martedì 13 aprile 2004

martedì 13 su RAI 3: Marco Bellocchio

una segnalazione di Iole Natoli

PRIMA DELLA PRIMA
Martedi 13 aprile 2004 ore 1.30

"PRIMA DELLA PRIMA" di Rosaria Bronzetti, in onda martedi 13 aprile alle ore 1.30 su Raitre, è dedicata all'opera "Rigoletto" di Giuseppe Verdi dal Teatro Municipale di Piacenza.

La regia di questo allestimento della popolare opera verdiana è di Marco Bellocchio che ha portato in scena, attraverso emozioni, suggestioni e memorie, un Rigoletto molto "personalizzato". I nobili e i cortigiani si trasformano nei vitelloni e perdigiorno che popolavano, nei ricordi del regista, i locali di Piacenza nell'immediato dopoguerra. I costumi (l'artefice è Sergio Ballo) sono toilettes e mises degli Anni '50. Il protagonista veste in doppiopetto grigio fumo mentre le luci sono quelle torve e radenti della opulenta Padania. Il famoso regista cinematografico, per la prima volta alle prese con il melodramma, ha però il massimo rispetto dello spirito e della sostanza che Verdi ha messo in quest'opera e ne fa una lettura intimista e profonda.

Il cast è capitanato dall'intelligenza e dal creativo rigore di Gunter Neuhold, direttore d'orchestra a cui fa da contraltare la matura voce di Alberto Gazale (Rigoletto) affiancato da Gladys Rossi (Gilda) e David Miller (Duca di Mantova).

La regia televisiva di questa puntata è di Roberto Giannarelli

Michele Serra: ateismo

una segnalazione di Sergio Grom

Repubblica 13.4.04
La sfida tra religioni
Spiazzati, anzi sfrattati dal rinvigorire furibondo delle fedi religiose noi senzadio siamo al margine di ogni discorso
di Michele Serra


