mercoledì 31 dicembre 2003



arriva il 2004

BUONA FINE
E BUON PRINCIPIO


A TUTTI E A CIASCUNO


ancora su Soleri:
«un effetto urbano generato dalla gente»

una segnalazione di Riccardo Cantini

da www.architettura.it
una intervista al Construction Manager di Arcosanti, italiano anch'egli, ANTONIO FRAGIACOMO
«"Parametro", 1974: un numero su Arcosanti, definita 'superstar', foto avvincenti, e Soleri che parla di come sconfiggere "l'istinto di morte". Interessante, no?»


Costruendo Arcosanti
di Marco Felici


In Arizona da Paolo Soleri, un viaggio per capire l'attualità dell'unica utopia in costruzione. Un visionario? No, questa non è una definizione adatta; basta parlarci pochi minuti per capire che Soleri è prima di tutto un filosofo, e che le sue intuizioni possono essere rigettate solo da chi teme la loro potenza. Tanti credono nell'Arcologia, un'alternativa che risolve, radicalmente, il problematico rapporto tra l'ambiente antropico e quello naturale: Arcosanti non è ancora una città, ma già ha i suoi cittadini; dei cinquemila volontari che hanno lavorato alla costruzione, molti si sono fermati, ed una sessantina sono ormai definitivamente residenti. Il legante è nell'effetto urbano che si crea in queste strutture iperconnesse e plurifunzionali: un condensato pensato per miniaturizzare la massa dell'habitat salvando il territorio dalla città-diffusa. Partecipare alle attività quotidiane di Arcosanti significa però accorgersi che questo effetto urbano è generato dalla gente; il progettista ha dato lo strumento, ma la musica è liberamente interpretabile. Così tra i terrazzamenti si incontrano i "dannati" della fonderia ed i "mistici" del laboratorio ceramiche; le radioline si sfidano tra rock ed ethnic… Lo "zoo delle persone" (così si scherniscono gli Arcosantiani durante le migliaia di visite turistiche) potrebbe essere completo, ma l'avventura non è finita. Il cantiere va avanti, non si è mai fermato in trent'anni ed ora sembra voler accelerare. È il momento di preparare il salto verso il compimento di una Arcologia, la città che si sviluppa in verticale. C'è fermento nell'aria. Nel parlarne con Antonio Fragiacomo, un altro italiano in un ruolo chiave per la costruzione, emergono alcuni elementi. [MF]

MARCO FELICI: Un architetto romano "alla corte di Paolo Soleri"; come nasce il suo ruolo di Construction Manager di Arcosanti?

ANTONIO FRAGIACOMO: 1974, Parametro. Un numero su Arcosanti, definita 'superstar', foto avvincenti, e Soleri che parla di come sconfiggere "l'istinto di morte"; interessante no? E poi i viaggi per i deserti americani e lo spirito pionieristico che ti comunicano; la tensione straordinaria che questo posto esprime, anche quando si è qui per una breve visita. La partecipazione ad un workshop entusiasmante, con architetti e studenti da tutto il mondo, ed eccomi a costruire questo laboratorio urbano, fisicamente… e capisci che tutto il resto è subalterno.

Consiglierebbe questa sua scelta anche ad altri architetti italiani?

Certo, la scintilla, che per me fu quel numero di Parametro, oggi potrebbe essere il bel libro su Soleri di Iolanda Lima, appena pubblicato, o l'itinerario di Domus [febbraio 1999]. Cominciare con una visita al nostro sito internet, [wwww.arcosanti.org] e, naturalmente, partire per il workshop di cinque settimane. Un viaggio nel deserto di alta quota, siamo a 1200 m. come Cortina d'Ampezzo, non lontani dalla Monument Valley e dal Grand Canyon. Attenti però… questa esperienza può davvero cambiare… la vostra dimensione interna; non coinvolge solo il rapporto con l'architettura e le belle forme.

Cos'è oggi Arcosanti, trent'anni dopo la sua fondazione?

Torno a "Parametro": io credo che Arcosanti sia ancora 'superstar', con in più la forza che gli deriva da questi trenta anni di caparbia crescita, di resistenza. Migliaia di persone hanno contribuito, e contribuiscono anche oggi, alla realizzazione di questo laboratorio urbano. Abbiamo periodi con punte di circa novanta residenti, persone che vogliono dimostrare che il vivere senza sovraconsumo è un-di-più. Saper ridurre la dipendenza dai beni materiali esalta l'enorme carica di creatività ed umanità che nelle megastrutture dello spreco, le città attuali, ogni giorno perdiamo. La metropoli vera, anche se piccola, è qui! …e la puoi fabbricare.

…e quali le prospettive?

Tornando in Italia mi sono accorto del grande interesse che esiste nel nostro paese per Soleri e la sua attualità. Alla Biennale di Venezia [Soleri ha ricevuto il Leone d'Oro alla carriera] Fuksas ha riconosciuto che i temi della mostra erano quelli che Paolo 'inesorabilmente' ci mette sotto il naso da anni, e che qui, ad Arcosanti, costituiscono la base per il nostro lavoro quotidiano. Fino ad allora vestivo solo i panni del Construction Manager; ma poi, quando ti accorgi che investitori ed imprese a volte si fanno sedurre dalle idee, e te li puoi trovare accanto, allora cominci a guardare oltre. Una intraprendente facoltà di architettura italiana, in cerca di sempre migliori strumenti didattici, ha avviato un dialogo serrato con noi per una collaborazione che, non si scappa, ci aiuterà a preparare nuovi 'getti'. Così puntiamo ad avere 600 abitanti nei prossimi cinque anni; le grandi absidi progettate, simboliche della costruzione densa e verticale di un'Arcologia… vorremmo vederle sorgere al più presto, per dimostrare le potenzialità del 'miniaturizzare'. Ora contiamo su collaborazioni di prestigio; ci muoviamo con un passo 'minimalista' [incrementale], ma abbiamo deciso che "le cose che desideriamo devono guidarci più di quelle che possiamo fare". Così ora non sono più solo un Construction Manager, ma anche un Project Manager… concretamente ottimista. Grazie per il vostro interesse.

storie dell'uomo :
l'Europa barbarica e protocristiana

La Stampa 31 Dicembre 2003
TORNA L’EROE MEDIEVALE CHE AVEVA UN SOLO DIO: LA SPADA
Guerra al Male infinito
di Beowulf il barbaro

Il poema fu composto da un anonimo anglosassone prima del Mille
Una complessa vicenda di interpretazioni da quando il manoscritto
venne copiato da due amanuensi: senza che nessuno sapesse capirlo
di Alessandro Barbero


Beowulf: poema epico anglosassone di autore ignoto, pervenutoci in un tardo manoscritto in diletto sassone, scritto probabilmente alla fine del sec. VII, forse sulla base di una tradizione orale. Unico poema della letteratura germanica giunto integralmente sino a noi, il B. conta circa 3000 versi allitterativi senza rime. Il tema centrale è costituito dalle imprese dell'eroe che dà il nome al poema, nipote del re dei Geati. Beowwulf riesce ad uccidere il mostro Grendel ed un drago, ma soccombe per le ferite riportate nell'ultimo duello. La materia del poema è quella delle leggende precristiane di origine scandinave (L'Inghilterra non vi compare, B. è originario della Svezia meridionale e l'azione si svolge in Danimarca), sottoposte all'influsso della cultura cristiana anglosassone. Probabilmente scritto da un unico poeta in qualche monastero della Northumbria, l'opera possiede una sua melanconica poesia in cui si mescolano idealismo eroico e austero fatalismo» (dall'Enciclopedia Garzanti)

FIN da quando i nostri antenati si rifugiavano nelle caverne e dovevano difendersi dall'orso, i peggiori incubi dell'umanità si sono incarnati in forma di mostri notturni che escono al crepuscolo e fanno a brani le loro vittime nell'oscurità. Il respiro pesante della creatura nel silenzio della notte, il balenio di zanne nel buio, le urla raggelanti che lacerano il silenzio sono gli ingredienti sempre efficaci di innumerevoli storie, fumetti o film horror. Ma il primo a forgiare con questi materiali un capolavoro di barbarico splendore è stato l'anonimo poeta anglosassone che nei secoli precedenti al Mille compose il Beowulf, l'unico poema epico sopravvissuto fino a noi dal naufragio della primitiva cultura germanica.
«Venne furtivo nella buia notte
il camminatore dell'ombra; dormivano i combattenti
che dovevano guardare la casa...
Venne dalle paludi sotto fosche pendici
Grendel a gran passi, portava su sé l'ira di dio...
Venne in cammino alla casa il guerriero
privo di gioia; presto la porta cedette...
Dagli occhi spuntava
simile a fiamma una luce maligna;
vide nella sala molti guerrieri,
dormire assieme il seguito di congiunti,
la schiera di giovani. L'animo gli rise...»
Così, nell'incalzare della ripetizione ossessiva e sempre variata che è uno dei segreti dell'arte epica, assistiamo all'arrivo di Grendel, il mostro notturno che infesta il regno di Hrothgar e che l'eroe, Beowulf, è venuto a combattere, senza immaginare che quella prova sarà solo l'inizio di un'ordalia spaventosa e senza ritorno.
Copiato intorno all'anno Mille da due amanuensi anglosassoni, il manoscritto del Beowulf rimase sepolto in un monastero fino alla riforma protestante, quando approdò alla British Library, dove peraltro nessuno era in grado di leggerlo. Solo fra Sette e Ottocento studiosi scandinavi ci misero sopra le mani e cominciarono faticosamente a tradurlo, nella stessa epoca in cui i filologi romantici disseppellivano dalle biblioteche di mezza Europa gli altri capolavori di un Medioevo dimenticato, la Chanson de Roland, il Cantar de Mio Cid, il Nibelungenlied. Che si trattasse, anche in questo caso, d'un capolavoro ci volle ben poco a capirlo, anche se ogni epoca, com'è naturale, ha cercato fra i suoi scintillanti versi allitterati quello che voleva trovarci: l'Ottocento, lo splendore pagano ed eroico d'una Scandinavia wagneriana; il Novecento, le ombre torbide d'una psicanalisi collettiva, junghiana più che freudiana, e la modernità di un'arte cui attingere sempre nuova ispirazione. Non a caso fra gli studiosi del Beowulf c'è J.R.R. Tolkien, distinto filologo oxfordiano oltre che creatore del Signore degli Anelli; ma al poema si è ispirato anche Michael Crichton per i suoi Mangiatori di morte, da cui è stato tratto pochi anni fa un film che molti ricorderanno, Il tredicesimo guerriero con Antonio Banderas.
La popolarità del Beowulf è testimoniata dal numero sbalorditivo delle traduzioni: in inglese, nel corso del Novecento, ne è uscita in media una ogni due anni, e quella del poeta Seamus Heaney, apparsa nel 1999, è stata salutata come un grande evento letterario, capace di saldare il passato e il presente della poesia inglese. Ma anche in italiano esistono ben sette traduzioni complete: lo segnala Giampiero Brunetti nell'introduzione alla sua, che è appunto la settima. Troppe? No di certo, per un testo che si presta a una miriade di interpretazioni, scritto in una lingua meravigliosa ma così aliena da sembrare nata su un altro pianeta. Il Beowulf di Brunetti è appena uscito come numero 89 della ormai quasi leggendaria "Biblioteca Medievale": caso più unico che raro d'una collana che è trasmigrata attraverso tre o quattro editori diversi, approdando ora da Carocci, ma conservando sempre una veste grafica riconoscibile e un'identica qualità. Il volumetto non comprende soltanto la traduzione e il testo originale a fronte, ma un ampio saggio introduttivo che rende conto dei continui progressi dell'interpretazione; per dirne una, oggi siamo sempre più consapevoli del fatto che questa saga barbarica, ambientata in un remoto passato pagano, venne composta in un ambiente ormai profondamente cristianizzato, un dato volentieri sottaciuto nelle interpretazioni romantiche.
Cosa raccontano, dunque, gli oltre tremila versi che i due copisti trascrissero pazientemente mille anni fa, in un codice che nel frattempo è scampato fortunosamente a un incendio, ha cominciato a sgretolarsi nei margini e potrebbe anche, un giorno, ridursi in polvere fra le nostre mani, lasciandoci soltanto il suo fantasma fissato per sempre dalle riproduzioni digitali? Fra innumerevoli digressioni e peripezie secondarie, che qualcuno ha paragonato al vertiginoso intrecciarsi degli arabeschi nelle miniature anglosassoni, si dipana la storia del re Hrothgar, il cui popolo sta soccombendo alle incursioni notturne d'un mostro inafferrabile. A evocare la bestia sono stati la luce, il calore, i canti di gioia che si levano dalla sala ben riscaldata e illuminata in cui Hrothgar banchetta con i suoi guerrieri. Grendel è un gigante cannibale, discendente da Caino; vive solitario nelle paludi, e odia tutto ciò che dà calore e felicità all'uomo. Per ben dodici anni le sue apparizioni improvvise portano la morte e il lutto nel regno di Hrothgar, la grande sala si svuota, il re sprofonda nell'impotenza e in un'umiliante vecchiaia. Quando Beowulf, che vive in un altro paese, ascolta questa storia, raduna quattordici compagni e salpa per il regno di Hrothgar, deciso ad affrontare il mostro.
La notte del suo arrivo, quando Grendel fa irruzione nella sala, Beowulf gli si getta addosso e gli strappa un braccio unghiuto di artigli, che appende in segno di trionfo alla trave della sala. Il mostro mutilato fugge sanguinante verso le sue paludi; lì la traccia si perde, in uno stagno gonfio di sangue. I guerrieri festeggiano a lungo la vittoria, tra fiumi di birra, ma la loro gioia è di breve durata: la notte seguente, un altro mostro fa irruzione fra gli uomini ubriachi, seminando la morte. E' la madre di Grendel, un mostro anfibio che vive in una caverna sott'acqua in mezzo alle paludi, ed è venuta a vendicare il figlio e riprenderne il braccio. Non resta a Beowulf che accettare la nuova sfida: raggiunto lo stagno, vi s'immerge e subito attaccato dalla bestia la incalza fino alla sua dimora, una sala subacquea, dove ritrova anche il cadavere di Grendel. A fatica, l'eroe uccide la creatura femminile, mozza il capo a Grendel e con quel trofeo riemerge stremato alla superficie, mentre il sangue velenoso dei mostri dissolve la sua spada come se fosse ghiaccio, lasciandogli in mano soltanto l'elsa.
Beowulf, dunque, trionfa; ma la visione dell'autore è tragica, per nulla interessata a un lieto fine. Il Male incalza sempre, la faida tra l'umanità e i mostri non avrà mai fine, e dopo la gioia incombe sempre il dolore. Quando è chiamato all'ennesima impresa, affrontare un drago che devasta il suo regno, l'eroe sente pesare su di sé un oscuro presagio di morte. Nella lotta feroce la belva è alla fine uccisa, ma Beowulf è ferito a morte dalle sue zanne; il suo popolo gli celebra un grandioso funerale, ardendo il corpo su un'immensa pira carica di armi, mentre il corpo del drago è gettato in mare dalle scogliere e il suo tesoro è distribuito ai guerrieri; ma tutti sanno che non ne godranno a lungo. Altri nemici incombono, ad attenderli non è la gioia ma la guerra, e forse l'esilio e la morte:
«non suono d'arpa
sveglierà i guerrieri, ma il nero corvo»
E anche in questa capacità di esprimere, a tanti secoli di distanza, l'angoscia metafisica d'una cultura barbarica che non aveva altro dio se non la spada sta la grandezza del poeta cristiano.

