Liberazione della domenica 27.3.05
La condivisione di un cammino
Fausto Bertinotti
Caro Pietro, compi oggi novanta anni e sei uno dei nostri. In senso lato, come sempre, per la condivisione di un cammino e di una speranza, il cammino dei grandi movimenti di trasformazione, la speranza della costruzione di un nuovo mondo. Ma, anche nel senso stretto dell'adesione alla comunità politica di Rifondazione comunista con il dono che ci hai fatto, chiedendo l'iscrizione al partito. Potrebbe bastarci per ringraziarti e farti gli auguri. Ma, la tua vita, il tuo pensiero, il tuo interrogare e interrogarti, le tue parole, le tue azioni hanno attraversato la storia grande e terribile del movimento operaio. Così il tuo è diventato un magistero. Per questo non possiamo non farti domande. Anche in occasione di questo tuo grande compleanno, come per abituarti a ricevere ancora a lungo nuove domande da noi che ci consideriamo, modestamente, discepoli del tuo magistero.
Credo che tu possa condividere l'idea che siamo stati gli ultimi eredi e interpreti della formula paolina "Siamo in questo mondo, ma non di questo mondo". Esprimiamo così, allo stesso tempo, l'esigenza di una partecipazione piena, di una condivisione delle contraddizioni aspre e dure della società in cui viviamo e l'idea di far vivere, dentro quelle contraddizioni, l'aspirazione alla liberazione. Con la rinascita dei movimenti, una nuova generazione ha conosciuto, e cominciato a cambiare, la politica. Ha senso ancora questa alterità, questa diversità e come la si può esprimere, come la si può far vivere, in un mondo in cui da altri si vuole invece perseguire l'assolutizzazione della guerra e dello sfruttamento, che penetra fin dentro il vivente?
Cosa è il comunismo per te oggi? Spesso abbiamo risposto affidandoci alla formula classica di Marx: «Il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti». Sentiamo qui il senso di un processo, di un divenire e non di un essere. Ma, ti chiedo, si può andare oltre questa formula classica? Il tuo lungo cammino nella storia del movimento operaio e del comunismo italiano cosa ti suggerisce? Noi ci chiamiamo "rifondazione comunista". Rifondazione è una tua ispirazione di sempre, volendo così esprimere la necessità, penso, di una nuova fondazione, di una teoria e di una pratica della trasformazione e della liberazione. In alcune occasioni, tu hai parlato perfino di una insufficienza del termine "rifondazione" perché occorrerebbe andare oltre.
Ecco, caro Pietro, come definiresti oggi i caratteri fondanti di questa ricerca? Cosa chiameresti comunismo?
Perché il partito, ancora? La tua scelta, a novanta anni, di aderire a un partito, al nostro partito, è stato un regalo così grande da essere inaspettato quanto atteso. Mi hanno colpito le ultime parole della lettera che ci hai inviato per annunciare questa decisione. «Riprendo una militanza che è stata così grande parte della mia vita». Sentiamo in questo mondo l'esigenza della comunità, del fatto che, solo assieme ad altri, dandoci la mano in cammino, possiamo pensare di farcela. Camminare insieme e far vivere un progetto. Solo se questo progetto si fa politica, ovvero pervade e si pervade delle coscienze, dei movimenti e attraverso le istituzioni si fa organizzazione collettiva, possiamo farcela. Ma, ti chiedo, cosa significa oggi? Perché proprio il partito? Come lo racconteresti a una ragazza di sedici anni? Come costruiresti con lei questa comunità che chiamiamo partito?
Gli affetti, caro Pietro, hai vissuto con una donna straordinaria che ti è stata compagna di vita. Si chiamava Laura Lombardo Radice. Avete avuto molti figli, tanti nipoti e pronipoti, uno ancora sta per arrivare. Una famiglia grande, un mondo di relazioni e di affetti. Come hanno inciso nelle tue idee e nella tua pratica politica? Che rapporto c'è tra il pubblico e il privato? Il femminismo ci ha molto insegnato. Ma qual è l'insegnamento di una vita come la tua? Che rapporto c'è tra l'amore, gli affetti, la vita nella tua comunità familiare e lo stare dalla parte degli sfruttati, degli ultimi, permetti le parole, della rivoluzione?
Grazie, Pietro e lunga vita. So che in molte e molti potremo continuare a contare su di te.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 29 marzo 2005
Prozac e adolescenti killer
APCOM 25.3.05
USA
ADOLESCENTE KILLER DEL MINNESOTA ERA IN CURA CON PROZAC
Uno dei due assassini di Columbine prendeva la stessa medicina
New York, 25 mar. (Apcom) - Il sedicenne Jeff Weise, autore della strage della Red Lake High School in Minnesota, in cui lunedì hanno perso la vita sette persone, stava seguendo un trattamento antidepressivo a base di Prozac quando ha ucciso suo nonno e la compagna di lui, prima di recarsi a scuola, sparare ai suoi compagni e suicidarsi.
Il fatto che stesse prendendo la stessa medicina anche Eric Harris, uno dei due ragazzi che nell'aprile del 1999 aprirono il fuoco alla Columbine High School, così come Kip Kinkel, il ragazzo che nel 1998 uccise i suoi genitori e i suoi compagni della Thurston High School in Oregon, ha riaperto il dibattito sugli efetti collaterali di questo tipo di farmaci antidepressivi. In tutti e tre i casi, gli adolescenti hanno completato i massacri suicidandosi.
"I ragazzi coinvolti in questi tragici episodi erano malati. Se le medicine fossero in grado di aiutarli o meno è una questione aperta" ha dichiarato al New York Post David Shaffer, professore di psichiatria e pediatria della Columbia University. Secondo il medico non si può però dare tutta la colpa alle medicine. Weise ha compiuto la strage con armi da fuoco prelevate a casa del nonno.
Le indagini sulla sparatoria di Red Lake nel frattempo hanno portato alla luce prove che il ragazzo avrebbe pianificato a lungo la strage. Il giovane, che aveva manifestato tendenze naziste e che su Internet di definiva "l'angelo della morte", avrebbe spedito sul sito TheSmockingGun.com un'animazione computerizzata che mostrava una persona ucciderne altre quattro e poi togliersi la vita. Il filmato lungo 30 secondi aveva il macabro titolo: "Target Practice".
USA
ADOLESCENTE KILLER DEL MINNESOTA ERA IN CURA CON PROZAC
Uno dei due assassini di Columbine prendeva la stessa medicina
New York, 25 mar. (Apcom) - Il sedicenne Jeff Weise, autore della strage della Red Lake High School in Minnesota, in cui lunedì hanno perso la vita sette persone, stava seguendo un trattamento antidepressivo a base di Prozac quando ha ucciso suo nonno e la compagna di lui, prima di recarsi a scuola, sparare ai suoi compagni e suicidarsi.
Il fatto che stesse prendendo la stessa medicina anche Eric Harris, uno dei due ragazzi che nell'aprile del 1999 aprirono il fuoco alla Columbine High School, così come Kip Kinkel, il ragazzo che nel 1998 uccise i suoi genitori e i suoi compagni della Thurston High School in Oregon, ha riaperto il dibattito sugli efetti collaterali di questo tipo di farmaci antidepressivi. In tutti e tre i casi, gli adolescenti hanno completato i massacri suicidandosi.
"I ragazzi coinvolti in questi tragici episodi erano malati. Se le medicine fossero in grado di aiutarli o meno è una questione aperta" ha dichiarato al New York Post David Shaffer, professore di psichiatria e pediatria della Columbia University. Secondo il medico non si può però dare tutta la colpa alle medicine. Weise ha compiuto la strage con armi da fuoco prelevate a casa del nonno.
Le indagini sulla sparatoria di Red Lake nel frattempo hanno portato alla luce prove che il ragazzo avrebbe pianificato a lungo la strage. Il giovane, che aveva manifestato tendenze naziste e che su Internet di definiva "l'angelo della morte", avrebbe spedito sul sito TheSmockingGun.com un'animazione computerizzata che mostrava una persona ucciderne altre quattro e poi togliersi la vita. Il filmato lungo 30 secondi aveva il macabro titolo: "Target Practice".
copyright @ 2005 APCOM
depressione
Intrage.it 28.3.05
Sanità: una strategia contro la depressione
In un incontro interministeriale, svoltosi pochi giorni fa a Palazzo Chigi, si è discusso il Piano strategico di contrasto della depressione in bambini e adolescenti, adulti, anziani e donne in gravidanza. Alla riunione erano presenti i Ministri Girolamo Sirchia, Maurizio Gasparri, Enrico La Loggia e rappresentanti delle Regioni, del mondo della scuola, dell’università, delle società scientifiche di psichiatria, pediatria, neuropsichiatria dell’infanzia e gerontologia, dei medici di medicina generale e del volontariato. Dal punto di vista organizzativo, il Piano si svilupperà in ambito centrale, regionale e locale. I Ministeri (Salute, Istruzione, Welfare e Comunicazioni) dovranno definire il Piano nei suoi particolari, realizzare una campagna informativa, elaborare le Linee guida e mettere a punto un sistema di monitoraggio. Alle Regioni sarà invece affidato il compito di definire, attraverso piani regionali, le reti dei Centri di riferimento. Medici di medicina generale, pediatri, geriatri, dipartimenti di salute mentale (Dsm), consultori pre-parto e Utap (Unità Territoriale di Assistenza Primaria) si occuperanno invece dei programmi di prevenzione, di assistenza primaria, degli screening sui gruppi a rischio e del trattamento dei casi lievi. Un ruolo centrale, in particolare nella prevenzione fra bambini e adolescenti, sarà svolto dalle scuole, che saranno impegnate nel coinvolgimento di insegnanti e famiglie. In Italia sono almeno 1,5 milioni gli adulti che soffrono di depressione, mentre quasi 5 milioni, oltre il 10% della popolazione, ne hanno sofferto almeno una volta nel corso della vita. Sono depressi 6 bambini su mille, mentre le donne sono colpite tre volte più degli uomini.
Sanità: una strategia contro la depressione
In un incontro interministeriale, svoltosi pochi giorni fa a Palazzo Chigi, si è discusso il Piano strategico di contrasto della depressione in bambini e adolescenti, adulti, anziani e donne in gravidanza. Alla riunione erano presenti i Ministri Girolamo Sirchia, Maurizio Gasparri, Enrico La Loggia e rappresentanti delle Regioni, del mondo della scuola, dell’università, delle società scientifiche di psichiatria, pediatria, neuropsichiatria dell’infanzia e gerontologia, dei medici di medicina generale e del volontariato. Dal punto di vista organizzativo, il Piano si svilupperà in ambito centrale, regionale e locale. I Ministeri (Salute, Istruzione, Welfare e Comunicazioni) dovranno definire il Piano nei suoi particolari, realizzare una campagna informativa, elaborare le Linee guida e mettere a punto un sistema di monitoraggio. Alle Regioni sarà invece affidato il compito di definire, attraverso piani regionali, le reti dei Centri di riferimento. Medici di medicina generale, pediatri, geriatri, dipartimenti di salute mentale (Dsm), consultori pre-parto e Utap (Unità Territoriale di Assistenza Primaria) si occuperanno invece dei programmi di prevenzione, di assistenza primaria, degli screening sui gruppi a rischio e del trattamento dei casi lievi. Un ruolo centrale, in particolare nella prevenzione fra bambini e adolescenti, sarà svolto dalle scuole, che saranno impegnate nel coinvolgimento di insegnanti e famiglie. In Italia sono almeno 1,5 milioni gli adulti che soffrono di depressione, mentre quasi 5 milioni, oltre il 10% della popolazione, ne hanno sofferto almeno una volta nel corso della vita. Sono depressi 6 bambini su mille, mentre le donne sono colpite tre volte più degli uomini.
sinistra
un'intervista a Fausto Bertinotti
un articolo ricevuto da Melina Sutton
Repubblica 29.3.05
L'INTERVISTA
Bertinotti: se Berlusconi perde Lazio, Piemonte o Puglia entra in una crisi irreversibile
"A Prodi dico: via il maggioritario e il no alle primarie è un errore"
Firme false. I veleni della campagna elettorale sono anche figli di questo sistema di voto: bisogna cambiare
il programma Dobbiamo metterci al lavoro dopo il voto. Proprio a livello locale vedo la fine della stagione liberista
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA - Segretario Bertinotti, tutti condividono l'appello a fermare i veleni in campagna elettorale. Ma come se ne esce, in concreto?
«Prima di tutto, sottraendosi a questo tipo di confronto. Poi, con una vera opera di bonifica, cioè con una riflessione su questo sistema elettorale e sugli elementi devianti che lo stesso sistema suggerisce».
È deviante anche la presunta raccolta di firme da parte dei partiti della sinistra per far correre la lista Mussolini sperando così di danneggiare il centrodestra?