In un lungo e popoloso dibattito televisivo sulla "Passione" di Mel Gibson, nel giorno di Pasqua, ho atteso invano che uno, almeno uno dei tanti contendenti rappresentasse anche il mio punto di vista: quello di un non credente. Inutilmente. Ulteriore sintomo che, nell´intreccio infocato della discussione sul mondo, l´invadenza delle fedi e dei fedeli è, in questo momento, travolgente e, se mi è concesso dirlo, opprimente.
Non mi sento previsto, anzi, non sono previsto. Nelle discussioni delle scuole coraniche, se ebrei e cristiani debbano restare al mondo oppure sprofondare, non sono previsto. Alla chiamata alle armi del cristiano rinato Bush (e del cristiano rifatto Berlusconi), Dio è con il Pentagono, non solo non voglio, ma proprio non posso rispondere: non capisco la domanda. Nella nuova (?!) geopolitica etnico-confessionale che cerca di ridividere l´umanità secondo la decrepita antinomia Mori e Cristiani, davvero non compaio. E se una bomba dovesse interrompere il mio distratto transito per le strade della mia città, nessun fanatico barbuto sarebbe autorizzato a iscrivermi nell´elenco dei crociati uccisi, e nessun devoto alla memoria di Lepanto potrebbe iscrivermi tra i martiri della fede: gli farei spedire una querela postuma.
Spiazzati, anzi sfrattati dal rinvigorire furibondo delle fedi religiose, noi senzadio siamo al margine di ogni discorso. Una parentesi vuota, forse perché la nostra indegnità è tale da renderci indegni perfino di essere nemico di qualcuno, forse perché ci danna la nostra vaga eppure sentita religione dell´uguaglianza tra gli umani, che ci costringe a essere, in qualche modo, amici di tutti. E così, quando leggiamo certi proclami che sortiscono dall´islam più razzista, che annunciano morte alle altre due religioni di Abramo, la tentazione ilare di un sogghigno da imboscato (si sono dimenticati degli atei, forse la scampo?) cede presto il passo allo scoramento.
Compaiono (giorni fa, a Napoli) manifesti del Cristo di Gibson guarniti di appelli neocrociati (e neofascisti) che invitano a vendicare armi in pugno il Nazareno. Per contraccolpo da undici settembre, negli Usa spopolano chiese e chiesette di reverendi reazionari, evangelizzatori del mondo in punta di Bibbia e di cannone. Da Haider a Le Pen al cattolicesimo vandeano della Lega, molti europei rigettano l´idea che siano stati i Lumi e la Rivoluzione francese a darci diritto e libertà, e il revisionismo della destra italiana rivaluta le insorgenze sanfediste e fruga nel brigantaggio per scovarne il valore "popolare" e antiborghese dell´antistatalismo.
Con un amico miscredente ci si chiedeva, con allegro malumore, se non siano maturi i tempi per organizzare una jihad atea. Ma, per la verità, già ebbe luogo, nel comunismo dell´Est, non meno repressiva e catechistica di tutte le offensive confessionali. E finì male, come meritava, perché l´evangelizzazione atea è un ossimoro, e il proselitismo è in sé la proiezione dogmatica di un Principio al quale informare, con le buone o con le cattive, gli altri.
Sì, l´idea di organizzare gli atei ha un che di involontariamente chiesastico, di intruppato e escludente. E tuttavia, bisognerà pure fare qualcosa, noi che visitiamo con uguale rispetto le cattedrali e le moschee, le sinagoghe e i templi indù. Noi che consideriamo l´accusa di "deicidio" agli ebrei, le feroci faide confessional-condominiali in Gerusalemme, o il revanscismo islamico in Europa, come vischiosi e folli cascami di tragedie arcaiche, morti che ghermiscono i vivi, vecchie ossa che mandano a crepare i ragazzi?
La tolleranza è un pensiero debole, non consente di colmare il vuoto identitario con l´attraente immutabilità delle certezze confessionali, delle tradizioni ispirate dal Cielo, soffiando sulle braci antichissime che ancora covano sotto la cenere. Soprattutto, la tolleranza non fornisce il conforto di un Nemico da odiare. Ma, santo cielo, sospesi come siamo sul baratro di nuove guerre di religione, bisognerà pure che la mediocre ragionevolezza degli agnostici trovi, e il più presto possibile, una sua voce udibile, una sua forma culturale e fors´anche politica, e reclami il suo posto in questo pandemonio di Verbi confliggenti. Non resta molto tempo, toni e volumi salgono, e non illudiamoci: il rumore delle bombe minaccia di coprire ogni voce tranquilla, ogni espressione di gentilezza. I tempi sono di ferro e sangue, e organizzare i disarmati e i tolleranti di tutti gli angoli del mondo, oltre che la sola via di scampo, è anche la cosa più difficile da fare, quando non si ha un Libro da brandire o un paradiso da promettere.

«a che serve il sesso?»

Corriere della Sera 13.4.04
Così è possibile la «manutenzione» dell’elica della vita che va trasmessa integra
Il sesso? Serve anche a riparare il nostro Dna
di VITTORIO SGARAMELLA


