sulla base di un’ ipotesi ci si può permettere di negare perentoriamente l’esistenza di ogni verità assoluta? O Derrida ha inteso negarla ipoteticamente?
L'Unità 9.10.04
09.10.2004
Derrida, la verità sottosopra. Scompare il filosofo del decostruttivismo
di Beppe Sebaste
Scrivo queste frasi di fronte alla morte di qualcuno che ha contato molto per me, e mi trova del tutto impreparato ad affrontarla - lontano dai libri, dai miei appunti, lontano perfino dalla mia memoria. E mentre constato questa inadeguatezza, mi sembra di sentire risuonare anche a questo proposito il modello dei suoi ultimi insegnamenti - quelli che, direbbe Maurizio Ferraris, autore di una recente Introduzione a Derrida (Laterza), erano dedicati a una serie di «oggetti sociali», come la testimonianza appunto, come il segreto, l’ospitalità, il perdono, l’amicizia, il giudizio. I temi cioè dei suoi corsi e seminari ristretti cui sono stato per anni ospite e partecipante.
Si può perdonare solo l’imperdonabile, insegnava Derrida, senza che si cancelli l’oggetto di ciò per cui deve avvenire il perdono; si può ospitare, accogliere, solo se si è impreparati a farlo, magari nel cuore della notte e all’improvviso; si può donare solo quell’impossibile dono privo del fantasma di un debito e un credito, anche inconsci; così come, seguendo Agostino, si confessa non per informare qualcuno che sa già tutto, ma per dire che si sa di essere colpevoli. Così, dopo avere a lungo indugiato per eccesso di coinvolgimento di tematizzarlo in vita, mi trovo inerme e incapace di farlo ora in morte, e per questo corro il rischio di scriverne.
Le ultime opere di Derrida espongono con chiarezza definitiva il rischio di un «pensare secondo l’aporia», facendo dell’esperienza della filosofia una sorta di «possibilità dell’impossibilità», parafrasando quanto Heidegger scriveva a proposito della morte. Raggiungendo il detto secolare, trasmessoci anche da Montaigne, che vuole che la filosofia consista nell’imparare a morire, per quanto incessante, cioè infinito, ne sia il compito.
Jacques Derrida non è stato solo un grandissimo filosofo, ma forse l’ultimo dei filosofi, in un’epoca distante come poche da questa pratica e da questo modo di stare nel mondo. E lo si ama anche per questo, per come ha preso sul serio, molto sul serio la filosofia. Derrida è quindi importante non solo per avere saputo creare un linguaggio e un «sistema» nuovi, così nuovi e spiazzanti che ancora in questi anni l’americano Richard Rorty, quando non sapeva che pesci prendere, poneva Derrida nell’ambito della letteratura, come una specie di Joyce da imbalsamare in un limbo e così proteggerci dal coinvolgimento perturbante del suo pensiero che ci impone di risponderne e di rispondere. Sì, c’è nella sua opera una «eccedenza» della filosofia, eccesso e s-fondamento, come ebbe a dire Derrida a proposito di uno dei suoi maestri, Lévinas, e non faceva troppa distinzione tra il repertorio delle opere dette filosofiche e quelle dette letterarie.
Ma Derrida è importante anche perché tutta la sua opera è dedicata, e quindi legata (nel senso dell’eredità e del legame), alla rilettura della tradizione filosofica. E in questo legame, in questa dedica, c’è onestà, rigore, coerenza, sobrietà, e anche un’intrinseca, forse dissimulata umiltà, che la si sappia o no vedere dietro il lussureggiante, magistrale, a volte frastornante virtuosismo dei suoi testi e lezioni. Infine, lui che ha ingaggiato un forse definitivo conflitto contro il mito della presenza, cuore della metafisica, ha anche saputo impegnarsi fino in fondo in una riflessione sul presente, come mostra anche l’ultima recentissima intervista a Le Monde. Che parla della propria morte; ma anche di politica, di Europa, di pace, di disarmo.
Dovendo scegliere e sintetizzare malamente la sua opera secondo parametri di divulgazione, ricorderei quello che disse lui stesso a proposito del concetto di «decostruzione», tra i più commentati e abusati dai suoi stessi allievi. La decostruzione, disse Derrida, è una sorta di psicanalisi, della filosofia, di cui la metafisica sarebbe la principale nevrosi. Psicanalizzare la filosofia comporta il portarne alla luce le rimozioni, di cui la principale è la materialità della scrittura da lui allargata alla nozione di «traccia», ma anche tutte le opposizioni secolari e i dualismi che ne dipendono, natura/cultura, presenza/assenza, soggetto/oggetto, intelligibile/sensibile, ecc. Il compito che Derrida si è assegnato è stato dunque immenso.
Se la cultura occidentale e tutta la nostra tradizione filosofica ha valorizzato la voce, facendo della scrittura un sostituto della sua presenza immediata, uno dei compiti che si è assunto Derrida è stato considerare questo abbassamento della scrittura ricostruendo un’altra storia dei segni scritti, e quindi un’altra lettura della tradizione filosofica, probabilmente della stessa nostra «civiltà». Dopo i suoi primi commenti alla fenomenologia di Husserl e alla sua valorizzazione della presenza a sé, imparentata con la voce (la sua Introduzione alle origini della geometria è del 1962), nel 1967 Derrida pubblicò una serie di studi fondamentali dedicati a questa rimozione della materialità - cioè della scrittura, della morte e dell’assenza - nella nostra cultura: La scrittura e la differenza, La voce e il fenomeno e Della Grammatologia.
La riflessione di quest’ultimo permette di coniugare la liberazione della memoria e l’esteriorizzazione delle tracce attraverso una nozione, già allora, di archivio (uno dei temi della riflessione di Derrida negli ultimi anni), perché dai graffiti dell’età del neolitico ai file dei computer ciò che permane è l’estensione delle possibilità di riserve, di stoccaggio, il che è già un equivalente dell’analisi della differenza.
E veniamo alla nozione, sempre degli anni ’60, di differenza, che lui scrisse con la «a», differanza. La decostruzione stessa prende forma da questa pratica ed enunciazione: in francese, différence e différance suonano allo stesso modo, il che permette, performativamente, di fare ciò che il neologismo dice. Non solo differire come non ripetizione del medesimo, e come rinvio nel tempo, indefinitamente; ma mostrandone ciò che viene rimosso - l’assente, inudibile, invisibile traccia - nella voce, il grafema diverso e differito che pure permane nel fonema uguale e medesimo. Tenere conto della différance è già smontare le illusioni della «presenza». La scrittura non supplisce la presenza, vi è sempre una distanza irriducibile, che la retorica della presa diretta delle «nuove» tecnologie della comunicazione di oggi non può smentire (anche il mittente di un sms può essere già morto al momento della sua ricezione). È la questione della testamentarietà dei testi, di ogni letteratura. Ma è anche la questione della Disseminazione (titolo di un’altra sua opera), che indica insieme l’an-archia della scrittura e la dipendenza della nostra civiltà dal totalitarismo dei dettami platonici, di cui il divieto alla fecondazione eterologa è l’ultima attualizzazione: la scrittura è il rimosso perché fuori dal controllo del Padre, del Potere, frutto di una disseminazione che non si può assoggettare politicamente.