«Se questa notizia fosse vera, sarebbe un episodio disdicevole, un sacrificio alla logica del "fine giustifica i mezzi" che non condivido. Vede, la riforma della nostra cultura politica nel senso della non violenza ha molte conseguenze, inclusi alcuni comportamenti che producono un sovrappiù di sorveglianza critica sul rapporto mezzi-fini. In poche parole, non è una vittoria quella guadagnata con strumenti che annullano la dignità. Ma quando parlo di bonifica, voglio dire che i frutti avvelenati ci sono già stati prima delle firme false. Penso alle liste civetta, una vicenda molto sottovalutata, che ha prodotto effetti devastanti. Presentare dei partiti fantasma solo per danneggiare un concorrente è già un'alterazione delle regole del gioco. L'allarme è stato lanciato più volte. Ora, per slittamenti progressivi, si è creata una situazione da correggere al più presto».
Come?
«Cambiando il sistema elettorale. Bisogna uscire dal maggioritario che è inadatto al Paese. È un sistema in cui conta soltanto vincere, per cui finisce che il nemico del mio nemico può diventare un mio amico, come nel caso della Mussolini».
Quando metterete sul tavolo la vostra proposta?
«Dopo le politiche del 2006. L'obbiettivo è un sistema proporzionale, sul modello tedesco».
Chiederete a Prodi di inserire questa riforma nel programma dell´Unione?
«No. Non faremo lo stesso errore del centrodestra. Il programma delinea l'azione di governo, non deve occuparsi di correzioni istituzionali. Ma la riflessione è necessaria».
Le elezioni di domenica prossima sono un test politico?
«Il loro significato nazionale è indotto. Nel voto regionale è certamente forte la domanda politica del "cambio" per usare il termine che ha avuto successo in Spagna e in Portogallo. Cioè, cacciare Berlusconi. Ma sento anche un'altra richiesta urgente: ricostruire il peso del potere locale come antidoto all´incertezza, che è il tratto dominante del nostro tempo. Mai una campagna elettorale è stata così segnata dal problema della precarietà. Spaventa l'idea che attraverso la delocalizzazione e l'internazionalizzazione passiva si possano risolvere le questioni aperte. Penso al finanziere russo che arriva e si compra la Lucchini, alla vicenda di Terni, al calzaturificio pugliese che sta per trasferire la produzione in Cina. L'economia scarica i suoi problemi sulla società e crea una condizione d'incertezza. In questo clima, il potere locale appare come un possibile ancoraggio, c'è una fortissima domanda di valorizzazione del governo sul territorio. Nel Sud, per esempio, c'è qualche timido tentativo di sottrarsi alle politiche neoliberiste. Sono piccoli episodi, ma hanno voglia di crescere. Io uso uno slogan: lì dove una volta si scriveva "comune denuclearizzato" scriviamo "regione de-precarizzata"».
Il voto non è condizionato dalle vicende nazionali e dalle risse?
«Non credo. Quello che si muove sul fondo è più potente della superficie che tutti vediamo».
Si conteranno i voti o le regioni, per capire chi ha vinto?
«Il test è molto ampio, quindi conteranno le percentuali, i voti. È importante anche vedere quante regioni conquisterà l'Unione, oltre a quelle che ha già e in cui sarà sicuramente confermata. Più ne strappa, più è un successo».
Otto a sei è un successo?
«Se Berlusconi perde il Lazio o il Piemonte o la Puglia, cioè le regioni in cui parte avvantaggiato, allora per lui è una vera rotta».
E dovrebbe dimettersi?
«Ho militato fin dall'inizio nel partito della caduta anticipata di Berlusconi. Non si è realizzata per mancanza di determinazione e per scelte politiche sbagliate. Ma ora siamo a un anno dalle politiche, non penso a un precipitare degli eventi. Però se si verifica il "cambio" in una di quelle tre regioni, Berlusconi cercherà una caratterizzazione estrema, iper-ideologica, della sua politica. Proverà a ripetere l'operazione potente di Bush, ma è una carta francamente debole perché Bush è al centro dell'impero e ha usato la guerra come una corazza per gli Stati uniti, noi invece siamo alla periferia e sulla guerra si pagherà un prezzo, è stato un pessimo investimento. Giocherà forse la carta della nuova Costituzione rivendicando l'introduzione del premierato, di un governo messo al riparo dall'influenza dei canali democratici, dei movimenti. Ma è un'arma spuntata per la campagna elettorale, può valere solo se vincono nel 2006. L'ultima carta è quella economica, le tasse. Beh, non funziona, in questa campagna elettorale non ha prodotto nemmeno un effetto demagogico. Se le regionali vanno come abbiamo detto, l'insuccesso politico si sommerebbe alle conseguenze delle riforme di Berlusconi e per lui la sconfitta nel 2006 diventa un dato irreversibile».
Dopo le regionali, l'Unione affronterà il programma per le politiche?
«Certo. E quello che emerge dalle regioni può fare la sua parte accanto alle mille consultazioni della Fabbrica del programma. Specialmente al Sud, è sentita con grande forza la lotta dei diritti: il salario sociale, il reddito di cittadinanza. E la valorizzazione del patrimonio artistico e ambientale, l'intervento pubblico visto non come una superfetazione ideologica ma come la difesa dei beni comuni, l'acqua per esempio, il tema della programmazione. A livello locale si vede bene la fine della stagione neoliberista».
Dopo le regionali, si riapre anche la partita delle primarie nell'Unione. È vero che stanno tramontando?
«Per un gentlemen agreement mi sono attenuto alla consegna di sospendere la discussione in queste ultime settimane. Le primarie non le ho proposte io, non appartengono alla mia cultura. Ma attenzione: nel mondo sta emergendo una domanda che si chiama democrazia. E la Puglia è stato un episodio di rinascenza democratica. Ne discuteremo al momento opportuno, ma perché privarsi delle primarie?».
Repubblica 29.3.05
L'INTERVISTA
Bertinotti: se Berlusconi perde Lazio, Piemonte o Puglia entra in una crisi irreversibile
"A Prodi dico: via il maggioritario e il no alle primarie è un errore"
Firme false. I veleni della campagna elettorale sono anche figli di questo sistema di voto: bisogna cambiare
il programma Dobbiamo metterci al lavoro dopo il voto. Proprio a livello locale vedo la fine della stagione liberista
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA - Segretario Bertinotti, tutti condividono l'appello a fermare i veleni in campagna elettorale. Ma come se ne esce, in concreto?
«Prima di tutto, sottraendosi a questo tipo di confronto. Poi, con una vera opera di bonifica, cioè con una riflessione su questo sistema elettorale e sugli elementi devianti che lo stesso sistema suggerisce».
È deviante anche la presunta raccolta di firme da parte dei partiti della sinistra per far correre la lista Mussolini sperando così di danneggiare il centrodestra?
«Se questa notizia fosse vera, sarebbe un episodio disdicevole, un sacrificio alla logica del "fine giustifica i mezzi" che non condivido. Vede, la riforma della nostra cultura politica nel senso della non violenza ha molte conseguenze, inclusi alcuni comportamenti che producono un sovrappiù di sorveglianza critica sul rapporto mezzi-fini. In poche parole, non è una vittoria quella guadagnata con strumenti che annullano la dignità. Ma quando parlo di bonifica, voglio dire che i frutti avvelenati ci sono già stati prima delle firme false. Penso alle liste civetta, una vicenda molto sottovalutata, che ha prodotto effetti devastanti. Presentare dei partiti fantasma solo per danneggiare un concorrente è già un'alterazione delle regole del gioco. L'allarme è stato lanciato più volte. Ora, per slittamenti progressivi, si è creata una situazione da correggere al più presto».
Come?
«Cambiando il sistema elettorale. Bisogna uscire dal maggioritario che è inadatto al Paese. È un sistema in cui conta soltanto vincere, per cui finisce che il nemico del mio nemico può diventare un mio amico, come nel caso della Mussolini».
Quando metterete sul tavolo la vostra proposta?
«Dopo le politiche del 2006. L'obbiettivo è un sistema proporzionale, sul modello tedesco».
Chiederete a Prodi di inserire questa riforma nel programma dell´Unione?
«No. Non faremo lo stesso errore del centrodestra. Il programma delinea l'azione di governo, non deve occuparsi di correzioni istituzionali. Ma la riflessione è necessaria».
Le elezioni di domenica prossima sono un test politico?
«Il loro significato nazionale è indotto. Nel voto regionale è certamente forte la domanda politica del "cambio" per usare il termine che ha avuto successo in Spagna e in Portogallo. Cioè, cacciare Berlusconi. Ma sento anche un'altra richiesta urgente: ricostruire il peso del potere locale come antidoto all´incertezza, che è il tratto dominante del nostro tempo. Mai una campagna elettorale è stata così segnata dal problema della precarietà. Spaventa l'idea che attraverso la delocalizzazione e l'internazionalizzazione passiva si possano risolvere le questioni aperte. Penso al finanziere russo che arriva e si compra la Lucchini, alla vicenda di Terni, al calzaturificio pugliese che sta per trasferire la produzione in Cina. L'economia scarica i suoi problemi sulla società e crea una condizione d'incertezza. In questo clima, il potere locale appare come un possibile ancoraggio, c'è una fortissima domanda di valorizzazione del governo sul territorio. Nel Sud, per esempio, c'è qualche timido tentativo di sottrarsi alle politiche neoliberiste. Sono piccoli episodi, ma hanno voglia di crescere. Io uso uno slogan: lì dove una volta si scriveva "comune denuclearizzato" scriviamo "regione de-precarizzata"».
Il voto non è condizionato dalle vicende nazionali e dalle risse?
«Non credo. Quello che si muove sul fondo è più potente della superficie che tutti vediamo».
Si conteranno i voti o le regioni, per capire chi ha vinto?
«Il test è molto ampio, quindi conteranno le percentuali, i voti. È importante anche vedere quante regioni conquisterà l'Unione, oltre a quelle che ha già e in cui sarà sicuramente confermata. Più ne strappa, più è un successo».
Otto a sei è un successo?
«Se Berlusconi perde il Lazio o il Piemonte o la Puglia, cioè le regioni in cui parte avvantaggiato, allora per lui è una vera rotta».
E dovrebbe dimettersi?
«Ho militato fin dall'inizio nel partito della caduta anticipata di Berlusconi. Non si è realizzata per mancanza di determinazione e per scelte politiche sbagliate. Ma ora siamo a un anno dalle politiche, non penso a un precipitare degli eventi. Però se si verifica il "cambio" in una di quelle tre regioni, Berlusconi cercherà una caratterizzazione estrema, iper-ideologica, della sua politica. Proverà a ripetere l'operazione potente di Bush, ma è una carta francamente debole perché Bush è al centro dell'impero e ha usato la guerra come una corazza per gli Stati uniti, noi invece siamo alla periferia e sulla guerra si pagherà un prezzo, è stato un pessimo investimento. Giocherà forse la carta della nuova Costituzione rivendicando l'introduzione del premierato, di un governo messo al riparo dall'influenza dei canali democratici, dei movimenti. Ma è un'arma spuntata per la campagna elettorale, può valere solo se vincono nel 2006. L'ultima carta è quella economica, le tasse. Beh, non funziona, in questa campagna elettorale non ha prodotto nemmeno un effetto demagogico. Se le regionali vanno come abbiamo detto, l'insuccesso politico si sommerebbe alle conseguenze delle riforme di Berlusconi e per lui la sconfitta nel 2006 diventa un dato irreversibile».
Dopo le regionali, l'Unione affronterà il programma per le politiche?
«Certo. E quello che emerge dalle regioni può fare la sua parte accanto alle mille consultazioni della Fabbrica del programma. Specialmente al Sud, è sentita con grande forza la lotta dei diritti: il salario sociale, il reddito di cittadinanza. E la valorizzazione del patrimonio artistico e ambientale, l'intervento pubblico visto non come una superfetazione ideologica ma come la difesa dei beni comuni, l'acqua per esempio, il tema della programmazione. A livello locale si vede bene la fine della stagione neoliberista».
Dopo le regionali, si riapre anche la partita delle primarie nell'Unione. È vero che stanno tramontando?
«Per un gentlemen agreement mi sono attenuto alla consegna di sospendere la discussione in queste ultime settimane. Le primarie non le ho proposte io, non appartengono alla mia cultura. Ma attenzione: nel mondo sta emergendo una domanda che si chiama democrazia. E la Puglia è stato un episodio di rinascenza democratica. Ne discuteremo al momento opportuno, ma perché privarsi delle primarie?».