György Lukács
il comunismo come "salto nella fede"
e il terrorismo "rivoluzionario"

Corriere della Sera 31.12.03
Cultura
E Lukács incantò Thomas Mann
di VITTORIO STRADA


Il momento più intenso che il terrorismo e la riflessione sulla sua legittimità etica hanno trovato nella cultura europea è legato alla biografia intellettuale di György Lukács, il filosofo marxista ungherese che è stato, assieme ad Antonio Gramsci, l’espressione più alta del «leninismo occidentale». Gli storici che hanno ricostruito la sua vita e il suo pensiero, come Arpad Kadarkay ha fatto nel modo migliore, sono concordi nel riconoscere che la fase centrale della sua formazione coincide con la grande crisi europea che va dalla guerra mondiale alla rivoluzione bolscevica, periodo in cui Lukács scrisse i suoi due capolavori Teoria del romanzo e Storia e coscienza di classe, opere che segnano il suo passaggio da una tormentata ricerca etico-religiosa all’adesione totale al comunismo. Fu, questo, uno degli episodi più straordinari e significativi della coscienza europea di quegli anni a livello sia intellettuale sia esistenziale, tanto che il giovane Lukács divenne il prototipo di un personaggio di uno dei maggiori romanzi del tempo: La montagna incantatadi Thomas Mann, dove appare nelle vesti del gesuita rivoluzionario Naphta, avversario di un’altra figura, Settembrini, quintessenza dello spirito democratico. La «conversione» di Lukács al comunismo leniniano fu un vero «salto della fede», una «scelta» kierkegardiana che l’opera successiva di Lukács «razionalizzò» all’estremo, senza però cancellare l’impulso «irrazionale» di base. In questa vicenda, il terrorismo occupa un posto essenziale perché il giovane Lukács fu attratto da quella che era e resta la forma più potente del terrorismo «classico»: quello russo, che lo affascinò attraverso l’opera di Boris Savinkov, un socialista rivoluzionario che - oltre a praticare sistematicamente il terrore contro il regime zarista - come nessun altro ne seppe esprimere la problematica psicologica e morale in opere letterarie di rilievo. Se si aggiunge che Lukács, alla vigilia della sua «conversione», fu un acuto lettore di Dostoevskij, geniale indagatore del delitto quale atto metafisico e metapolitico, sulla cui opera il pensatore ungherese ha lasciato appunti di straordinario interesse, e si aggiunge poi che egli fu legato da un breve e tormentato matrimonio con una affiliata del terrorismo russo, Elena Grabenkom, si capirà come il tema della violenza costituisse per il neofito bolscevico qualcosa di essenziale, un problema che egli doveva affrontare per giustificare a se stesso il passaggio dall’iniziale idealismo etico all’accettazione piena e attiva del terrore rivoluzionario.
Vivendo il comunismo come problema morale, Lukács nel 1919, nell’articolo Tattica e etica pone e risolve, a suo modo, il problema del terrorismo rivoluzionario, dell’imperativo rivoluzionario «Tu devi uccidere!», sentito da lui, a differenza della più parte dei suoi nuovi compagni di partito, come flagrante violazione dell’imperativo religioso «Non uccidere!». La contraddizione per Lukács si scioglie in un modo tipicamente russo, nello spirito del terrorismo rivoluzionario «classico», del quale Savinkov, con tanti altri conterranei, era stato l’espressione: il terrorista, uccidendo, «sacrifica per i suoi fratelli non solo la sua vita, ma anche la sua purezza, la sua morale, la sua anima». Egli sa di commettere un crimine e non ha alcun dubbio che «in nessuna circostanza l’omicidio deve essere approvato», ma sa anche che esso, tuttavia, «può avere, tragicamente, una natura morale». Per esprimere meglio questo pensiero Lukács cita le splendide e terribili parole dell’eroina del dramma di Friedriche Hebbel Judith: la bella ebrea Giuditta che - nell’omonimo libro della Bibbia, quando la sua città, Betulia, sta per cedere a Oloferne, il tremendo generale di Nabucodonosor - finge di passare dalla parte del nemico, concedendosi ad Oloferne, ma per decapitarlo poi nel sonno. Le parole di Giuditta che Lukács porta come giustificazione sofferta del terrorismo suonano: «E se Iddio avesse posto il peccato tra me e l’azione che mi è stata imposta, chi sono io perché possa sottrarmi ad esso».
Giuditta sa di commettere un «peccato», assassinando Oloferne (e chiederà ai suoi di ucciderla per timore di procreare un figlio dal nemico nell’amplesso che ha preceduto l’assassinio), ma sente il delitto come voluto da Dio, un imperativo dal quale essa non può esimersi. Così Lukács credeva di aver risolto il problema etico del terrorismo rivoluzionario, accettandolo come farà la sua proiezione romanzesca, Naphta, nella Montagna incantata, secondo il quale il compito del proletariato è «il terrore per la salvezza del mondo», fino ad arrivare al profetico verdetto che «non liberazione e sviluppo dell’io sono il segreto e l’esigenza della nostra epoca. Ciò in cui essa ha bisogno, ciò che brama, ciò che riuscirà a procurarsi è... il terrore».
Naphta vedeva il futuro più lucidamente del suo prototipo, Lukács, il quale nonostante il suo razionalismo marxista fondato su un atto di fede irrazionale, era ancora dominato da una visione etica anche nella giustificazione del terrore rivoluzionario: è vero che il Dio di Giuditta non era più il suo, essendo la divinità da lui adorata quella della Storia, ovvero la necessità immanente al processo storico rivelata da Marx, ma ciò che allora gli sfuggiva, e che egli stesso nell’Unione Sovietica avrebbe osservato di persona, è che con la rivoluzione bolscevica il terrorismo «classico» alla Savinkov era finito ed era cominciato un terrorismo totale e totalitario di massa, la cui espressione centrale diventò il Gulag. Come diceva con spietata ironia Anna Achmatova, un eroe dostoevskijano come Raskolnikov uccide per «idea» una vecchia usuraia e involontariamente sua sorella e poi si angustia per tutta la vita, mentre i boia bolscevichi ammazzano con un colpo alla nuca qualche decina di «nemici di classe» e poi vanno a riposarsi.
Il «leninista occidentale» Lukács, la cui coscienza non poteva non essere gravata dalla responsabilità dei successivi crimini della rivoluzione, ragionava ancora entro un orizzonte etico-religioso giudaico-cristiano, come l’esempio di Giuditta dimostra. Oggi il terrorismo, pur nella continuità del suo sviluppo, è entrato in una fase nuova, successiva a quella «classica», ancora cristiana, e a quella atea, comunista (e nazionalsocialista), una fase anch’essa religiosa, ma di una religione (e civiltà) diversa che giustifica senza remore l’uccisione in massa di innocenti fortuitamente prescelti e il suicidio simultaneo dell’omicida, votato a una remunerazione ultraterrena, oltre che alla gloria postuma di chi è reputato martire. Anche la storia del terrorismo conosce un suo macabro progresso sulla via verso il nulla, a partire dai lontani patemi d’animo di un Lukács e dei «suoi» terroristi dostoevskijani.

laicità e libertà sono principi antitetici?
...in Francia...

Corriere della Sera 31.12.03
La proposta francese di vietare il velo islamico nelle scuole pubbliche ha suscitato un'ondata di critiche in molte comunità musulmane e in diversi Paesi occidentali...
di Massimo Nava



PARIGI - La proposta francese di vietare il velo islamico nelle scuole pubbliche ha suscitato un'ondata di critiche in molte comunità musulmane e in diversi Paesi occidentali, Stati Uniti in testa, per una volta in sintonia nel denunciare un attentato alle libertà individuali e alla libertà religiosa e la tentazione, tipicamente francese, di ricorrere a un divieto dal sapore giacobino e anticlericale.
Per inciso, proprio ieri lo sceicco Mohammed Sayed Tantawi, una delle massime autorità dell’Islam sunnita, ha detto che il velo è un obbligo solo nei Paesi musulmani e che quindi la Francia ha diritto di vietarlo. Anche il dibattito apertosi in Francia risente di riserve e critiche che trapassano comunità e schieramenti politici. I «crociati» della laicità dello Stato avrebbero voluto un proibizionismo più marcato, le componenti liberal temono una reazione confessionale e quindi un'ostentazione provocatoria. Molti osservatori notano che il velo, più che coprire il capo delle allieve musulmane, è la foglia di fico su problemi che la Francia stenta ad affrontare: disagio delle periferie, fallimento dell'integrazione, crescente populismo xenofobo. Per comprendere meglio, qualche precisazione è d'obbligo. Non è vero che la Francia ha deciso di vietare il velo islamico, anche se questo è il messaggio percepito dall'opinione pubblica. Si tratta di una proposta avanzata dal presidente della Repubblica, Jacques Chirac, sulla base di una vasta indagine condotta da una commissione di saggi in rappresentanza di tutte le componenti culturali e religiose. La commissione non si è limitata a discutere di veli e crocefissi, ma ha evidenziato il nuovo paesaggio s pirituale di una società davvero multiculturale: ha indicato una strada di tolleranza e apertura, non di oscurantismo e repressione. Per esempio proponendo l'insegnamento della storia delle religioni nelle scuole e la possibilità di alimenti differenziati nelle mense. La proposta francese non si riferisce al solo velo islamico, ma a tutti i simboli religiosi esibiti con evidente ostentazione o finalità di proselitismo. Una legge, ancora da scrivere e approvare, restringe comunque il campo alla scuola pubblica secondaria, dove l'esigenza di una regola condivisa era particolarmente avvertita. Basti ricordare il dibattito lacerante, nella stessa comunità musulmana, fra allieve che considerano il velo un diritto, per ragioni di pudore e tradizioni religiose, e allieve che l o denunciano come un'imposizione di padri e fratelli fondamentalisti. E' probabile, come sostengono i critici, che una legge sia la risposta sbagliata e provochi effetti peggiori, ma nel processo alle intenzioni della Francia dovrebbe essere considerata almeno un'attenuante la volontà di garantire, con la liberté dell'individuo, anche l' égalité delle opportunità e la fraternité della convivenza civile, quindi la garanzia di un'offerta neutra e laica del servizio pubblico e soprattutto dell'istruzione. Negli ultimi mesi, la Francia è stata accusata di aver rotto il fronte occidentale per la guerra all'Iraq e di qualche eccesso di benevolenza nei confronti del mondo islamico, magari con l'opportunismo di tenersi buoni i musulmani di casa propria, la più grande comunità in Europa. Nello stesso tempo, il Paese si è trovato all'indice per manifestazioni endemiche di antisemitismo e xenofobia, fenomeni aggravati da tendenze nuove, come l'islamofobia che fa crescere l'estrema destra e l'antisemitismo di giovan i immigrati musulmani, soprattutto nelle scuole delle periferie. Oggi la difesa della laicità dello Stato, cornice di un Paese che da secoli è terra d'accoglienza per tutti, fa gridare all'attentato alle libertà individuali. In particolare dei musulmani, che trovano avvocati anche fra coloro che spesso denunciano l'oscurantismo del Corano e il rischio di estinzione della cultura occidentale. La legge sui simboli religiosi è probabilmente il riflesso della crisi d'identità di un Paese che s'interroga sulle proprie ambizioni, ma è strano che sia anche occasione di processi, come se un Paese sbagliasse a voler difendere i valori fondamentali della propria storia. Alla ricerca di se stessa, all'interno e sulla scena internazionale, la Francia si aggrappa alla storia passata (la Rivoluzione) e recente (de Gaulle). Può essere che questa scelta risulti anacronistica, come l'illuminismo e la «Vecchia Europa», ma i «giacobini» francesi continuano a credere che laicità e libertà non siano principi antitetici bensì pilastri di una moderna democrazia. E' questo il messaggio che la Francia lancia anche al mondo islamico, forse in modo meno traumatico delle libertà esportate con campagne militari.

