domenica 13 giugno 2004

Carlos Fuentes
intervistato da Luciana Sica

Repubblica 13.6.04
Io, realista visionario
intervista allo scrittore messicano

"Il dolore peggiore la perdita di mio figlio"
"il mio modello letterario è Balzac"
Tra i più grandi protagonisti della letteratura latinoamericana sarà giovedì a Roma ospite del Festival di Massenzio È appena uscito il suo nuovo romanzo "L'istinto di Inez" giocato sulla memoria e l'impossibilità dell'amore
di LUCIANA SICA


«Appartengo alla letteratura della Mancha, quella che è nata e si è sviluppata tra la Spagna e l´America latina nel nome di Cervantes. Mi considero un discendente del barocco spagnolo e della colonia messicana». Si presenta così Carlos Fuentes, scrittore nato settantasei anni fa a Panama, tra i più grandi testimoni della letteratura latinoamericana e, più in generale, di lingua ispanica.
Gentleman colto e incline alla battuta di spirito, fabulatore e visionario, cosmopolita ossessionato dalle radici messicane, ambasciatore in Francia negli anni Settanta - una vita intensa dominata dall´erranza ma soprattutto dal grande amore per il suo Paese fatto di sogni e di fame -, Carlos Fuentes sarà a Roma giovedì per una lettura al Festival di Massenzio.
Celebre ovunque grazie a romanzi come “La morte di Artemio Cruz”, a raccolte di fantasiosi racconti come “L´albero delle arance”, ma anche a saggi importanti come “Geografia del romanzo” o “Tutti i soli del Messico”, di Carlos Fuentes è appena uscito un nuovo libro - molto struggente - dal titolo “L´istinto di Inez” (Marco Tropea, traduzione di Ilide Carmignani, pagg. 154, euro 13,50).
«Non avremo nulla da dire sulla nostra morte», è l´incipit di questo breve romanzo che ha per protagonisti un uomo, una donna e un´opera musicale: l´eminente direttore d´orchestra francese (di madre italiana) Gabriel Atlan-Ferrara, una soprano messicana - l´istintiva Inez - ma anche “La damnation de Faust”, la drammatica leggenda di Berlioz che ogni volta li fa incontrare e ogni volta ineluttabilmente separare, in un amore lungo una vita e tragicamente irrisolto. A rendere impossibile l´unione di Gabriel e Inez è un elemento del tutto irrazionale, è l´attrazione di lei per un ragazzo visto in una foto: un giovane bellissimo che non si sa più dove sia finito. Del fantasma dai tratti angelici s´ignora ogni cosa tranne che negli anni dell´adolescenza era stato un amico fraterno proprio dello chef d´orchestre (come lui ama definirsi con civetteria).
Nell´immagine fatale che rapisce Inez per sempre, Gabriel è «abbracciato a un altro ragazzo, il suo esatto contrario, il sorriso aperto, senza enigmi... Era impossibile vedere la fotografia del giovane senza provare qualcosa per lui, amore, inquietudine, desiderio erotico, intimità forse, o forse un certo gelido disdegno... Indifferenza no». Ma questa vicenda, strana e dolorosa come la musica di Berlioz che sembra inondarla del suo ritmo indiavolato, s´intreccia con una storia parallela che racconta l´amore di due esseri assolutamente primitivi, un uomo e una donna persi e confusi nella natura e fatti innanzitutto di corpo. Di istinto.
Carlos Fuentes è in arrivo a Roma da Londra, la città dove passa almeno metà dell´anno perché per scrivere - tutti i giorni, dalle sei del mattino a mezzogiorno - ha bisogno di tranquillità e di concentrazione, le sole due cose che a Città del Messico gli sono sempre mancate. Ci siamo sentiti al telefono: questa è la sintesi della nostra conversazione.
All´estero “L´istinto di Inez” - giocato sulla memoria e l´impossibilità dell´amore - è stato accolto come un ritorno alla sua migliore letteratura fantastica. E´ un´osservazione che condivide?
«No. Francamente non vedo nessun "ritorno", lo sarebbe se avessi abbandonato questo genere letterario, cosa che non mi pare di aver mai fatto... Anche il mio ultimo libro non ancora tradotto in italiano, “Inquieta compañía”, è fatto di racconti di pura immaginazione dove si parla addirittura di angeli, demoni, fantasmi, vampiri...».
Ma è stato notato come “L´istinto di Inez” rimandi piuttosto a suoi "vecchi" romanzi come “Aura” o “Le relazioni lontane” piuttosto che a opere più recenti...
«Sono libri che appartengono tutti al genere fantastico, ma credo anche che ciascuno di questi romanzi abbia connotazioni sue proprie, una sua personalità, un suo profilo, e che insomma sia un´opera a sé... I critici sono spesso a caccia di etichette un po´ facili».
Un po’ facili perché, come del resto capita in ogni scrittura letteraria, ha costantemente mescolato realismo e fantasia, o meglio ancora: ha introdotto il fantastico nel reale... Lei però preferisce parlare dell´esistenza di una realtà "soggettiva" e di una "oggettiva", o sbaglio?
«Preferisco parlare soprattutto di una realtà collettiva, che le riunisce tutte e due... Come dire: la realtà soggettiva non è completamente soggettiva e neppure quella oggettiva lo è del tutto. Il filo che ci fa interagire con gli altri è la comunità, il luogo in cui l´elemento soggettivo coesiste con quello oggettivo. A meno che non si voglia pensare alla realtà politica come a una dimensione immersa nell´immaginario...».