Lucia Annunziata sulla Stampa
il compleanno di Ingrao
La Stampa 29.3.05
DOMANI LA SINISTRA FESTEGGERÀ UNO DEI SUOI GRANDI PROTAGONISTI
I 90 anni di Ingrao, l’uomo del no alle soluzioni facili
di Lucia Annunziata
FA novanta anni l'uomo definito - semplicemente - «il più rappresentativo della sinistra e della democrazia italiana», Pietro Ingrao, e la sinistra si prepara a festeggiarlo, domani, con il cerimoniale delle occasioni speciali. Il sindaco Veltroni, la sinistra che lo ha amato e quella che lo ha combattuto si riuniranno nel principale foro laico della Capitale, l'Auditorium, per le celebrazioni. Fra i presenti vi saranno appunto coloro - Rossanda e Castellina, fra gli altri - che Ingrao contribuì a far espellere dal Pci, nel 1969; e si attende una impressionante presenza di tutta la classe dirigente che quel Pci prima e oggi i Ds ha animato.
E tuttavia, nonostante la vicinanza delle elezioni e le necessarie esagerazioni di tutti i compleanni, in particolare se quasi secolari, è probabile che non ci troveremo davanti a una rimpatriata. Il segno di Pietro Ingrao è da anni quello di una forte malinconia - a volte ironica, a volte disperata, quasi sempre severa - che ragiona sulla politica, e soprattutto sulla sua utilità e inutilità. E' più probabile così che dalla serata la sinistra che vi si è ritrovata esca con più dubbi che certezze su se stessa - il che trasformerebbe, davvero, una autocelebrazione (sia pur estremamente onorevole) in un vero evento.
Scrivo questo non per divinazione, ovviamente, ma perché in qualche modo il copione della serata c'è già, e ruota intorno a una lettera che lo stesso Ingrao scrisse nel 1992. La missiva sarà letta da Luca Zingaretti e sarà la parte centrale della serata. Costruita com'è in una piccola corrispondenza privata, fra lo stesso Ingrao e Goffredo Bettini, a lungo dirigente del partito comunista e ora dei Ds, raccolta in un volume per questa occasione. («Una lettera di Pietro Ingrao con una risposta di Goffredo Bettini», Edizioni Cadmo)
La raccolta di lettere, così brevi, - un pezzo di Bettini che commentava l'addio di Ingrao al Parlamento nel 1992, la risposta di Ingrao, e una nota di oggi di Bettini - è un gesto molto autoreferenziale. Ma è valsa la pena di farlo perché vi è dentro una sorta di percorso archeologico della sinistra: chi l’ha attraversata, o anche solo frequentata, vi ritrova il gergo e i suoi rimandi, che così tanto ancora implicano nel dibattito dei nostri giorni dentro questa area politica.
Non potrebbe essere più attuale infatti il tema che pone Ingrao al giovane Bettini: l'uso del termine «morale». «Io ho sempre molte esitazioni ad adoperare questo termine: perché io non sono in consonanza con un certo "eticismo": il "dover essere" mi sembra che contenga una astrazione; e io credo molto in una corporeità della vita; credo nelle passioni vitali che ci scuotono e che ci segnano». Come si vede, sono ancora questi i termini dei dilemmi attuali della classe politica della sinistra - fra radicalismo autorizzato dal senso «etico» della politica, e «tatticismo» frutto di una concezione gestionale della politica. La soluzione che Ingrao ne offre tuttavia - e queste righe basterebbero a dimostrarlo - è che non esiste la differenza: se l'etica deve porsi come fatto astratto diventa «eticismo», ed è la vita invece, con i suoi bisogni obbligati a misurarsi con gli altri, a dettare il passo della realtà. Una soluzione «altra» si direbbe - per usare un termine che Ingrao stesso usa spesso. In un altro passaggio scrive infatti «a me interessa nella politica anche l'aspetto "tattico"» per affrettarsi a dire «...(mi capisci: non nel senso furbesco)» e spiegare cosa intende per tattica: «Mi interessano i passaggi "quotidiani": quante volte sono tentato di impicciarmi!».
E' un Ingrao, come si diceva, senza soluzioni facili - dubitativo, incline a non formulare politica, ma politiche. Favorevole alle scelte, ma - proprio lui divenuto vate di letture iperideologiche della sinistra - senza dettami, solo con navigazione a vista. Il meglio, in altri termini, della tradizione che rappresenta. Non a caso, forse, Bettini gli risponde: «Tu non sai quanto di fronte a ciò, a questa necessità di buona politica io avverta l'insufficienza mia e delle classi dirigenti dell'oggi. Di questa marmellata a ciclo continuo di frasi fatte, di telefonini che squillano, di autocelebrazioni mediatiche, di pubbliche relazioni senza contenuto che sono tanta parte della pratica politica che ha lambito anche noi».
DOMANI LA SINISTRA FESTEGGERÀ UNO DEI SUOI GRANDI PROTAGONISTI
I 90 anni di Ingrao, l’uomo del no alle soluzioni facili
di Lucia Annunziata
FA novanta anni l'uomo definito - semplicemente - «il più rappresentativo della sinistra e della democrazia italiana», Pietro Ingrao, e la sinistra si prepara a festeggiarlo, domani, con il cerimoniale delle occasioni speciali. Il sindaco Veltroni, la sinistra che lo ha amato e quella che lo ha combattuto si riuniranno nel principale foro laico della Capitale, l'Auditorium, per le celebrazioni. Fra i presenti vi saranno appunto coloro - Rossanda e Castellina, fra gli altri - che Ingrao contribuì a far espellere dal Pci, nel 1969; e si attende una impressionante presenza di tutta la classe dirigente che quel Pci prima e oggi i Ds ha animato.
E tuttavia, nonostante la vicinanza delle elezioni e le necessarie esagerazioni di tutti i compleanni, in particolare se quasi secolari, è probabile che non ci troveremo davanti a una rimpatriata. Il segno di Pietro Ingrao è da anni quello di una forte malinconia - a volte ironica, a volte disperata, quasi sempre severa - che ragiona sulla politica, e soprattutto sulla sua utilità e inutilità. E' più probabile così che dalla serata la sinistra che vi si è ritrovata esca con più dubbi che certezze su se stessa - il che trasformerebbe, davvero, una autocelebrazione (sia pur estremamente onorevole) in un vero evento.
Scrivo questo non per divinazione, ovviamente, ma perché in qualche modo il copione della serata c'è già, e ruota intorno a una lettera che lo stesso Ingrao scrisse nel 1992. La missiva sarà letta da Luca Zingaretti e sarà la parte centrale della serata. Costruita com'è in una piccola corrispondenza privata, fra lo stesso Ingrao e Goffredo Bettini, a lungo dirigente del partito comunista e ora dei Ds, raccolta in un volume per questa occasione. («Una lettera di Pietro Ingrao con una risposta di Goffredo Bettini», Edizioni Cadmo)
La raccolta di lettere, così brevi, - un pezzo di Bettini che commentava l'addio di Ingrao al Parlamento nel 1992, la risposta di Ingrao, e una nota di oggi di Bettini - è un gesto molto autoreferenziale. Ma è valsa la pena di farlo perché vi è dentro una sorta di percorso archeologico della sinistra: chi l’ha attraversata, o anche solo frequentata, vi ritrova il gergo e i suoi rimandi, che così tanto ancora implicano nel dibattito dei nostri giorni dentro questa area politica.
Non potrebbe essere più attuale infatti il tema che pone Ingrao al giovane Bettini: l'uso del termine «morale». «Io ho sempre molte esitazioni ad adoperare questo termine: perché io non sono in consonanza con un certo "eticismo": il "dover essere" mi sembra che contenga una astrazione; e io credo molto in una corporeità della vita; credo nelle passioni vitali che ci scuotono e che ci segnano». Come si vede, sono ancora questi i termini dei dilemmi attuali della classe politica della sinistra - fra radicalismo autorizzato dal senso «etico» della politica, e «tatticismo» frutto di una concezione gestionale della politica. La soluzione che Ingrao ne offre tuttavia - e queste righe basterebbero a dimostrarlo - è che non esiste la differenza: se l'etica deve porsi come fatto astratto diventa «eticismo», ed è la vita invece, con i suoi bisogni obbligati a misurarsi con gli altri, a dettare il passo della realtà. Una soluzione «altra» si direbbe - per usare un termine che Ingrao stesso usa spesso. In un altro passaggio scrive infatti «a me interessa nella politica anche l'aspetto "tattico"» per affrettarsi a dire «...(mi capisci: non nel senso furbesco)» e spiegare cosa intende per tattica: «Mi interessano i passaggi "quotidiani": quante volte sono tentato di impicciarmi!».
E' un Ingrao, come si diceva, senza soluzioni facili - dubitativo, incline a non formulare politica, ma politiche. Favorevole alle scelte, ma - proprio lui divenuto vate di letture iperideologiche della sinistra - senza dettami, solo con navigazione a vista. Il meglio, in altri termini, della tradizione che rappresenta. Non a caso, forse, Bettini gli risponde: «Tu non sai quanto di fronte a ciò, a questa necessità di buona politica io avverta l'insufficienza mia e delle classi dirigenti dell'oggi. Di questa marmellata a ciclo continuo di frasi fatte, di telefonini che squillano, di autocelebrazioni mediatiche, di pubbliche relazioni senza contenuto che sono tanta parte della pratica politica che ha lambito anche noi».
storia
il Museo di Lettere e Manoscritti di Parigi
L'Unità 29 Marzo 2005
«Missione compiuta», firmato Eisenhower
C’è anche il messaggio che annunciava la capitolazione tedesca nel Museo di Lettere e Manoscritti di Parigi
Anna Tito
È davvero suggestivo il neonato Musée des Lettres et Manuscrits di Parigi: si presenta, con un gioco di parole, come Lettres d’histoire. Histoires de l’être (Lettere di storia, storia dell’essere) in splendidi locali, con soffitti «alla francese», pavimento in marmo rosso. Su tre piani, per complessivi 600 metri quadrati di un hotel particulier edificato sul finire del sedicesimo secolo nel cuore del Quartiere latino, al numero 6 della poco nota e discreta Rue de Nesle, si trovano esposti duecentocinquanta manoscritti rari provenienti dalle più svariate collezioni, in gran parte private: scritti autografi di letterati, artisti, uomini di Stato, scienziati, da Carlo Quinto a Isaac Newton e a Robespierre, da Garibaldi a Churchill, da Beethoven a Edith Piaf e a Louis de Funés, il tutto in ordine rigorosamente cronologico. Si è scelta una scenografia moderna: vetrine tematiche, «fredde» allestite su vecchi muri di pietra, e poco illuminate per proteggere da una luce troppo violenta i fragilissimi documenti originali.
«Nelle lettere di un uomo vanno ricercate, più che in tutte le sue opere, l’impronta del suo cuore e le tracce della sua vita», per dirla con Victor Hugo, anch’esso presente nel Museo con più missive. In una, firmata con l’attrice Juliette Drouet, amante di una vita, nel 1868, dal ventennale esilio di Guernesey: scrive al prefetto Guay «non collaborerò con nessun giornale fino a che non sarà ripristinata la libertà di stampa», in riferimento all’odiatissimo Napoleone III. Quanto a Juliette, afferma che «gli (al prefetto) stringerò la mano non appena il colpo di Stato del 1851 raccoglierà quanto ha seminato». Ma certamente all’insaputa dell’amante il poeta indirizza un omaggio a una misteriosa dama: «Mi è sembrato che in questa lettera tenera, triste e deliziosa abbiate messo il mio cuore tutto (…) Esistono cose che dovete lasciare fra la vostra anima e Dio, e l’adorabile significa a volte l’impenetrabile. Bacio le vostre ali».
Compare, al piano terra, la lettera autografa di Albert Einstein con la versione definitiva della teoria della relatività generale - pubblicata nel 1915 -, fiore all’occhiello della mostra: intorno a poufs rossi di un gusto a dir poco kitsch, si trova esposto lo straordinario manoscritto, preceduto da calcoli e annotazioni che ci mostrano il metodo con il quale lo scienziato è giunto alla teoria vera e propria. È noto un solo altro manoscritto di Einstein concernente la teoria: il bloc notes di Zurigo conservato all’Università di Gerusalemme.