martedì 30 dicembre 2003

citato al Lunedì:
Freud era un omosessuale
...ed è un fatto!

lo dimostra un libro di recente pubblicazione,
Gianna Sarra,
La sindrome di Eloisa. Le lettere d'amore delle scrittrici e degli scrittori | 1ª ed.
Ed. Nutrimenti, Roma 2003, Euro 14,00, ISBN: 8888389148

Questo libro, infatti, contiene fra molte altre anche le lettere "d'amore" di Freud, fra le quali anche quelle apertamente omosessuali a Wilhelm Fliess e a Romain Rolland (1866-1944, scrittore francese, cultore di filosofia letteratura e musica di una certa fama); esse erano già a conoscenza della principessa Marie Bonaparte (1882-1962), fondatrice nel 1926 della Société psychanalytique de Paris, che sembra le avesse raccolte e poi sottratte alla probabile distruzione da parte di Freud stesso.
Un'edizione italiana precedente (non ancora reperita) risalirebbe al 1985.

citato al Lunedì:
Bertinotti come Diliberto, un percorso compiuto

l'articolo che segue è stato ripubblicato il giorno dopo da Liberazione, il quotidiano del PRC, integralmente, senza tagli né commenti

La Repubblica Sabato 27 Gennaio 2003
Condanna dei gulag, non violenza assoluta: la lunga marcia del segretario di Rifondazione
Dal proletariato ai no global la Bad Godesberg di Bertinotti

In articoli e convegni l'allontanamento dal solco della tradizione comunista
Il segretario nega ogni volontà di abiura, ma recide i legami con l'ideologia
La "scoperta" delle foibe: "Anche da parte dei giusti, soppressione di umanità"
di GOFFREDO DE MARCHIS


ROMA - Anche abbandonare una storia, rimanere comunisti di nome ed esserlo sempre meno di fatto, è una lunga marcia. E lenta, e problematica, a volte noiosa nello sforzo di essere una cosa seria, non una «svolta» da annunciare in tv e basta. Fausto Bertinotti scrive, risponde, puntualizza, corregge spostando sempre un po' più in alto l'asticella, magari solo di qualche centimetro alla volta ma a lui sembra l'unico modo per saltarla davvero. Niente abiure, nel frattempo continuiamo a dirci comunisti, avverte. Si può? Lui dice di sì, declinando in maniera nuova il concetto, la storia, contagiandola con la realtà. È una Bad Godesberg allungata, una corsa a tappe, non uno sprint, che si arricchisce ogni giorno di ragionamenti, lettere, interviste, convegni, di tante «svolte». È il «confronto delle idee» nel solco dell'unica parte della tradizione comunista, quella intellettuale, che il segretario di Prc ha deciso di salvare. Ovviamente il comunismo è stato qualcosa di più del confronto delle idee. È stato culto, ideologia, «religione», si è fatto tragicamente Stato per milioni di uomini. E qui il segretario di Rifondazione non ha dubbi: la statua deve lentamente ma inesorabilmente venire giù.
In questi ultimi due anni, Rifondazione ha scattato alcune nuove fotografie della storia comunista condannando il massacro di Kronstadt e i gulag, «15-20 milioni di persone sterminate». Cancellando dal suo Statuto i richiami allo stato leninista e agli insegnamenti di Gramsci. Rileggendo la Resistenza «per lavorare sui nostri errori». Scoprendo le foibe e ammettendo che sono state per tanto tempo «minimizzate». Impegnandosi quindi a sciogliere il legame con il '900 e scegliendo l'adesione a una logica totalmente non-violenta della politica. Non caso Bertinotti ha «ripudiato» gli episodi più cruenti della storia comunista. L'approdo è quello del pacifismo assoluto, è il suo indirizzo offerto ai movimenti, alla piazza, ai no global.
Durante il cammino, la domanda è sempre stata la stessa: bene, allora siete pronti a cambiare nome, ad abbandonare la «ragione sociale» comunista? Anche la risposta di Bertinotti è rimasta uguale: «Noi siamo comunisti». Ma con mille punti interrogativi, critici, problematici. Non quelli del secolo scorso. Oggi il comunismo di Bertinotti è un «processo aperto e indefinito», come ha scritto in una lunga lettera di risposta a Adriano Sofri sull'Unità. Una definizione di per sé rivoluzionaria visto che il comunismo non aveva niente di indefinito, era regola, disciplina, autoritarismo. Basta rileggere, 64 anni dopo, Buio a mezzogiorno di Koestler. Se è così, se il comunista di oggi dev'essere tanto diverso da quello di ieri per stare nel mondo del terzo millennio, Sofri chiede al segretario di Prc se sia giusto usare la falce e martello solo come bandiera o nostalgia. Bertinotti parla di nuovi obbiettivi, di un cambio di soggetto politico dal proletariato al «movimento dei movimenti». Ma alla fine allarga le braccia: «Non saprei come chiamare questo compito se non comunismo».
Eppure sempre di più di comunista Bertinotti lascia che nella vicenda di Prc rimanga soltanto il nome. Viene reciso il cordone ombelicale con l'ideologia, con il «grande cambiamento promesso» nel nome del quale il comunismo ha perpetrato i suoi «orrori». Nell'intervista a Repubblica sul dibattito aperto da Sergio Segio a proposito delle possibili infiltrazioni Br nel movimento, Bertinotti ha usato le forbici della memoria: «Non mi appartiene più il Brecht che diceva: Vogliamo un mondo gentile ma per averlo non possiamo essere gentili». Oggi la scelta non può essere altra che respingere ogni atto di violenza». Dopo quelle parole ha aperto un confronto con Marco Revelli e Paolo Mieli sui rapporti tra comunismo e violenza politica. E ha rialzato l'asticella organizzando a metà dicembre a Venezia un convegno sulle foibe, «minimizzate», esempio di come anche «dalla parte dei giusti c'è stata oppressione e soppressione di umanità», l'occasione per «estirpare la violenza entrata in noi». Quell'appuntamento ha celebrato anche rivisitazione di alcuni passaggi che il comunismo italiano aveva trasformato in bandiere indelebili. «C'è stata un'angelizzazione della Resistenza. Sarà pure un problema se Pavese scrive del suo orrore per il sangue e Pintor ci racconta del ribrezzo per le armi», ha detto a Venezia il leader di Prc. E lì ha unito gulag, lotta di liberazione italiana, il massacro di migliaia di italiani per mano dei partigiani fedeli a Tito, per condannarli, per «non giustificarli». Lo ha fatto nel nome dell'anticomunismo? No, lo ha fatto perché è «comunista davvero».
Il travaglio personale e collettivo è accompagnato da una prudente ed elaborata «operazione politica», il lento avvicinarsi ai movimenti, soggetto politico che «non ha niente a che vedere con la storia del '900», diffidente verso i partiti, verso il Palazzo, verso il passato compreso quello comunista che fu più partito di tutti fino a trasformarsi in partito-stato. Nel collegamento con la piazza l'iconografia comunista appare dunque un peso e quello spazio lasciato libero dall'uscita di scena di Sergio Cofferati candidato a Bologna va guidato con parole d'ordine chiare (la non violenza) ma con il massimo di apertura e indefinitezza. La prossima tappa è dietro l'angolo: il 10 e l'11 a Berlino Rifondazione, i comunisti francesi, gli spagnoli di Izquierda unida e il Pds tedesco firmano un protocollo d'intesa per le elezioni europee. Si presenteranno con i loro simboli ma sotto l'insegna di «partiti della sinistra alternativa». Dopo il crollo della statua, vacilla anche la targa, il richiamo al comunismo.

oggi Martedì 30 su Liberazione:

Quell'articolo di "Repubblica"
su comunismo e rifondazione


Caro direttore, sono rimasto sconcertato dall'articolo apparso su "La Repubblica" di sabato 27 dicembre ("Dal proletariato ai no global, la Bad Godesberg di Bertinotti") e ancor più sconcertato dal fatto che "Liberazione", il giorno dopo (28 dicembre). abbia ripubblicato lo stesso articolo senza un filo di commento. Goffredo De Marchis, l'autore dell'articolo, è abile nel far emergere la sua verità: e cioè che il Prc avrebbe intrapreso una sua "lunga marcia" per fuoriuscire dal comunismo ("Sempre di più di comunista Bertinotti lascia che nella vicenda di Prc rimanga soltanto il nome"). Sono affermazioni pesantissime, secondo le quali i militanti e gli elettori del Prc non si troverebbero di fronte ad un cambiamento di linea politica, ma di fronte ad un avanzato processo di cancellazione della natura politica e teorica del loro partito, e cioè di fronte ad un nuovo tentativo di superamento, in Italia, del Partito comunista. A questa "elaborazione" de "La Repubblica" (che già svolse un ruolo centrale nella cancellazione del Pci) occorreva rispondere, denunciando la strumentalizzazione che sale ancora una volta dalle pagine di una testata anticomunista. Quando si ripropone un articolo così pesante di un'altra testata, senza decodificarlo e criticarlo, si rischia di inviare ai propri lettori un messaggio oggettivo, che è, tradizionalmente, questo: «è un articolo importante, che vi proponiamo per farvi riflettere». Poiché sono convinto che non è questo il messaggio che "Liberazione" voleva inviare, sono anche convinto che sia stato fatto solo un errore nel pubblicarlo così nudo e crudo. Un errore che però va corretto, rispondendo chiaramente a De Marchis e, per la verità, anche a tutti i compagni e le compagne sconcertati e inquietati.
Fosco Giannini

Caro Sandro, devo dirti che fa un certo effetto rileggere il giorno dopo sulle colonne del giornale del partito l'articolo di Repubblica su "la lunga marcia del segretario di Rifondazione", dove viene attribuito a Fausto Bertinotti l'impegno defatigante e anche un po' noioso di «rimanere comunista di nome e di esserlo sempre meno di fatto». L'approdo di un comunismo del terzo millennio che sfuma in un processo aperto e indefinito, segnato dal lento avvicinamento ai movimenti, e verso il pacifismo assoluto… Immagino che i commenti e forse la replica dell'interessato verranno i prossimi giorni. Non credo che si tratti di una questione personale di Fausto, ma della descrizione deformata e tradotta nel politichese imperante, di una questione che riguarda tutto il partito e le sue scelte congressuali e post congressuali. Nella sostanza si tratta né più né meno della rifondazione per cui è sorto il nostro partito, con l'apporto fin dall'inizio di forze politiche e intellettuali che non avevano aspettato la caduta del muro per esprimere una critica profonda e radicale del socialismo reale. E non mi riferisco solo a chi si richiamava esplicitamente alle tradizioni eretiche del comunismo novecentesco, ma anche alle esperienze di provenienza sessantottina, alle culture maturate nel crogiuolo che è stata la sinistra sindacale negli anni sessanta e settanta, all'elaborazione innovativa di settori della sinistra comunista e socialista italiana, da Lelio Basso ad Aldo Natoli, da Pietro Ingrao al "manifesto", al dissenso di matrice cristiana. Anzi c'è da meravigliarsi, in un certo senso, che sotto l'urgenza delle esigenze di una politica di resistenza, un progetto di ripensamento radicale dell'eredità novecentesca e di progettazione innovativa di un nuovo pensiero comunista abbia tardato a decollare e a uscire dall'ambito di elaborazioni puramente intellettuali. Certamente è stato il movimento dei movimenti che ha creato le condizioni e fatto emergere la necessità di un ripensamento complessivo non più rinviabile. Ed è certamente merito di Rifondazione oggi, del suo ultimo congresso, e del suo segretario, di aver posto questo ripensamento come un atto politico concreto da perseguire non solo in Italia, ma a livello internazionale, almeno nell'orizzonte di una sinistra alternativa europea di cui si avverte drammaticamente la necessità e la mancanza...
Domenico Jervolino

risponde Sandro Curzi, direttore di Liberazione:

A noi l'articolo di De Marchis è parso interessante: non un testo "veritiero" o "condivisibile", ma appunto un documento giornalistico sul Prc e le sue scelte attuali, che valeva la pena di far conoscere anche ai nostri lettori. Com'era ovvio, "La Repubblica" ha fornito la sua interpretazione di parte, nella quale non si distingue tra «abiura» (magari con annesso cambiamento di nome) e «rifondazione» di nuova cultura comunista - forse neppure si capisce la differenza. Dovevamo corredare l'articolo di una presa di distanza? Specificare che non si trattava, da parte nostra, di una "assunzione" acritica? Ma il testo conteneva alcune affermazioni di Fausto Bertinotti che non davano adito ad alcun dubbio sulla qualità, il senso e la portata del percorso che il Prc ha intrapreso, del resto da molti anni. Anche per questo abbiamo evitato un'operazione che sarebbe suonata pesantemente pedagogica, e ci siamo fidati delle autonome capacità critiche dei nostri compagni e dei nostri lettori. Cogliamo l'occasione per ribadire che "Liberazione" spesso pubblica (o ripubblica) testi di un certo interesse politico, analitico o giornalistico, che sono da noi condivisi solo parzialmente: non solo in omaggio a principi liberali e pluralisti, ma al dato di fatto che il mondo (compreso quello di sinistra) «è molto più grande di quanto non ne contenga la nostra filosofia».