Più di una volta ha detto che il suo principale modello letterario è stato Balzac. Si sente in debito nei confronti dell´autore francese?
«Sì, ho un debito enorme nei suoi confronti, trovo il suo realismo visionario assolutamente sorprendente. "Moi je vais porter une société dans ma tête" (ho un´intera società nella mia mente): da un lato l´autore della “Comédie humaine” si presenta come uno scrittore realista, ma al tempo stesso è capace di offrire novelle straordinarie di genere fantastico come “La pelle di zigrino” o anche “Louis Lambert”».
Pieno di elementi bizzarri è anche “L´istinto di Inez”... Il ragazzo della foto e l´uomo primitivo sono la stessa persona?
«Inez è alla ricerca di un uomo di cui innamorarsi, un uomo che non viva però nella sua stessa epoca. E lo cerca in un passato molto remoto o in un futuro lontanissimo... Ma il lettore può immaginare quello che vuole, ha la porta aperta, è libero di pensare quel che crede, lo considero coautore dell´opera».
Si può dire che la storia tra quei due esseri primitivi è un sogno di Inez?
«Potrebbe esserlo: se le fa piacere, l´autorizzo a pensarlo».
Spesso al centro dei suoi romanzi ci sono donne, come ne “Gli anni con Laura Díaz”. Le piace esplorare una cultura ancora profondamente in contrasto con quella maschile?
«Sì, del resto sono cresciuto in un paese prettamente maschilista. In Messico, in America latina, e forse in tutto il mondo, il machismo è molto forte, e io mi sono sempre ribellato a questa cultura. L´ho sempre contrastata, perché le donne io le amo molto, mi piacciono moltissimo: penso a mia madre, a mia moglie, alle mie figlie... Penso soprattutto al dato statistico che indica come il 53 per cento del lavoro umano venga svolto dalle donne e non dagli uomini».
Nella sua lingua, Inez fa rima con vejez, con vecchiaia. Nel romanzo l´allusione è esplicita, anche se naturalmente nella traduzione italiana l´assonanza si perde...
«Si perde, purtroppo... Mi torna in mente un´immagine stampata da sempre nella mia memoria: la Callas che canta “La Traviata”. Quando si avvicina alla scena finale, fa una cosa straordinaria, la Callas: anticipa la sua morte, diventa una vecchietta, can-ta-tut-ta-co-sì, è qualcosa di estremamente emozionante... In ogni caso ho sempre pensato alla donna giovane e alla donna vecchia come a un´unica persona. Il dato anagrafico non è assoluto, dall´infanzia fino alla nostra ultima stagione portiamo l´età riempiendola di noi stessi, di quello che siamo profondamente».
Inez, vejez: più che il racconto di due storie d´amore parallele, il suo è un trattatello metaforico sulla tragedia dell´invecchiamento?
«Può darsi, ma provi a pensare a un Tolstoj o a chiunque altro: noi scrittori dobbiamo fare sempre i conti col passare del tempo, con la gioventù perduta, con la vecchiaia...».
“In questo credo” è il suo dizionario autobiografico che Il Saggiatore pubblicherà da noi in settembre. Lì si parla della sua lunga frequentazione con Buñuel. Cosa le è rimasto del grande cineasta?
«A Città del Messico ci vedevamo tutti i venerdì dalle quattro alle sette, mai più tardi perché Buñuel aveva abitudini monacali. Con lui avevo l´impressione di dialogare con l´intera storia dell´estetica del ventesimo secolo... Però ”En esto creo” non è un catalogo di personaggi, anche se ci sono capitoli dedicati ad alcuni scrittori che sento particolarmente vicini: a Balzac e a Cervantes naturalmente, e poi a Kafka, a Faulkner, a Shakespeare...».
“Contro Bush” s´intitola invece, molto seccamente, un altro suo libro non ancora uscito in Italia. È un pamphlet politico?
«È un lungo viaggio intorno a fatti riguardanti la presidenza di Bush, un uomo che considero pericoloso per molte ragioni serie... ma poi, come possiamo affidarci a un uomo che cade così spesso dalla bicicletta e che rischia di rimanere soffocato mangiando un biscotto?».
Lei ha detto: come messicano, non faccio distinzione tra la vita e la morte. Tutto è vita, inclusa la morte. Non sarà uno dei tanti modi consolatori per rimuovere il terrore di non esserci più?
«No, no, è un fatto molto reale: non abbiamo modo migliore per comprendere la morte, per accettarla, viverla e anticiparla se non attraverso la consapevolezza che fa parte della vita, come la nascita».
Signor Fuentes, un´ultima domanda molto delicata, sempre che voglia rispondere. “L´istinto di Inez” è dedicato al suo "adorato" figlio Carlos, scomparso nel ´99 all´età di venticinque anni. Cosa ha significato questa perdita nella sua vita di uomo e di scrittore?
«Questa perdita è il dolore peggiore, uno strazio che non assomiglia a nient´altro, e credo che - seppure inconsapevolmente - emerga nella mia scrittura... Carlos aveva molto talento, era un poeta e un pittore, e non solo lo ricordo con amore infinito, ma lo sento ancora vicino: la sua è una presenza, non un´assenza, e sono anche capace di ridere per le cose che diceva... Mi sembra di fare molte cose in nome di mio figlio, e in fondo vivo nella sua ombra».