Quanto all’originale dell’ordine «top secret» di cessate-il-fuoco in vista della capitolazione da parte dei tedeschi firmato il 7 maggio del 1945 dal generale Eisenhower che segnò la fine, in Europa, della Seconda guerra mondiale - «La missione delle forze alleate è stata compiuta alle ore 2 e 41, ora locale» - troneggia in una bacheca posta al centro della sala d’ingresso. De Gaulle confida, già nel 1934, all’amico Jean Aubertin il proprio disappunto di fronte al conservatorismo degli uomini politici, incapaci di comprendere l’importanza strategica dei blindati, importanza che, ahimé, non sfuggì ai nazisti…
Gli appassionati di letteratura vi ritrovano tutti i grandi, da Voltaire fino ad Albert Camus, passando per i testi autografi di Johann Wolgang von Goethe, i manifesti di Zola e di Sartre o le poesie di Paul Verlaine: di quest’ultimo vediamo esposta, indirizzata all’altro «poeta maledetto» Charles Baudelaire, ritenuto da Verlaine «il più grande dei poeti», una missiva in cui gli dedica i versi: «Non ti ho conosciuto, non ti ho amato; non ti conosco e non ti amo…». Leone Tolstoï scriveva invece del norvegese Biornson all’amica Madame Brummer: «È fra gli autori contemporanei che più ammiro, e la lettura di ciascuna delle sue opere mi apre nuovi orizzonti». Biornson ricevette il Premio Nobel nel 1903.
Passando all’intimità dei «grandi» ci soffermiamo davanti alla lettera di Mozart che tratta della sua ultima composizione nonché della scomparsa del suo «beneamato padre»; in una missiva, in cirillico, la Grande Caterina di Russia si congratula con Carlo Emanuele II della nascita della nipotina Cristina, futura regina di Sassonia, ribadendo una «vera e propria amicizia», e «una stima distinta fra i due casati principeschi». Una presentazione del movimento surrealista, del 1933, ci viene da Salvador Dalì che esprime così la propria visione dell’arte e del bello: «La bellezza sarà commestibile o non sarà affatto».
Viene a concludere la mostra la sezione «Dalla nascita della prima posta aerea all’Aeropostale» con, fra gli altri, il documento originale della creazione della prima Compagnia aeropostale francese, firmato il 18 agosto 1870 da Nadar, Dartois e Duruof: Parigi assediata si trovava nell’impossibilità di comunicare e Félix Tournachon, detto Nadar, né militare, né tantomeno politico, ma piuttosto scrittore, artista, inventore e grande fotografo nonché amico di Jules Verne con il quale condivideva la passione per la ricerca sulla navigazione aerea, creò nel suo laboratorio in Boulevard des Capucines la Compagnia generale aerostatica e dell’autolocomozione aerea, consigliando al nuovo governatore l’utilizzo delle «mongolfiere» per «forzare il blocco» e comunicare con la provincia e con l’esercito.
La mongolfiera intitolata a Victor Hugo partì verso le 12 del 18 ottobre del 1870 dal giardino delle Tuileries. E in una lettera autografa, pezzo unico fra i più importanti della collezione, il poeta in esilio invia il proprio augurio: «Sono felice di stare al centro di questo superbo pericolo. La Francia si salverà, non dubitatene, e si salverà da sola, senza intervento straniero alcuno. Ed è questo il bello. Victor Hugo».
«Missione compiuta», firmato Eisenhower
C’è anche il messaggio che annunciava la capitolazione tedesca nel Museo di Lettere e Manoscritti di Parigi
Anna Tito
È davvero suggestivo il neonato Musée des Lettres et Manuscrits di Parigi: si presenta, con un gioco di parole, come Lettres d’histoire. Histoires de l’être (Lettere di storia, storia dell’essere) in splendidi locali, con soffitti «alla francese», pavimento in marmo rosso. Su tre piani, per complessivi 600 metri quadrati di un hotel particulier edificato sul finire del sedicesimo secolo nel cuore del Quartiere latino, al numero 6 della poco nota e discreta Rue de Nesle, si trovano esposti duecentocinquanta manoscritti rari provenienti dalle più svariate collezioni, in gran parte private: scritti autografi di letterati, artisti, uomini di Stato, scienziati, da Carlo Quinto a Isaac Newton e a Robespierre, da Garibaldi a Churchill, da Beethoven a Edith Piaf e a Louis de Funés, il tutto in ordine rigorosamente cronologico. Si è scelta una scenografia moderna: vetrine tematiche, «fredde» allestite su vecchi muri di pietra, e poco illuminate per proteggere da una luce troppo violenta i fragilissimi documenti originali.
«Nelle lettere di un uomo vanno ricercate, più che in tutte le sue opere, l’impronta del suo cuore e le tracce della sua vita», per dirla con Victor Hugo, anch’esso presente nel Museo con più missive. In una, firmata con l’attrice Juliette Drouet, amante di una vita, nel 1868, dal ventennale esilio di Guernesey: scrive al prefetto Guay «non collaborerò con nessun giornale fino a che non sarà ripristinata la libertà di stampa», in riferimento all’odiatissimo Napoleone III. Quanto a Juliette, afferma che «gli (al prefetto) stringerò la mano non appena il colpo di Stato del 1851 raccoglierà quanto ha seminato». Ma certamente all’insaputa dell’amante il poeta indirizza un omaggio a una misteriosa dama: «Mi è sembrato che in questa lettera tenera, triste e deliziosa abbiate messo il mio cuore tutto (…) Esistono cose che dovete lasciare fra la vostra anima e Dio, e l’adorabile significa a volte l’impenetrabile. Bacio le vostre ali».
Compare, al piano terra, la lettera autografa di Albert Einstein con la versione definitiva della teoria della relatività generale - pubblicata nel 1915 -, fiore all’occhiello della mostra: intorno a poufs rossi di un gusto a dir poco kitsch, si trova esposto lo straordinario manoscritto, preceduto da calcoli e annotazioni che ci mostrano il metodo con il quale lo scienziato è giunto alla teoria vera e propria. È noto un solo altro manoscritto di Einstein concernente la teoria: il bloc notes di Zurigo conservato all’Università di Gerusalemme.
Quanto all’originale dell’ordine «top secret» di cessate-il-fuoco in vista della capitolazione da parte dei tedeschi firmato il 7 maggio del 1945 dal generale Eisenhower che segnò la fine, in Europa, della Seconda guerra mondiale - «La missione delle forze alleate è stata compiuta alle ore 2 e 41, ora locale» - troneggia in una bacheca posta al centro della sala d’ingresso. De Gaulle confida, già nel 1934, all’amico Jean Aubertin il proprio disappunto di fronte al conservatorismo degli uomini politici, incapaci di comprendere l’importanza strategica dei blindati, importanza che, ahimé, non sfuggì ai nazisti…
Gli appassionati di letteratura vi ritrovano tutti i grandi, da Voltaire fino ad Albert Camus, passando per i testi autografi di Johann Wolgang von Goethe, i manifesti di Zola e di Sartre o le poesie di Paul Verlaine: di quest’ultimo vediamo esposta, indirizzata all’altro «poeta maledetto» Charles Baudelaire, ritenuto da Verlaine «il più grande dei poeti», una missiva in cui gli dedica i versi: «Non ti ho conosciuto, non ti ho amato; non ti conosco e non ti amo…». Leone Tolstoï scriveva invece del norvegese Biornson all’amica Madame Brummer: «È fra gli autori contemporanei che più ammiro, e la lettura di ciascuna delle sue opere mi apre nuovi orizzonti». Biornson ricevette il Premio Nobel nel 1903.
Passando all’intimità dei «grandi» ci soffermiamo davanti alla lettera di Mozart che tratta della sua ultima composizione nonché della scomparsa del suo «beneamato padre»; in una missiva, in cirillico, la Grande Caterina di Russia si congratula con Carlo Emanuele II della nascita della nipotina Cristina, futura regina di Sassonia, ribadendo una «vera e propria amicizia», e «una stima distinta fra i due casati principeschi». Una presentazione del movimento surrealista, del 1933, ci viene da Salvador Dalì che esprime così la propria visione dell’arte e del bello: «La bellezza sarà commestibile o non sarà affatto».
Viene a concludere la mostra la sezione «Dalla nascita della prima posta aerea all’Aeropostale» con, fra gli altri, il documento originale della creazione della prima Compagnia aeropostale francese, firmato il 18 agosto 1870 da Nadar, Dartois e Duruof: Parigi assediata si trovava nell’impossibilità di comunicare e Félix Tournachon, detto Nadar, né militare, né tantomeno politico, ma piuttosto scrittore, artista, inventore e grande fotografo nonché amico di Jules Verne con il quale condivideva la passione per la ricerca sulla navigazione aerea, creò nel suo laboratorio in Boulevard des Capucines la Compagnia generale aerostatica e dell’autolocomozione aerea, consigliando al nuovo governatore l’utilizzo delle «mongolfiere» per «forzare il blocco» e comunicare con la provincia e con l’esercito.
La mongolfiera intitolata a Victor Hugo partì verso le 12 del 18 ottobre del 1870 dal giardino delle Tuileries. E in una lettera autografa, pezzo unico fra i più importanti della collezione, il poeta in esilio invia il proprio augurio: «Sono felice di stare al centro di questo superbo pericolo. La Francia si salverà, non dubitatene, e si salverà da sola, senza intervento straniero alcuno. Ed è questo il bello. Victor Hugo».
persino negli Usa...
Giornale di Brescia 29.3.05
Negli Usa verso uno scontro sulle staminali
NEI PROSSIMI MESI LA QUESTIONE SARÀ DIBATTUTA ALLA CAMERA AMERICANA
WASHINGTON - Si profila la prossima battaglia morale, religiosa e scientifica negli Stati Uniti sul mistero dell’inizio e della fine della vita: i leader repubblicani della Camera hanno deciso di consentire nei prossimi mesi un voto in aula sulla questione bollente della politica che regola le ricerche sulle cellule staminali embrionali. Dopo la guerra intestina nella società e nel mondo politico americano sulla vicenda di Terri Schiavo, tra due o tre mesi sarà messo ai voti in Parlamento un disegno di legge diretto ad allentare le drastiche restrizioni fissate dal presidente Bush nel 2001 sull’uso delle cellule staminali. Un allentamento delle norme varate da Bush è voluto dai Democratici e dai Repubblicani moderati. Stando alla norma in vigore, le ricerche finanziate dal Governo possono essere effettuate soltanto sulle 60 colonie, o linee, che si presume esistessero in agosto del 2001. La decisione di mettere in calendario il voto sul disegno di legge è stata presa la settimana scorsa dal presidente della Camera, Hastert , e dal capo della maggioranza repubblicana, Blunt, e dal suo vice Cantor.
Negli Usa verso uno scontro sulle staminali
NEI PROSSIMI MESI LA QUESTIONE SARÀ DIBATTUTA ALLA CAMERA AMERICANA
WASHINGTON - Si profila la prossima battaglia morale, religiosa e scientifica negli Stati Uniti sul mistero dell’inizio e della fine della vita: i leader repubblicani della Camera hanno deciso di consentire nei prossimi mesi un voto in aula sulla questione bollente della politica che regola le ricerche sulle cellule staminali embrionali. Dopo la guerra intestina nella società e nel mondo politico americano sulla vicenda di Terri Schiavo, tra due o tre mesi sarà messo ai voti in Parlamento un disegno di legge diretto ad allentare le drastiche restrizioni fissate dal presidente Bush nel 2001 sull’uso delle cellule staminali. Un allentamento delle norme varate da Bush è voluto dai Democratici e dai Repubblicani moderati. Stando alla norma in vigore, le ricerche finanziate dal Governo possono essere effettuate soltanto sulle 60 colonie, o linee, che si presume esistessero in agosto del 2001. La decisione di mettere in calendario il voto sul disegno di legge è stata presa la settimana scorsa dal presidente della Camera, Hastert , e dal capo della maggioranza repubblicana, Blunt, e dal suo vice Cantor.
al Parlamento europeo...
Tempo Medico on line 29 marzo 2005
Ricerca in pericolo al Parlamento europeo
All'interno di una risoluzione recentemente adottata si chiede di non utilizzare i fondi per la ricerca sulle staminali embrionali
di Donatella Poretti - Tempo Medico n. 791
L'ultimo atto di una lunga vicenda che vede il Parlamento europeo alle prese con la ricerca scientifica e con le staminali risale al 10 marzo.
Arriva al voto una risoluzione comune sul commercio di ovociti umani. Nel testo iniziale si rammenta che la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione "sancisce il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro", e si ricorda alla Commissione la direttiva 2004/23/CE che prescrive che gli stati membri si adoperino per garantire donazioni volontarie e gratuite di tessuti e cellule. Lo spunto era offerto da alcune notizie di cronaca sul commercio di ovociti dalla clinica rumena Global Arts verso la Gran Bretagna.
La risoluzione viene adottata, ma la notizia è un'altra: l'aggiunta di un emendamento in cui si chiede alla Commissione di non finanziare con fondi comunitari la ricerca sulle cellule staminali embrionali e di concentrare il denaro su quelle somatiche e del cordone ombelicale.