A che serve il sesso? Per la riproduzione (e per il piacere) di chi lo pratica, si dice. Si sa che possono farne a meno quasi tutti gli organismi inferiori, molte piante e su 43 mila specie note di vertebrati solo pochi pesci, rettili, anfibi; ma non i mammiferi. Perché? Due le spiegazioni a confronto: la prima che il sesso serve a rimescolare i geni e favorire l’evoluzione e la salvaguardia della specie, la seconda - più recente - è quella che vede il sesso come momento di «riparazione» del Dna. Secondo il modello finora accettato, quello di Lucrezio-Weismann-Fisher-Muller, la riproduzione per via sessuale favorisce il rimescolamento dei geni e quindi delle caratteristiche che ne sono codificate, cioè aumenta la biodiversità (la possibilità di «rimescolare» i geni in modo da annullare i rischi letali per la specie). In altri termini, i cambiamenti ambientali sfavorevoli ai genitori potrebbero non esserlo più per alcuni dei figli selezionati in base al rimescolamento dei geni. Sarebbe questo il segreto dell’evoluzione?
Oggi però prevale un secondo modello: intuito da Platone, ripreso da Freud, sviluppato da Maynard Smith e divulgato da Michod in Eros and evolution propone che il sesso serve a... riparare il Dna (gli effetti sull’evoluzione ci sono tutti, ma indiretti). Si tratta di un «tagliando» al Dna, tale da consentire una «sana» riproduzione, che avviene ogni volta che entrano in campo le cellule sessuali (i gameti). Ad ogni atto sessuale si «riprogramma» il Dna, si sana, si ripara rispetto ai rischi ambientali e, se tutto funziona, nascerà un figlio con un Dna più «forte». Con questo nuovo modello si sanerebbero diversi paradossi, come la diffusione del sesso contro i suoi costi (la ricerca del partner è solo l’inizio!); l’insensatezza di scompaginare genomi (Dna) di successo in omaggio a biodiversificazioni (combinazioni di geni diverse e vincenti) vantaggiose in nuovi ambienti tanto ipotetici quanto generazionalmente lontani; la continuità evolutiva delle specie asessuate contro la discontinuità delle sessuate (persino Darwin era turbato dagli «anelli mancanti»).
Anni fa il Nobel Jacob notò che la natura fa bricolage, ma più che riparare, ricicla. L’uomo è fatto da miliardi di cellule, differenziate in circa 200 tipi riconducibili a due linee: la somatica (sangue, cuore, cervello, pelle, eccetera) e la sessuale (gameti: spermatozoi nei maschi, ovuli nelle femmine). Le cellule somatiche servono alla vita dell’organismo, le sessuali (i gameti) alla sua riproduzione. Ogni cellula abbonda di proteine, Rna, etc, ma ha un unico Dna: di norma dopo l’avvio si mette a riposo e fa lavorare le sue copie di scorta che ne assicurano le funzioni. Il Dna è a termine e dura al più una vita, almeno nelle cellule somatiche.
Nei gameti invece passa da una generazione all’altra: è perpetuo.
Il Dna di ogni cellula umana contiene tre miliardi di «lettere» combinate in parole diverse: quattro basi azotate, A, C, G e T, in un’infinità di combinazioni diverse. Sono tutti siti sensibili: radiazioni e sostanze chimiche ne colpiscono un migliaio al giorno. Danni, o alterazioni di struttura, e mutazioni, o alterazioni di sequenza, s’accumulano, causano malattie genetiche e accelerano l’invecchiamento. Sbagli che la cellula somatica ripara senza strafare, se sono pochi. Se sono tanti, e ripararli crea scompiglio, attiva un programma di suicidio cellulare, ma l’organismo si salva: anche le cellule abbondano. Se sono troppi gli sbagli, è il caos: salta pure il programma di suicidio e si rischia il cancro.