Ma alla giustezza dell’analisi di Derrida partecipa, per sintetizzare brutalmente, l’evidenza del fatto che non è mai esistito un linguaggio primo, vergine di scrittura. E dimostrarne l’infondatezza significa anche minare la possibilità di una presenza a sé, sui cui si fonda ogni metafisica. Viceversa, è l’etica che si apre come necessità.
Repubblica 9.10.04
Nel suo pensiero la nozione di scrittura ha un ruolo centrale: egli sostiene che l'intera tradizione filosofica occidentale svaluta il segno scritto e privilegia il segno orale. Derrida divenne famoso soprattutto per il decostruzionismo e per la sua metafora della filosofia come una "carta postale" che ha valore se non giunge mai a destinazione.
[...]
Derrida ha contribuito a una completa rivisitazione dei concetti e delle categorie proprie della filosofia classica occidentale. Proprio muovendosi dal pensiero di Heidegger, Derrida ha affermato l'impossibilità di conoscere l'essere attraverso il linguaggio, in quanto l'essere è "differenza" rispetto a qualunque forma individuale.
La Stampa
10 Ottobre 2004
STRONCATO DAL CANCRO IL FILOSOFO FRANCESE PADRE DEL DECOSTRUZIONISMO. AVEVA 74 ANNI
DERRIDA
[...]
Al centro della riflessione di Derrida - e del suo concetto di «decostruzione» - c'è la lingua. Aveva detto poche settimane fa, nell'ultima grande intervista a Le Monde (di cui pubblichiamo un ampio stralcio in questa pagina): «Amo il francese come amo la mia vita, l'amo come uno straniero che è stato accolto e che si è appropriato di questa lingua come la sola possibile per lui». E poi ancora: «Lasciare delle tracce nella lingua francese: ecco cosa mi interessa. Io vivo di questa passione, se non per la Francia, per qualcosa che la lingua francese ha incorporato da secoli».
[...]
Era sposato con una psicanalista, ma ha avuto un figlio da un'altra donna, anch'essa psicanalista, Sylviane Agacinski, ora moglie di Lionel Jospin.
La Stampa 10 Ottobre 2004
L’ULTIMA INTERVISTA. LA MALATTIA, LA SOPRAVVIVENZA, IL FUTURO DELL’EUROPA
«Imparare a vivere significa imparare
a morire: non ci sono mai riuscito»
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«SONO gravemente malato. Sorvoliamo», sospira Jacques Derrida, nella sua casa di Ris-Orangis, vicino a Parigi.
D’accordo. Parliamo piuttosto del suo «Spettri di Marx», uscito in Francia nel ‘93. Un libro cruciale, che si apre con questo esordio enigmatico: «Qualcuno, voi o io, s’avanza e dice: vorrei finalmente imparare a vivere». Più di dieci anni dopo, a che punto è lei, con questo desiderio di «saper vivere»?
«Imparare a vivere è anche maturare, educare. Apostrofare qualcuno per dirgli “adesso ti insegno a vivere” significa - a volte su un tono minaccioso - ti raddrizzo io. Poi, la domanda più difficile: vivere, si può imparare? Insegnare? Si può imparare, per disciplina o apprendistato, per esperienza o sperimentazione, ad accettare, o meglio, ad affermare la vita? Per rispondere alla sua domanda: no, non ho mai imparato a vivere. Imparare a vivere dovrebbe significare imparare a morire, assumere - per accettarla - la mortalità assoluta (senza salvezza né resurrezione né redenzione). Da Platone in poi, è l’antica ingiunzione filosofica: filosofare è imparare a morire. E poiché adesso alcuni problemi di salute si fanno per me pressanti, la questione della sopravvivenza o del rinvio della condanna, che mi ha assillato in ogni istante della mia vita, oggi prende una colorazione ancora diversa».
Nei suoi lavori ritorna spesso la parola «generazione», concetto delicato da maneggiare: come indicare ciò che, a nome suo, viene trasmesso alla generazione successiva?
«Di questa parola io mi servo in modo un po’ vigliacco. Si può essere il contemporaneo “anacronistico” di una “generazione” passata o futura. Essere fedele a quelli che vengono associati alla mia “generazione”, essere il custode di una eredità differenziata ma comune, vuol dire due cose: tenere - anche contro tutto e tutti - a alcune esigenze condivise, da Lacan a Althusser, passando per Foucault, Barthes, Deleuze, Blanchot e tutti gli scrittori, poeti, filosofi o psicanalisti fortunatamente ancora in vita, dai quali ho ereditato qualcosa. Così, per metonimia, io indico un modo di scrivere e di pensare intransigente, addirittura incorruttibile, che non si lascia spaventare dal fatto che l’opinione pubblica o i media potrebbero costringerci alla semplificazione. Ma occorre anche ricordare che in quell’epoca “felice” nulla era irenico. Le differenze e le controversie infuriavano in quell’ambiente che tutto era, tranne che omogeneo. Dunque anche la fedeltà prende qualche volta la forma della infedeltà e della distanza. Occorre essere fedeli a queste differenze, cioè continuare la discussione. Quanto ho detto della mia generazione vale ovviamente anche per il passato, dalla Bibbia a Platone, Kant, Marx, Freud, Heidegger e così via. Non voglio rinunciare ad alcunché, non posso. Imparare a vivere è sempre narcisistico: si vuole vivere il più possibile, salvarsi, perseverare e coltivare tutte quelle cose che, infinitamente più grandi e potenti di noi, fanno comunque parte di quel piccolo “io” dal quale traboccano. Chiedermi di rinunciare a ciò che mi ha formato, a ciò che ho tanto amato, è chiedermi di morire. In quella fedeltà c’è una sorta di istinto di conservazione».
Lei ha inventato una forma, una scrittura della sopravvivenza, che ben si adatta a questa impazienza della fedeltà.
«Se avessi inventato una scrittura, l’avrei fatto come una rivoluzione senza fine. In ogni situazione occorre creare una modalità di esposizione appropriata, inventare la legge dell’evento singolare, tener conto del destinatario presunto o desiderato. Ogni libro è una pedagogia destinata a formare il suo lettore. Le produzioni editoriali di massa non formano i lettori, ma presuppongono in modo fantasmatico un lettore già programmato. Al punto che finiscono per dare forma a questo destinatario mediocre che hanno postulato».