antidepressivi
- abuso di psicofaraci e
- soldi a palate con un aggeggio elettrico per i depressi

ricevuti da Piergiuseppe Cancellieri

Tempomedico.it 13 giugno 2004
Prima pensare, poi (forse) impasticcare
Silvio Garattini mette in guardia sull'abuso di psicofarmaci


L'abuso di psicofarmaci - un fatto ormai accertato per benziodazepine e antidepressivi - è aumentato in rapporto con la disponibilità dei cosiddetti psicofarmaci di seconda generazione: gli antipsicotici atipici (olanzapina, risperidone, quietapina) e gli inibitori selettivi della ricattura della serotonina (fluoxetina, paroxetina, sertralina, citalopram), noti anche con il nome di SSRI, dotati di attività antidepressiva. La seconda generazione implica un concetto migliorativo: più efficace e meno tossico, in accordo con una campagna promozionale e pubblicitaria condotta con grande dovizia di mezzi. Mezzi resi disponibili dai considerevoli guadagni dovuti all'alto costo di questi prodotti rispetto ai farmaci di "prima generazione". Purtroppo anche il prezzo alto ha il suo fascino su medici e pazienti: "Se costa di più, vuol dire che sarà meglio!".
E' proprio vero? Alcuni recenti conoscenze gettano molti dubbi sulle ottimistiche prospettive e sulla facilità con cui molti medici prescrivono questi farmaci. Anzitutto mancano studi clinici ben fatti che confrontino fra vecchi e nuovi farmaci con rigore scientifico. E' vero che i nuovi farmaci antipsicotici danno probabilmente meno effetti extrapiramidali (effetti motori) degli antipsicotici classici, ma la propaganda non ha mai fatto sapere che i nuovi farmaci danno luogo anche a un aumento di peso corporeo con conseguente aumento del rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e diabete. Infatti già dopo pochi anni dall'introduzione di questi farmaci si è già in grado di stabilire un aumento di intolleranza al glucosio e di propensità al diabete. Molti medici si sono anche fatti convincere che, a causa della loro tollerabilità, gli "atipici" dovevano essere somministrati preferenzialmente rispetto ai classici antipsicotici, soprattutto nei soggetti anziani. Ricerche recenti hanno mostrato che soggetti anziani trattati con gli antipsicotici atipici nei casi di perdita di memoria accompagnata da disturbi comportamentali non solo non hanno benefici, ma accusano un aumento degli eventi cerebrovascolari (ictus) di ben tre volte e della mortalità di due volte. Le ditte produttrici sono state obbligate dalle autorità regolatorie a informare i medici, ma l'informazione non è giunta capillarmente anche perché i mass media non hanno dato alcun rilievo alla notizia.
Anche per quanto riguarda gli antidepressivi di seconda generazione, gli SSRI, esistono novità. Contrariamente a quanto si è sempre affermato, questi farmaci inducono in una percentuale significativa di casi una sintomatologia che può essere anche molto grave, quando il trattamento viene interrotto. Per tutti questi farmaci - forse un po' meno per la fluoxetina - l'interruzione del trattamento deve essere fatta con notevole gradualità per evitare disturbi depressivi che richiedono la ripresa del trattamento. Per questo bisogna usarli quando sia strettamente necessario, evitando trattamenti non solo inutili ma che addirittura possono determinare gravi conseguenze. Così concepito l'uso di questi farmaci ha un rapporto beneficio-rischio del tutto negativo, oltre a rappresentare una spesa non giustificabile per il Servizio sanitario nazionale.
Ancora più grave è quanto si è scoperto nell'impiego di questi prodotti per i bambini e gli adolescenti che mostrano episodi depressivi. Nonostante i dubbi che si dovrebbero avere nel prescrivere psicofarmaci a bambini che sono in fase di sviluppo, le prescrizioni sono numerose. Questi trattamenti sono adottati perché studi clinici controllati avevano dimostrato un beneficio, anche se per la verità molto modesto. Si è scoperto tuttavia che venivano pubblicati solo gli studi positivi, mentre gli studi negativi non venivano pubblicati perché, come è riportato in un memorandum della ditta produttrice della paroxetina, "avrebbero peggiorato il profilo del farmaco". Se si sommano gli studi pubblicati con quelli non pubblicati si ottengono risultati che mostrano non solo l'inefficacia di questi farmaci nei bambini, ma addirittura un peggioramento per quanto riguarda la tendenza al suicidio. Ciò vale per paroxetina, sertralina, citalopram e venlafaxina. La mancata pubblicazione dei dati negativi - una pratica non rara nel campo dei farmaci - configura gravi responsabilità perché si tradisce la fiducia dei medici e dei pazienti, contribuendo a dare un'idea dell'efficacia e della tossicità dei farmaci che non corrisponde alla realtà.
Quanti sono in Italia
In Italia, stime accurate circa l'entità della patologia nella popolazionepediatrica e la terapia farmacologica utilizzata non sonodisponibili. Le analisi effettuate dal Laboratorio per la Salute Materno-Infantile dell'IRFMN di Milano e dal CINECA di Bologna, nell'ambito del Progetto Nazionale ARNO documentano che nel 2002 i giovani italiani con meno di 18 anni in terapia con farmaci antidepressivi della classe SSRI sono stati 2,1 ogni 1000 (quindi una stima di circa 22.000 pazienti bambini o adolescenti). L'uso più frequente è stato per la classe d'età 14-17 anni (6,6 ogni 1000) e per le ragazze (8,4 verso 4,8 per i maschi). Il farmaco più utilizzato è stato, come per gli adulti, la paroxetina.

(di Silvio Garattini - Tempo Medico n. 780 13 giugno 2004
Fonte: BMJ 2004; 328: 711-2.


reuters.com
Sabato 12 Giugno 2004, 15:32
Usa, commissione rivedrà dispositivo elettrico per depressione


WASHINGTON (Reuters) - Gli adulti americani cronicamente depressi che non trovano beneficio dai farmaci o dalla psicoterapia, potranno essere presto in grado di provare un dispositivo simile ad un pacemaker che invia impulsi elettrici al cervello.
Il dispositivo, grande come un cronometro e prodotto da Cyberonics, viene inserito chirurgicamente nel torace, da dove un cavetto arriva fino ad un nervo nel collo.
Martedì prossimo, una commissione di esperti della Food and Drug Administration americana si incontrerà per discutere se raccomandare all'agenzia l'approvazione del dispositivo -- già usato per l'epilessia -- per i pazienti che hanno la depressione.
Gli esperti sostengono che la approvazione della Fda sia la chiave per la crescita futura della società, che ha avuto 1,25 milioni di dollari di perdite nell'ultimo trimestre.
Funzionari di Cyberonics non vogliono rilasciare commenti prima della riunione della commissione, ma hanno detto che la depressione "è un'enorme opportunità di mercato".
La VNS Therapy, che è già stata approvata per la depressione in Europa e Canada, potrebbe raggiungere un miliardo di dollari in vendite negli Usa entro il 2010, secondo quanto riferito dai funzionari della società lo scorso anno.

antidepressivi ai bambini

segnalato anche da Francesco Troccoli

Repubblica 13.6.04
L'INCHIESTA
Torino, l'inchiesta di Guariniello riguarda la paroxetina. "Sommistrazione di farmaci pericolosi"
Antidepressivi ai bimbi, indagati 94 medici
Secondo l´Agenzia inglese, assumendo il farmaco i minori sviluppano ostilità


TORINO - La procura di Torino ha iscritto nel registro degli indagati 94 medici piemontesi per somministrazione di farmaci pericolosi a minori. L´inchiesta, aperta dal procuratore aggiunto Raffaele Guariniello, riguarda la paroxetina, un principio attivo contenuto in alcuni farmaci antidepressivi controindicati per pazienti al di sotto dei 18 anni. Un decreto ministeriale del luglio 2003 prescriveva alle industrie farmaceutiche di inserire nei bugiardini la controindicazione e contestualmente era stata inviata una lettera a tutti i medici italiani per informarli sulle «nuove evidenze riguardanti la paroxetina» rilevate dalla Commissione Unica sul Farmaco. Nonostante ciò, la procura ha accertato che in Piemonte, nel periodo agosto-dicembre del 2003, farmaci contenenti paroxetina sono stati prescritti comunque a minorenni. Centonove ricette firmate da novantaquattro medici.
Gli effetti della paroxetina erano stati evidenziati da uno studio presentato da una delle industrie farmaceutiche produttrici dei farmaci che contengono questo principio all´Agenzia del Farmaco Inglese. L´intento dello studio era in realtà quello di dimostrare l´efficacia della paroxetina anche nella cura della depressione in età pediatrica, ma l´Agenzia inglese trasse dalla relazione un parere diametralmente opposto. Cioè la pericolosità di questo tipo di farmaci «su bambini e adolescenti che sviluppavano ostilità, labilità emozionale e tendenza al suicidio».