citato al Lunedì
l'ultimo libro di Pietro Ingrao

Pietro Ingrao
La guerra sospesa. I nuovi connubi tra politica e armi
Dedalo, 2003 Euro 15,00


sull'argomento:

La Repubblica 23.12.03
una raccolta di scritti
le guerre sospese di Pietro Ingrao
di MIRIAM MAFAI


Può apparire per lo meno singolare che un saggio intitolato alla guerra, tema quanto mai drammatico ed attuale (Pietro Ingrao La guerra sospesa, Dedalo, pagg.144, euro 15) si apra con una relazione dello stesso Ingrao di oltre venti anni fa e che con la guerra apparentemente non ha nulla a che fare. Si tratta infatti di una relazione del 1980 con la quale si analizzano i processi di ristrutturazione produttiva in atto non solo nel nostro paese (eravamo nel pieno della crisi della Fiat) ma in tutto il mondo occidentale, una ristrutturazione che stava già modificando gli assi portanti della economia mondiale e che qualche tempo dopo tutti avremmo riconosciuto e definito con il termine «globalizzazione». Ingrao mette in luce, in questa relazione, i mutamenti concreti già in atto e quelli che è già possibile prevedere, lo spostamento di centri direzionali e di risorse, l'indebolimento del ruolo degli stati nazionali, la rottura di quell'etica sociale consolidata che aveva alimentato a lungo la partecipazione politica, l'emergere al suo posto di nuove tematiche della soggettività. La sua relazione appare singolarmente lucida, anticipatrice di temi e problemi con i quali ancora oggi la sinistra deve fare i conti. Andiamo pure avanti. Solo nel titolo del terzo capitolo appare finalmente la parola incriminata e che dà il titolo al libro. Si tratta in questo caso di un intervento del 1981, quando , partecipando a un dibattito sul tema «Contro la riduzione della politica a guerra», Ingrao rifiuta lo schema schmittiano che comporta la contrapposizione secca «amico/nemico» per sottolineare invece l'importanza, anche nel corso di un conflitto militare o sociale, dell'elemento del consenso, della capacità egemonica dei contendenti. Ma a Emanuele Severino che, nel corso dello stesso convegno gli chiede di riconoscere la impossibilità di una rivoluzione di sinistra in Italia, replica che «la rinuncia a questa ipotesi significherebbe la negazione della nostra ragion d'essere, della nostra stessa legittimazione storica». Un'affermazione almeno singolare se si pensa che nel 1981 il Pci era uscito da poco dalla esperienza della «solidarietà nazionale» e aveva escluso da tempo dal proprio orizzonte la prospettiva di una rivoluzione di sinistra. Alla luce di questi testi che Ingrao ha premesso alle due interviste finali con Rossana Rossanda e Luciana Castellina su temi di stringente attualità è possibile dunque leggere non solo la ben nota opposizione di Ingrao all'intervento Usa in Iraq (come alla prima Guerra del Golfo, all'intervento in Kossovo e in Afganistan) ma anche l'indicazione al movimento per la pace, e al cosiddetto «movimento dei movimenti», di altri più ambiziosi obiettivi. «Del resto» ammette lo stesso Ingrao «questa onda nuova pur così combattiva non è riuscita a impedire la guerra in Iraq e la vittoria di Bush» e dunque deve proporsi obiettivi politici più avanzati, e a più lunga scadenza, con un'azione sulla complessa trama di poteri, economici sociali e culturali, che pervadono il pianeta. In nome, forse, di quella rivoluzione di sinistra che in Italia il Pci non poté fare, e che, a livello mondiale, sarebbe oggi il compito dei no-global e dei tanti movimenti di sinistra che si richiamano a Porto Alegre e che si battono contro lo strapotere degli Usa nel mondo

citato al Lunedì:
la ricerca dell'architetto Paolo Soleri

PAOLO SOLERI

1919-, Italian-American architect. He studied architecture in Turin (Ph.D., 1946). Soleri's works have been influenced by both Frank Lloyd Wright , with whom he worked, and Antonio Gaudí . He developed an architecture that expresses a functional and organic way of life. Soleri has produced extraordinary designs for vast, high-density, self-sufficient, and multilevel communities built in the desert. These, which he terms arcologies, are proposed alternatives and responses to the increased problems of overpopulation and urban sprawl and decay. Soleri and his students and assistants have been building an arcology, Arcosanti, north of Phoenix, Ariz. since 1970. It was conceived as a prototype to show how cities might be updated, minimizing energy and transportation use while promoting human interaction. Soleri is the author of Arcology: The City in the Image of Man (1969).

Bibliography: See his Sketchbooks (1971); J. Strohmeier, ed., The Urban Ideal: Conversations with Paolo Soleri (2000); D. Wall, Visionary Cities: The Arcology of Paolo Soleri (1970); A. I. Lima, Paolo Soleri: Architecture, or Human Ecology (2000, tr. 2001).

per saperne di più e vedere immagini del lavoro di questo grande architetto che si è sempre proposto di ridurre al minimo, e cioé al reale, i bisogni, perché le esigenze umane potessero cercare la strada della propria realizzazione, ci si può collegare alle pagine web indicati qui di seguito:

la biografia di Paolo Soleri, ed altro sulla sua opera

la città di Arcosanti, in Arizona

"Buongiorno notte" a Bergamo
e Robert Bresson sul cinematografo

L'Eco di Bergamo 30.12.03
Kitano, Bellocchio, von Trier: è grande cinema
[...]
di Franco Colombo


C'è il cinema e c'è il cinematografo. Non sono la stessa cosa. Il maestro Robert Bresson, in un libro scarno come i suoi film (Notes sur le Cinématographe, 1975), non diceva mai «cinema» ma «cinematografo». Per lui il cinema corrente era «come il Male: teatro fotografato, spettacolo, esteriorità». Il cinematografo, invece, era in grado «di uscire dalla manipolazione, dalla riproduzione, dalla finzione, di entrare nell'interiorità dell'uomo, di catturare il vero e la vita».
Allora, amici cinèfili, apriamo i nostri occhi e i nostri cuori al cinematografo e chiudiamoli di fronte al cinema, già di per sé parola tronca e di comodo, nel quale rientrano per lo più i film tuttora sugli schermi. Come? Un'opportunità è offerta dalla programmazione d'essai dei cinema(tografi) [...]
Il primo è "Buongiorno notte" di Bellocchio, sul caso Moro, insolitamente inquadrato dal punto di vista di una terrorista, difficile da considerare tale (infatti ha i suoi dubbi) poiché ha il volto dolcissimo di Maya Sansa. Questo film era dato per vincente all'ultima mostra di Venezia ma il Leone d'oro gli venne soffiato in dirittura d'arrivo da "Il ritorno" dell'esordiente russo Andrej Zvyagintsev [...]. E lo meritava tutto essendo una intensa parabola sulla vita e sulla morte, immersa in una natura silente dentro la quale s'avverte un insondabile mistero.
[...]
Quel che conta sottolineare qui è che, seguendo queste proiezioni d'essai, si percorre intensamente – tornando al Bresson citato all'inizio – «quel cammino verso l'ignoto che dev'essere il film, ricerca di ciò che è nascosto, che è riluttante a rivelarsi, ma che bisogna scoprire per orientarsi nel caos esistenziale e nella tragedia di vivere». E poi, come sostiene un recentissimo libro delle cinèfile di New York Nancy Peske e Beverly West (Cinematerapia, Feltrinelli), «I film sono dei medicinali che possiamo autoprescriverci». [...]

lunedì 29 dicembre 2003

storie dell'uomo
Giovanna d'Arco: tutta un'altra ipotesi

Corriere della Sera 29.12.03
«La vera Giovanna d’Arco non fu bruciata sul rogo»

Analizzando scheletri del ’400 un medico riscrive la storia di Francia «Dietro al mito della Pulzella c’è Margherita, guerriera morta a 50 anni»
di Renzo Cianfanelli


LONDRA - Si riaprono, con la singolare presenza centrale di un ortopedico di Kiev che è anche uno dei massimi specialisti nella difficile arte di analizzare gli scheletri e di ricostruire, attraverso le ossa, le fattezze di persone morte da secoli, i mai completamente dimenticati rancori fra inglesi e francesi legati alla Guerra dei Cento anni. La storia di Giovanna d'Arco, l'eroina nazionale della Francia condannata nel 1431 da un tribunale ecclesiastico a morire sul rogo, e poi santificata da papa Benedetto XV all'inizio del ’900, secondo un'ipotesi avanzata su un quotidiano britannico dal dottor Serhiy Horbenko sarebbe in gran parte pura leggenda.
È possibile, afferma lo scienziato ucraino, in un'intervista comparsa su The Independent, che Giovanna d'Arco detta anche la Pulzella di Orléans non sia mai finita sul rogo. Un'altra ipotesi è, secondo Horbenko, che la giovane contadina passata alla storia come la guida militare e spirituale della lotta di liberazione della Francia in parte occupata dai britannici venuti al seguito di Enrico V, sia stata fatta scendere in campo solo come «controfigura» di un'altra persona: una donna molto più anziana e potente, legata da vincoli di sangue alla casa reale francese dei Valois.
L'adolescente eroina della storia ufficiale di Francia invece, secondo le fonti dell'epoca, per quanto senza nessuna istruzione e digiuna di cose politiche e militari, nel corso di un colloquio avrebbe convinto il Delfino e futuro re Carlo VII ad affidarle un esercito rivelandogli di essere stata investita della missione divina di liberare la Francia dagli inglesi, da lei poi sconfitti in battaglia vicino a Orléans. Due anni dopo, sempre secondo le fonti dell'epoca, tradita dai Borgognoni e consegnata agli inglesi, che subdolamente la consegnarono a un tribunale francese ecclesiastico facendola processare come eretica e strega, Giovanna d'Arco moriva arsa viva sul rogo a Rouen.
«Il mito di Giovanna d'Arco - sostiene Horbenko - si diffuse assumendo le caratteristiche di incontrovertibile verità perché allora, con l'occupazione e il trono di Francia che vacillava, i monarchici avevano urgente bisogno di una figura «eroica» che, oltre a mobilitare la lotta contro gli invasori, sostenesse le aspirazioni dinastiche del Delfino. Ma questa figura non poteva essere certo una ragazzina di campagna come la Pulzella della leggenda».
Partendo da queste considerazioni lo studioso, invitato in Francia a esaminare gli scheletri dei re francesi sepolti nella cripta della chiesa di Notre Dame de Cléry, vicino a Orléans, ha fatto quella che considera una scoperta importante. «Aprendo una tomba della Basilica, accanto a quelle dove riposano i resti di Luigi XI della casa dei Valois e della regina, ho notato con stupore lo scheletro di una donna le cui ossa denotavano lo sviluppo di una possente muscolatura, simile a quella che nel Medioevo potevano avere solo gli uomini d'arme e i cavalieri che indossavano una pesante armatura d'acciaio».
Chi poteva essere la misteriosa guerriera del '400 sepolta vicino alle tombe dei Valois? Horbenko, esaminando le reali genealogie e le ossa sepolte nella cripta, si è convinto che l'atletica cavallerizza poteva essere solo Margherita di Valois, figlia naturale di Carlo VI detto il Pazzo, predecessore del Delfino di Francia che poi da Giovanna d'Arco (oppure, ipotizza Horbenko, da Margherita di Valois) fu incoronato re con il nome di Carlo VII.
Per il professore ucraino, la contiguità sepolcrale di Margherita con le tombe dei re Valois è stata come un lampo nel buio. Dietro l'ingenua Pulzella, chi ne tirava davvero le fila doveva essere l'influente e politicamente astuta figlia naturale di Carlo VI che, oltre a conoscere da cima a fondo gli intrighi di Corte, era stata addestrata nelle arti guerresche dal padre, preoccupato per la sua incolumità in quanto concorrente pericolosa per gli altri pretendenti reali.
Con il crescere della sua influenza, Margherita si sarebbe resa conto che, se il segreto della sua discendenza dal re Valois fosse stato scoperto, lei avrebbe rischiato la vita. Fu a questo punto, afferma lo specialista ucraino di scheletri, che venne inventato e diffuso il mito di Giovanna d'Arco, con una sostituzione facilitata dalla scarsità di contatti e di mezzi di comunicazione.
Così Margherita, che manovrava a distanza l'ingenua Pulzella, sopravvisse fino a 50 anni, dimenticata dai suoi molti nemici nell'oscurità confortevole di chissà quale castello della provincia francese. Giovanna, invece, finì la sua esistenza a 19, in mezzo alle fiamme. O forse, congettura il professore di Kiev, anche lei fu «sostituita». Il professor Horbenko sostiene infatti di avere scoperto anche cinque scheletri veri, di donne che, nel caotico momento dell'esecuzione di Giovanna d'Arco (ma quale?) a Rouen, sarebbero state trascinate a forza sul rogo.

tra arte simbolismo e magia
una mostra a Chieti

La Repubblica.it Arte
Specchi divini, magici e manipolatori, dalla Cina del IV secolo a.C. ai romani agli zar
Al complesso La Civitella di Chieti, una singolare mostra ripercorre storia, aneddoti e arte di questo oggetto dei desideri
di Laura Larcan