Lei in generale ha difficoltà a dire «noi» - «noi filosofi», ad esempio. Ma, a mano a mano che si dispiega il nuovo disordine mondiale, lei sembra sempre meno reticente a dire «noi europei». Già in «Oggi l’Europa», che lei ha scritto al tempo della prima Guerra del Golfo, lei si presentava come un «vecchio europeo», come «una sorta di meticcio europeo».
«Effettivamente dire “noi” m’imbarazza, ma mi capita di dirlo. Se di questi tempi mi capita di dire “noi europei”, è congiunturale: tutto quello che, della tradizione europea, può essere de-costruito non impedisce che, proprio per tutto quello che è successo in Europa, in seguito ai Lumi, in seguito al restringimento di questo piccolo continente e all’enorme senso di colpa che attraversa ormai la sua cultura (totalitarismo, nazismo, genocidi, olocausto, colonizzazione e decolonizzazione, e così via), oggi, nella nostra situazione geopolitica, l’Europa - un’altra Europa ma con la stessa memoria - possa (o almeno questo è il mio auspicio) ritrovarsi sia contro la politica egemonica americana sia contro un teocratismo arabo-islamico senza Lumi e senza futuro politico.
«L’Europa si trova nella necessità di assumersi una nuova responsabilità. Non parlo della comunità europea come esiste o si disegna nella sua attuale maggioranza (neoliberale), virtualmente minacciata di guerre intestine, ma di un’Europa futura, e che si cerca. In Europa e altrove. Quella che viene chiamata “Europa” ha delle responsabilità da accettare, per il futuro dell’umanità e del diritto internazionale. In questo caso non esiterei a dire “noi europei”. Non si tratta di augurarsi la costituzione di un’Europa come superpotenza militare, che protegge il suo mercato e fa da contrappeso agli altri blocchi, ma di un’Europa che pianti il seme di una nuova politica altermondialista. Che è l’unica via d’uscita possibile. Questa forza è in marcia. Anche se le sue ragioni sono ancora confuse, io penso che più nulla la fermerà. Quando dico Europa, dico questo: un’Europa altermondialista che trasforma il concetto e le pratiche della sovranità e del diritto internazionale. E che dispone di una vera forza armata, indipendente dalla Nato e dagli Usa: una potenza militare che, né offensiva né difensiva né preventiva, intervenga senza ritardi al servizio delle risoluzioni finalmente rispettate di una nuova Onu».
Sull’Europa non le sembra di essere in guerra con se stesso? Da un lato lei sottolinea che gli attentati dell’11 settembre hanno distrutto la vecchia grammatica geopolitica delle potenze sovrane, marcando così la crisi di una certa idea della politica che lei definisce come propriamente europea. Dall’altro, mantiene un attaccamento a questo spirito europeo, a cominciare dall’ideale cosmopolitico di un diritto internazionale di cui lei poi descrive, giustamente, il declino. O la sopravvivenza...
«Occorre “risollevare” la cosmopolitica, come scrivevo nel ‘97 in Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo! Quando si dice “politica”, si ricorre a una parola greca, un concetto europeo che ha sempre presupposto lo Stato, la forma “polis” legata al territorio nazionale e all’autoctonia. Quali che siano le rotture all’interno di questa storia, questa idea di politica resta dominante, nel momento stesso in cui molte forze si stanno dislocando: la sovranità dello Stato non è più legata a un territorio, e neppure le tecnologie della comunicazione e la strategia militare. Questa dislocazione mette effettivamente in crisi la vecchia idea europea di politica. E della guerra, della distinzione tra civile e militare, terrorismo nazionale o internazionale. Non credo però che ci si debba arrabbiare con la politica. E neppure con la sovranità, di cui io penso bene in certe situazioni, ad esempio per lottare contro certe forze mondiali del mercato. Anche lì si tratta di un’eredità europea, che va conservata e trasformata.
«È vero, sono in guerra con me stesso e dico cose contraddittorie. Questa guerra a volte la vedo come una guerra terrificante e penosa, ma so anche che è la vita. Non troverò pace se non nel riposo eterno. Non posso dunque dire che accetto consapevolmente questa contraddizione, ma so anche che è ciò che mi fa vivere e mi fa porre la famosa domanda: “come imparare a vivere?”».
In due libri recenti («Chaque fois unique, la fin du monde» e «Béliers»), lei ritorna sulla grande questione della salvezza, del lutto impossibile, insomma, della sopravvivenza.
«Come ho già detto - e ben prima delle esperienze di sopravvivenza che vivo oggi - ho rimarcato che la sopravvivenza è un concetto originale, che costituisce la struttura stessa di ciò che chiamiamo esistenza. Noi siamo strutturalmente dei sopravvissuti, segnati da questa struttura della traccia, del testamento. La sopravvivenza è la vita al di là della vita, la vita più che la vita, e il mio discorso non è mortifero, tutt’altro, è l’affermazione di un vivente che preferisce il vivere - e dunque il sopravvivere - alla morte, perché la sopravvivenza è la vita più intensa possibile. Non sono mai così ossessionato dalla necessità di morire come nei momenti di felicità. Gioire e piangere la morte che incombe, per me sono la stessa cosa».
La Stampa 10 Ottobre 2004
Grande e oscuro
Il fascino discreto
dell’obliquità
di Franca D’Agostini
[...]
I temi centrali del suo lavoro allora lanciati sono piuttosto noti: anzitutto l'idea che abbiamo a che fare con una differenza che è insieme temporale (differire nel tempo) e spaziale o strutturale, e le due cose sono così legate che solo un piccolo scarto grafico, la famosa «a» della «différance», ne registra il divergere; quindi, e conseguentemente, che esiste un certo primato del linguaggio scritto su quello parlato; infine, l'idea che la logica alla base del nostro pensare, scrivere, interpretare, sia una dialettica aperta, priva di sintesi, e dunque il compito del filosofo consista nel «decostruire» il linguaggio, mostrando come in ogni posizione teorica sia in gioco una dicotomia che è per lo più una falsa dicotomia (perché i due termini si annullano a vicenda, o se ne vanno ciascuno per suo conto, o perché l'uno contiene l'altro). Impossibile ricordare tutte le successive opere, circa 70 (l'Introduzione a Derrida, di Maurizio Ferraris, pubblicata l'anno scorso da Laterza, contiene una bibliografia dettagliata).