Michele Serra:
la religione del Padre e i serial killer

Repubblica 13.6.04
MICHELE SERRA


IN ITALIA? Berlusconi ci renderà un Paese prospero e migliore. E in Europa? Berlusconi ci renderà un continente prospero e migliore. E il programma? Seguendo l´esempio di Berlusconi diventeremo persone prospere e migliori.
Ascoltavo la radio, guidando nella notte italiana. La voce della giovane candidata di Forza Italia era limpida e gentile. Non diceva niente: non un´opinione politica, non una proposta sul da farsi, non un´idea sulla vita. Diceva solo: Berlusconi. Immersa nella sua beata e fiduciosa litania, come dicesse il rosario. Ho pensato: ma questa non è più politica. E ho anche pensato: forse abbiamo sbagliato a buttarla in politica, destra e sinistra, guerra e pace, Europa e America. Quelle sono parole adulte, questo è un Paese tornato bambino. Quella ragazza parlava di Berlusconi come di un padre idealizzato, guida insostituibile contro il mondo oscuro, minaccioso e cattivo. Per lei la realtà era un fantasma remoto, un problema rimandabile all´infinito fino a che il padre ci tiene per mano, e provvede a proteggerci e a consolarci. Bene educata, provava ad ascoltare le parole del moderatore. Ma non capiva le sue domande, e dunque non poteva rispondergli se non: Berlusconi. Per il resto del viaggio mi sono vergognato di avere paura per me. È soprattutto per lei che bisogna avere paura.

espressonline.it 10.6.04
Il serial killer vien dalla campagna
La metropoli non è sentina di ogni disturbo sociale. È stata superata dalla provincia. I boss della Mafia vengono da paesini pietrosi, Pacciani dal rurale toscano, gli unabomber abitano in cittadine venete. E Mussolini era di Predappio
di Michele Serra


Tra le domande del secolo, non ultima viene questa: come può diventare capo dei satanisti uno di Gallarate? Noi moderni, per generazioni, abbiamo supposto che la sentina di ogni disturbo sociale fosse la metropoli. Beh, ci siamo clamorosamente sbagliati. Totò Riina e gli altri boss vengono da paesini pietrosi e anche se hanno il Rolex paiono appena reduci dalla sagra del fico d'India. Pacciani e i compagni di merende erano tipici abitanti del pittoresco rurale toscano, quello che piace tanto agli inglesi perché non hanno mai visto scuoiare un coniglio, ammazzare il maiale o peggio un padre contadino discutere con una figlia. I serial killer e gli unabomber del Veneto abitano in linde cittadine, si addormentano al suono del campanile e si svegliano incazzati neri, con una prostituta nel freezer e la mamma che rigoverna la casa.
Mussolini era di Predappio.
Si consideri che gli esorcisti operano quasi tutti in parrocchiette tra i castagni, dove gli indemoniati possono ululare indisturbati "li mortacci tua" in aramaico e in sanscrito senza turbare i regolamenti condominiali, e gli astanti possono vomitare direttamente nel torrente dove si allevano le trote "come una volta".
Cercate in provincia. Frugate tra le fratte di biancospino. Scavate nei pioppeti. È lì che si annida il Male. Pare, ad esempio, che la vera capitale del satanismo italiano sia Mezzofinasco, località prealpina famosa per la produzione di bomboniere da matrimonio. A Mezzofinasco, da generazioni, tutti lavorano nella bombonieristica, nelle macchine per bombonieristica e nell'accessoristica per bomboniere. Già questo, secondo gli psicologi, è una fortissima causa di abbrutimento e di depressione, e chiunque sia mai entrato in un negozio di accessori per sposi sa di che cosa stiamo parlando. (Più in generale, si pensa che il famoso 'disagio del Nord-est' sia direttamente proporzionale al prodigioso squallore di quanto in quelle terre si produce: provate voi a fabbricare ogni giorno 300 schiaccianoci a forma di gnomo, o 20 appendiasciugamano finto-impero, e poi venite a dirmi se siete felici). A questo si aggiunga che i cinesi, negli ultimi anni, hanno prodotto bomboniere più economiche (con confetti in ghisa incoporati) e molto più brutte, requisito indispensabile per sfondare sui mercati mondiali.
Il sistema-paese, a Mezzofinasco, è dunque entrato in crisi. La benzina basta appena per la prima macchina, in genere una Mercedes cabriolet, e i giovani del posto cominciano a vendersi l'un l'altro la seconda macchina, sempre una Golf nera. Si organizzano gimkane notturne, ma il paese è lungo 150 metri, illuminato male e strapiombante sul fiume, e va a finire che per potere innestare la terza è necessario essere sopravvissuti all'impatto con il greto. Anche il tradizionale lancio di sassi dal cavalcavia non si può dire che abbia davvero sfondato, nonostante il sindaco abbia costruito apposta un enorme cavalcavia con finanziamenti Cee. Da Mezzofinasco, infatti, passano solo due o tre automobili ogni notte, e per centrarne una è necessario pernottare all'addiaccio. Le madri di Mezzofinasco che portano la felpa ai figli infreddoliti sul cavalcavia hanno anche fondato un'associazione.
Che c'entra questo col satanismo? Pare che un giovane del paese, per errore, abbia letto il libro di un prete esorcista, abbandonato in uno scompartimento ferroviario. C'era scritto che se si ascoltano i dischi di Marilyn Manson all'incontrario, si possono udire formule sataniche. Il giovane provò ad ascoltare un disco di Manson all'incontrario, cioè camminando all'indietro con le cuffie al massimo volume. Non udì formule sataniche, ma inciampò nel tavolo del tinello e battè la testa. Cominciò a sacramentare fortissimo, e i suoi amici, in strada, suggestionati dalla gragnuola di bestemmie in mezzofinaschese, fondarono una setta satanica e uccisero 25 persone.