"Questo voto minaccia la ricerca europea sulle cellule staminali" è il durissimo commento dell'europarlamentare liberale belga Frédérique Ries. "Sotto il pretesto di lottare contro lo sfruttamento delle donne e per l'inalienabilità del corpo umano, il testo mira a tutt'altro obiettivo: proibire direttamente o indirettamente la ricerca sulle cellule staminali embrionali e la clonazione terapeutica. E' un segnale disastroso inviato alle coppie in attesa di una donazione, ma anche alle centinaia di migliaia di pazienti in Europa che puntano sulla ricerca le loro speranze di guarigione dal diabete, dal morbo di Parkinson o di Alzheimer".
Ricerca in pericolo al Parlamento europeo
All'interno di una risoluzione recentemente adottata si chiede di non utilizzare i fondi per la ricerca sulle staminali embrionali
di Donatella Poretti - Tempo Medico n. 791
L'ultimo atto di una lunga vicenda che vede il Parlamento europeo alle prese con la ricerca scientifica e con le staminali risale al 10 marzo.
Arriva al voto una risoluzione comune sul commercio di ovociti umani. Nel testo iniziale si rammenta che la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione "sancisce il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro", e si ricorda alla Commissione la direttiva 2004/23/CE che prescrive che gli stati membri si adoperino per garantire donazioni volontarie e gratuite di tessuti e cellule. Lo spunto era offerto da alcune notizie di cronaca sul commercio di ovociti dalla clinica rumena Global Arts verso la Gran Bretagna.
La risoluzione viene adottata, ma la notizia è un'altra: l'aggiunta di un emendamento in cui si chiede alla Commissione di non finanziare con fondi comunitari la ricerca sulle cellule staminali embrionali e di concentrare il denaro su quelle somatiche e del cordone ombelicale.
"Questo voto minaccia la ricerca europea sulle cellule staminali" è il durissimo commento dell'europarlamentare liberale belga Frédérique Ries. "Sotto il pretesto di lottare contro lo sfruttamento delle donne e per l'inalienabilità del corpo umano, il testo mira a tutt'altro obiettivo: proibire direttamente o indirettamente la ricerca sulle cellule staminali embrionali e la clonazione terapeutica. E' un segnale disastroso inviato alle coppie in attesa di una donazione, ma anche alle centinaia di migliaia di pazienti in Europa che puntano sulla ricerca le loro speranze di guarigione dal diabete, dal morbo di Parkinson o di Alzheimer".
LA FESTA DI PIETRO INGRAO
le altre lettere pubblicate nell'inserto di Liberazione di domenica 27
Quando, alla fine del decennio, tutto precipita - l'Ottantanove, la caduta
Rina Gagliardi
Quando, alla fine del decennio, tutto precipita - l'Ottantanove, la caduta del muro di Berlino, la svolta della Bolognina - Pietro Ingrao è, di nuovo, protagonista: guida la battaglia del No, si oppone allo scioglimento del Pci, fa piangere, a Bologna, una platea intera. Quando scoppia la guerra del Golfo, si dissocia apertamente alla Camera dalla scelta dell'astensione, che il Pci porta avanti tra mille mal di pancia. Solo quando si consuma l'opzione neoliberista del partito - i governi Ciampi e Amato - viene, anche per lui, il momento dell'uscita dal partito - ora Pds. A settantotto anni, sceglie di star fuori dal "gorgo". Non dalla Politica, con la P maiuscola.
Il rifondatore
Ma come è fatto, alla fin fine, Pietro Ingrao? Tra i mille episodi, piccoli o grandi, che si possono dire di lui, ce n'è uno forse tanto piccolo quanto esemplare. Quand'era presidente del Crs, chiese ad un suo giovane collaboratore notizie su Bruce Springsteen, che aveva appena sentito nominare. Poi chiese che gli si potevano portare i dischi più rappresentativi del celebre folksinger. Glieli portarono, con indicazioni precise sulle canzoni più importanti. Lui si ascoltò con cura quei dischi, che molto gli piacquero - così, poco tempo dopo, lo si vide ad un concerto proprio di Bruce Springsteen, in mezzo ai giovani, che si divertiva e applaudiva. Aveva, allora, oltre settant'anni - e manteneva intatta la voglia di "alfabetizzarsi" in musica giovanile.
Ecco, Pietro è uno che, a tutt'oggi, non la smette di cercare alfabeti che non conosce. Lo fa talora con prudenza, con spirito diffidente, con i suoi ritmi e con i suoi tempi - ma non cessa di farlo. Come ha fatto, alla soglia dei novant'anni, con l'iscrizione ad un Partito, Rifondazione comunista, lui che da oltre dieci anni si declinava con fierezza un "cane sciolto", un senza-partito, un indipendente comunista.
La verità è che forse in Pietro, dietro le apparenze disciplinate e "ordinate", c'è un autentico disubbidiente. Ha sempre disubbidito allo schema che gli veniva predisposto dagli altri. Ha parlato quando parlare era un atto di rottura. Ha taciuto quando tutti gli chiedevano di parlare. Ha fatto "carriera" senza vera convinzione, dandole un calcio quando stava diventando una prigione definitiva. Ha insegnato a tanti, a tanti di noi, di più d'una generazione, il piacere di una politica libera e liberata, senza mai trasformarsi in un pedante maestro. Ha insegnato a tutti che l'arte del pensiero è essenziale a qualunque buona pratica. Ha innovato e ha rifondato, ogni volta, quel che ha potuto. Ha trasformato perfino le sue imperfezioni - i suoi dubbi eterni, la sua indecisione, il suo dichiarato "non valere un fico secco" come capocorrente - in virtù. Ed è sempre stato un uomo intero, nelle tempeste della politica, nei grandi dolori privati, nella famiglia, nei libri, nell'originalità della ricerca come nella caparbietà delle battaglie a cui non rinuncia.
Tra tre giorni, quest'uomo straordinario compie novant'anni: lo festeggeremo in molti modi, ma prima di tutto con tutto l'affetto di cui siamo capaci. Forse ancora non lo sa: ma lui, proprio lui, ci rappresenta fino in fondo. Rappresenta la parte migliore di noi, della nostra vita, della nostra ansia di cambiare questo pessimo mondo. Auguri infiniti, Pietro.
Le differenze rafforzarono la mia stima
Emanuele Macaluso
In un partito come il Pci fu possibile, a persone che avevano posizioni diverse anche su questioni rilevanti, stare insieme, pure nei massimi organi dirigenti del Partito, per cinquant'anni. E' come un'immagine, che rivedo dopo tanti anni, di riunioni, congressi, incontri e scontri, in occasione del novantesimo compleanno di Pietro Ingrao. Il quale, tempo fa, mi ricordava il suo primo viaggio politico in Sicilia, quando giovanissimo dirigevo la Cgil, e discutendo con me verificò una forte differenza tra noi nel valutare i fatti politici di quegli anni. E' vero che la divergenza che assunse rilievo politico esterno fu tra Amendola e Ingrao, grossolanamente indicati, il primo come leader della "destra comunista" e l'altro della "sinistra comunista", ma la dialettica politica e culturale nel gruppo dirigente del Pci - con Togliatti, con Longo e poi con Berlinguer - fu articolata e coinvolse persone con posizioni diverse, non sempre catalogabili come "destra", come "sinistra" e nemmeno "centrista".
Iniziare la vita politica nel sindacato, come accadde a me sin dal 1943, è molto diverso che farlo nel partito. E' vero che in quegli anni il sindacato era considerato una "cinghia di trasmissione" del partito, ma non era proprio così. La formazione politica era diversa, non solo perché convivevi con i socialisti e i democristiani (sino al 1948), ma anche perché il rapporto col mondo esterno, con i padroni con cui devi fare i contratti e con i lavoratori che scioperano e rischiano, è diverso. Nel sindacato il riferimento essenziale erano Di Vittorio, Santi, Novella e Foa.
Nel 1956 lasciai il sindacato per la segreteria regionale del Pci siciliano, e fui eletto nel Comitato Centrale, cominciando così a frequentare compagni come Ingrao, Amendola, Pajetta, Alicata. Bufalini era stato in Sicilia e con lui avevo un rapporto particolare. In quegli anni verificai che le differenza di vedute con Pietro, cui ho accennato, non cambiarono, ma la mia stima e anche il mio affetto per lui crebbero. Le ragioni di questa apparente contraddizione vanno ricercate non solo nel carattere di Ingrao, gentile e disponibile al dialogo nel cercare di capire le ragioni dell'altro (anche se non era facile smuoverlo dalle sue posizioni), ma perché c'era in lui, e anche in me, il convincimento che in definitiva era utile che nel partito convivessero posizioni diverse. Ma, ecco il punto nodale, a condizione che si mantenesse l'unità del Partito. Questo era stato il collante ideologico e metodologico che ha tenuto insieme persone che nel Pci avevano posizioni diverse. E l'unità si doveva garantire evitando e proibendo la formazione di correnti organizzate. Dissentire, ed esporre pubblicamente una posizione diversa da quella adottata dagli organi dirigenti, significava rompere col Partito.
Nel 1956, quando il nodo politico-ideologico del rapporto con l'Urss emerse con forza, le separazioni furono molte e assunsero un significato più generale. In quel momento la posizione di Ingrao, come quella di tutto il gruppo dirigente, fu drastica non solo nello schierarsi con l'Urss, ma nel difendere "l'unità del Partito".
La questione si ripropose nel 1966, dopo la morte di Togliatti, con Longo segretario, all'11° congresso. Questa volta il nodo era la politica del Pci verso il centro-sinistra di Moro e Nenni e il "neocapitalismo". Il confronto era cominciato - c'era ancora Togliatti - tra il 1960 e 1964. E già allora diversi compagni si differenziarono dalla linea togliattiana sul centro-sinistra: accettare la sfida sulle riforme, senza contrapposizioni globali. Ingrao e altri compagni (Rossana Rossanda, Reichlin, Pintor, Natoli, Parlato, ma anche Franco Rodano e Pietro Secchia, con posizioni diverse da quelle di Ingrao) pensavano ad una contrapposizione tra il "progetto neocapitalista del centro-sinistra e un modello di sviluppo della sinistra".
Tuttavia la questione "esplose" alla vigilia di quel congresso, quando attorno alle posizioni di Ingrao si radunarono, in tutte le regioni, gruppi di compagni (ingraiani) in modo da poterli configurare come una corrente. E al congresso Pietro parlò col piglio di un capo corrente, e fu applaudito solo da quella parte del congresso che si riconosceva nelle sue posizioni. Insomma, sembrava che si fosse rotto l'equilibrio ipocrita dell'unità del partito e del centralismo democratico. Non fu così. La reazione della maggioranza del gruppo dirigente del partito fu durissima, e non solo nelle repliche di Amendola, Alicata, Pajetta e altri compagni.
Ricordo bene quei giorni. Ero membro della segreteria del Pci e responsabile della Commissione di Organizzazione e, con Berlinguer, che dirigeva l'Ufficio di segreteria, avevo seguito l'andamento dei congressi di base e provinciali. La discussione nel gruppo dirigente si riaprì nel momento in cui dovevano essere rieletti gli organi dirigenti del partito. Amendola, Alicata, Bufalini, Novella proposero di rieleggere Ingrao nella Direzione, ma di escluderlo dall'Ufficio Politico, organismo composto da nove compagni fra i più autorevoli che fu istituito in quel congresso, insieme alla Segreteria.
In quel frangente, Amendola e gli altri criticarono Berlinguer e me per scarso impegno nella lotta politica, e proposero che cambiassimo lavoro: Berlinguer doveva andare a fare il segretario regionale in Lombardia e io nel Veneto. Longo respinse la proposta: Ingrao fu proposto come membro dell'Ufficio Politico; io lasciai l'Organizzazione, ma per spostarmi alla Stampa e Propaganda; Berlinguer, che rifiutò di trasferirsi a Milano, fu catapultato nella segreteria regionale del Lazio. Il gruppo di "ingraiani" fu scomposto, e tanti compagni cambiarono lavoro. Una brutta pagina.
Ingrao aveva posto un problema reale, e se la reazione del gruppo dirigente sarebbe stata diversa, forse sarebbe stata diversa tutta la vicenda politica del Pci.
Purtroppo anche Pietro, proprio su questo fronte, fece molti passi indietro, come si evince dal suo pesante intervento nel Comitato Centrale che decise la radiazione del gruppo del Manifesto.
Ho scritto molto e debbo concludere. Nella sostanza, Ingrao non cambiò l'asse del suo pensiero e del suo modo di fare politica. Direttore dell'Unità prima, dirigente del Pci a Botteghe Oscure, capo-gruppo a Montecitorio, Presidente della Camera, Presidente del Centro per la Riforma dello Stato: in ogni incarico ha lasciato traccia del suo pensiero e del suo agire, e molte persone che si sono politicamente identificati in quel pensiero e in quell'agire. Credo che questa eredità, che viene forse impropriamente chiamata l'ingraismo, sia la testimonianza di un'opera che ha inciso non solo in quell'area che ha avuto come riferimento il Pci, ma anche in quella più ampia della sinistra che si richiama ai movimenti.