La maggiore fortuna di Derrida sbocciava in seguito, fiancheggiata dalla parallela diffusione del postmodernismo. Una fortuna controversa. Il primo celebre attacco è di John Searle, una polemica i cui termini sono fissati in Limited Inc. (1990, tradotto da Cortina, nel 1997). Ma ancora più famosa è la lettera di protesta contro l'assegnazione a Derrida della laurea honoris causa all'Università di Oxford, firmata da un buon numero di eminenti personalità della filosofia mondiale, e apparsa sul Times il 9 maggio 1992.
Due sono i principali rimproveri che gli sono stati rivolti: l'abbandonarsi a uno stile oscuro, e l'aver successo tra un pubblico «popolare» e non accademico. Ma forse queste erano anche ragioni di merito. A differenza di altri filosofi celebrati dai media Derrida non è mai venuto a patti con il linguaggio comune. Dotato in ciò di una certa purezza, ha sempre continuato a usare quello stile del tutto particolare che Rorty definì «ironico», e il cui segreto motivo conduttore è l'idea che le posizioni teoriche non possano proporsi come tali, in modo diretto, pena la ricaduta nella dialettica della decostruzione. Per questo, onestamente, Derrida non si è mai avventurato a fornire una presentazione razionale delle sue teorie. Si è limitato invece, come ha detto di se stesso, a scrivere «piccoli saggi obliqui». Il fatto che questi piccoli saggi contenessero, ancorché in obliquo, un grande pensiero, forse oggi lo dobbiamo ammettere.
La Gazzetta del Mezzogiorno10.10.04
Nelle «cartoline» di Derrida un addio alla verità
MARIO DE PASQUALE
[...]
La filosofia moderna ha prodotto un pensiero metafisico, che ha presunto di poter conquistare la verità oggettiva e in nome di quel possesso ha assunto atteggiamenti di onnipotenza, di dominio e di violenza, di intolleranza verso ogni «differenza», di rifiuto della pluralità delle verità.
La modernità ha fondato questa presunzione sulla convinzione che il soggetto fosse in grado di cogliere la verità presente nella propria coscienza (per questo ha prodotto un pensiero dell'identità e della presenza), e che fosse in grado di esprimerla attraverso la sua voce (il logocentrismo e il fonocentrismo secondo Derrida hanno caratterizzato la tradizione filosofica da Platone a Husserl).
Proprio la coscienza è invece secondo Derrida una grande illusione; non è il luogo originario di un'identità forte che produce o scopre verità. Il soggetto, come risulta da buona parte della filosofia e della scienza del '900 (specialmente in Freud e in Nietzsche), è spesso il risultato di forze che non sono presenti alla coscienza e la verità non siamo in grado di conoscerla se non attraverso le nostre parole.
La coscienza per Derrida è un concetto da abbandonare. Noi conosciamo le cose attraverso il linguaggio, attraverso i concetti e i discorsi che la tradizione ci trasmette nei testi scritti e con cui ci confrontiamo, che interpretiamo e deformiamo continuamente. La scrittura, lungi dall'essere semplice raddoppiamento e copia dell'originale verità che nasce in una coscienza, è sempre presa di distanza dall'originale vivente («La farmacia di Platone», in La disseminazione, Jaca Book ed., 1989, pp.105).
Le parole ci permettono di comprendere le cose e di fare esperienza del mondo, ma le parole vengono da una tradizione, fondata sui testi scritti, in cui siamo immersi, che utilizziamo per comprendere noi, il mondo e gli altri. Ma nel fare questo non possiamo mai avere la presunzione di cogliere l'essenza stessa della realtà, di essere in presenza della verità. La scrittura ci mette soltanto sulle tracce delle cose e del loro senso. Inevitabilmente nella lettura dei testi operiamo un tradimento rispetto al passato, costruiamo una differenza rispetto ad esso, spostiamo in avanti il senso delle cose, senza avere mai la presunzione di avere il possesso di una verità definitiva, e tuttavia creiamo il nuovo. Decostruire i testi significa sottoporli a nuove domande, a continue nuove interpretazioni che svelino sempre nuovi contenuti, nuovi significati, che ci possono offrire una pluralità di nuove prospettive di pensiero e di vita, cioè ulteriore differenza rispetto alla tradizione.
Proprio perché la sua è una filosofia decostruttiva, la sua scrittura è originale e complessa, in cui si intrecciano filosofia, psicoanalisi, linguistica, analisi testuale, gusto del paradosso e del gioco di parole. I suoi paradossi e i suoi giochi di parole, spesso irritanti, in realtà sono, come egli stesso afferma, «fuochi di parole, che intendono consumare i segni fino alla cenere…. slogare l'unità verbale, l'integrità della voce, frangere o effrangere la superficie calmadelle parole già dette, sottoponendo il loro corpo a una ginnastica allo stesso tempo gioiosa, irreligiosa e crudele»; sono finalizzati alla potenza della decostruzione dei testi, tendono a far emergere contraddizioni e nuovi significati.
Quella di Derrida è una scrittura molto lontana dal tradizionale discorso filosofico volto a presentare in modo semplice una tesi, i suoi presupposti, gli elementi di validità, le conclusioni, in modo concettuale, lineare, argomentativi e univoco. È una scrittura plurivoca, demistificante di ogni forma di idealizzazione e autorassicurazione, che non vuole risolvere i problemi, ma evidenziare aporie e contraddizioni dei discorsi su di essi, ampliarli, per far nascere altro pensiero, altra differenza, altra novità creativa.
La sua è una scrittura che molti non ritengono tipicamente filosofica (ammessa che vi sia) ma per molti aspetti letteraria. In alcune opere (La carte postale, 1980), Derrida scrive brani di lettere, senza fare nomi di eventuali destinatari, per sottolineare che «scrivere è scrivere per chiunque, continuamente, senza sapere chi leggerà i messaggi»; si tratta di disseminare segni linguistici, nuovo senso, sperando nella lettura e nella decostruzione, non di incontrare singole coscienze, ma pensieri che si alimentano di tracce di altri pensieri.
La filosofia in Derrida ha un'ispirazione etico-politica in quanto intende affermare la necessità di riconoscere come strutturali la pluralità e la diversità dei modi di vivere e di pensare degli uomini. Derrida è stato certamente una figura di filosofo militante, impegnato nelle più significative battaglie della nostra epoca (ricordiamo quella in favore dell'ospitalità degli stranieri e del rispetto delle diverse tradizioni, dell'insegnamento della filosofia nei licei, della libertà di insegnamento nell'università, ecc.).