«il sogno di Boris Pasternak»

La Stampa 13.6.04
Un inedito del celebre scrittore russo rivela l’illusione di conciliare l’ispirazione artistica con il potere del regime sovietico
Il sogno di Pasternak, bolscevico immaginario


Quest’anno alla Stanford University, in California, sull’opera di Boris Pasternak si è svolto un convegno organizzato dal più solerte e solido studioso del poeta russo: Lazar Fleishman. Un tema centrale della vita e dell’opera di Pasternak è il suo rapporto con la rivoluzione, tema che collega l’ultima sua opera, il Dottor Zivago , alla prima. Mia sorella la vita , la raccolta di poesie che, scritte nel 1917, nel 1922 quando apparvero a stampa segnarono la nascita di un poeta impareggiabile. Tra queste due opere trascorsero vari decenni, attraverso i quali si è snodato un arduo cammino di ricerca e di formazione, per capire il quale occorre risalire alla visione iniziale che Pasternak ebbe della rivoluzione. Visione alla quale egli poi cercò di restare fedele, ma invano, poiché era il frutto di un equivoco storico, in cui egli come altri era incorso, anche se nel suo caso si trattò di un errore paradossalmente creativo che gli permise di non venir meno alla libertà interiore che pochissimi altri contemporanei e conterranei hanno dimostrato di possedere.
Che cosa fosse per Pasternak la rivoluzione del 1917, nelle sue due tappe del febbraio e dell’ottobre, lo dice splendidamente lo stesso Pasternak in una lettera a Brjusov (del 15 agosto 1922), facendo riferimento proprio a Mia sorella la vita e rendendo esplicito lo spirito che animava quei versi. Pasternak racconta il contenuto di un colloquio che ebbe con Lev Trotzkij per desiderio di quest’ultimo. A Trotzkij che gli domandava perché nelle poesie di Mia sorella la vita egli si fosse astenuto dai temi politici, la risposta di Pasternak, come egli scrive, consistette in «una difesa dell’individualismo vero come nuova cellula sociale del nuovo organismo sociale». Poi egli spiega il senso di queste parole: secondo Pasternak, Mia sorella la vita è «rivoluzionaria nel senso migliore di questa parola» in quanto «lo stadio della rivoluzione più vicina al cuore e alla poesia, il mattino della rivoluzione e la sua esplosione, quando essa restituisce l’uomo alla natura dell’uomo e guarda lo Stato con gli occhi del diritto naturale (la dichiarazione americana e francese dei diritti) sono espressi in questo libro nel suo stesso spirito, dal carattere del suo contenuto, dal ritmo e dalla successione delle parti, eccetera». Pasternak manifesta qui l’idea di una rivoluzionarietà immanente alla sua poesia e non tematicamente ostentata. Ma nello stesso tempo manifesta un’idea della rivoluzione che era agli antipodi della rivoluzione bolscevica. Per Pasternak il modello di rivoluzione era quello americano e quello francese con la proclamazione dei diritti dell’uomo e un russoviano ritorno alla natura dell’uomo. È facile comprendere che questa rivoluzione libertaria e liberale non corrispondeva affatto alla presa del potere da parte dei bolscevichi.
Il fatto è che l’epoca delle rivoluzioni democratiche, come erano state in diverso modo quella americana e la francese, era finita e la stessa rivoluzione democratica di febbraio ne era stata un’effimera e ritardata eco, destinata a essere presto soffocata da una rivoluzione di tipo nuovo, quella d’ottobre, per la quale essa aveva semplicemente preparato il terreno. Le rivoluzioni del XX secolo, inaugurate da quella bolscevica, sono rivoluzioni totalitarie, proprie di ideologie antilibertarie e antiliberali che progettano utopisticamente un mondo e un uomo radicalmente nuovi. Anche l’analogia col periodo giacobino della rivoluzione francese ha un valore assai relativo poiché il nuovo «giacobinismo» bolscevico, leniniano e staliniano, non solo è stato permanente, e non ha costituito un breve episodio, ma è risultato infinitamente più cruento del Terrore robespierriano. Fu in questo tipo di rivoluzione, non in quella della «dichiarazione americana e francese dei diritti», che Pasternak si trovò rinchiuso, a differenza dell’amico Majakovskij, al quale proprio la rivoluzione bolscevica riusciva congeniale, tanto che egli la cantò così com’era, «unico cittadino», dirà Pasternak nel Salvacondotto , del nuovo incredibile Stato, fino a quel suicidio che tutti sconcertò. Si trattò dunque di un equivoco storico, condiviso da altri anche in Occidente, ma che a Pasternak, che lo visse con tanta sincerità, permise più tardi di liberarsi dal mito della rivoluzione.
Non seguiremo il lungo periodo che va dall’inizio degli anni Venti alla metà degli anni Trenta, periodo assai complesso caratterizzato anche per Pasternak da quello che chiamerei il «complesso di inferiorità» dell’intellettuale di fronte alla realtà rivoluzionaria. Si tratta di un «complesso» che costringe non a piegarsi conformisticamente a tale realtà, come fa la massa servile degli intellettuali del regime, ma a cercare di comprendere le ragioni storiche pseudoumanistiche di essa, adeguandosi alle tendenze e alle esigenze dell’epoca. Questo processo portò molti a quello che un critico, Arkadij Belinkov, ha chiamato «resa e rovina dell’intellettuale sovietico», come suona il titolo di un suo libro. Per Pasternak, però, come per altri poeti della sua generazione, da Anna Achmatova a Osip Mandelstam a Marina Cvetaeva, non si può parlare di «resa», bensì di indipendenza e poi di resistenza. Ma non si può negare che egli abbia sentito se non il fascino, la suggestione della rivoluzione, come si vede anche dai suoi atteggiamenti verso Stalin, nell’illusione che il regime comunista, dopo tanta violenza, si sarebbe «ammorbidito».
Qui ci interessa come, quando e perché Pasternak sia sfuggito all’ipnosi rivoluzionaria e, invece della «rovina», abbia conseguito il trionfo. In breve è lo stesso Pasternak a dire come e quando avvenne la rottura di quel paradosso della sua biografia che possiamo esprimere così: egli, per nobili motivi di fedeltà a certi ideali di giustizia e felicità generali proclamati dalla rivoluzione nella sua ideologia, cercò di diventare sovietico, ma fortunatamente non ci riuscì, e non poteva riuscirci perché tra lui e la sovieticità c’era un abisso. In un appunto scritto di suo pugno in calce al dattiloscritto di alcune poesie e dato a Olga Ivinskaja il 17 novembre 1956 dichiara: «Io non sono sempre stato così come adesso, al tempo delle stesura del secondo libro del dottor Zivago. Proprio nel ’36, quando cominciarono quei terribili processi (in luogo della cessazione del tempo della ferocia, come nel ’35 mi era parso) tutto si spezzò dentro di me e l’unità col tempo si trasformò in una resistenza ad esso che io non nascondevo».
Ma anche prima una «resistenza» agiva nel profondo di Pasternak, radicato nella grande cultura russa ed europea cristiana, il che rendeva la sua creazione sempre così libera e viva nella sua ricerca di verità. Gli eventi del 1936 non furono che l’ultima goccia che spezzò il fragile strato delle illusioni e delle speranze, portando Pasternak al suo Dottor Zivago . Era lo stesso marxismo che adesso veniva visto nella sua nudità di ideologia di un potere totale, come dice lo stesso Zivago, quando dichiara che «il marxismo è troppo poco padrone di sé stesso per essere una scienza (...). Non conosco corrente che sia più chiusa in se stessa e più lontana dai fatti del marxismo». Lo stesso meccanismo della rivoluzione d’ottobre è ora denunciato con fermezza: «I bolscevichi hanno preso il sopravvento sugli altri grazie alla disonestà dei loro principi, che si adattano alle mutevoli circostanze».
Al di là di queste parole, è l’intero romanzo, nelle sue parti in prosa e in versi, a essere l’affermazione di una libertà che Pasternak possedeva fin dall’inizio e ha portato attraverso prove e difficoltà della sua ricerca poetica e spirituale, una libertà che possiamo dire cristiana, come cristiano era il suo «socialismo», nel senso che Pasternak attribuiva liberamente al cristianesimo.