C'è una domanda che sarebbe ipocrita non porsi riflettendo sulla storia politica di Ingrao: essa ha aiutato o ritardato il cammino del Pci e dei suoi eredi per qualificarsi come forza di governo? Una riflessione interessante per due motivi.
Ingrao, dopo il 1956, fu certamente uno dei dirigenti più critici verso l'Urss, e propenso ad accentuare l'autonomia del Pci. In questo senso aiutò il Partito ad essere forza di governo. Tuttavia la sua propensione a dare una torsione movimentista, di alternativa di sistema, alla lotta politica, non ha certo dato un contributo a fare crescere una cultura di governo.
L'altro motivo di riflessione riguarda e la sua opposizione alla svolta della Bolognina del 1989, l'uscita dal Pds, le sue riflessioni sul passato e l'oggi, e infine l'approdo a Rifondazione Comunista. Un altro capitolo, forse non separabile dal primo, su cui varrebbe la pena discuterne distesamente.
Il mio augurio a Pietro è quello di continuare a pensare e a dire, e ha farlo con onestà intellettuale e sincerità. E' questo ciò che ci ha dato, nella battaglia delle idee, e può darci ancora. All'augurio unisco un abbraccio affettuoso da chi è invecchiato con lui in una storia che rivendico come grande patrimonio della sinistra e della democrazia italiana.
La sincerità e la stima fra due militanti non pentiti
Alessandro Curzi
Caro Pietro, avevo cominciato a buttar giù qualche riga per esprimerti, come tanti stanno facendo, i miei auguri per questo tuo pesante, ma formidabile novantesimo compleanno. Rileggendo, però, mi sono accorto di aver sfogliato solo alla superficie la mia memoria, mentre altri faranno assai di più, riferendosi a testi e documenti che fanno parte della storia del '900 italiano. E allora mi sono detto che le mie poche note erano troppo "per bene", ovvie e forse retoriche. Esattamente il contrario di quello che penso ti si debba, da parte di chi ha per te un affetto di antichissima data e mai venuto meno. E' troppo facile celebrarti come un santo laico o come una bandiera da sventolare nelle grandi occasioni.
In breve: ho strappato le due paginette inizialmente preparate e mi permetto, invece, di scriverti da compagno che ti ha seguito (o cercato di farlo) per tutta la vita, da quel lontano giorno in cui a me, appena quindicenne, tu capocronista dell'"Unità" desti da scrivere una nota di critica al giornale per il poco peso che dava al lavoro della mia sezione, la "Flaminio", fra i profughi del Campo Parioli.
Allora, approfitto dello spazio che il nostro amico Sansonetti mi lascia in queste pagine di "Liberazione" dedicate a rammentare e celebrare la tua lunga vita per dirti, ed è la prima volta, che non sono d'accordo con te su quanto vai sostenendo, da tempo, a proposito dei fatti di Ungheria. E mi riferisco ovviamente all'autunno del '56 e al tuo preteso (da te stesso preteso) errore per quel fondo dell'"Unità" nel quale sostenevi che compito nostro era di stare da una parte della barricata, che non era quella degli insorti. Hai ripetuto quest'autocritica anche pochi giorni fa, in un'intervista al "Corriere della Sera".
Io penso, Pietro, che sia venuto il tempo, poiché sono vecchio anch'io, di ragionare con più distacco di quell'autunno, quando ci trovammo divisi dalla barricata.
Tu avevi ragione, allora.
Infatti, non fu quella tragedia ungherese, per noi comunisti europei, più emozionante e coinvolgente di quanto non fu, invece, grave e determinante l'errore che i vincitori della seconda guerra mondiale commisero nel disegnare un ferreo assetto del mondo, diviso in due blocchi?
L'Ungheria del '56 non era stata preceduta, tanto per fare un esempio altrettanto sanguinoso, dalla brutale repressione da parte degli inglesi del possente movimento nazionale greco, che non accettava le soluzioni imposte dal loro blocco d'appartenenza, quello occidentale, sancite a tavolino? Forse non dobbiamo criticarci per aver liquidato la tragedia greca con troppa disinvoltura? O per aver raccontato in pochissime righe quello che era avvenuto a Hiroshima e Nagasaki?
Nell'autunno ungherese noi denunciammo, sì, l'aggressione anglo-francese all'Egitto per il canale di Suez, che poteva preludere, come temettero tutte le cancellerie del mondo, a una terza guerra mondiale, evitata dalla prontezza americana che denunciò l'iniziativa degli ex alleati. Ma dovremmo ben ricordarci che non era in gioco l'espansionismo di uno Stato a sfavore d'un altro, bensì solo la misura legittima di uno stato sovrano, l'Egitto in quel caso, di nazionalizzare un canale che attraversava le proprie terre.
Come vedi, carissimo compagno Ingrao, ho voluto scrivere proprio il contrario di una letterina di auguri, e abbracciarti mentre dico che, almeno su una questione, non sono d'accordo con te.
Potrei a questo punto dilungarmi per discutere anche di altre pagine della tua straordinaria vicenda politica, come la "scelta di campo" non compiuta (da te, da me, da tanti altri compagni che ancora se ne dolgono) dopo la Bolognina di Achille Occhetto… Ma mi fermo e alzo il bicchiere per brindare ai tuoi novant'anni e per augurare a me stesso di poter marciare dietro di te ancora, fino alla conclusione dei nostri giorni. Con la sincerità e la stima che passano fra due militanti non pentiti.
Tanti auguri al mio compagno di strada
Di Michele De Palma
«I gulag non sono stati una favola. Perché dovrei assumerli nel patrimonio mio, nel mio sentirmi comunista, ora che non ho l'alibi del non sapere?». Se oggi abbiamo ancora la possibilità di poterci chiamare comuniste e comunisti lo dobbiamo a chi, senza abiurare a quella storia, ha provato mille e mille volte a capovolgerla, leggerla, tradurla nelle mille domande che la realtà offre. Ricercare senza mai fermarsi, abbandonando ogni volta l'approdo sicuro per lanciarsi verso quella che appare come una deriva e invece è mare aperto. Questa è la storia di un compagno che ha fatto dell'età anagrafica un cimento per i biografi più che un palchetto o un trono da cui dispensare verità. La storia di un compagno a cui sento di poter dare del tu nonostante l'imbarazzo che provo ogni volta che lo incontro in una manifestazione. E' il mio compagno Pietro Ingrao che non è mai entrato nell'olimpo del paternalismo generazionale, ma che ha fatto della curiosità per il mondo l'unico dogma da osservare. Il suo «cercare dove sbagliammo» non è una forma di revisionismo storico, ma l'eterodossia di una vivace intelligenza che non deve mai piegarsi alle ragioni di partito, ai disciplinamenti d'ordine di "una" cultura o di "una" morale comunista. E' per questo che non lo sento come un "grande vecchio", ma come uno dei compagni con cui ho condiviso i primi passi del movimento dei movimenti nelle strade difficili e straordinarie di questi anni, a partire da Genova.
Ed è proprio per questa condivisione, caro Pietro, che uno di questi giorni, magari dopo i festeggiamenti per il tuo compleanno, vorrei incontrarti. Vorrei poter ripartire da quel luglio e ripercorrere gli anni passati insieme per continuare a camminare domandando.
Ritengo ci sia una differenza tra i movimenti che dagli anni sessanta in poi hanno attraversato la storia ed il movimento di oggi. Credo che sia in ballo la democrazia. Tutti i movimenti, da quello operaio a quello studentesco, hanno discusso e sperimentato forme di democrazia che hanno trasformato il nostro paese e hanno determinato nuovi spazi d'accesso alla cittadinanza compiendo un'azione di avanzamento. In questi anni le nostre discussioni sono state ricche ed a volte tormentate, penso al ragionamento fatto intorno ai temi della violenza e della non violenza, del potere e della critica del potere. Oggi però abbiamo bisogno di ordinare il dibattito intorno al nodo centrale della democrazia e della trasformazione di questa società. Forse occorre ripartire dalle esperienze di nuove mobilitazioni che il sud ha posto, utilizzando il linguaggio nuovo ed allo stesso tempo antico dell'autodeterminazione delle proprie vite e dei propri territori. Ripartiamo da Acerra, da Scanzano, da Melfi.
Caro Pietro, la strada che abbiamo intrapreso in questi anni, mi fa tornare alla mente una poesia di Costantino Kavafis: «Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo in viaggio…». Buon compleanno!
Un innovatore, un modello di vita
Tanti, tanti auguri, davvero e con tutto il cuore a Pietro per i suoi 90 anni
di Antonio Bassolino
Ci siamo visti pochi giorni fa a Santa Maria Capua Vetere, perché il Consiglio Comunale, il sindaco e la giunta di questa bellissima e antichissima città della Campania hanno voluto dare la cittadinanza onoraria a Pietro Ingrao che, da ragazzo, ha studiato e vissuto in questa città. E' stata una giornata veramente particolare, piena di affetto e di amicizia dei cittadini e dei giovani di Santa Maria Capua Vetere verso Pietro. Fargli gli auguri non può che essere un ringraziamento e un riconoscimento per tutto ciò che ha fatto, per quello che ha saputo essere e tuttora è per il nostro Paese.
Ricordi personali, eventi politici, fatti quotidiani mi legano profondamente a Pietro. Per me è stato un maestro. Stare accanto ad Ingrao ha significato imparare qualcosa di raro in politica: il dubbio, la ricerca, il guardare sempre un po' più in là, oltre l'orizzonte dato. Da lui ho imparato tanto, forse non quanto avrei voluto o potuto, ma Pietro è nella mia vita una persona davvero importante, non solo sul piano politico. E' esattamente ciò che ha detto, con parole straordinarie Vittorio Foa: Ingrao è stato, anche per me, un modello di vita pratica, un esempio di vita morale
Gramsci dal carcere ci diceva: di non voler fare «né il martire né l'eroe (…) credo semplicemente di essere un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e che non le baratta per niente al mondo». Pietro Ingrao, nella vita quotidiana e nelle sue scelte politiche, incarnava questo mondo, questi valori e li rendeva vivi e vitali. Perché Ingrao ha saputo esprimere, più e meglio di altri, l'anima più profonda del Pci. Di un partito inteso come comunità di uomini e di donne, che stanno insieme per costruire il futuro.
Ingrao è stato tra gli uomini più amati del Pci, una delle più alte e migliori espressioni. Di un singolare partito comunista che, nonostante errori e limiti, è stato parte essenziale della storia dell'Italia e ha dato un contributo determinante alla democrazia e alla costruzione di una società italiana, un po' più libera e un po' più giusta. Il tema delle libertà e della democrazia è del resto uno dei principali filoni della ricerca di Ingrao, del suo orizzonte comunista.
Come ampliare i confini della democrazia e delle libertà è la domanda che attraversa per intero la sua esistenza. Una ricerca che conduce dentro e fuori il partito.
Pietro è stato ed è, secondo me, un grande innovatore. Dentro il Pci in primo luogo. Quando all'XI congresso prende la parola sapeva che era la prima volta che un dirigente comunista invocava in un congresso il diritto al dissenso. Sapeva ciò che faceva, sapeva che avrebbe pagato un duro prezzo. Ma Pietro è stato un innovatore anche sui temi sociali ed istituzionali. E' un uomo di frontiera, che vede meglio e prima di tanti altri, la necessità della riforma dello Stato e delle istituzioni. Lo fa, prima da presidente della Camera e, dopo, dal "Centro Studi per la riforma dello Stato".
Perché "poco sapeva della complessità dello Stato" e perchè sentiva di dover dare il proprio contributo al grande tema del rapporto tra società e potere, tra governati e governanti, tra partecipazione democratica e decisione politica.
Pietro incarna il volto mite della politica, di una politica consapevole dei propri limiti, di una politica che non subordina a sé le altre forme dell'esistenza umana. Anzi, nella ricerca incessante di Pietro, nel suo ribadire la necessità di un orizzonte di liberazione dal dominio dell'uomo sull'uomo, persino nelle autocritiche e nel riconoscimento, anche drammatico, degli errori commessi c'è una nitida coerenza. C'è il tentativo di una comprensione più profonda dell'esistenza, la necessità di ricondurre la politica ad una dimensione più equilibrata, più aperta, più umana. Io credo che questo sia il bene più grande che Ingrao ha saputo darci in tutti questi anni.