Per lui fare filosofia significava anche pensare i fenomeni sociali e politici del nostro tempo, pensare il loro senso per noi. Lo ha fatto fino agli ultimi giorni. In una delle sue ultime interviste, rilasciata a G. Borradori per il volume laterziano Filosofia del terrore (2004), Derrida legge l'11 settembre come parte iniziale di un «teatro arcaico della violenza» destinato a crescere in modo smisurato nel futuro grazie alle terribili potenzialità della tecnoscienza, che annullerà i confini tra guerra e terrorismo e che alimenterà paure impensabili. Perciò egli affida alla filosofia nuovi compiti: ripensare le categorie della politica, della guerra, del terrorismo.
Corriere della Sera 10.10.04
Un continuo dialogo con Husserl e Freud
È come se si fosse spezzato qualcosa, in un discorso a tutto campo che si è evoluto senza interruzione dai primi anni Sessanta ad oggi. Nell’insegnamento di Derrida echeggiano i grandi del Novecento. Gadamer e Levinas, per esempio, cui proprio questo ebreo algerino - che ha segnato la vita intellettuale parigina, seminando nel contempo lo scompiglio sull’altra sponda dell’Atlantico - tributò l’ultimo omaggio, con una melanconica riflessione su quell’irreparabile «fine di un mondo» che è, appunto, la morte. Ma soprattutto Freud, Husserl e Nietzsche: sono loro i capisaldi, i punti di forza da cui Derrida parte per entrare nel dibattito dello strutturalismo francese.
Di Freud recupera un breve testo dedicato al Notes magico, che registra le tracce di una punta finché con uno strappo non siano cancellate. E da lì (passando per Rousseau e Lacan) prende l’idea di graffio, di scrittura: all’origine del linguaggio non c’è il parlato, la tradizione orale, ma la traccia scritta che precede il fiato, la voce.
Chi prende la parola vive un’esperienza euforica: gli pare d’essere un piccolo dio che, col suo pensiero, dà la propria impronta all’informe cera del linguaggio. E’ questa l’onnipotenza che Derrida vede al centro della tradizione filosofica classica: quella greca del Logos.
Ma chi parla ignora che la lingua di cui si serve lo sovrasta con la potenza delle sue lettere. Qui il discorso di Derrida s’incrocia con quello di Lacan: per entrambi, si tratta di togliere il primato all’uomo e alla sua pretesa personalità, per mettere in luce le strutture linguistiche e familiari (le leggi della parentela, il complesso di Edipo) che lo fanno diventare quello che è.
Spodestato dal proprio mondo, l’uomo è sottomesso a leggi che gli sfuggono. Derrida rompe, così, con una tradizione millenaria e con il suo strapotere.
Le conseguenze non tardano a farsi sentire. I testi letterari e filosofici vengono interpretati in modo nuovo: è una vera e propria rivoluzione, soprattutto negli Usa dove egli, con una serie di interventi, dà l’avvio al famosissimo «decostruzionismo», attorno al quale si sono versati fiumi d’inchiostro.
Declassando qualsiasi rigida assunzione critica, il «decostruzionismo» autorizza ogni lettura. Contro le chiusure specialistiche si afferma una nuova apertura: è come un invito a farsi prendere per mano dal testo, a lasciarsi guidare dalla forza stessa della lingua. I punti di vista si moltiplicano. Gli studi, piano piano, escono dal testo per incontrare le ragioni più diverse: quelle delle minoranze etniche e sessuali.
La vecchia talpa del comunismo, di cui parla Bataille, scava ora le sue gallerie attraverso grandi pagine: mentre gli «epigoni» si scatenano in ogni direzione, Derrida si concentra su un suo modo, ostico ma inconfondibile, di fare critica. Si abbandona a una sorta di deriva interna e, applicando il suo udito infallibile, entra nelle pieghe delle frasi, ascolta l’effetto delle singole parole, interviene nello scorrere delle lettere.
Nascono pagine memorabili di grande fascino ma anche di grande difficoltà, dove tuttavia non tarda a farsi strada un nuovo illuminismo.
Non resta, ora, che chiedersi chi possa, dopo Derrida, prendere su di sé un mondo che muore, perché questo tipo di dialogo possa continuare, sia pure con tutte le difficoltà che comporta.
medioevo
Corriere della Sera 10.10.04
Dalla trama dei conflitti fra papato, impero e comuni emerge la vera chiave di lettura per capire il Medioevo
Il Medioevo: un'età, nel migliore dei casi, di gestazione di embrionalità, di conati, di violenze belluine e di misticismi. Un periodo magmatico, il cui connotato tendenzialmente «negativo», per umanisti, protestanti, illuministi, sembra comunemente riscattarsi nella funzione di preparare l'età moderna. Né una visione progressiva del Medioevo, in una storia peraltro eurocentrica, si può oggi accogliere per una vera comprensione, allorché si è cercata un'autentica interpretazione di quell'epoca attraverso la valorizzazione di miti e saghe, in un ribaltamento della «fatale» razionalità della storia. Questo non è stato, felicemente, l’approccio del libro di Giovanni Tabacco e Grado Giovanni Merlo ora in edicola con il Corriere . Un tratto originale del libro è rappresentato intanto dall’attenzione posta al riordinamento delle società romano-germaniche, sollecitate da culture autoctone (germaniche, nord-orientali, asiatiche) e attratte, peraltro, da modelli di molto più elaborata cultura, per un verso filtrati attraverso l'assunzione delle tipologie tardo imperiali fatte proprie dalle giurisdizioni ecclesiastiche, per un altro mutuati dai rituali politico-linguistici orientali, mentre conosceva diffusione e successo un'altra esperienza religiosa, culturale e sociale, quella monastica, che proponeva, su scala ridotta, un altro modello di aggregazione sociale razionale, in vista di una finalità salvifica pienamente compatibile con la spiritualità del cristianesimo, che è lungi dall'essere, sino al IV-V secolo, «romanocentrico». L'ottica «globale» di un Medioevo occidentale, religiosamente accentrato su Roma e idealmente collegato col mito universale della stessa Roma, viene ampiamente riconsiderata. A segnare una prima divisione di processi di sviluppo non fu tanto l'irruzione islamica nel Mediterraneo (tesi Pirenne), quanto il costituirsi, proprio in Italia, di una monarchia longobarda, che nel corso di una lunga durata (due secoli!), assunse la funzione di catalizzatore degli sviluppi successivi: i Longobardi a) non permisero che si realizzasse l’aspirazione dell’impero bizantino di ricostituire l'unità ecumenica dell'antica Roma intorno al Mediterraneo; b) indussero la Chiesa di Roma a compiere una scelta occidentale, per non divenire la Chiesa nazionale longobarda, cercando una protezione più efficace e meno invasiva dell'impero bizantino nella forza emergente dei Franchi; c) offrirono, al momento del loro crollo, l'occasione per il costituirsi di un’entità che rappresentò un riferimento, per la società altomedievale, paritetico a quello che, comunque, s'era mantenuto ad Oriente. Nel contempo, fallito il disegno «tripolare» universale di una società cristiana fondata sulla Chiesa di Roma e sui due imperi (Bisanzio nel secolo IX dovette riconoscere l'impero dei Franchi), il carattere occidentale dei processi storici del Medioevo si espresse per un verso nel rapporto simbiotico, ma istituzionalmente ambiguo, tra sacerdozio e regno, sulla cui carismaticità aveva posto una pesante ipoteca l'iniziativa di Leone III di incoronare imperatore Carlo Magno, per un altro sull'oggettiva difficoltà e poi impossibilità di far coesistere il disegno perlomeno coordinato dell'esercizio di un potere politico-economico condiviso ed ambíto nello stesso tempo tra le stesse forze che teoricamente in un ordinamento «pubblico» avrebbero dovuto garantire il disegno carolingio. E quindi la società europea continua ad esprimere più forze autonome che centripete, più gestioni signorili autonome che funzionalità gerarchiche: ed in questo senso il Medioevo occidentale è ben lontano dal poter essere identificato con il «feudalesimo», o, ancor peggio, visto come anticipazione di un'idea di «stato», modernamente inteso, poiché coinvolgeva nel suo stesso dinamismo per l'esercizio del potere forze laiche ed ecclesiastiche, indifferentemente.