Luciana Sica su Repubblica:
i due articoli, del 24.5 e del 4.6

Repubblica 4.6.04
L'eclisse di Edipo
intervista allo psicoanalista André Green

Non c'è più differenza tra i sessi e neppure tra le generazioni ma il conflitto legato alle origini rimane
Da oggi a domenica un convegno a Roma discute il complesso dei complessi in un'epoca in cui tutto è cambiato
"Più che le persone reali sono le imago dei genitori a contare nella nostra vita"
"Una paziente mi ha detto: tradirei mio marito, ma non posso fare questo a mio figlio
di LUCIANA SICA


ROMA. La centralità del complesso d'Edipo - come anche il primato delle pulsioni o il ruolo prioritario della sessualità - è uno di quei pilastri del pensiero freudiano che da tempo viene più o meno seriamente riformulato o messo un po' sbrigativamente in discussione. Da questa intervista con André Green - che a ogni domanda precisa quasi con pignoleria di parlare "solo a titolo personale"- risulta chiaramente come sia del tutto refrattario al rigetto del modello edipico. Non per questo si percepisce come un esponente dell´ortodossia freudiana, etichetta che non gradisce neanche un po'. Riconosce e in parte accoglie il contributo innovativo di alcuni protagonisti del pensiero psicoanalitico contemporaneo. Quelli che lo infastidiscono, «sono i moderni eternamente impegnati sul fronte del rifiuto».
Uomo d'indiscutibile fascino, più incline al sarcasmo che all'ironia, dallo stile perentorio o per dirla alla francese molto tranchant, non gli piace essere considerato un caposcuola e tanto meno gli va l'appellativo di maestro. Di sé parla poco, butta lì qualche frasetta non esente da una certa civetteria, come: «Non sono né un signore né un vassallo», o anche: «Sono uno dei membri della Società psicoanalitica di Parigi, niente di più...».
Molto di più è André Green, studioso di quelli che non hanno né vogliono avere abilità mediatiche. Secondo un'opinione diffusa, è il più grande analista vivente: in ogni caso è una celebrità nel mondo della psicoanalisi, ormai una figura storica con i suoi 77 anni che - dall'infanzia nell'ambiente cosmopolita del Cairo all'esperienza tra i circoli dell'ospedale Sainte-Anne, dall'incontro con analisti inglesi della statura di Winnicott al rapporto conflittuale con Lacan - hanno attraversato in pieno l'epoca post-freudiana.
Parlando con lui dell'Edipo, l'impressione che prevale è però soprattutto un'altra: Green sembra l'incarnazione della psicoanalisi alla francese, del suo stile inconfondibile che privilegia il culto dell'opera freudiana - secondo lo slogan (lacaniano) del "ritorno a Freud"- , l'attenzione al dibattito filosofico, il gusto delle applicazioni nella letteratura e nel teatro. Non a caso - tra gli scritti di Green - quelli sull´Amleto di Shakespeare, su Proust o anche su Dostoevskij, non sono affatto marginali. Altri suoi titoli sono ormai dei "classici": da Slegare a Narcisismo di vita narcisismo di morte, a Il lavoro del negativo, pubblicati da Borla, o anche Il discorso vivente (Astrolabio). Il saggio sugli stati limite della "follia privata" è uscito invece da Cortina, che ora, a metà giugno, manderà in libreria l'ultimo lavoro dell'autore francese: Idee per una psicoanalisi contemporanea (pagg. 376, euro 29,80).
Dottor Green, che fine ha fatto l'Edipo?
«Non ha fatto nessuna fine, anche se oggi come oggi non è più possibile affermare che esiste una sola concezione dell'Edipo condivisa da tutti gli psicoanalisti: si tratterebbe di un'affermazione falsa. Esiste però anche una sorta di agitazione culturale che, per certi versi, tende a liquidarlo, non vuole neppure sentirne parlare...».
Perché?
«Ma perché l'Edipo è la differenza tra i sessi, e oggi non c'è più differenza tra i sessi. Perché l'Edipo è la differenza tra le generazioni, ed è dunque la necessità del proibito. Oggi nessuno si sente di dire "questo non si fa", e anzi si tende a identificare l'aspirazione a negare i divieti con l'evoluzione stessa della società occidentale - mentre è evidente che la stessa cosa non vale per i papuani, i russi o i vietnamiti... Per quel che mi riguarda, non rinuncio alla base fondamentale dell'Edipo: la doppia differenza dei sessi e delle generazioni che presiede alla nascita. Quali che siano le scelte sessuali di un individuo, non potrà comunque ignorare di essere nato da una relazione sessuale tra due genitori di una generazione precedente: per tutta la vita, è questa origine che dovrà elaborare».
Non crede che la difficoltà a reperire norme etiche che orientino i comportamenti derivi proprio dal "cedimento" della norma per eccellenza, quella edipica?