Ben altra la cura al Dna nella linea sessuale. Non per amore della discendenza, ma solo perché altrimenti il Dna non si replica. Grazie al sesso infatti il Dna gratifica il suo narcisismo: si perpetua, resta discontinuo e serve l’evoluzione. In genere le cellule subordinano la loro vita alla replicazione del Dna, possibile solo se è integro: ma per mantenerlo tale ci vuole tempo e energie. Ecco perché la natura ne ha reso la manutenzione così allettante che per goderne c’è chi è pronto a morire: di «infortuni sul lavoro» sono vittime la mantide religiosa, il topino col marsupio, il cactus centenario; l’uomo non si ferma neppure davanti all’Aids. La nostra cultura l’ha sublimata in un ideale (amore) e svilita in un’ossessione (sesso) nel cui nome si compiono mirabilia e crimini.
Qui possiamo solo riassumere la logica del ruolo del sesso nella manutenzione del Dna. Per correggere un testo occorre una copia buona di scorta: meglio se, come in una pellicola cinematografica, c’è anche un negativo. Il Dna è fatto da due eliche intrecciate: una è il negativo (o il complemento) dell’altra. La sequenza di basi di un’elica, determina quella dell’altra: gli sbagli di una sono corretti per confronto con l’altra. Qui scatta la prima riparazione.
Le cellule somatiche hanno due doppie eliche di Dna, una materna e una paterna. Questo permette di ripararle tutte e due, purché i danni siano diversi: nella seconda riparazione la doppia elica giusta fa da back-up alla sbagliata.
Ma ai gameti (le cellule sessuali) non basta. Hanno solo una doppia elica di Dna e devono passarla ai discendenti: va riparata al meglio. E così è, grazie a un terzo tagliando che le cellule progenitrici staccano prima di diventare gameti: anch’esse, come le somatiche, hanno due doppie eliche, che però replicano non una ma due volte. Questo evidenzia tutti gli sbagli presenti su ogni singola elica e ne ottimizza la correzione. Che non opera a pioggia: un capolavoro d’ingegneria riparativa allinea le doppie eliche materna e paterna e accumula le parti giuste in una, quelle sbagliate nell’altra. Le nuove doppie eliche, miste materne/paterne, finiscono ciascuna in un gamete: quella meglio riparata avrà una maggiore probabilità di successo nella fecondazione naturale. I gameti si mobilitano a milioni e anche se revisione (specie su ovuli) e selezione (di spermatozoi) sono severe, su cento nascite registriamo quattrocento aborti e quattro malformazioni congenite.
In vitro il rischio sale: c’è revisione, non selezione. E ancor di più con la clonazione: manca anche la revisione. Sulla riproduzione resta molto da imparare: ad esempio perché è facile clonare piante, ma non animali. «Conoscenza è potenza», ammoniva F. Bacone.
Queste transazioni spiegano anche perché nei figli ricompaiono tratti presenti nei nonni e non nei genitori (e viceversa). Lo notò Lucrezio nel De rerum natura , ma forse fuorviato dalla sua vena poetica mancò il modello giusto. Peccato, perché l’aveva già abbozzato quattro secoli prima Platone nel Simposio Il sesso è tabù e lo si esorcizza in favole. Dopo cavoli e cicogne archiviamo lotta a parassiti, biodiversità, etc, come sottoprodotti del sesso: della vita toccano l’hardware (cellule, organismi) più che il software (Dna).
Infine: perché il Dna? Se siamo strumenti di un disegno divino, amen. Alcuni cercano ragioni scientifiche: il Nobel Monod, e prima Democrito, ci vedono figli di caso e necessità. Si sa ancora ben poco della termodinamica di un processo che mira essenzialmente al Dna.
Ma su Marte, o altrove, con chimica e fisica simili alle nostre, c’è una molecola così egoista da asservire la biosfera e bella da rispettare la sezione aurea?