Sino a tutto il secolo XII, non ci fu più invasione «laica» di ambiti patrimoniali e giurisdizionali «ecclesiastici» di quanto ci fosse gestione «ecclesiastica» sollecitata, concessa e difesa di ambiti patrimoniali e giurisdizionali «laici». Questa fu una componente essenziale della cosiddetta «Lotta delle investiture»: che, peraltro, accelerò notevolmente il processo di centralizzazione del papato nei confronti dell'episcopato e delle chiese d'Occidente. I caratteri stessi delle ragioni e dell'esercizio del potere furono necessariamente riconsiderati, gli universalismi tradizionali si andarono specificando come assolutismo spirituale e temporale nel papato, che coinvolgeva nel suo disegno anche l'Oriente islamico (Crociate); e come istanza suprema del fondamento della società degli uomini nel diritto, che non cessava di essere immaginato come lex imperialis . Ma a questo punto - e solo a questo punto - si avviava un processo di legittimazione del convivere che può lasciare intravedere tratti fisiognomici del mondo moderno.
Il cosiddetto Basso Medioevo, (secoli XIII-XV, all'incirca) appare allora periodo di una lenta decantazione: il processo si presenta come sempre più ispirato ad una razionalizzazione, che si esprime nello sviluppo della scienza giuridica, di quella filosofica, di quella sperimentale.
Non si può affermare con decisa sicurezza che l'evolversi della città-stato comunale italiana, che mentre agiva in piena autonomia rispetto all'impero, ne ricercava una legittimazione inserendosi, con la pace di Costanza (1183), nell'ordinamento della gerarchia feudale, dovesse portare alla costituzione della signoria e al principato: ma è innegabile che il processo di semplificazione delle contrastanti forze in gioco (si pensi alla Firenze di Dante!) possa essere valutato come una costante. Così come la progressiva prevalenza della monarchia francese tende coscientemente a far valere la propria funzione in un meccanismo che si può ben definire «statuale», nei confronti di una feudalità gelosa dei propri poteri. E in Inghilterra la corona è precocemente indotta a sottoporsi al controllo del proprio governo da parte di organi che possono ben essere assunti come forme di «parlamento», mentre il carattere universale dell’impero si ridimensiona in quello più realistico di un Reich tedesco e nella penisola iberica la diaspora dei regni cattolici si polarizza verso la Castiglia e l'Aragona. La completa monarchizzazione della Chiesa romana, del resto, se si attua secondo modelli temporali e statuali, dà luogo a sempre più numerose richieste di legittimazione dei valori spirituali, pauperistici e sociali di cui l'istituzione non appare più portatrice e garante, suscitando contestazioni decise, rifiuti e sconfinamenti in un'eresia che è tale non tanto perché trasgressione al messaggio evangelico o ai dogmi, ma perché rifiuto di una certa ecclesiologia. Una serie di sviluppi che avvengono nel contesto di una società in crescita demografica ed economica che muta radicalmente la valutazione del potere, sempre più collegato con la ricchezza e con l'organizzazione politico-militare. Questo, per sommi capi, un Medioevo che si secolarizza e soprattutto demitizza ogni divinizzazione del potere, nel momento stesso in cui interpreta in termini umanamente assoluti il suo esercizio da parte degli Stati.
* Socio dell’Accademia dei Lincei e professore ordinario di Storia medievale all’Università di Bologna
Dalla trama dei conflitti fra papato, impero e comuni emerge la vera chiave di lettura per capire il Medioevo
Il Medioevo: un'età, nel migliore dei casi, di gestazione di embrionalità, di conati, di violenze belluine e di misticismi. Un periodo magmatico, il cui connotato tendenzialmente «negativo», per umanisti, protestanti, illuministi, sembra comunemente riscattarsi nella funzione di preparare l'età moderna. Né una visione progressiva del Medioevo, in una storia peraltro eurocentrica, si può oggi accogliere per una vera comprensione, allorché si è cercata un'autentica interpretazione di quell'epoca attraverso la valorizzazione di miti e saghe, in un ribaltamento della «fatale» razionalità della storia. Questo non è stato, felicemente, l’approccio del libro di Giovanni Tabacco e Grado Giovanni Merlo ora in edicola con il Corriere . Un tratto originale del libro è rappresentato intanto dall’attenzione posta al riordinamento delle società romano-germaniche, sollecitate da culture autoctone (germaniche, nord-orientali, asiatiche) e attratte, peraltro, da modelli di molto più elaborata cultura, per un verso filtrati attraverso l'assunzione delle tipologie tardo imperiali fatte proprie dalle giurisdizioni ecclesiastiche, per un altro mutuati dai rituali politico-linguistici orientali, mentre conosceva diffusione e successo un'altra esperienza religiosa, culturale e sociale, quella monastica, che proponeva, su scala ridotta, un altro modello di aggregazione sociale razionale, in vista di una finalità salvifica pienamente compatibile con la spiritualità del cristianesimo, che è lungi dall'essere, sino al IV-V secolo, «romanocentrico». L'ottica «globale» di un Medioevo occidentale, religiosamente accentrato su Roma e idealmente collegato col mito universale della stessa Roma, viene ampiamente riconsiderata. A segnare una prima divisione di processi di sviluppo non fu tanto l'irruzione islamica nel Mediterraneo (tesi Pirenne), quanto il costituirsi, proprio in Italia, di una monarchia longobarda, che nel corso di una lunga durata (due secoli!), assunse la funzione di catalizzatore degli sviluppi successivi: i Longobardi a) non permisero che si realizzasse l’aspirazione dell’impero bizantino di ricostituire l'unità ecumenica dell'antica Roma intorno al Mediterraneo; b) indussero la Chiesa di Roma a compiere una scelta occidentale, per non divenire la Chiesa nazionale