«Credo piuttosto che la società non stia lì per garantire la realizzazione delle fantasie di chiunque, anche se naturalmente non vogliamo essere turbati, imporci - direbbe Bion - il dolore di pensare... Qualche anno fa in Francia c'è stata una donna, avrà avuto 65 anni, che voleva assolutamente un figlio e per giustificare questa richiesta, andava dicendo che lei aveva tanto amore da dare. Ma questa non è una ragione sufficiente! E la funzione di una società è quella di ricordare che, malgrado tutto, esiste la razionalità... A me tutta questa agitazione attuale - la voglia iconoclasta di demolire ogni divieto - non interessa poi molto».
Il complesso d'Edipo non è cambiato dalla formulazione freudiana ad oggi?
«Non c'è dubbio, e certamente la psicoanalisi è da tempo obbligata a ripensare l'Edipo: quello che invece non andrebbe fatto è rimodellarlo a seconda dei gusti del momento».
Ma è ancora possibile identificare nella struttura edipica il fondamento dell'organizzazione psichica, delle relazioni familiari e sociali?
«Sì, tenendo conto che Freud non ha mai parlato del mito, ma della tragedia, e ha "costruito" un complesso o anche un micro-sistema che riguarda l'insieme dei rapporti di un bambino con i propri genitori, dalla nascita alla morte. Più che le persone reali, sono soprattutto le imago genitoriali a contare nella nostra vita, mentre l'uscita dal cerchio edipico avviene grazie all'identificazione con il rivale, alla desessualizzazione dei desideri verso l'oggetto d´amore, all'inibizione dell'aggressività. Parliamo naturalmente di un processo inconscio a causa delle proibizioni che riguardano l´incesto e il parricidio».
Parliamo anche del conflitto tra natura e cultura, non è così?
«È il conflitto centrale: natura e cultura sono in conflitto all'interno dell'individuo come in seno a un gruppo culturale, e implica che vengano trovate delle soluzioni di compromesso come altrettanti sistemi mediatori. Il sogno è una delle soluzioni individuali, il mito una delle soluzioni collettive... In ogni caso il conflitto ha una sua funzione strutturante, il che non esclude che rimanga sempre un resto mai completamente elaborato. E il risultato del conflitto, presente fin dall'origine, è la produzione dell'altro sistema psichico: il sistema inconscio».
Scrivendo a più riprese dell'Edipo, ha tenuto a dire come Freud abbia impiegato moltissimi anni - dal 1897 al 1923 - per elaborarne la teoria... Perché gli è stato necessario tanto tempo? Lei che idea se n'è fatta?
«Credo che Freud fosse convinto dell'impossibilità di dare una spiegazione esclusivamente clinica del complesso di Edipo, di racchiuderlo nei limiti d'una fase della sessualità infantile per quanto importante, e che fosse necessario interpretarlo come una struttura antropologica più generale. Non a caso, in Totem e tabù Freud indicherà il ruolo del padre morto, molto più importante del padre vivo rappresentato come castratore, autoritario, normativo...».
Per lei significa qualcosa l'eclisse del Padre?
«È dagli anni Sessanta che si parla di eclisse del Padre, ma questi sono soprattutto sociologismi: se oggi la struttura edipica non è più immediatamente visibile, non vuol dire che non sia comunque attiva... Tornando a Freud, il padre morto va ben oltre la figura del padre, a lui non si smette mai di chiedere perdono, rappresenta l'ascendenza, la stirpe degli avi... Sono insomma gli antenati che perseguitano i vivi».
Più volte ha fatto notare che, nella triangolazione edipica, la madre è la sola ad avere una relazione erotica - per quanto differente nella sua espressione - con gli altri due, con il padre e il bambino... Con quali complicazioni?
«Intanto le complicazioni della sessualità femminile dipendono in buona parte da questa doppia relazione carnale. Del resto, dire che è più difficile essere madre e sposa piuttosto che padre e sposo non brilla certo per originalità. Una paziente mi ha confessato una volta, in uno stato di ansia: "Avrei tanta voglia di tradire mio marito, ma non potrei fare una cosa del genere a mio figlio?". A me è sembrata una cosa piuttosto interessante».

Repubblica 24.5.04
Perché vado in analisi
Il processo psicoanalitico: intervista a Jorge Canestri

"Quel che determina il trattamento non è l´obiettivo, impossibile da stabilire, ma il punto di partenza"
Cosa vuol dire "lavoro di trasformazione e qual è lo scopo della terapia analitica? La relazione dello studioso argentino
Non ci sono i pazienti, ma il paziente, lo stesso vale per l'analista. La nostra è la scienza del particolare
Soltanto un ciarlatano può promettere una guarigione. Noi possiamo solo dare la possibilità di cambiare
di LUCIANA SICA