Chieti - Specchio, specchio delle mie brame… chi è la più bella del reame? La strega di Biancaneve aveva da fare un bel po' con quell'interlocutore caustico e irriverente che non le dava mai soddisfazione. D'altronde lo specchio ha il suo bel carattere, gioca con la realtà che riflette a suo ingordo piacimento. La spiattella così com'è o la deforma, la ingigantisce o la distorce, la snellisce o la ingrassa. Illude o deride, specula sulle illusioni e gongola sulle rivelazioni. E' l'essere più sfrontato e malizioso che esista sulla faccia della terra, si prende libertà come pochi osano fare. Eppure, piace e intriga. Da sempre. Simbolo o attributo della divinità in religioni lontanissime tra loro come il cristianesimo, lo scintoismo giapponese, i culti dell'America antica e del sud est asiatico, lo specchio per Leonardo e Vermeer è strumento indispensabile per la pittura. Shakespeare, invece, se ne serve per l'autoindagine. E' l'inganno dello stregone e la verità dell'astronomo. Archimede lo utilizza per incendiare la flotta nemica. Per Dante è il mezzo per arrivare a conoscere Dio, il "verace speglio".
Così, questo oggetto di uso quotidiano carico di significati simbolici, storici, magici e anche scientifici finisce al centro di una insolita mostra, "Attraverso lo specchio. Storia, inganno e verità di uno strumento di conoscenza", ospitato nell'altrettanto singolare complesso archeologico La Civitella, nel cuore del vecchio quartiere sorto sull'impianto romano, in cui convivono edificio antico e quello contemporaneo, che accoglie l'esposizione dei materiali archeologici si sviluppa su due livelli, con una superficie espositiva di 4000 metri quadrati e un'area totale, compreso il parco archeologico, di 18.000. Un prestigioso spazio che non si limita alla funzione di "contenitore", ma che diventa protagonista del percorso espositivo, grazie ad un gioco di…specchi. In un allestimento di grande suggestione, curato dall'architetto Lucio Rosato, sfila una selezione di specchi, e non solo, provenienti dalle più importanti istituzioni museali.
Il repertorio, coordinato da Adele Campanelli e curato da Maria Paola Pennetta, presenta una congerie di esemplari diversi per tipologia, struttura, materiali e disegni. "Raro, piccolo, prezioso, desiderato ardentemente, simbolo per secoli del lusso aristocratico - afferma la curatrice - lo specchio è non solo strumento dell'apparire per eccellenza, ma anche mezzo di conoscenza del sé e del mondo esterno, punto d'incontro tra natura e cultura. Simbolo solare, simulacro della divinità, talismano, ma anche strumento scientifico, lo specchio dalle tante anime ha attraversato secoli e culture arricchendosi sempre di nuove valenze." Certo, esaurire completamente l'argomento specchio sarebbe stato impossibile, se non inutile, così l'obiettivo degli organizzatori è quello di stimolare riflessioni e reazioni, fornire dati e suggestioni, insomma costruire un piccolo apparecchio per pensare all'interno di quel meccanismo più grande che è il Museo La Civitella.
Sguardi, riflessi, luci e metafore oltre lo specchio, allora, come quello proveniente dalla Cina (il più antico in mostra, risalente al sec. IV-III a.C.), specchio tondo con dodici smerli e tre draghi o quello romano in argento con scene erotiche. Esposto anche lo specchio in ambra e legno dell'Ermitage che Federico di Prussia donò a Pietro il Grande; e ancora, un bellissimo specchio in legno e avorio della bottega degli Embriachi. Lo specchio e le sue vite parallele sfilano in nove sezioni tematiche che indagano origini storiche infarcite di mito, come quel flessuoso Narciso che guadava il suo riflesso nell'acqua prima ancora che esistesse lo specchio, e si passa per l'evoluzione tecnologica alla conquista di un riflesso fedele alla realtà, nonché l'incondizionato uso femminile di questo strumento, luogo comune superato dal cresciuto narcisismo maschile degli ultimi tempi. E, poi, tutti gli specchi divini, magici e manipolatori, fino al concetto di specchio moderno che si spoglia dei significati simbolici e magici per incarnare i valori della società borghese: "è un oggetto ricco - dice Jean Baudrillard - di fronte al quale la rispettosa persona borghese scopre il privilegio di moltiplicare la propria apparenza e di giocare con i propri beni".
Non solo un'antologica di specchi, ma una mostra sui significati dello specchio, dove il percorso stesso si compie attraversando uno specchio. E qui entra in scena il progetto di Rosato che ha infatti ideato una struttura monolitica, un lungo parallelepipedo a sezione quadrata (di m.2,40 per lato). Il rivestimento esterno del monolite è costituito da uno specchio in materiale sintetico che riflette la luce della sala mostre illuminata a giorno. E per l'evento, qualche strategia di merchandising che non guasta: saranno in vendita presso la mostra creazioni di Rude Bravo che riprendono in maniera del tutto originale e rilaborata, il motivo dello specchio: oggetti da tavola, piccoli complementi d'arredo, accessori personalizzati.

Notizie utili
"Attraverso lo specchio. Storia, inganno e verità di uno strumento di conoscenza". Dal 6 dicembre al 2 maggio 2004. Museo archeologico La Civitella.
La mostra è promossa dalla Soprintendenza Archeologica dell'Abruzzo nell'ambito dell'Anno della Moda e organizzata dalla Promopolis srl, con il contributo della Regione Abruzzo, della Provincia di Chieti e della Camera di Commercio, ed è coordinata da Adele Campanelli e curata da Maria Paola Pennetta.
Allestimento: architetto Lucio Rosato.
Orari: 9 - 19,30 tutti giorni. Chiuso il lunedì. Apertura serale nei week end.
Ingresso: €5; Informazioni: tel. 0871-63137.
Catalogo: Carsa Editore.

domenica 28 dicembre 2003

l'inizio della vita

Il Sole 24ore 28.12.03
Quando inizia un nuovo individuo?

Le prime cellule non sono già umane?
di Enrico Berti


[...]

No, altrimenti saremmo nati due volte
di Barry Smith


Sia pure nel breve spazio di una lettera, il professor Berti riesce a far emergere i problemi cruciali che abbiamo, affrontato nel nostro articolo «E il 16° giorno nacque un nuovo individuo». Le sue perplessità sono di due tipi: quelle rivolte al nostro trattamento del concetto filosofico di "sostanza" e quelle che invece hanno di mira la nostra tesi sul momento inaugurale dell'esistenza di un individuo umano.

Per ciò che concerne il primo gruppo di perplessità, invito i lettori a esaminare i nostri argomenti, in una versione più estesa, nell'articolo apparso sul «Journal of Medicine and Philosophy» (vol. 28, pagg.45 e ss. leggibile qui).

Per quanto riguarda il secondo gruppo di perplessità, ciò che sosteniamo è che il processo responsabile dell'inizio dell'esistenza di un individuo umano è la gastrulazione. Un processo che si conclude approssimativamente sedici giorni dopo il concepimento e coincide con il momento dello sviluppo embrionale dopo il quale non è più possibile alcun processo di gemellazione.

Il professor Bertì obietta, non senza motivi, che sin dall'inizio esiste un individuo, lo zigote, che è un'unità, una sostanza e una singola cellula, nonché un esemplare di vita umana. Non potremmo dire allora che l'individuo umano esiste sin dal concepimento? Purtroppo, no. Perché poco dopo l'inizio della sua esistenza questa cellula si divide in altre due cellule, le quali, a loro volta, si dividono in quattro, fino a ottenere molto rapidamente una massa complessa e vivente di materia cellulare umana. Fino al sedicesimo giorno, allora, ciò che abbiamo sono molte cellule, ognuna delle quali esemplifica le proprietà della vita umana. Ma, ripeto, è soltanto con il processo di gastrulazione che quelle cellule - e da quel momento in poi sempre, indivisibilmente, fino alla morte - costituiscono un individuo, un'unità, una sostanza, nella fattispecie, un essere umano. Il professor Berti vuol trovarsi costretto a concludere di essere nato due volte: prima come cellula che cessa quasi subito di esistere e poi, nuovamente, come individuo umano unitario sedici giorno dopo?

il tempo e il mutamento

Il Sole 24ore 28.12.03
Chi aveva ragione, Eraclito o Parmenide? La risposta nella prossima rivoluzione in fisica
Tutto scorre. Anzi, tutto è fermo
Julian Barbour: una sorprendente teoria cosmologica alternativa alle superstringhe
di Armando Massarenti


Che cos'è il tempo? Ecco una classica domanda filosofica, ma buona anche per il senso comune, la cui risposta più sensata sembra essere rimasta quella di sant'Agostino: «Se nessuno me lo chiede, so cos'è, ma se mi si chiede di spiegarlo, non so cosa dire». Sul tempo in realtà si possono dire molte cose, ma spesso sono poco precise, forse perché tendiamo a darlo, per scontato. Lo associamo naturalmente al cambiamento, alla crescita, alla corruzione, alla nascita e alla morte. Ma allora ci sono altre domande cui dare una risposta. Il tempo è come una freccia? Si muove cioè sempre solo in una direzione, dando vita a un presente in costante cambiamento? Oppure è circolare? Il passato continua a esistere?, E se sì, dov'è finito? Il futuro è già determinato? Possiamo conoscerlo in qualche; modo?
Secondo il fisico teorico inglese Julian Barbour nessuna di queste domande può essere elusa, ma bisogna avere il coraggio di partire da quella più generale - cos'è il tempo? - e affrontarla direttamente.
Cosa che, stranamente agli occhi di Barbour, i suoi colleghi fisici raramente hanno fatto. Colpa della ingombrante eredità di Newton e Einstein, gli artefici delle più importanti rivoluzioni della storia della fisica. Per Newton il tempo è. «un mattone al pari dello spazio, un elemento primario». Per l'Einstein della relatività generale, va fuso con lo spazio per creare uno spazio-tempo a quattro dimensioni. Ma, sostiene Barbour, se in fisica avverrà la nuova, rivoluzione che molti si aspettano - Steven Hawking l'aveva annunciata nel 1979, prevedendo entro un ventennio la “fine della fisica" e la nascita di una Teoria del Tutto - questa avrà appunto a che fare con la nozione di tempo, e dovrà sfidare su questo terreno quei due mostri sacri.
La Teoria del Tutto dovrebbe unificare le forze della natura e trovare una coerenza tra la teoria einsteiniana della relatività e la fisica quantistica. Materia per i prossimi vent'anni, ha rilanciato Hawking. Intanto Barbour propone di far finire non la fisica, ma il tempo, fornendo così una soluzione al dilemma che da settant'anni occupa i migliori fisici: perché la teoria quantistica (che spiega così bene ciò che avviene a livello atomico) e la fisica classica e einsteiniana (ottima invece per gli eventi macroscopici dell'universo) forniscono due visioni del mondo inconciliabili tra loro?
La fine del tempo è insieme un libro di fisica, di filosofia e di cosmologia. Barbour risale all'antico scontro tra il tutto scorre di Eraclito e la confutazione del tempo e del moto di Parmenide. «Ben pochi pensatori, nelle epoche successive, hanno preso sul serio le idee di Parmenide; io invece sosterrò qui che l'eterno fluire eracliteo forse non è che una radicata illusione. Vi condurrò in un punto in cui il tempo finisce».
Anche Einstein poco prima di morire aveva detto: «Per noi, fisici di fede, la separazione tra passato, presente e futuro ha solo il significato di un'illusione, per quanto tenace».
Ma questa affermazione non e coerente con l'interpretazione da lui stesso fornita delle sue famose equazioni. Nel 1963 il giovane Barbour lesse un articolo sul giornale in cui.si diceva che Paul Dirac aveva negato che «l'esistenza di quattro dimensioni sia un requisito essenziale in fisica». Comprese che si stava mettendo in discussione proprio la fusione di spazio e tempo nello spazio-tempo. Decise allora che la fisica doveva essere rifondata basandosi sull'idea che «il mutamento misura il tempo e non viceversa: il tempo non è una misura del mutamento».
Barbour ha lavorato a questa tesi per quarant'anni, autofinanziandosi, traducendo testi di fisica dal russo per sfuggire alla logica del "pubblica o muori", ma mantenendo un costante dialogo con la comunità dei fisici, dalla quale è ammirato e riconosciuto. A suo parere le equazioni di Einstein non descrivono la geometria di uno spaziotempo a quattro dimensioni, bensì l'evoluzione di spazi tridimensionali, fissati in una dimensione del tutto atemporale. Dunque, come nel quadro di Turner che Barbour elegge a metafora: delle propria posizione [William Turner, L’Ariel nella tempesta (1842) - guardalo qui - ndr], deve esistere qualcosa di statico che ci fornisce costantemente l'illusione del mutamento. Pensa a una terra di innumerevolì Adesso, battezzata Platonia, i quali ci forniscono la sensazione illusoria del passato e del futuro, della storia e del mutamento. Persino dell'identitá personale. Gli Adesso (simili a monadi leibniziane) non possono essere inscritti nella visione tradizionale di un prima e di un dopo presenti in un tempo oggettivo o assoluto. Oggettivi e reali sono invece proprio gli Adesso.
Barbour disegna questo "quadro” a partire dai risultati di fisici come Arnowitt, Deser e Misner. E soprattutto di Wheeler, nella cui equazione (che permette di calcolare la probabilità di un particolare universo) il tempo non figura. Riesce a risolvere il dilemma dell'inconciliabilità tra relatività e fisica quantistica sposando una certa interpretazione di quest'ultima, quella che viene chiamata «a molti mondi», e l'idea della «gravità quantistica». Configura così, sul piano cosmologico, una teoria rivale della più nota teoria delle superstringhe, di cui parla Brian Greene ne L'universo elegante.
Benché le conclusioni di Barbour possano sembrare, agli occhi del senso comune, paradossali o stravaganti, le sue argomentazioni sono rigorose, la sua conoscenza della fisica indubitabile, la sua scrittura limpida e avvincente, il tono a volte un po' entusiastico ma mai dogmatico. Se avesse avuto una risposta definitiva alla domanda sul tempo; ci avrebbe proposto la teoria del tempo, non una teoria, spiega Barbour, il quale ci fornisce un bell'esempio di come la filosofia (e in particolare l'ontologia e la logica dei mondi possibili) possa dare ottimi frutti quando sa coniugarsi con le più accreditate teorie scientifiche. In definitiva, una lettura raccomandabile. Anche se la sua, teoria si rivelasse del tutto infondata, e se prevalessero le superstringhe, o qualche altra. ipotesi ancor più sorprendente, Barbour ci avrebbe comunque regalato uno dei modi più raffinati e produttivi per "ammazzare il tempo".