In queste ore il mio ricordo commosso va a Laura Ingrao, alla straordinaria compagna della sua vita. Laura, quando ci chiudevamo a parlare di politica, portava la sua dimensione umana. Si imponeva, ci strappava alla politica più solita e più classica e ci "costringeva" ad occuparci della condizione dei detenuti di Rebibbia, dei disagi e di fatti della realtà quotidiana che interessavano tanti lavoratori, tanta povera gente. Forse dico una cosa che è troppo dentro il "personale". Ma voglio dirla perché so che farà piacere a Pietro e soprattutto perché è vera: ciò che Pietro è stato ed è lo si deve molto anche a Laura.
La curiosità di Pietro, la sua capacità di ricercare risposte per l'oggi e per il futuro, il suo rigore intellettuale, la sua passione sono stati e continuano ad essere un vero e proprio punto di riferimento per tanti e tanti di noi. La gioventù non è mai un mero e arido dato anagrafico, è la capacità di innovarsi, di sperimentare, giorno dopo giorno, sulla propria pelle, il confronto con la realtà, con il mondo che cambia, con le idee. E' un esercizio duro a cui Pietro non si è mai sottratto in tutti questi anni.
Con questi sentimenti mi unisco alla gioia dei suoi figli e dei suoi familiari e rinnovo i miei affettuosi auguri verso un uomo che ancora tantissimo saprà dare alla sinistra e al nostro Paese.
Grazie ancora, Pietro.
Rina Gagliardi
Quando, alla fine del decennio, tutto precipita - l'Ottantanove, la caduta del muro di Berlino, la svolta della Bolognina - Pietro Ingrao è, di nuovo, protagonista: guida la battaglia del No, si oppone allo scioglimento del Pci, fa piangere, a Bologna, una platea intera. Quando scoppia la guerra del Golfo, si dissocia apertamente alla Camera dalla scelta dell'astensione, che il Pci porta avanti tra mille mal di pancia. Solo quando si consuma l'opzione neoliberista del partito - i governi Ciampi e Amato - viene, anche per lui, il momento dell'uscita dal partito - ora Pds. A settantotto anni, sceglie di star fuori dal "gorgo". Non dalla Politica, con la P maiuscola.
Il rifondatore
Ma come è fatto, alla fin fine, Pietro Ingrao? Tra i mille episodi, piccoli o grandi, che si possono dire di lui, ce n'è uno forse tanto piccolo quanto esemplare. Quand'era presidente del Crs, chiese ad un suo giovane collaboratore notizie su Bruce Springsteen, che aveva appena sentito nominare. Poi chiese che gli si potevano portare i dischi più rappresentativi del celebre folksinger. Glieli portarono, con indicazioni precise sulle canzoni più importanti. Lui si ascoltò con cura quei dischi, che molto gli piacquero - così, poco tempo dopo, lo si vide ad un concerto proprio di Bruce Springsteen, in mezzo ai giovani, che si divertiva e applaudiva. Aveva, allora, oltre settant'anni - e manteneva intatta la voglia di "alfabetizzarsi" in musica giovanile.
Ecco, Pietro è uno che, a tutt'oggi, non la smette di cercare alfabeti che non conosce. Lo fa talora con prudenza, con spirito diffidente, con i suoi ritmi e con i suoi tempi - ma non cessa di farlo. Come ha fatto, alla soglia dei novant'anni, con l'iscrizione ad un Partito, Rifondazione comunista, lui che da oltre dieci anni si declinava con fierezza un "cane sciolto", un senza-partito, un indipendente comunista.
La verità è che forse in Pietro, dietro le apparenze disciplinate e "ordinate", c'è un autentico disubbidiente. Ha sempre disubbidito allo schema che gli veniva predisposto dagli altri. Ha parlato quando parlare era un atto di rottura. Ha taciuto quando tutti gli chiedevano di parlare. Ha fatto "carriera" senza vera convinzione, dandole un calcio quando stava diventando una prigione definitiva. Ha insegnato a tanti, a tanti di noi, di più d'una generazione, il piacere di una politica libera e liberata, senza mai trasformarsi in un pedante maestro. Ha insegnato a tutti che l'arte del pensiero è essenziale a qualunque buona pratica. Ha innovato e ha rifondato, ogni volta, quel che ha potuto. Ha trasformato perfino le sue imperfezioni - i suoi dubbi eterni, la sua indecisione, il suo dichiarato "non valere un fico secco" come capocorrente - in virtù. Ed è sempre stato un uomo intero, nelle tempeste della politica, nei grandi dolori privati, nella famiglia, nei libri, nell'originalità della ricerca come nella caparbietà delle battaglie a cui non rinuncia.
Tra tre giorni, quest'uomo straordinario compie novant'anni: lo festeggeremo in molti modi, ma prima di tutto con tutto l'affetto di cui siamo capaci. Forse ancora non lo sa: ma lui, proprio lui, ci rappresenta fino in fondo. Rappresenta la parte migliore di noi, della nostra vita, della nostra ansia di cambiare questo pessimo mondo. Auguri infiniti, Pietro.
Rina Gagliardi
Le differenze rafforzarono la mia stima
Emanuele Macaluso
In un partito come il Pci fu possibile, a persone che avevano posizioni diverse anche su questioni rilevanti, stare insieme, pure nei massimi organi dirigenti del Partito, per cinquant'anni. E' come un'immagine, che rivedo dopo tanti anni, di riunioni, congressi, incontri e scontri, in occasione del novantesimo compleanno di Pietro Ingrao. Il quale, tempo fa, mi ricordava il suo primo viaggio politico in Sicilia, quando giovanissimo dirigevo la Cgil, e discutendo con me verificò una forte differenza tra noi nel valutare i fatti politici di quegli anni. E' vero che la divergenza che assunse rilievo politico esterno fu tra Amendola e Ingrao, grossolanamente indicati, il primo come leader della "destra comunista" e l'altro della "sinistra comunista", ma la dialettica politica e culturale nel gruppo dirigente del Pci - con Togliatti, con Longo e poi con Berlinguer - fu articolata e coinvolse persone con posizioni diverse, non sempre catalogabili come "destra", come "sinistra" e nemmeno "centrista".
Iniziare la vita politica nel sindacato, come accadde a me sin dal 1943, è molto diverso che farlo nel partito. E' vero che in quegli anni il sindacato era considerato una "cinghia di trasmissione" del partito, ma non era proprio così. La formazione politica era diversa, non solo perché convivevi con i socialisti e i democristiani (sino al 1948), ma anche perché il rapporto col mondo esterno, con i padroni con cui devi fare i contratti e con i lavoratori che scioperano e rischiano, è diverso. Nel sindacato il riferimento essenziale erano Di Vittorio, Santi, Novella e Foa.
Nel 1956 lasciai il sindacato per la segreteria regionale del Pci siciliano, e fui eletto nel Comitato Centrale, cominciando così a frequentare compagni come Ingrao, Amendola, Pajetta, Alicata. Bufalini era stato in Sicilia e con lui avevo un rapporto particolare. In quegli anni verificai che le differenza di vedute con Pietro, cui ho accennato, non cambiarono, ma la mia stima e anche il mio affetto per lui crebbero. Le ragioni di questa apparente contraddizione vanno ricercate non solo nel carattere di Ingrao, gentile e disponibile al dialogo nel cercare di capire le ragioni dell'altro (anche se non era facile smuoverlo dalle sue posizioni), ma perché c'era in lui, e anche in me, il convincimento che in definitiva era utile che nel partito convivessero posizioni diverse. Ma, ecco il punto nodale, a condizione che si mantenesse l'unità del Partito. Questo era stato il collante ideologico e metodologico che ha tenuto insieme persone che nel Pci avevano posizioni diverse. E l'unità si doveva garantire evitando e proibendo la formazione di correnti organizzate. Dissentire, ed esporre pubblicamente una posizione diversa da quella adottata dagli organi dirigenti, significava rompere col Partito.
Nel 1956, quando il nodo politico-ideologico del rapporto con l'Urss emerse con forza, le separazioni furono molte e assunsero un significato più generale. In quel momento la posizione di Ingrao, come quella di tutto il gruppo dirigente, fu drastica non solo nello schierarsi con l'Urss, ma nel difendere "l'unità del Partito".
La questione si ripropose nel 1966, dopo la morte di Togliatti, con Longo segretario, all'11° congresso. Questa volta il nodo era la politica del Pci verso il centro-sinistra di Moro e Nenni e il "neocapitalismo". Il confronto era cominciato - c'era ancora Togliatti - tra il 1960 e 1964. E già allora diversi compagni si differenziarono dalla linea togliattiana sul centro-sinistra: accettare la sfida sulle riforme, senza contrapposizioni globali. Ingrao e altri compagni (Rossana Rossanda, Reichlin, Pintor, Natoli, Parlato, ma anche Franco Rodano e Pietro Secchia, con posizioni diverse da quelle di Ingrao) pensavano ad una contrapposizione tra il "progetto neocapitalista del centro-sinistra e un modello di sviluppo della sinistra".
Tuttavia la questione "esplose" alla vigilia di quel congresso, quando attorno alle posizioni di Ingrao si radunarono, in tutte le regioni, gruppi di compagni (ingraiani) in modo da poterli configurare come una corrente. E al congresso Pietro parlò col piglio di un capo corrente, e fu applaudito solo da quella parte del congresso che si riconosceva nelle sue posizioni. Insomma, sembrava che si fosse rotto l'equilibrio ipocrita dell'unità del partito e del centralismo democratico. Non fu così. La reazione della maggioranza del gruppo dirigente del partito fu durissima, e non solo nelle repliche di Amendola, Alicata, Pajetta e altri compagni.
Ricordo bene quei giorni. Ero membro della segreteria del Pci e responsabile della Commissione di Organizzazione e, con Berlinguer, che dirigeva l'Ufficio di segreteria, avevo seguito l'andamento dei congressi di base e provinciali. La discussione nel gruppo dirigente si riaprì nel momento in cui dovevano essere rieletti gli organi dirigenti del partito. Amendola, Alicata, Bufalini, Novella proposero di rieleggere Ingrao nella Direzione, ma di escluderlo dall'Ufficio Politico, organismo composto da nove compagni fra i più autorevoli che fu istituito in quel congresso, insieme alla Segreteria.
In quel frangente, Amendola e gli altri criticarono Berlinguer e me per scarso impegno nella lotta politica, e proposero che cambiassimo lavoro: Berlinguer doveva andare a fare il segretario regionale in Lombardia e io nel Veneto. Longo respinse la proposta: Ingrao fu proposto come membro dell'Ufficio Politico; io lasciai l'Organizzazione, ma per spostarmi alla Stampa e Propaganda; Berlinguer, che rifiutò di trasferirsi a Milano, fu catapultato nella segreteria regionale del Lazio. Il gruppo di "ingraiani" fu scomposto, e tanti compagni cambiarono lavoro. Una brutta pagina.
Ingrao aveva posto un problema reale, e se la reazione del gruppo dirigente sarebbe stata diversa, forse sarebbe stata diversa tutta la vicenda politica del Pci.
Purtroppo anche Pietro, proprio su questo fronte, fece molti passi indietro, come si evince dal suo pesante intervento nel Comitato Centrale che decise la radiazione del gruppo del Manifesto.
Ho scritto molto e debbo concludere. Nella sostanza, Ingrao non cambiò l'asse del suo pensiero e del suo modo di fare politica. Direttore dell'Unità prima, dirigente del Pci a Botteghe Oscure, capo-gruppo a Montecitorio, Presidente della Camera, Presidente del Centro per la Riforma dello Stato: in ogni incarico ha lasciato traccia del suo pensiero e del suo agire, e molte persone che si sono politicamente identificati in quel pensiero e in quell'agire. Credo che questa eredità, che viene forse impropriamente chiamata l'ingraismo, sia la testimonianza di un'opera che ha inciso non solo in quell'area che ha avuto come riferimento il Pci, ma anche in quella più ampia della sinistra che si richiama ai movimenti.
C'è una domanda che sarebbe ipocrita non porsi riflettendo sulla storia politica di Ingrao: essa ha aiutato o ritardato il cammino del Pci e dei suoi eredi per qualificarsi come forza di governo? Una riflessione interessante per due motivi.
Ingrao, dopo il 1956, fu certamente uno dei dirigenti più critici verso l'Urss, e propenso ad accentuare l'autonomia del Pci. In questo senso aiutò il Partito ad essere forza di governo. Tuttavia la sua propensione a dare una torsione movimentista, di alternativa di sistema, alla lotta politica, non ha certo dato un contributo a fare crescere una cultura di governo.
L'altro motivo di riflessione riguarda e la sua opposizione alla svolta della Bolognina del 1989, l'uscita dal Pds, le sue riflessioni sul passato e l'oggi, e infine l'approdo a Rifondazione Comunista. Un altro capitolo, forse non separabile dal primo, su cui varrebbe la pena discuterne distesamente.