MILANO. Cos'è il processo psicoanalitico? Che vuol dire lavoro di trasformazione? Qual è la finalità della cura analitica? Lo chiediamo a un allievo di Willy e Madeleine Baranger, a uno studioso decisamente versato per le più sottili disquisizioni di natura teorica: è Jorge Canestri, psicoanalista argentino di sessantun anni, in Italia dal '76, l'anno del golpe militare nel suo Paese. Con Jacqueline Amati Mehler e Simona Argentieri, ha scritto La Babele dell´inconscio, un saggio di un certo successo ristampato di recente da Cortina. Il concetto di processo e il lavoro di trasformazione era il titolo della sua relazione al congresso milanese.
Un tema nevralgico per la psicoanalisi, su cui la letteratura è ampia, e i modelli teorici anche molto diversi. Lei lo definisce un "progresso attraverso il cambiamento", e però - quasi paradossalmente - non verso qualcosa ma da qualcosa? Da cosa, dottor Canestri?
«Dal punto in cui si trova il paziente quando chiede una consultazione e comincia un'analisi, vivendo una condizione più o meno acuta di sofferenza. Lo stato iniziale possiamo immaginarlo come uno stato primitivo, e in ogni caso il processo ha inizio da lì, da quel punto in poi: sappiamo da dove si parte, ma la direzione della cura - pensata, è ovvio, in termini di miglioramento - non ha né può avere un obiettivo prestabilito una volta per tutte. Di fatto è "qualcosa" che probabilmente si determinerà strada facendo, secondo quello che i francesi chiamano l'après coup, e cioè la risignificazione - ma solo a posteriori - di quanto è accaduto durante il percorso analitico».
Non a caso lei cita Machado, i due famosi versi dei Cantares: «Caminante no hay camino,/se hace camino al andar»... Ma può davvero bastare l'idea - per quanto suggestiva - del "fare strada", senza nessun riferimento più preciso a un obiettivo finale?
«Si potrebbe dire genericamente che l'obiettivo finale è il raggiungimento di uno stato di salute, ma a quel punto bisognerà almeno chiedersi cosa s'intende per salute, nozione non proprio facilissima da definire. In che consiste, infatti, la salute? Può bastare forse la scomparsa dei sintomi per "star bene"? La stessa ambizione di eliminare radicalmente i tratti psicopatologici è a volte del tutto irrealistica. Pensi ai pazienti gravi, gente che magari a diciassette anni è stata ricoverata in manicomio e ora ne ha cinquanta: in questi casi è molto improbabile, se non impossibile, l'uscita definitiva da uno stato patologico».
In certi casi, è vero, è forse già tanto evitare il suicidio, ma - mi permetta d´insistere - rimane l'impressione che, in analisi, l'obiettivo della cura è da sempre troppo indefinito. Un certo rifiuto del concetto di "malattia" porta anche a respingere la nozione di "guarigione", che pure non andrebbe sbrigativamente liquidata? È un'impressione che a lei sembra totalmente sbagliata?
«In parte sì, perché già Freud si prefissava di trovare una cura utile a certe patologie come l'isteria, "malattie" che non avevano una base organica ma procuravano comunque una grande sofferenza, e che la psichiatria tradizionale non era in grado di affrontare... Il punto è che, strada facendo, Freud capì che la scomparsa isolata del sintomo non implicava una condizione di benessere mentale e che quindi il concetto stesso di guarigione andava profondamente ripensato».
Ci sono autori, come Meltzer, che pensano al trattamento analitico privilegiando l'idea di una riorganizzazione complessiva della personalità. A lei non sembra un'idea, anche questa molto suggestiva, ma in fondo del tutto sfuggente?
«Dipende: è sempre il punto di partenza del singolo paziente a determinare il percorso di un trattamento, o in altre parole l'incidenza che ha sul processo psicoanalitico la patologia che l'analista prende in considerazione. Vede, non ci sono i pazienti, ma il paziente, non esistono gli analisti, ma l'analista, questo è il punto. Le generalizzazioni non stanno in piedi, non reggono proprio, ed è questa la ragione di fondo per cui, da Popper a Grunbaum, la "scientificità" della psicoanalisi è stata messa duramente sotto accusa: perché appunto non si tratta di una scienza del generale, ma dello squisito particolare. Noi possiamo tentare delle nosografie, e infatti distinguiamo tra depressi, nevrotici ossessivi, isterici, psicotici... ma sappiamo anche che queste elencazioni un po' astratte sono molto relative».
Perché?
«Perché non ci sono mai due casi uguali, perché ogni essere umano è un sistema complesso, molto sui generis, e guarda caso sono proprio le neuroscienze a esserci di grande supporto quando descrivono il cervello di ogni soggetto, anche dal punto di vista dei collegamenti nervosi, come qualcosa in tutto simile all´impronta digitale: e cioè qualcosa di unico e irripetibile. Oggi sappiamo anche che il cervello comincia a organizzarsi prestissimo, già in fase prenatale...».
Se questo è vero, si può dire che i fattori ambientali agiscano sull´organizzazione del cervello, e dunque della mente, sin dall´inizio della vita?
«Sì, e purtroppo con una buona dose di casualità. Voglio dire che se si è fortunati, si potrà fare un certo percorso più o meno armonico, ma se invece si è sfortunati quel percorso sarà distorto sin dall'inizio, e nessuno potrà restituire quello che disgraziatamente non si è avuto... Era una pura fantasia della guarigione quella che gli antichi chiamavano la restitutio ad integrum, il ritorno a una sorta di ideale stato originario. Questo purtroppo non è possibile, solo un ciarlatano potrebbe garantire un risultato finale di questo genere...».
Più realisticamente, cos'è che voi analisti potete garantire?
«Più realisticamente, ed è quello che facciamo, possiamo migliorare le condizioni complessive del soggetto, concedergli la possibilità di non ripetere gli stessi meccanismi sbagliati, e dunque di cambiare, ma sempre tenendo conto di come quel soggetto stava prima dell'analisi».
Il problema è che a volte i vostri pazienti non sembrano cambiare affatto. A lei non capita mai di sentire frasette del tipo "Quello sta in analisi da una vita e sta peggio di prima"?
«Mi è capitato molte volte. È così: in analisi si può anche non cambiare, a volte si può addirittura peggiorare, senza dubbio registriamo dei fallimenti terapeutici...».
Ci sarà almeno un modo per scongiurarli, tenendo conto di quello che significa impegnarsi in una cura, tra l'altro molto costosa, come l'analisi?
«Innanzitutto l'indicazione deve essere giusta, nel senso che ci sono pazienti per i quali l'indicazione dell'analisi non è quella corretta. L'analista dovrebbe essere sempre una persona esperta, ma in ogni caso ci sono incontri che funzionano e altri che non funzionano. Capita che il lavoro di un analista - anche molto brillante - con quel particolare paziente non ottenga risultati, questo è possibile, e allora l'analista dovrebbe avere la correttezza di dire: mi dispiace, ma questo lavoro non sta procedendo nel verso giusto, cercherò di orientarla verso un altro collega, o anche verso un'altra terapia...».
Dovrebbe dirlo, ma lo fa davvero? Non è contemplata l'ipotesi dell'analista che s'intestardisce anche quando non vede nessun miglioramento del suo paziente?
«Ammetto che non sia un'ipotesi del tutto astratta. Ma c'è anche il chirurgo estetico che insiste con una serie di lifting che comunque vengono malissimo: cioè pazzi ce ne sono dappertutto, anche nella psicoanalisi».

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