Julian Barbour, «La fine dei tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura», Einaudi, Torino 2003, pagg. 354, € 23,00

donne filosofe

Liberazione 28.12.03
FRANCIA. Filosofe nell'antichità


Nell'antichità furono molte le donne filosofe. Un libro, di Gilles Ménage che fu precettore di Madame de La Fayette, ne elenca ben 65. Di queste donne resta poco, magari solo il nome o un aneddoto, ma è già interessante conoscerne l'esistenza. Il libro è stato scritto nel 1690 in latino ed è stato tradotto ora per la prima volta in francese da Manuella Vaney (ed. Arléa)

storie dell'uomo
San Giacomo, un santo militare

Corriere della Sera 28.12.03
VITA E LEGGENDA EVANGELIZZATORE IN TERRA IBERICA, DIVENNE POI SIMBOLO DELLA «RECONQUISTA»
L’apostolo Giacomo, guerriero di Spagna
di Vittorio Messori


All’inizio del Seicento, i Carmelitani Scalzi fecero pressione sul re, Filippo III, e riuscirono a convincerlo a proclamare Santa Teresa d’Avila patrona di Spagna. Contro il decreto sorse un’immediata sollevazione che coinvolse tutta intera la società iberica, dai nobili sino ai mendicanti. Nessuno aveva nulla, se non ammirazione devota, per la grande Carmelitana ma non si tollerava che detronizzasse San Giacomo, Santiago, dal suo ruolo storico di protettore di tutte le Spagne. La polemica, violentissima e che coinvolse i papi stessi, durò un paio di secoli quando finalmente, nell’Ottocento, si permise che la Madonna Immacolata e non un santo o una santa prendesse posto accanto a Santiago come coprotettrice del Paese. L’episodio conferma quale sia il legame antichissimo, viscerale (e, in fondo, misterioso) che lega i popoli al di là dei Pirenei con Giacomo, detto il Maggiore per distinguerlo dall’omonimo apostolo e cugino di Gesù. Figlio di Zebedeo e Salome, fratello di Giovanni l’Evangelista, assieme a lui Giacomo lasciò tutto per seguire il Messia. La sua rilevanza nel collegio degli apostoli è dimostrata anche dal fatto che nelle liste del Nuovo Testamento è citato al secondo posto, dopo Pietro, e che fece parte del gruppo ristretto di discepoli che furono scelti per assistere a momenti privilegiati come la Trasfigurazione e la preghiera nel Getsemani prima della Passione. Sappiamo dagli "Atti degli apostoli" che Giacomo fu tra i primi a soffrire il martirio, decapitato a Gerusalemme nell’anno 42 per ordine di Erode Agrippa perché questa uccisione, dicono gli Atti, «era gradita agli ebrei».
Tra la morte e risurrezione di Gesù e il martirio corrono 12 anni (Gesù fu crocifisso, è ormai certo, non nel 33 ma nel 30) sui quali, stando ai documenti, nulla sappiamo ma sui quali ha molto da dire la Tradizione. Secondo questa, dopo la Pentecoste gli apostoli partirono verso tutte le direzioni per annunciare il Vangelo a ogni popolo, obbedendo al comando del Risorto. A Giacomo fu assegnato l’estremo Occidente e partì dunque verso la provincia dell’Hiberia. Il suo apostolato, però, non diede molto frutto, tanto che, nella notte del 2 gennaio dell’anno 40, stava congedandosi dai pochi discepoli per rientrare in Palestina. Il luogo per la riunione d’addio era in una capanna sulle rive dell’Ebro, nell’importante colonia romana di Caesarea Augusta, l’attuale Saragozza. All’improvviso, la notte fredda e oscura risplendette di una grande luce: Maria stessa, portata da una schiera di angeli, veniva da Gerusalemme a consolare l’apostolo e a far piantare in quel luogo un pilastro (pilar, in spagnolo) come segno della forza della fede che avrebbe contrassegnato nei secoli venturi la fede degli iberici.
Attorno a quella colonna, sorse il grande santuario della Madonna del Pilar nel quale stanno in permanenza le bandiere di tutti gli Stati di lingua spagnola. In effetti, la Virgen del Pilar - anche, e soprattutto, per questo suo legame con San Giacomo - è stata proclamata ufficialmente patrona della Hispanidad, oltre che della Guardia civil, i carabinieri spagnoli.
Comunque, dopo l’apparizione a Saragozza di cui racconta l’antichissima tradizione, l’apostolo ripartiva per Gerusalemme, dove due anni dopo avrebbe versato il suo sangue per il Cristo. Quanto al ritorno in Spagna del suo corpo, le voci sono molteplici e nessuna di loro è suffragata da documenti decisivi. Secondo alcuni, il venerato cadavere, recuperato dai discepoli, sarebbe stato affidato alle onde su una scialuppa, seguendo un’indicazione divina e, andando alla deriva, sarebbe approdato sulle coste della Galizia. Secondo altri, l’apparizione di una stella e un coro di angeli avrebbe indicato ai contadini della zona che proprio lì, misteriosamente, stavano le spoglie del grande apostolo. Sta di fatto che conosciamo con certezza dai documenti che già in epoca carolingia, cioè nel IX secolo, in quel luogo remoto sorgeva un piccolo santuario e si era sviluppato un pellegrinaggio. Questo, come si sa, divenne col tempo talmente imponente da rivaleggiare con quelli verso la tomba di Pietro e Paolo a Roma e verso il Santo Sepolcro di Gerusalemme. Un fiume di persone percorse nei secoli il cammino, tanto da determinare decisive conseguenze sociali, economiche, artistiche.
Quali i motivi di una simile successo? Oltre alla fama di potente intercessore e taumaturgo di Giacomo, agiva indubbiamente l’attrazione del viaggio ai confini del mondo conosciuto: a pochi chilometri dal santuario, il promontorio dal nome significativo di "Finis terrae" dominava il misterioso «Mare Oceano», l’Atlantico dai confini misteriosi. Sulla spiaggia, i pellegrini raccoglievano la conchiglia (quella stessa, è una curiosità, che fu ripresa nel marchio della benzina Shell, che in inglese significa appunto conchiglia) che testimoniava che il pellegrinaggio era giunto sino alla meta. Ma, sul flusso ininterrotto di viandanti agivano anche le generose indulgenze che i papi avevano legato a quella pratica pia e faticosa: non pochi morivano per strada. Molti pellegrini, poi, approfittavano della loro presenza in Spagna per dare una mano nella continua guerriglia contro i musulmani: in quel caso, l’indulgenza era plenaria.
Anche per questo spirito di reconquista Santiago divenne un santo militare: dopo ogni vittoria cristiana, i superstiti si dicevano convinti di averlo visto alla loro testa in sella a un cavallo bianco. Da qui, il suo simbolo, la espada cruz, la croce in forma di spada. E da qui il grido di battaglia delle truppe spagnole: «Santiago y cierra, Espana!», San Giacomo e avanti, Spagna!
Dopo quasi due secoli di declino, il pellegrinaggio è ripreso talmente alla grande da provocare addirittura problemi di affollamento. L’avventura, comunque, continua, tanto che l’Europa stessa (che pure non ha voluto citare il cristianesimo nella sua Costituzione) ha riconosciuto nel Cammino di Santiago una delle sue radici più antiche e salde.

il ruolo delle Università
nel confronto fra la cultura europea e le altre culture

La Gazzetta del Sud domenica 28 dicembre 2003
Le Università possono giocare un ruolo fondamentale nella diffusione dei saperi e nella integrazione non egemonica delle conoscenze
Interculturalità, una scelta obbligata
di Francesco Tomasello*


La conclusione di un anno solare e l'alba di uno nuovo, in questo difficile inizio di secolo, suggeriscono alcune riflessioni che inevitabilmente saranno sempre più arricchite, nell'immediato futuro, di ulteriori contributi e approfondimenti. La convivenza dei popoli passa anche attraverso nuove forme di incontro tra le diverse culture e, certo, le Università possono giocare un ruolo fondamentale nella diffusione dei saperi e nella integrazione non egemonica delle conoscenze. Troppo spesso si è fatto riferimento, negli ultimi tempi, a una dimensione di molteplicità degli orizzonti culturali accettabile solo fino a quando le rispettive identità possano restare ben distinte e separate. Laddove la distinzione e la consapevolezza della diversità rischiano di sottintendere però una prospettiva privilegiata da cui osservare gli altri e, forse chissà, riuscire a tollerarli. Occorre piuttosto porsi in un orizzonte interculturale dinanzi alle sfide che già oggi dobbiamo affrontare. Infatti, come asserisce un documento proposto da Pisanu e recentemente approvato nel corso dell'ultimo vertice europeo dai ministri degli interni dell'Unione, l'unica prospettiva sicura è nella cooperazione e nella capacità di stare insieme rispettando le differenze ma, anche, imparando a conoscere la feconda bellezza del patrimonio culturale altrui. D'Altronde un'area come quella euro-mediterranea è stata percorsa storicamente da flussi dinamici, non sempre facilmente codificabili, di culture, espressioni artistiche e metodologie filosofiche e da uomini ben disposti al riconoscimento reciproco. Gli abitanti delle terre di frontiera avevano il compito, in Sicilia come in altre aree del mondo medievale, di sorvegliare i confini e, al contempo, tuttavia, di facilitare la comunicazione tra Oriente e Occidente, tra Cristianità e Islam, tra mondi insomma solo apparentemente diversi e lontani. Sul versante cristiano, erano spesso gli ordini cavallereschi a svolgere questo ruolo delicato. In ambito musulmano, invece, questi guardiani del limes abitavano roccaforti ben protette chiamate ribat e così presero il nome di murabitum (che non suona estraneo, certo, in una terra in cui molti sono i «Morabito»). In questi luoghi rischiosi e privilegiati, protezione non significava chiusura, limite invalicabile, e la coscienza della propria identità non esigeva l'esclusione dell'«altro». Fioriva così in una terra come la Sicilia e la Spagna, un laboratorio mirabile di esperienze culturali. In un'epoca, considerata a torto, tenebrosa e feroce, gli uomini si intendevano più spesso di quanto oggi non si riesca a credere e, inserite in una prospettiva intellettuale sintetica e unitaria, le scienze (la medicina, la matematica, l'astronomia, la filosofia) erano patrimonio omogeneo e comune a diverse latitudini. In tal senso, il sovrano svevo Federico II poteva, nel XIII secolo, interpellare un maestro andaluso musulmano, Ibìn Sab'in, su argomenti (le note Questioni siciliane ) che appunto erano indirizzati alla retta comprensione della funzione e della finalità del sapere. Un medesimo anelito alla conoscenza muoveva gli uomini del tempo e costituiva il retroterra saldo di principi e intenzioni che, forse più del comune spazio geo-politico mediterraneo, poteva rappresentare il naturale impulso a un confronto e a un incontro sovente pacifico e arricchente. Le stesse Università devono la loro fondazione, nel XII secolo, nell'Occidente cristiano, così come le analoghe strutture precedentemente presenti nell'Oriente musulmano, alla consapevolezza di una dottrina che fungeva da lingua comune tra le differenti civiltà e grazie a quel passaggio di fonti testuali che aveva cambiato profondamente l'orizzonte dei saperi del tempo. È legittimo pensare che, in ambito euro-mediterraneo, la nascita e la proliferazione delle Università, specialmente nel XIII secolo, rappresentò il riflesso esteriore dei rapporti tra le élite occidentali e orientali. Certo, non è in virtù della nostalgica riabilitazione di una trascorsa stagione che si rievocano questi episodi, ma al contrario per ribadire la facilità di comunicazione e di trasmissione di elementi culturali importanti in tempi considerati travagliati e superati dal progresso vigente a partite dal Rinascimento. Perché, allora, il percorso proficuamente dialettico che è stato possibile compiere ancora sino alle soglie dell'alba della modernità, oggi sembra tanto più impervio? Forse perché c'è un momento a partire dal quale i rapporti, anche commerciali, con il Levante, che avevano tra l'altro contraddistinto la supremazia economica di Messina e del suo porto, cominciano lentamente a diradarsi almeno dal punto di vista della reciproca conoscenza culturale. Le manifestazioni previste per celebrare Antonello da Messina nel 2005, dovranno costituire l'occasione, nella quale l'Università degli Studi di Messina non potrà che giocare un ruolo di primo piano, per una riflessione complessiva anche su questa problematica fase di transizione. Il lavoro di Antonello si colloca, infatti, su un delicato discrimine cronologico, in un momento di svolta epocale per Messina e per tutta l'Europa del Mediterraneo: Costantinopoli era caduta nelle mani di Mehmet II e dei turchi ottomani, l'ultimo dei domini musulmani in Spagna sarebbe stato di lì a poco conquistato dai sovrani cattolici e gli ebrei di Sicilia e dell'Andalusia sarebbero stati espulsi per effetto dell'Inquisizione, lasciando questi territori irrimediabilmente privi di un inestimabile patrimonio culturale. Non si vuole, d'altronde, in questa sede ridurre le categorie della storiografia alla retorica di una mera comparazione, anche e soprattutto per non fare torto alla complessità gnoseologica che attiene all'assetto del mondo attuale e non solo intendendo in tale accezione le società occidentali e tecnologicamente più avanzate. I paesi in via di sviluppo continuano a pagare un forte ritardo dal punto di vista delle strutture d'istruzione di base e superiore e dal punto di vista del sapere tecnologico e scientifico. Tuttavia non si può negare che esista, in queste aree, una fortissima richiesta di formazione e una potenzialità intellettuale che va sostenuta affinché non prevalga nella mentalità di questi popoli un sentimento antioccidentale, storicamente non del tutto infondato, sul quale possa poi attecchire la malapianta del fondamentalismo di tutte le provenienze. È per tale motivo che occorrerà rilanciare e sviluppare progetti nell'ambito di felici iniziative già assunte unitariamente dalle tre Università siciliane, come il Politecnico del Mediterraneo. In questo ambito s'inserisce in modo credibile il progetto presentato, nel 2001, dalla Facoltà di Medicina e Chirurgia, ma coinvolgente altre Facoltà e settori scientifico-disciplinari dell'Ateneo di Messina, sul Polo della Salute del Mediterraneo che non rappresenta semplicemente, da parte del nostro Ateneo, la possibilità di un'offerta di competenze professionali e di strutture modernamente attrezzate alle Università e ai siti medici e ospedalieri del Mediterraneo, ma soprattutto una possibilità di relazione sul versante non solo tecnologico, ma anche umanistico. [...] Vi è certamente spazio per fare dell'Università di Messina uno dei siti privilegiati di cerniera tra le civiltà euro-mediterranee, vi sono grandi potenzialità che offrono nuove concrete opportunità alle nostre giovani generazioni affinché divengano protagoniste di questa nuova sfida del nostro secolo. In definitiva, questa proposta ha il suo perno in un rispettoso dialogo interculturale e nella ribadita convinzione che le genti che si affacciano su questo mare condividano le medesime radici di fondo. Proprio la coscienza dell'imprescindibile necessità di interpellare le radici religiose della nostra cultura deve spingerci al confronto con esse, anche e soprattutto, dinanzi alle sfide poste dalla bioetica. Sfide destinate ad abitare il versante frenetico della nostra quotidianità, ma con lo sguardo costantemente rivolto all'egida dei principi. In questo senso, la libertà della ricerca medica e filosofica va sempre più tutelata sapendo, per, che la questione della salute può e deve essere coniugata con una più complessiva prospettiva salvifica dell'essere umano. Il XXI secolo si apre sullo scenario di un mondo in cui l'ampia portata delle relazioni tra uomini darà spunto a sempre maggiori contatti tra le civiltà, richiedendo una rinnovata apertura intellettuale. Vi sono e vi saranno, sempre di più, civiltà che si intersecano a differenti livelli. La grande sfida del secolo, intorno alla quale si mette in gioco la nostra storia, è rappresentata dalla comunicazione globale fornita dai nuovi strumenti della tecnologia. La comunicazione primariamente deve veicolare formazione e ricerca come fattori di crescita civile e terreno di confronto culturale. Come tale, allora, essa non può essere un mezzo per sviluppare la tolleranza delle diversità, ma una grande opportunità di «comprensione», che letteralmente rimanda alla possibilità di «comprendere», in un'unica dimora, la pluralità che deriva dall'affascinante avventura del pensiero umano.