Il mio augurio a Pietro è quello di continuare a pensare e a dire, e ha farlo con onestà intellettuale e sincerità. E' questo ciò che ci ha dato, nella battaglia delle idee, e può darci ancora. All'augurio unisco un abbraccio affettuoso da chi è invecchiato con lui in una storia che rivendico come grande patrimonio della sinistra e della democrazia italiana.
Emanuele Macaluso
La sincerità e la stima fra due militanti non pentiti
Alessandro Curzi
Caro Pietro, avevo cominciato a buttar giù qualche riga per esprimerti, come tanti stanno facendo, i miei auguri per questo tuo pesante, ma formidabile novantesimo compleanno. Rileggendo, però, mi sono accorto di aver sfogliato solo alla superficie la mia memoria, mentre altri faranno assai di più, riferendosi a testi e documenti che fanno parte della storia del '900 italiano. E allora mi sono detto che le mie poche note erano troppo "per bene", ovvie e forse retoriche. Esattamente il contrario di quello che penso ti si debba, da parte di chi ha per te un affetto di antichissima data e mai venuto meno. E' troppo facile celebrarti come un santo laico o come una bandiera da sventolare nelle grandi occasioni.
In breve: ho strappato le due paginette inizialmente preparate e mi permetto, invece, di scriverti da compagno che ti ha seguito (o cercato di farlo) per tutta la vita, da quel lontano giorno in cui a me, appena quindicenne, tu capocronista dell'"Unità" desti da scrivere una nota di critica al giornale per il poco peso che dava al lavoro della mia sezione, la "Flaminio", fra i profughi del Campo Parioli.
Allora, approfitto dello spazio che il nostro amico Sansonetti mi lascia in queste pagine di "Liberazione" dedicate a rammentare e celebrare la tua lunga vita per dirti, ed è la prima volta, che non sono d'accordo con te su quanto vai sostenendo, da tempo, a proposito dei fatti di Ungheria. E mi riferisco ovviamente all'autunno del '56 e al tuo preteso (da te stesso preteso) errore per quel fondo dell'"Unità" nel quale sostenevi che compito nostro era di stare da una parte della barricata, che non era quella degli insorti. Hai ripetuto quest'autocritica anche pochi giorni fa, in un'intervista al "Corriere della Sera".
Io penso, Pietro, che sia venuto il tempo, poiché sono vecchio anch'io, di ragionare con più distacco di quell'autunno, quando ci trovammo divisi dalla barricata.
Tu avevi ragione, allora.
Infatti, non fu quella tragedia ungherese, per noi comunisti europei, più emozionante e coinvolgente di quanto non fu, invece, grave e determinante l'errore che i vincitori della seconda guerra mondiale commisero nel disegnare un ferreo assetto del mondo, diviso in due blocchi?
L'Ungheria del '56 non era stata preceduta, tanto per fare un esempio altrettanto sanguinoso, dalla brutale repressione da parte degli inglesi del possente movimento nazionale greco, che non accettava le soluzioni imposte dal loro blocco d'appartenenza, quello occidentale, sancite a tavolino? Forse non dobbiamo criticarci per aver liquidato la tragedia greca con troppa disinvoltura? O per aver raccontato in pochissime righe quello che era avvenuto a Hiroshima e Nagasaki?
Nell'autunno ungherese noi denunciammo, sì, l'aggressione anglo-francese all'Egitto per il canale di Suez, che poteva preludere, come temettero tutte le cancellerie del mondo, a una terza guerra mondiale, evitata dalla prontezza americana che denunciò l'iniziativa degli ex alleati. Ma dovremmo ben ricordarci che non era in gioco l'espansionismo di uno Stato a sfavore d'un altro, bensì solo la misura legittima di uno stato sovrano, l'Egitto in quel caso, di nazionalizzare un canale che attraversava le proprie terre.
Come vedi, carissimo compagno Ingrao, ho voluto scrivere proprio il contrario di una letterina di auguri, e abbracciarti mentre dico che, almeno su una questione, non sono d'accordo con te.
Potrei a questo punto dilungarmi per discutere anche di altre pagine della tua straordinaria vicenda politica, come la "scelta di campo" non compiuta (da te, da me, da tanti altri compagni che ancora se ne dolgono) dopo la Bolognina di Achille Occhetto… Ma mi fermo e alzo il bicchiere per brindare ai tuoi novant'anni e per augurare a me stesso di poter marciare dietro di te ancora, fino alla conclusione dei nostri giorni. Con la sincerità e la stima che passano fra due militanti non pentiti.
Alessandro Curzi
Tanti auguri al mio compagno di strada
Di Michele De Palma
«I gulag non sono stati una favola. Perché dovrei assumerli nel patrimonio mio, nel mio sentirmi comunista, ora che non ho l'alibi del non sapere?». Se oggi abbiamo ancora la possibilità di poterci chiamare comuniste e comunisti lo dobbiamo a chi, senza abiurare a quella storia, ha provato mille e mille volte a capovolgerla, leggerla, tradurla nelle mille domande che la realtà offre. Ricercare senza mai fermarsi, abbandonando ogni volta l'approdo sicuro per lanciarsi verso quella che appare come una deriva e invece è mare aperto. Questa è la storia di un compagno che ha fatto dell'età anagrafica un cimento per i biografi più che un palchetto o un trono da cui dispensare verità. La storia di un compagno a cui sento di poter dare del tu nonostante l'imbarazzo che provo ogni volta che lo incontro in una manifestazione. E' il mio compagno Pietro Ingrao che non è mai entrato nell'olimpo del paternalismo generazionale, ma che ha fatto della curiosità per il mondo l'unico dogma da osservare. Il suo «cercare dove sbagliammo» non è una forma di revisionismo storico, ma l'eterodossia di una vivace intelligenza che non deve mai piegarsi alle ragioni di partito, ai disciplinamenti d'ordine di "una" cultura o di "una" morale comunista. E' per questo che non lo sento come un "grande vecchio", ma come uno dei compagni con cui ho condiviso i primi passi del movimento dei movimenti nelle strade difficili e straordinarie di questi anni, a partire da Genova.
Ed è proprio per questa condivisione, caro Pietro, che uno di questi giorni, magari dopo i festeggiamenti per il tuo compleanno, vorrei incontrarti. Vorrei poter ripartire da quel luglio e ripercorrere gli anni passati insieme per continuare a camminare domandando.
Ritengo ci sia una differenza tra i movimenti che dagli anni sessanta in poi hanno attraversato la storia ed il movimento di oggi. Credo che sia in ballo la democrazia. Tutti i movimenti, da quello operaio a quello studentesco, hanno discusso e sperimentato forme di democrazia che hanno trasformato il nostro paese e hanno determinato nuovi spazi d'accesso alla cittadinanza compiendo un'azione di avanzamento. In questi anni le nostre discussioni sono state ricche ed a volte tormentate, penso al ragionamento fatto intorno ai temi della violenza e della non violenza, del potere e della critica del potere. Oggi però abbiamo bisogno di ordinare il dibattito intorno al nodo centrale della democrazia e della trasformazione di questa società. Forse occorre ripartire dalle esperienze di nuove mobilitazioni che il sud ha posto, utilizzando il linguaggio nuovo ed allo stesso tempo antico dell'autodeterminazione delle proprie vite e dei propri territori. Ripartiamo da Acerra, da Scanzano, da Melfi.
Caro Pietro, la strada che abbiamo intrapreso in questi anni, mi fa tornare alla mente una poesia di Costantino Kavafis: «Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo in viaggio…». Buon compleanno!
Michele De Palma
Un innovatore, un modello di vita
Tanti, tanti auguri, davvero e con tutto il cuore a Pietro per i suoi 90 anni
di Antonio Bassolino
Ci siamo visti pochi giorni fa a Santa Maria Capua Vetere, perché il Consiglio Comunale, il sindaco e la giunta di questa bellissima e antichissima città della Campania hanno voluto dare la cittadinanza onoraria a Pietro Ingrao che, da ragazzo, ha studiato e vissuto in questa città. E' stata una giornata veramente particolare, piena di affetto e di amicizia dei cittadini e dei giovani di Santa Maria Capua Vetere verso Pietro. Fargli gli auguri non può che essere un ringraziamento e un riconoscimento per tutto ciò che ha fatto, per quello che ha saputo essere e tuttora è per il nostro Paese.
Ricordi personali, eventi politici, fatti quotidiani mi legano profondamente a Pietro. Per me è stato un maestro. Stare accanto ad Ingrao ha significato imparare qualcosa di raro in politica: il dubbio, la ricerca, il guardare sempre un po' più in là, oltre l'orizzonte dato. Da lui ho imparato tanto, forse non quanto avrei voluto o potuto, ma Pietro è nella mia vita una persona davvero importante, non solo sul piano politico. E' esattamente ciò che ha detto, con parole straordinarie Vittorio Foa: Ingrao è stato, anche per me, un modello di vita pratica, un esempio di vita morale
Gramsci dal carcere ci diceva: di non voler fare «né il martire né l'eroe (…) credo semplicemente di essere un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e che non le baratta per niente al mondo». Pietro Ingrao, nella vita quotidiana e nelle sue scelte politiche, incarnava questo mondo, questi valori e li rendeva vivi e vitali. Perché Ingrao ha saputo esprimere, più e meglio di altri, l'anima più profonda del Pci. Di un partito inteso come comunità di uomini e di donne, che stanno insieme per costruire il futuro.
Ingrao è stato tra gli uomini più amati del Pci, una delle più alte e migliori espressioni. Di un singolare partito comunista che, nonostante errori e limiti, è stato parte essenziale della storia dell'Italia e ha dato un contributo determinante alla democrazia e alla costruzione di una società italiana, un po' più libera e un po' più giusta. Il tema delle libertà e della democrazia è del resto uno dei principali filoni della ricerca di Ingrao, del suo orizzonte comunista.
Come ampliare i confini della democrazia e delle libertà è la domanda che attraversa per intero la sua esistenza. Una ricerca che conduce dentro e fuori il partito.
Pietro è stato ed è, secondo me, un grande innovatore. Dentro il Pci in primo luogo. Quando all'XI congresso prende la parola sapeva che era la prima volta che un dirigente comunista invocava in un congresso il diritto al dissenso. Sapeva ciò che faceva, sapeva che avrebbe pagato un duro prezzo. Ma Pietro è stato un innovatore anche sui temi sociali ed istituzionali. E' un uomo di frontiera, che vede meglio e prima di tanti altri, la necessità della riforma dello Stato e delle istituzioni. Lo fa, prima da presidente della Camera e, dopo, dal "Centro Studi per la riforma dello Stato".
Perché "poco sapeva della complessità dello Stato" e perchè sentiva di dover dare il proprio contributo al grande tema del rapporto tra società e potere, tra governati e governanti, tra partecipazione democratica e decisione politica.
Pietro incarna il volto mite della politica, di una politica consapevole dei propri limiti, di una politica che non subordina a sé le altre forme dell'esistenza umana. Anzi, nella ricerca incessante di Pietro, nel suo ribadire la necessità di un orizzonte di liberazione dal dominio dell'uomo sull'uomo, persino nelle autocritiche e nel riconoscimento, anche drammatico, degli errori commessi c'è una nitida coerenza. C'è il tentativo di una comprensione più profonda dell'esistenza, la necessità di ricondurre la politica ad una dimensione più equilibrata, più aperta, più umana. Io credo che questo sia il bene più grande che Ingrao ha saputo darci in tutti questi anni.
In queste ore il mio ricordo commosso va a Laura Ingrao, alla straordinaria compagna della sua vita. Laura, quando ci chiudevamo a parlare di politica, portava la sua dimensione umana. Si imponeva, ci strappava alla politica più solita e più classica e ci "costringeva" ad occuparci della condizione dei detenuti di Rebibbia, dei disagi e di fatti della realtà quotidiana che interessavano tanti lavoratori, tanta povera gente. Forse dico una cosa che è troppo dentro il "personale". Ma voglio dirla perché so che farà piacere a Pietro e soprattutto perché è vera: ciò che Pietro è stato ed è lo si deve molto anche a Laura.
La curiosità di Pietro, la sua capacità di ricercare risposte per l'oggi e per il futuro, il suo rigore intellettuale, la sua passione sono stati e continuano ad essere un vero e proprio punto di riferimento per tanti e tanti di noi. La gioventù non è mai un mero e arido dato anagrafico, è la capacità di innovarsi, di sperimentare, giorno dopo giorno, sulla propria pelle, il confronto con la realtà, con il mondo che cambia, con le idee. E' un esercizio duro a cui Pietro non si è mai sottratto in tutti questi anni.
Con questi sentimenti mi unisco alla gioia dei suoi figli e dei suoi familiari e rinnovo i miei affettuosi auguri verso un uomo che ancora tantissimo saprà dare alla sinistra e al nostro Paese.
Grazie ancora, Pietro.
Antonio Bassolino
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