Cina

Corriere della Sera 13.4.04
A SHANGHAI
La città delle aiuole, dove i quartieri cambiano in un giorno
Ragazze con la coda di cavallo e shopping sfrenato: si contratta su tutto, anche nei supermercati
DAL NOSTRO INVIATO


SHANGHAI - La città delle aiuole che cantano ti accoglie con una quantità colorata di grattacieli che hanno le tinte dei fiori: turchesi, rossi, violacei, in ogni modo alti e impertinenti come tutte le cose giovani che conoscono poco il mondo ma sanno di essere loro i protagonisti. In questa distesa di grattacieli si alza allegra la musica dalle aiuole, sparse ovunque e curatissime da un esercito di giardinieri, spandono, da microfoni nascosti, musiche popolari cinesi. L’ albergo più bello è anche sul grattacielo più alto, il Jin Mao, e comincia dal 54esimo piano, i piani sottostanti sono uffici. Dalle sue camere una vista panoramica sul Bund, il fiume della città che la attraversa, la disegna ed è il vero protagonista del luogo.
Ovunque si respira un’aria adrenalinica, effervescente e veloce che ricorda la New York degli anni ’80. E’ come se ci fosse posto per tutti o tutti pensassero di avere diritto al proprio posto. Il centro è una vasta distesa di centri commerciali dove molte griffe italiane compaiano storpiate e copiate: c’è Russardi, Rudy Valentino, Maesca Mara e via elencando. Quasi tutte le griffe italiane sono state copiate. E’ in questa disneyland dello shopping che sbarcherà, con un suo suntuoso indirizzo privato, Giorgio Armani che il 17 sfilerà in un suo spazio nel palazzo più elegante della città, quel «3 of the Bund» che oltre lui accoglie la Shanghai Gallery e l’Evian SPA. Il palazzo, nella parte antica della città ma sempre vicino al fiume, è dirimpetto a «M of the Bund», il ristorante più di moda della città, aperto cinque anni fa da un australiano. Il ristorante ha lo stile della vecchia Cabala a Roma e del Nephenta degli anni ruggenti a Milano: tavoli sparsi, camerieri gallonati, e orchestra in mezzo alla sala. Chi vuole un po’ di quiete può cercarla all’ora dell’aperitivo nel privée. Rebecca Zhang, una febbricitante fotografa amica di artisti e designer, racconta che a Shanghai si combina tutto all’ultimo minuto, che ci sono sempre mille scelte e che i programmi cambiano vertiginosamente, come i posti alla moda.
Il 17 sera non ci saranno cambi di programma: tutti andranno alla sfilata di Armani e a vedere il nuovo palazzo che contiene re Giorgio e i suoi vestiti. Handel Lee, un quarantenne cinese con un’aria più pacifica del mondo che lo circonda, ma come confessa lui stesso nubile perché non ha tempo per sposarsi, è il manager che pensa di ripetere il miracolo di «3 of the Bund», a Pechino, con gli stessi ospiti, ovvero Armani e gli altri. Mister Lee, nato a Washington da una famiglia di diplomatici, laureato in legge, si è trasformato in un manager internazionale ed è a lui e al suo sorriso che si devono tante iniziative. A Shanghai si parla molto di arte e di artisti ma Alessandro Rolandi, un giovane pittore italiano della squadra del gallerista milanese Orio Vergani, racconta che la città degli artisti è Pechino mentre Shanghai è sopratutto quella del danaro. Rolandi è giovane, dipinge figure e ritratti, morbidi e intensi, in Cina ha trovato oltre a uno studio contatti con tutto il mondo e una vita molto intensa intellettualmente. La conferma di questa opinione - Pechino cultura, Shanghai danaro - viene anche da Gerardo de Ravizws, un giovinotto di Gallarate, cresciuto a Somma Lombarda, che si è trasferito anni fa lì diventando l’ executive chef del Mariott. Il giovane gallaratese, perfettamente inserito, racconta che il turismo a Shanghai è solo il 15%, tutto il resto è business. E che business. A parte la moda, il cibo, le macchine, c’è l’architettura. Pujiang Newtown sarà una città nella città disegnata e costruita per 100 mila abitanti dall’architetto Augusto Cagnardi. Cagnardi è un milanese dalla folta criniera bianca e l’aria posata e sapiente che va circa due volte al mese in Cina, è stimatissimo e oltre la sua città sta progettando anche una ristrutturazione del quartiere europeo sul Bund, i cinesi si affidano volentieri a lui e prima gli mostrano i test che hanno fatto sui desideri dei nuovi proprietari di immobili. Risulta, raccontava Cagnardi divertito, che i cinesi desiderano sopratutto case art decò, francese. Moderno sì ma con qualcosa che ricordi la parte della loro vecchia città sul fiume. Il censimento art decò è una assoluta novità per cui la nuova città liberty deve ancora venire. Per adesso è una labirintica città dello shopping, dove tutti comprano, guardano, trattano. Le trattazioni sono possibili anche nei grandi magazzini, meno accese ma possibili. Un cappotto di cachemire, dopo un’accorta trattativa, può essere acquistato alla metà. Nella città delle aiuole che cantano le ragazze portano la coda di cavallo che ondeggia al suono della musica e sono tutte vestite alla moda.
La tua camera d’albergo può essere al 75esimo piano. Chi lavora in alto racconta che da un giorno all’altro nasce un palazzo, scompare una strada, cambia e cresce la città. Mentre le aiuole cantano.

le Nuove Edizioni Romane alla Fiera di Bologna

La Stampa Tuttolibri 10 Aprile 2004
Le novità che graffiano di più
di Ferdinando Albertazzi


(...)
La commedia di Narco di Roberto Piumini (pp. 88, e8), tratta da un suo racconto di spassose magherie e di avventurosi incontri con frati e briganti, inaugura «Colpi di scena», collana «per leggere e fare teatro» delle Nuove Edizioni Romane.