* Il prof. Francesco Tomasello è Preside della Facoltà di Medicina e chirurgia dell'Università di Messina

sabato 27 dicembre 2003

connivenze: Sartre e Wojtyla

La Stampa 27 Dicembre 2003
Sartre in prigione
scrive su Gesù
di Giorgio Calcagno


CHE cosa faceva il soldato Jean-Paul Sartre, caduto prigioniero dei tedeschi dopo la disfatta del 1940, nello Stalag XII di Treviri? Teneva lezioni su Heidegger per i preti suoi compagni di reclusione, partecipava ai loro dibattiti di teologia; e, per allietare il Natale di tutti, scriveva un testo teatrale sulla nascita di Gesù. Anzi, ne curava di persona l’allestimento, dando la propria voce a uno dei Re Magi.
Il più laico dei filosofi novecenteschi, sotto la corazza di un inespugnabile ateismo, nascondeva dunque un cuore di credente? Non è proprio così, basta leggere la sua opera. Ma non è nemmeno, esistenzialmente, il contrario. Sartre aveva fatto i suoi conti con la fede fin da ragazzo, respingendola: «Avevo bisogno di un Creatore e mi davano un Gran padrone», come avrebbe scritto in Les mots. Nella sua prospettiva, per una rivendicazione radicale della libertà umana, Dio diventava un elemento di disturbo. Pure, se il filosofo negava, l’uomo continuava ad essere attratto; e, posto in condizioni eccezionali, in mezzo a uomini di fede con i quali sentiva di condividere tanti valori, teneva acceso il dialogo.
Il risultato, che oggi per la prima volta viene alla luce in Italia, è Bariona o il figlio del tuono: lettura affascinante, malgrado varie improprietà della traduzione; sempre rispettosa dell’evento, mai devozionale. È un testo che lo stesso Sartre aveva smarrito e che solo alcuni compagni cattolici di prigionia avevano conservato: cercando di convincerlo, molti anni dopo, a pubblicarlo. Sartre accettò, a condizione che fosse preceduto da una sua lettera, per stabilire le distanze: «Se ho preso il mio soggetto nella mitologia del Cristianesimo, ciò non significa che la direzione del mio pensiero sia cambiata». Egli voleva solo attuare, «in quella sera di Natale, l’unione più vasta di cristiani e di non credenti».
Solo per quella sera di Natale? Bariona, letto oggi, non ci appare un semplice scritto di occasione. C’è dentro molto del pensiero filosofico, e soprattutto politico, di Sartre: che vedeva, nel sovrintendente romano della Giudea, una sorta di gauleiter tedesco. Ma c’è anche autentica poesia, nel suo linguaggio; c’è uno sviluppo drammatico vero. E c’è, inatteso, uno stupore incantato per il mistero cristiano: che, contro i distinguo dell’autore, sarebbe difficile non scambiare per un’adesione personale. Come la intese, uno dei prigionieri, che si convertì perché toccato dalla recitazione di Sartre.
Il testo viene presentato da Antonio Delogu, studioso della filosofia francese nel Novecento, che mette a fuoco il rapporto sempre dialettico fra Sartre e il problema religioso: nelle sue conclusioni negato, ma non eliminabile mai, nel percorso. Il capofila dell’esistenzialismo, ricorda Delogu, fu avversato tanto dai marxisti quanto dai cattolici, che lo rifiutavano senza cogliere quanto di cristiano si nascondeva nel suo fondo. Fu difeso solo da un filosofo polacco, che nell’affrontare il tema della libertà dell’uomo, rinviava alla fondamentale opera sartriana, L’essere e il nulla. Era un prete di Cracovia, si chiamava Karol Wojtyla.

Marx oggi

La Stampa 27 Dicembre 2003
UN CONCORSO DELLA TV TEDESCA
Marx perde il pelo
ma non i fan
di Angelo d'Orsi


AL passaggio di millennio, nell'anno 2000, il Times di Londra aveva indetto un sondaggio tra i suoi lettori chiedendo loro chi fosse l'uomo più importante dei dieci secoli ormai conclusi. Con grande sorpresa generale, i compassati britannici risposero, in maggioranza, attribuendo la palma del secondo millennio dell'era volgare a Karl Marx. Il risultato generò sconcerto, specie tra i tanti ex del marxismo, ivi compresi alcuni politici italiani, i quali commentarono dicendo che in fondo c'erano anche altri nomi significativi in quel millennio. Molti eccepirono sui dati numerici, dicendo trattarsi di un sondaggio troppo limitato per essere significativo. Ebbene, abbiamo ora un altro sondaggio, questa volta tedesco: e i germanici, si sa, fanno le cose con grande serietà. Infatti, nella scorsa estate, la televisione di Stato tedesca (ZDF) promosse un maxiconcorso intitolato: Chi sono i tedeschi più importanti? In una fase iniziale durata un paio di mesi (luglio ed agosto) si mise a punto una rosa di 200 nomi tratti dai vari ambiti dell'agire umano: politica, religione, cultura, spettacolo, sport... Una trasmissione televisiva settimanale (da settembre a novembre), si incaricò di stabilire al termine dell'esperimento il tedesco più importante della storia. L'elezione avvenne attraverso il telefono, gli sms, o per normale telefono, con l'accertata impossibilità, per i soliti furbi, di votare più volte! Si è trattato di un fatto di massa, insieme di intrattenimento, ma anche di vivace dibattito politico-culturale: addirittura con raccolte di fondi, volantini e manifesti per sostenere i «candidati», interventi parlamentari, grande coinvolgimento di personaggi del presente a sostegno dei vari personaggi del passato.
In una fase finale i candidati giunti alla «top ten» (il gruppo dei primi dieci), si sono sfidati davanti al pubblico televisivo per interposta persona, ossia grazi ai propri sostenitori che ne cantavano le lodi spiegando perché il pubblico dovesse votare Einstein o Goethe, Bach o Lutero, Adenauer o Brandt…Ma, sorpresa, nella classifica compariva, sia pur decimo, Karl Marx! Ebbene, agli scontri diretti il vecchio barbone dell'autore del Capitale la spuntava sia sull'elmo chiodato di Otto von Bismarck, sia sulla faccia perbene di Willy Brandt. Infine, nelle votazioni finali, giunte dopo dibattiti condotti senza esclusioni di colpi (compresa la storia della sua relazione clandestina con la collaboratrice domestica!), Marx si è aggiudicato un molto onorevole terzo posto: meglio di lui hanno fatto soltanto il cancelliere della ricostruzione Konrad Adenauer (vincitore del sondaggio) e il padre del Protestantesimo, Martin Lutero. Interessante osservare che se il distacco da Adenauer è stato cospicuo, leggerissimo quello da Lutero; in totale Marx ha ottenuto oltre mezzo milioni di voti ed è risultato il «candidato» più votato nelle regioni dell'Est, oltre che nelle grandi città (Berlino, Amburgo, Brema). Come se non bastasse a corroborare il proprio piazzamento giungeva un primo posto nella categoria «Attualità».
E ora in attesa di commenti che ci dicano che il sondaggio non vale nulla, non rimane forse che prendere atto di due fatti. 1) quella di Marx è una presenza forte e ineliminabile nella storia del mondo; 2) oggi, davanti alla complessità della globalizzazione e alla sua difficile «governance», davanti a un processo di concentrazione crescente di ricchezze e di risorse sulla scena mondiale, davanti alla condizione di guerra permanente, riaffiorano, con un che di beffardo, le analisi marxiane. Forse anche chi non crede nel comunismo come soluzione ai mali del mondo, non farà male a tirar fuori dallo scaffale i testi del «Moro» (come lo chiamava il suo amico Engels).