longobarda, cercando una protezione più efficace e meno invasiva dell'impero bizantino nella forza emergente dei Franchi; c) offrirono, al momento del loro crollo, l'occasione per il costituirsi di un’entità che rappresentò un riferimento, per la società altomedievale, paritetico a quello che, comunque, s'era mantenuto ad Oriente. Nel contempo, fallito il disegno «tripolare» universale di una società cristiana fondata sulla Chiesa di Roma e sui due imperi (Bisanzio nel secolo IX dovette riconoscere l'impero dei Franchi), il carattere occidentale dei processi storici del Medioevo si espresse per un verso nel rapporto simbiotico, ma istituzionalmente ambiguo, tra sacerdozio e regno, sulla cui carismaticità aveva posto una pesante ipoteca l'iniziativa di Leone III di incoronare imperatore Carlo Magno, per un altro sull'oggettiva difficoltà e poi impossibilità di far coesistere il disegno perlomeno coordinato dell'esercizio di un potere politico-economico condiviso ed ambíto nello stesso tempo tra le stesse forze che teoricamente in un ordinamento «pubblico» avrebbero dovuto garantire il disegno carolingio. E quindi la società europea continua ad esprimere più forze autonome che centripete, più gestioni signorili autonome che funzionalità gerarchiche: ed in questo senso il Medioevo occidentale è ben lontano dal poter essere identificato con il «feudalesimo», o, ancor peggio, visto come anticipazione di un'idea di «stato», modernamente inteso, poiché coinvolgeva nel suo stesso dinamismo per l'esercizio del potere forze laiche ed ecclesiastiche, indifferentemente.
Sino a tutto il secolo XII, non ci fu più invasione «laica» di ambiti patrimoniali e giurisdizionali «ecclesiastici» di quanto ci fosse gestione «ecclesiastica» sollecitata, concessa e difesa di ambiti patrimoniali e giurisdizionali «laici». Questa fu una componente essenziale della cosiddetta «Lotta delle investiture»: che, peraltro, accelerò notevolmente il processo di centralizzazione del papato nei confronti dell'episcopato e delle chiese d'Occidente. I caratteri stessi delle ragioni e dell'esercizio del potere furono necessariamente riconsiderati, gli universalismi tradizionali si andarono specificando come assolutismo spirituale e temporale nel papato, che coinvolgeva nel suo disegno anche l'Oriente islamico (Crociate); e come istanza suprema del fondamento della società degli uomini nel diritto, che non cessava di essere immaginato come lex imperialis . Ma a questo punto - e solo a questo punto - si avviava un processo di legittimazione del convivere che può lasciare intravedere tratti fisiognomici del mondo moderno.
Il cosiddetto Basso Medioevo, (secoli XIII-XV, all'incirca) appare allora periodo di una lenta decantazione: il processo si presenta come sempre più ispirato ad una razionalizzazione, che si esprime nello sviluppo della scienza giuridica, di quella filosofica, di quella sperimentale.
Non si può affermare con decisa sicurezza che l'evolversi della città-stato comunale italiana, che mentre agiva in piena autonomia rispetto all'impero, ne ricercava una legittimazione inserendosi, con la pace di Costanza (1183), nell'ordinamento della gerarchia feudale, dovesse portare alla costituzione della signoria e al principato: ma è innegabile che il processo di semplificazione delle contrastanti forze in gioco (si pensi alla Firenze di Dante!) possa essere valutato come una costante. Così come la progressiva prevalenza della monarchia francese tende coscientemente a far valere la propria funzione in un meccanismo che si può ben definire «statuale», nei confronti di una feudalità gelosa dei propri poteri. E in Inghilterra la corona è precocemente indotta a sottoporsi al controllo del proprio governo da parte di organi che possono ben essere assunti come forme di «parlamento», mentre il carattere universale dell’impero si ridimensiona in quello più realistico di un Reich tedesco e nella penisola iberica la diaspora dei regni cattolici si polarizza verso la Castiglia e l'Aragona. La completa monarchizzazione della Chiesa romana, del resto, se si attua secondo modelli temporali e statuali, dà luogo a sempre più numerose richieste di legittimazione dei valori spirituali, pauperistici e sociali di cui l'istituzione non appare più portatrice e garante, suscitando contestazioni decise, rifiuti e sconfinamenti in un'eresia che è tale non tanto perché trasgressione al messaggio evangelico o ai dogmi, ma perché rifiuto di una certa ecclesiologia. Una serie di sviluppi che avvengono nel contesto di una società in crescita demografica ed economica che muta radicalmente la valutazione del potere, sempre più collegato con la ricchezza e con l'organizzazione politico-militare. Questo, per sommi capi, un Medioevo che si secolarizza e soprattutto demitizza ogni divinizzazione del potere, nel momento stesso in cui interpreta in termini umanamente assoluti il suo esercizio da parte degli Stati.
* Socio dell’Accademia dei Lincei e professore ordinario di Storia medievale all’Università di Bologna
emozioni
Gazzetta del Mezzogiorno 10.10.04
Passione? Eppur si evolve
di Domenico Ribatti
I filosofi dell'Illuminismo si interessarono molto alle emozioni. L'approccio di David Hume ai problemi etici, religiosi, politici ed estetici si fondò sulla nozione di sentimento. L'economista e filosofo Adam Smith, autore del celeberrimo Ricerche sopra la natura e la causa della ricchezza delle nazioni, pubblicò nel 1759 un libro intitolato Teoria dei sentimenti morali, nel quale ipotizzò che le emozioni costituissero il fondamento della nostra società ed analizzò gli aspetti psicologici delle relazioni tra gli uomini.
Per contro, i Romantici non condivisero questa impostazione in quanto ritenevano che le emozioni fossero in contrasto con la ragione e che gli uomini dovessero operare una scelta netta tra le emozioni e la ragione.