una segnalazione di Paolo Izzo:

Repubblica 10.4.04
Ma Alice abita ancora qui
La Fiera di Bologna
di Simonetta Fiori


(...)
Non sarà una Fiera priva di "colpi di scena": le Nuove Edizioni Romane hanno avuto l'apprezzabile idea di proporre una collana dedicata al teatro - solitamente trascurato dala nostra editoria per ragazzi - con testi di Roberto Piumini, Sebastiano Ruiz Mignone e G. R. Crosher

scoperta a Prato una «Pompei etrusca»

Repubblica, ed di Firenze 13.4.04
Risale al VI secolo avanti Cristo, ebbe fino a diecimila abitanti. Da oggi un convegno sull'archeologia digitale
Sotto i tir la metropoli etrusca
Prato, dai lavori per l'interporto una grande scoperta
di LAURA MONTANARI


Una coppa di ceramica del pittore Douris (475 a.C.), un vaso di bacchero (terra argillosa scura) e la decorazione di una casa con una figura femminile. Sono tre anteprime etrusche, i reperti del grande scavo all´interporto di Prato, nell´area di Gonfienti, messi a disposizione di pubblico e ricercatori. I tre oggetti saranno presentati oggi al Pin di Prato, il centro universitario, e domani saranno in mostra in una vetrina all´ingresso della sede di piazza Ciardi. L´occasione è l´apertura di un convegno internazionale che richiamerà a Prato, da oggi al 17 aprile, 250 archeologi da tutto il mondo, titolo: «Oltre il reperto: per un´interpretazione digitale del passato». Con l´informatica oggi si possono ricostruire virtualmente le città scomparse, distrutte, mai riemerse dagli scavi, l´importante è rispettare il rigore storico. Come e con quali limiti, ne discuteranno i ricercatori.
Intanto nell´area di Gonfienti proseguono gli scavi della grande città etrusca che la soprintendenza, in collaborazione con l´interporto, Provincia e Comune di Prato, sta riportando alla luce. Lì, dove sono in corso i lavori di un imponente scalo merci per tir e camion, sta riemergendo uno dei più grandi insediamenti etruschi dell´Italia centrale, oltre 12 ettari già sottoposti a vincolo e altri ancora da indagare nel tratto che arriva fino al Bisenzio. «È una città che risale al VI secolo avanti Cristo - spiega Gabriella Poggesi della soprintendenza ai Beni Archeologici della Toscana - una città di commercianti, una zona ricca che somiglia all´insediamento etrusco di Marzabotto. Abbiamo già estratto da questi scavi migliaia di reperti, molte ceramiche e anche scarti di lavorazione. Abbiamo scoperto una casa di oltre mille metri quadrati, con un colonnato e diverse stanze, e ritrovato le tracce di strade e qualche impronta del passaggio dei carretti». La città etrusca di Gonfienti era una «città-postazione», cioè «progettata» apposta per chi si muoveva verso nord, in direzione del valico appenninico. Una città grande dove, ipotizzano altri esperti, si crede vivessero fino a diecimila persone. Lo farebbero supporre le dimensioni delle strade, anche quindici metri di carreggiata per una via urbana, le massicce opere idrauliche, lo sviluppo ordinato e le proporzioni degli edifici. Una sorta di Pompei etrusca, la cui fine è ancora un mistero. Saranno gli esperti, con l´avanzamento degli scavi, a dare nuove risposte. Scavi che sono iniziati nel ´97, quando durante lo sbancamento per l´interporto, sono saltati fuori i primi reperti: tegole, coppi, resti di mura. La scoperta ha permesso inoltre di risolvere un altro mistero, quello intorno alla statuetta L´offerente che si trova al British Museum di Londra. Il bronzetto votivo, risalente al 480 a.C., fu trovato a Prato, a Pizzidimonte, nel VIII secolo. Fu venduto al museo inglese nel 1824, ma non è mai stato chiaro se si trattasse di un ritrovamento isolato o l´indizio di una presenza di un grande insediamento etrusco. Fino a che la grande città addormentata non ha dato segno di sé.