Voltaire: il Dizionario filosofico

Il Corriere della Sera 27.12.03
LE GRANDI INIZIATIVE La «Biblioteca del Sapere» dal 30 dicembre. Ecco chi capì per primo il valore di un’enciclopedia
La Rivoluzione? Un libro maneggevole
Con il Dizionario filosofico, Voltaire insegna: solo un’opera pratica può cambiare le idee e la società


Chi avesse la pazienza di sfogliare uno dei 52 volumi della corrispondenza di Voltaire, pubblicati a Oxford dalla fondazione intitolata al filosofo, troverà un’intuizione capace di ripagarlo della fatica fatta per raggiungere la pagina in questione (è quella indicata 13235): mai venti volumi in-folio hanno scatenato delle rivoluzioni, sono i piccoli dizionari portatili che le accendono. Perché, come osserva ancora Voltaire circa tremila pagine prima, «queste opere pratiche mettono in mano, al momento, la cosa di cui avete bisogno». Il ragionamento non fa una grinza. Le enciclopedie possono cambiare le idee, le società, gli uomini, ma devono essere maneggevoli. Altrimenti i loro formati ingombranti le rendono sterili, oltre che pesanti e polverose. Voltaire fu il pensatore che più di ogni altro seppe sfruttare questa regola pubblicando il Dizionario filosofico, un’opera che seppe lasciare traccia profonda nelle idee d’Europa. O meglio, le purgò rendendole appunto più maneggevoli. Mario Bonfantini, che curava per Einaudi la traduzione italiana di questo libro nel 1950 (è ancora tra le più valide nella nostra lingua), in un tempo in cui leggerlo era ancora argomento di confessione, scriveva nella sua premessa: «È essenziale per cogliere alle origini e intendere nei suoi temi fondamentali tutto quel complesso di sentimenti, di giudizi storici e di principi teorici che formano l’ideologia sulla quale si è soprattutto modellata nel suo sviluppo la civiltà democratica europea del XIX secolo». Senza queste pagine, in altre parole, i punti fermi liberali che oggi governano la convivenza civile se ne starebbero più nelle menti accademiche o in qualche biblioteca che non nelle società.
Come nacque il Dizionario filosofico? Oltre ad un successo editoriale tra i più grandi del ’700, esso fu scritto anche per contenere in sintesi il pensiero di Voltaire e gli ideali dell’Illuminismo. Per taluni aspetti è una vera e propria bibbia del pensiero laico. Il progetto mosse i primi passi durante gli anni berlinesi dell’irrequieto intellettuale, al tempo in cui era ospite alla corte di Federico di Prussia. Nel 1752 a Berlino, con l’incoraggiamento di questo intelligente monarca, si pensò di raccogliere in un’opera disposta secondo l’ordine alfabetico e concepita collettivamente, una serie di voci contro il fanatismo e i pregiudizi. Voltaire ci mise subito la penna e si fece notare per il tono irreligioso; Federico, con ironia, si limitò a rilevare che se fosse stata pubblicata avrebbe avuto guai con Roma.
Ma da quel giorno l’idea di un libro svelto, graffiante, anticonformista non abbandonò più Voltaire. Tra i numerosi documenti di questa passione, valga la lettera che egli scrive a Madame du Deffand il 18 febbraio 1760, dove confessa di «essere assorbito» dal progetto di «mettere in ordine alfabetico tutto ciò che penso su questo mondo e sull’altro». Ovviamente il progetto, secondo l’intenzione dell’autore, è rivolto a l’usage des honnêtes gens. Certo, così non la pensavano tutti. Quando nel 1764 l’opera vede la luce anonima ha come titolo Dictionnaire Philosophique Portatif. Reca l’indicazione di Londra ma è stampata a Ginevra. Gli attacchi più forti contro il cattolicesimo sono attribuiti ad autori fittizi; chi scriveva si dava, come dire?, l’aria di riportare le opinioni a titolo di informazione. Questo non intenerì la facoltà di teologia della Sorbona, che la condannò e, secondo la consuetudine, fece bruciare l’opera sulla pubblica piazza per mano del boia. Si finse di ignorare l’autore, ma c’era come un tacito accordo tra le autorità francesi e Voltaire. Al quale la cosa andava benissimo: pochi mesi dopo, nel dicembre di quel 1764 (ma con la data 1765), ripubblicò l’opera incriminata con qualche aggiunta. E altre ne mise nelle quattro edizioni dell’anno successivo, l’ultima delle quali uscì ad Amsterdam. Nel 1767 è ancora Londra ad ospitare una nuova tiratura con altre ventiquattro voci; infine ecco quella di Ginevra (ma senza indicazione della città) del 1769: è la definitiva secondo le intenzioni dell’autore e reca come titolo La Raison par alphabet.
Per precisione occorre ricordare che al progetto Voltaire lavorò e pasticciò ancora. Dal 1770 al 1774, ad esempio, egli scrisse gli articoli delle Questions sur l’Encyclopédie, nelle quali riproduceva - rimaneggiate e no - alcune voci del suo Dizionario. Quando gli editori di Kehl realizzarono, tra il 1784 e il 1789, in 70 volumi (ma i veri bibliofili cercano quella in 92, uscita contemporaneamente) la prima edizione completa delle opere del filosofo scomparso nel 1778, mescolarono il tutto. Anzi vi aggiunsero anche alcuni estratti delle voci che aveva scritto per l’Encyclopédiedi Diderot e d’Alembert, nonché materiale che vagolava in altri dizionari e opuscoli.
Noi non ce la sentiamo di condannare questo metodo dei primi editori, ovvero accumulare tutto quello che poteva considerarsi parallelo al testo del Dictionnaire, anche perché la scelta fu fatta dal curatore che - non dimentichiamolo - era Condorcet. In un certo senso metteva a disposizione dei lettori una specie di «dizionario aperto», come ameremmo chiamarlo oggi, in cui si rifletteva la cultura di Voltaire. Certo, in talune ripetizioni può sembrare un pasticcio, ma questa è la sorte di opere simili.
Le quali, come dimostra il Dictionnaire, accanto alle idee liberali possono recare pregiudizi ed errori. Ma oggi vediamo di più i vantaggi che non i guai. E in molti sono convinti che Voltaire abbia sottratto un po’ di lavoro al boia, il quale, due anni dopo aver bruciato l’opera «diabolica», doveva decapitare il cavaliere de La Barre. Colpevole, a diciott’anni, di non essersi scoperto il capo al passaggio di una processione.

visioni: Ildegarda di Bingen

Corriere della Sera 27.12.03
Esce il «Libro delle opere divine», il più importante tra i testi profetici della mistica cattolica che fondò, nel XII secolo, il monastero di Bingen
Le visioni di Ildegarda. E l’uomo si fa Dio
di GIORGIO MONTEFOSCHI


Vorremmo annullare il tempo e, con un salto all'indietro, tornare nella Germania del XII secolo dopo Cristo, soltanto per entrare nelle gelide aule del convento benedettino di Rupertsberg, nei suoi corridoi bui profumati di lievito e di incenso, e assistere al grande esorcismo che, nel 1169, Ildegarda di Bingen, badessa di quel convento, ordinò nei confronti della monaca Sigewize di Colonia, posseduta dal demonio. Sette sacerdoti percossero la sventurata con una verga, uno dopo l'altro, mentre intorno si intrecciavano le preghiere; ma tutto fu inutile, perché il diavolo non la abbandonò. Così, Ildegarda chiese e ottenne di tenere la monaca vicino a sé. Passò del tempo. Poi, non sappiamo come, attraverso quali sortilegi, alla vigilia del Sabato Santo, il demonio sparì.
Chi era Ildegarda di Bingen? Chi era la donna che nel 1169 aveva settantatré anni, scriveva ai papi e a Federico Barbarossa, era in contatto con Bernardo di Chiaravalle, aveva predicato - fatto assai insolito per quei tempi - nelle cattedrali di Colonia e di Treviri, di Liegi e di Magonza? La monaca aristocratica che paragonava se stessa a una poverella, a una «piuma abbandonata al vento della fiducia di Dio», possedeva uno sguardo che andava ben oltre i confini della vita monastica; una cultura che certamente non si limitava alle Sacre Scritture; e, a dispetto delle malattie che la tormentarono tutta la vita, una tempra d'acciaio. Lo sguardo ampio le permetteva di avere un sentimento cosmologico pari a quello che, non molti anni più tardi, ispirò Dante: accompagnato dalla consapevolezza dei molti problemi che travagliavano la chiesa, a cominciare dai rapporti con i movimenti eretici e riformatori, per finire ai dissidi con l'impero. L'amore per il sapere fortificava la sua fede nelle fonti dell'enciclopedismo medievale, nei testi di Dionigi Areopagita e Agostino: e di molti altri, forse letti in segreto, come Seneca con ogni probabilità. Il carattere forte la sorreggeva nella volontà, impedendole di cedere alle debolezze del corpo, nonostante le emicranie fortissime, gli squassanti dolori alle ossa: infatti, viaggiava; predicava; interpellava abati e principi; curava i malati; come le streghe della tradizione contadina, faceva magie con le erbe; coltivava la musica e il canto.
Ebbe visioni fin dall'infanzia - motivo per il quale i genitori, ritenendola diversa dagli altri, la fecero entrare bambina nel convento di Disibodenberg. Tuttavia, per lunghi anni, le tenne segrete. Solo nel 1136, quando aveva quarant'anni, una voce misteriosa le impose di mettere per iscritto quello che vedeva nel silenzio della mente. Nacquero, in tal modo, i suoi libri profetici: il Liber Scivias, il Liber vitae meritorum; e il Liber divinorum operum, il Libro delle opere divine, la sua opera più importante, che oggi leggiamo nei Classici dello Spirito della Mondadori.
Com'erano le visioni di Ildegarda, queste visioni tenute nascoste perché, come tutte le cose eccezionali, si temeva fossero ispirate dal demonio? Lo spiega lei stessa. «Queste cose - scrisse - non le ascolto con le orecchie del corpo e neppure nei pensieri del mio cuore... ma unicamente all'interno della mia anima, con gli occhi aperti, per cui nelle visioni non subisco il venir meno dell'estasi: le vedo in stato di veglia, di giorno e di notte». C'è una voce misterica così terrena, infatti così superbamente carnale, una seduzione «stregonesca» così profonda in questo libro visionario ma «vigile», scritto «a occhi aperti» - sottratto alle tenebre che avrebbero invaso il cuore di Santa Teresa e di San Juan de la Cruz, scandito, rispetto ai tremori di Angela da Foligno, ai deliri cantilenanti di Maria Maddalena de' Pazzi, nella luce ferma del cristallo - che lascia il lettore moderno sbalordito. Perché, se è vero, come diceva Bernardo di Chiaravalle, che nelle visioni divine le immagini sopraggiungono non solo per attenuare lo «splendore insopportabile» della luce divina, ma anche per «rendere possibile la comunicazione agli altri uomini», è altrettanto vero che la quantità di carne e sangue, di scienza e pensiero, di natura e di mondo che queste immagini riflettono, non ha confini.
Del resto, non potrebbe essere altrimenti, quando al centro di tutto stanno la creazione e l'uomo. Il disegno è complesso e semplice. Dio aveva creato gli angeli; ma uno di loro, il più bello, Lucifero, s'inorgoglì e pensò stoltamente di potersi equiparare a Lui. Dio, allora, lo cacciò negli abissi eterni e, per riparare a questa offesa della creazione, fece l'uomo. Lo fece a sua immagine e somiglianza, nella ragione e nella carne, perché il Figlio avrebbe dovuto rivestirsi con veste di carne, per la redenzione dell'uomo.
L'oggetto della contemplazione di Ildegarda, dunque, non è l'astratto generarsi del Verbo nell'intelletto, bensì, come scrive Marta Cristiani nella sua introduzione: «La concretezza del farsi carne del Verbo nella natura dell'uomo-microcosmo, sintesi di tutta la natura creata». Nella forma dell'uomo, Dio raffigura tutte le sue opere, infatti: l'universo e le sue energie, la terra e i pianeti, il caldo e il freddo, l'umido e il secco, il sole e la luna, l'acqua e il fuoco. Tutto è a servizio dell'uomo. E l'uomo non potrebbe vivere senza la creazione. Così come Dio non potrebbe vivere senza l'uomo.
Perché questa è la verità sconvolgente, colma di conforto, che ci propone Ildegarda: quanto, fino a che punto, Dio ama l'uomo. Un tempo, i profeti possedevano questa verità nel cuore. Ma non capivano ancora bene. La vedevano nell’ombra. Poi, quando il Figlio assunse la carne, la verità esplose come l'urlo di una partoriente. Traboccò nel Figlio. Come la gioia della madre trabocca nel figlio. E fu chiara ogni cosa.
Tuttavia, non è sempre così. L'uomo dimentica. Dimentica l'uomo medievale; quello d'oggi. Dimentica questa comunione della carne e dello spirito. Dimentica addirittura - ed è una immagine sublime, non visionaria, questa che ci propone Ildegarda - di essere, lui uomo, «madre di Dio», quando, seguendo le sue parole, lo genera dentro di sé. L'uomo è fatto di carne e d'anima. Il suo è, quindi, un continuo salire e scendere. Quando la debolezza della carne, «la seduzione immonda e viscida del piacere» trascinano l'uomo in basso, la cecità del cuore corrisponde a quella degli occhi.
Quando le energie dell'anima trasformano i desideri in virtù, l'oscurità scompare e, salendo la scala dell'umiltà, l'uomo si avvicina a Dio. Lo vedrà soltanto alla fine dei tempi. Per ora, deve limitarsi a vederlo riflesso nelle immagini, nelle parole. Lo può vedere nella bellezza del creato; nel firmamento; nel suo stesso corpo: tutto è a misura dell'uomo, tutto corrisponde all'uomo. Il cranio, il cuore, il fegato, i polmoni, le viscere, il reticolo delle vene, la misura delle gambe e delle braccia: come è possibile non riconoscere che il cranio è tondo perché rappresenta l'universo, che la bocca sostiene la verità della Parola, che le vene conducono l'amore, e ogni cosa, ogni cosa è misura, corrispondenza amorosa di Dio e l'uomo? Immagini davvero grandiose colmano questo libro dello spirito che continuamente torna su se stesso a ribadire una luce e una verità carnali che, a tratti, lo accostano alla scrittura di Montaigne.
Non sono, certo, le immagini delle visioni vere e proprie: quelle figure per metà animali, per metà umane; le simbologie grottesche e inquietanti che compaiono anche nei codici miniati, sui portali delle cattedrali romaniche, nei pavimenti delle chiese. Sono, queste immagini grandiose, quelle dell'uomo che Dio, per la voce di Ildegarda, espande nell'universo. Le immagini che ogni domenica, le consorelle di Ildegarda, vestite di abiti sfarzosi, coperte di gioielli splendidi, cercavano di evocare nella purezza del canto. In quel convento di Rupertsberg, nel quale Ildegarda non dimenticò mai le sue ascendenze aristocratiche. E di essere donna. Diceva, infatti, che nella creazione l'uomo rappresenta la divinità; la donna, l'umanità di Cristo.

Il libro: Ildegarda di Bingen «Il libro delle opere divine», a cura di Marta Cristiani e Michela Pereira, Meridiani dello Spirito-Mondadori pagine CLXXIV-1236, €49