mercoledì 22 novembre 2006

il Riformista 21.11.06
INTERVISTA. LA PSICHIATRA ANNELORE HOMBERG INVITA A DISTINGUERE TRA MALVAGITÀ E MALATTIA
Tra le madri assassine nell'istituto di Castiglione dello Stiviere
di Livia Profeti

Un viaggio fisico e psichico, privo di giudizio morale, alla ricerca di una risposta agli infanticidi. Tra cronaca e racconto fantastico, l’idea di una cura possibile per recuperare un fondo originario di umanità e ricostruire la propria assenza interiore

Ora che riprende l’amara telenovela mediatica del caso Cogne, con l’ennesimo colpo di scena, ossia «la Franzoni ha ucciso nel sonno!», non ci si deve limitare alla nuova udienza catodica di Bruno Vespa per comprendere un fenomeno, quello delle “madri assassine”, che aleggia sempre sullo sfondo del caso Franzoni. Madri assassine è appunto il titolo del libro (Gaffi Editore, 10 euro), presentato ieri all’Associazione stampa romana, che Adriana Pannitteri, giornalista del Tg1, ha scritto a seguito di un viaggio a più riprese nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, il solo in Italia ad ospitare madri che hanno ucciso i loro figli. Un viaggio fisico e psichico allo stesso tempo, alla ricerca di una risposta ad una domanda atroce: come si può uccidere un bambino? Il proprio bambino? La Pannitteri ha sperato che a risponderle fossero direttamente le «madri assassine» ed ha parlato con loro, coraggiosamente: «Quelle urla strazianti che penetrano all’improvviso nella stanza dove sono a colloquio con Manuela, una delle donne che ha accettato di raccontarmi la sua storia […] arrivano da lontano, da un luogo imprecisato. Dal profondo […] Vorrei coprirmi le orecchie per non sentire. Ma non posso».
Privo di giudizio morale, il processo di comprensione della Pannitteri si svolge intervallando la cronaca dei suoi viaggi e colloqui con la storia di Maria Grazia, bambina con la madre malata di depressione. Storia immaginaria ambientata sullo sfondo di una Sicilia quotidianamente magica, vista con gli occhi della piccola protagonista. A curare la postfazione del libro la psichiatra Annelore Homberg, specialista in psicoterapia delle psicosi, appena rientrata dalla Cina dove ha tenuto un seminario sul rapporto tra «Arte, follia e pazzia» presso l’Università di Tianjin.
Chiediamo alla dottoressa Homberg perché quasi sempre “madri” e non “padri” assassini? «In realtà non è così, è che più spesso le madri aggrediscono i figli nella prima infanzia, mentre i padri quelli più grandi - risponde la dottoressa - questo perché generalmente sono le madri ad occuparsi dei bambini in questa fase iniziale della vita, instaurando con loro rapporti particolarmente profondi che proprio per questo possono fallire in maniera catastrofica».
Una madre che uccide il proprio figlio è sempre una donna malata? «Senza dubbio. Come psichiatra parto dal presupposto, per altro argomentato, che una persona che sta bene, non solo nel comportamento ma anche nella sua realtà interna più profonda, inconscia, non aggredirebbe mai un bambino. È il fatto stesso che indica la malattia, senza bisogno di ulteriori dimostrazioni. Semmai il problema è capire qual è la patologia precisa, di quale alterazione della mente si tratta. Sebbene il punto di vista giuridico sia diverso, sarebbe opportuno che anche i giuristi prendessero in considerazione questo fatto».
Invece la malattia mentale viene riconosciuta solo in un caso su tre. Si tratta di un problema esclusivamente giuridico o anche culturale? «Giuridicamente si dovrebbe rivedere la famosa “incapacità di intendere e volere”, concetto limitato che copre soltanto la dimensione del comportamento e quindi non tiene conto di quelle persone che, pur essendo molto malate internamente, mantengono comunque una condotta esterna adeguata. Fanno la spesa al supermercato perfettamente ma hanno perso ogni rapporto affettivo con gli altri, e magari anche con il proprio figlio piccolo. Certamente però il problema è anche culturale, perché purtroppo circola ancora l’antica credenza che l’essere umano porterebbe dentro di sé un nucleo di malvagità. Di conseguenza questi fatti delittuosi si argomentano in termini di male e non di malattia. Temo che molti giuristi siano affetti da questo modo di vedere le cose, e purtroppo anche molti colleghi psichiatri».
Nessuna plausibilità al concetto di “normalità”, magari da semplificare con la storia di Dr. Jekyll e Mr. Hyde? «Ovviamente no. È una favoletta della nostra cultura che ha delle radici molto antiche, che risalgono almeno al concetto di peccato originale. È interessante però notare che si tratta di una credenza che caratterizza la civiltà occidentale, mentre in altre grandi culture questo concetto del male insito nell’uomo non c’è. Ad esempio nell’Islam, oppure, come ho avuto modo di constatare, in Cina, dove l’idea di un Mr. Hyde nascosto in ciascuno di noi desta molto stupore. È lontanissima dal loro modo di pensare».
La Pannitteri nel suo libro alterna racconto immaginario e cronaca: una scelta che sembra facilitare la comprensione del fenomeno. «Nel libro ho cercato proprio questo contrappunto, con il quale l’autrice oppone a queste storie di tragici fallimenti umani il racconto di una speranza. Questa bambina infatti si confronta, con i suoi mezzi, con la tematica che noi riteniamo essere fondamentale nella malattia mentale: quella dell’assenza. Le donne ricoverate a Castiglione delle Stiviere non sono riuscite a conservare la loro umanità nei confronti dell’assenza altrui e sono diventate anch’esse internamente assenti, mentre la bambina racconta di una capacità umana di mantenere la propria vitalità interna anche se l’adulto non c’è. È il racconto della possibilità di rimanere sani oppure, se si è caduti nella malattia, di recuperare quell’umanità che originariamente, dalla nascita, ognuno possiede. Tra le righe, e forse senza che nemmeno l’autrice lo sappia, racconta di un’idea di cura possibile».
(testo ricevuto da Anselmo Teolis)