lo studio della lingua araba

una segnalazione di Paolo Izzo

Repubblica 13.4.04Da Torino a Palermo, università e associazioni insegnano la cultura che coinvolge 200 milioni di persone nel mondo
Scuola di arabo, è boom in Italia
Dai ragazzi agli adulti, cresce l'interesse per la lingua del Corano
Diversi sono anche gli sbocchi lavorativi per chi si impadronisce di quest'universo
Uno studio assai impegnativo che nasce dalla voglia di capire una civiltà lontana
di ANGELA LANO


ROMA - Boom dei corsi di arabo in Italia: sono migliaia gli iscritti, sia nelle università sia nei centri culturali. L´interesse, già presente nel '91, dopo lo scoppio della prima guerra del Golfo, è aumentato negli ultimi tre anni (dalla tragedia delle Torri Gemelle).
È la curiosità, il desiderio di conoscere una cultura ricca, quella arabo-islamica, a spingere ogni anno numerosi studenti, giovani e adulti, a cimentarsi con le difficoltà dell´alfabeto arabo, dei verbi irregolari, delle declinazioni, delle frasi verbali o nominali, fino alla lettura del Corano o dei versi delle poesie dell´età d´oro dell´impero Abbaside.
Chi si avvicina a questa lingua è spesso affascinato da tutto l´universo storico-culturale e simbolico che essa racchiude, oppure è attratto dalle opportunità professionali che potrebbe offrire. C´è chi progetta di diventare consulente per aziende di import-export che commerciano con i paesi arabi - come Valentina, una giovane studentessa di Milano - e chi, come Daniela, una signora torinese sulla sessantina, di viaggiare nel Maghreb con più disinvoltura e sicurezza. Altri si cimentano nell´impegnativo studio della grammatica e dei vocaboli per "passione". È il caso di Roberto, di Pisa e di tanti altri che non sanno neanche spiegare questo strano "richiamo": qualcuno è attirato dall´Islam e ne vuole studiare la lingua, altri desiderano comprendere meglio le complesse dinamiche storico-politiche in atto nello scenario internazionale. Per Simona, 40 anni, di Bologna, prevale l´interesse affettivo: è sposata con un marocchino e desidera approfondire lo studio della cultura del marito.
A Torino, due dei luoghi più accreditati dove intraprendere questo lungo e complesso studio (sono necessari diversi anni di impegno), sono l´Università - facoltà di Lingue e letterature straniere e Lettere e filosofia - e il centro diocesano per le relazioni cristiano- islamiche «Federico Peirone». La Lombardia riserva un grande interesse per lo studio del mondo arabo-islamico: l´insegnamento della lingua araba all´Università Cattolica di Milano è una tradizione più che ventennale, insieme a quella delle discipline storico-politiche del mondo islamico. Ma grande affluenza di studenti la registra anche la Statale, dove, tra Lettere e filosofia e Scienze politiche, gli iscritti sono un centinaio, così come quelli della Bicocca-facoltà di Scienze della formazione. La Ca´ Foscari di Venezia è, insieme all´Orientale di Napoli, una delle sedi più antiche di studi orientali in Italia: è lì che gli appassionati di scienze arabo-islamiche confluivano da tutta la penisola prima che fossero aperti altri centri accademici. Attualmente sono oltre 150 gli studenti che frequentano i corsi.
A Bologna, la lingua araba è insegnata sia alla Facoltà di Lettere sia a quella di Lingue e alla Scuola superiore per Traduttori e interpreti. Il centro linguistico interfacoltà, con sede a Forlì, ha inoltre realizzato un corso di lingua araba su cd-rom, accessibile anche in rete (www.cliro.unibo.it) e con accesso gratuito.
Diverse centinaia, anche nel resto dell´Italia, sono gli iscritti alle facoltà che contemplano discipline arabo-islamiche: dalla facoltà di Studi orientali dell´Università La Sapienza, o di Tor Vergata, a Roma, a «L´Orientale» di Napoli e, ancora, a quelle di Lecce e Bari, di Catania, Palermo e Sassari. Ognuno con interessi e prospettive di studio differenti a seconda dei corsi di laurea cui appartengono. E, tutti, con sogni differenti e lontani.