Dylan Evans, studioso di sistemi intelligenti ed autore del libro Emozioni. La scienza del sentimento, sta dalla parte degli Illuministi in quanto ritiene che l'agire con intelligenza sia il frutto di una equilibrata combinazione di emozione e ragione. Charles Darwin, il padre della teoria della evoluzione naturale degli esseri viventi, pubblicò nel 1872 un libro intitolato «L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali», nel quale cercò di dimostrare una continuità tra l'uomo e le specie animali inferiori anche nelle espressioni facciali ed in altre manifestazioni esteriori delle emozioni. Un approccio evoluzionistico allo studio delle emozioni può servire per spiegare come le emozioni siano importanti anche per la sopravvivenza delle specie. Ad esempio, quando un gatto è impaurito gli si drizza il pelo e questo lo fa apparire più grosso ai potenziali assalitori.
L'analisi di Evans si spinge fino a prendere in considerazione le ultime scoperte degli scienziati informatici e degli studiosi dell'intelligenza artificiale. Questi hanno messo a punto dei robot dotati di emozioni, come il robot AIBO, prodotto dalla Sony, che è capace di esprimere sei emozioni (contentezza, tristezza, rabbia, sorpresa, paura e antipatia) ed il cui stato emotivo si modifica a seconda degli stimoli esterni e ne influenza il comportamento. La prospettiva potrebbe essere quella che in un prossimo futuro, speriamo il più lontano, queste macchine possano diventare coscienti.
Evans cerca attraverso tutto il suo libro di convincere il lettore che, come ebbe a dire Blaise Pascal: «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce». Questo per significare che il fatto che il cuore operi indipendentemente dalla ragione non significa che esso manchi di ragioni e che, quindi, non solo vi sono passioni nella ragione, ma anche ragioni nelle passioni. In definitiva, un essere privo di emozioni sarebbe non soltanto meno intelligente di noi, ma anche meno razionale. Viva le emozioni!
Passione? Eppur si evolve
di Domenico Ribatti
I filosofi dell'Illuminismo si interessarono molto alle emozioni. L'approccio di David Hume ai problemi etici, religiosi, politici ed estetici si fondò sulla nozione di sentimento. L'economista e filosofo Adam Smith, autore del celeberrimo Ricerche sopra la natura e la causa della ricchezza delle nazioni, pubblicò nel 1759 un libro intitolato Teoria dei sentimenti morali, nel quale ipotizzò che le emozioni costituissero il fondamento della nostra società ed analizzò gli aspetti psicologici delle relazioni tra gli uomini.
Per contro, i Romantici non condivisero questa impostazione in quanto ritenevano che le emozioni fossero in contrasto con la ragione e che gli uomini dovessero operare una scelta netta tra le emozioni e la ragione.
Dylan Evans, studioso di sistemi intelligenti ed autore del libro Emozioni. La scienza del sentimento, sta dalla parte degli Illuministi in quanto ritiene che l'agire con intelligenza sia il frutto di una equilibrata combinazione di emozione e ragione. Charles Darwin, il padre della teoria della evoluzione naturale degli esseri viventi, pubblicò nel 1872 un libro intitolato «L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali», nel quale cercò di dimostrare una continuità tra l'uomo e le specie animali inferiori anche nelle espressioni facciali ed in altre manifestazioni esteriori delle emozioni. Un approccio evoluzionistico allo studio delle emozioni può servire per spiegare come le emozioni siano importanti anche per la sopravvivenza delle specie. Ad esempio, quando un gatto è impaurito gli si drizza il pelo e questo lo fa apparire più grosso ai potenziali assalitori.
L'analisi di Evans si spinge fino a prendere in considerazione le ultime scoperte degli scienziati informatici e degli studiosi dell'intelligenza artificiale. Questi hanno messo a punto dei robot dotati di emozioni, come il robot AIBO, prodotto dalla Sony, che è capace di esprimere sei emozioni (contentezza, tristezza, rabbia, sorpresa, paura e antipatia) ed il cui stato emotivo si modifica a seconda degli stimoli esterni e ne influenza il comportamento. La prospettiva potrebbe essere quella che in un prossimo futuro, speriamo il più lontano, queste macchine possano diventare coscienti.
Evans cerca attraverso tutto il suo libro di convincere il lettore che, come ebbe a dire Blaise Pascal: «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce». Questo per significare che il fatto che il cuore operi indipendentemente dalla ragione non significa che esso manchi di ragioni e che, quindi, non solo vi sono passioni nella ragione, ma anche ragioni nelle passioni. In definitiva, un essere privo di emozioni sarebbe non soltanto meno intelligente di noi, ma anche meno razionale. Viva le emozioni!
«Emozioni. La scienza del sentimento» di Dylan Evans (Laterza ed., pp. 165, euro 7.50)
il nuovo premio Nobel per la pace
«l'AIDS fu creato in laboratoro per la guerra biologica»
Repubblica 10.10.04
LA POLEMICA
La neo premio nobel Maathai sull´Aids "È un´arma creata per la guerra biologica"
NAIROBI - L´Aids è un virus creato in laboratorio, un´arma della guerra biologica. Ieri nel primo incontro con la stampa, Wangari Maathai, premio Nobel per la pace per il suo impegno in difesa dell´ambiente e delle donne, ha ribadito la sua posizione "scomoda" sull´origine dell´Hiv. «Ci viene detto che l´Aids viene dalle scimmie. Sciocchezze: noi africani abbiamo sempre vissuto con le scimmie, mentre ora siamo sterminati più di ogni altro popolo nel pianeta», ha detto Maathai, che è anche docente di biologia alla facoltà di Veterinaria. E ha aggiunto: «Sono stati creati agenti di guerra biologica per cancellare intere popolazioni. La verità è che l´Aids è stato creato in laboratorio per ragioni di guerra biologica, altrimenti perché ci sarebbero tanti misteri su questo virus?». Questa posizione già espressa in alcuni articoli aveva suscitato delle riserve sulla premiazione della Maathai.
LA POLEMICA
La neo premio nobel Maathai sull´Aids "È un´arma creata per la guerra biologica"
NAIROBI - L´Aids è un virus creato in laboratorio, un´arma della guerra biologica. Ieri nel primo incontro con la stampa, Wangari Maathai, premio Nobel per la pace per il suo impegno in difesa dell´ambiente e delle donne, ha ribadito la sua posizione "scomoda" sull´origine dell´Hiv. «Ci viene detto che l´Aids viene dalle scimmie. Sciocchezze: noi africani abbiamo sempre vissuto con le scimmie, mentre ora siamo sterminati più di ogni altro popolo nel pianeta», ha detto Maathai, che è anche docente di biologia alla facoltà di Veterinaria. E ha aggiunto: «Sono stati creati agenti di guerra biologica per cancellare intere popolazioni. La verità è che l´Aids è stato creato in laboratorio per ragioni di guerra biologica, altrimenti perché ci sarebbero tanti misteri su questo virus?». Questa posizione già espressa in alcuni articoli aveva suscitato delle riserve sulla premiazione della Maathai.
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