lunedì 22 novembre 2004

un dibattito a Napoli, stasera, sul libro su Pietro Ingrao
«Che cosa resta del comunismo?»

Repubblica edizione di Napoli 22.11.04
Il libro di Galdo su Pietro Ingrao

"Che cosa resta del comunismo?". Se lo domanderanno stasera alle 17.30 a Città della Scienza i partecipanti al dibattito che nasce dal libro di Antonio Galdo "Pietro Ingrao. Il compagno disarmato" (Sperling & Kupfer).
All'incontro, che si terrà nella Sala Averroè del centro della Fondazione Idis (via Coroglio, 57), si incroceranno i pareri di Antonio Bassolino e Guglielmo Epifani, che parleranno del libro con l'autore e con i giornalisti Paolo Franchi e Mario Orfeo

l'arte preistorica

Repubblica 22.11.04
Parla l'archeologo Andrew Colin Renfrew, vincitore del premio Balzan
QUELLA PREISTORICA FU VERA ARTE
"La vivacità delle immagini di Lascaux ci lascia senza fiato"
PAOLO VAGHEGGI

ROMA. Si può cominciare a parlare di arte sin dal periodo preistorico? Andrew Colin Renfrew, una delle personalità più importanti dell´archeologia mondiale, grande specialista del periodo preistorico, che in questi giorni ha ricevuto il premio Balzan (nelle varie sezioni è stato assegnato anche a Nikkie Keddie, Michael Marmot, Pierre Deligne e la comunità di Sant'Egidio) a questo tema ha dedicato un intero capitolo del suo ultimo libro (Figuring it out, Thames&Hudson).
Alla domanda fornisce una duplice risposta: «Una è il concetto moderno di arte, qualcosa creato per mere ragioni estetiche, qualcosa che appartiene in realtà al Rinascimento. La nozione per cui il capolavoro appartiene a un artista geniale è un'idea del Rinascimento. Sono assolutamente certo che nessuno avesse idee simili ai tempi della preistoria. Questa, dunque, è una delle risposte alla domanda. Ma ampliamola: è possibile ammirare a buon diritto la bellezza dell´arte preistorica? Qui la risposta è: certamente sì. Quando guardiamo alla vivacità di alcune delle immagini di Lascaux o della caverna scoperta di recente in Francia, la grotta Chauvet, che risale a circa trentamila anni fa, più antica quindi di Lascaux, quando osserviamo l´immediatezza di queste immagini restiamo senza fiato. Sono animali quasi a grandezza naturale. Li troviamo bellissimi e pertanto, da questo punto di vista, possiamo definirli arte. Un altro esempio sono le prime sculture cicladiche, quelle alte sculture marmoree presenti nelle isole Cicladi, in Grecia, risalenti al 2.500 a. C. Non furono realizzate come opere d´arte. Dunque, non sono arte. D´altra parte, ovviamente sempre dal nostro punto di vista, sono grande arte, esattamente come le opere di un Brancusi o di un Henry Moore o di qualsiasi altro artista. Penso quindi che, sì, facciamo bene ad ammirarle e a considerarle alla stregua delle opere d´arte moderna».
Perché testimonianze artistiche così alte si trovano in una certa area franco-spagnola?
«Se discutiamo dell'arte rupestre del periodo paleolitico è vero che si concentra nella Francia meridionale e nella Spagna settentrionale. Con le grotte di Altamira, anche la Spagna è molto importante sotto questo aspetto. Abbiamo poi alcuni esempi in Italia: anche essa ha un suo ruolo. Ma nel periodo paleolitico, ossia prima dell´8.000-9.000 a. C., non troviamo un'arte comparabile in nessun'altra parte del mondo. Le ragioni ci sono ignote. Vi sono grotte di calcare nelle Americhe e in Australia. Abbiamo tracce di pitture degli aborigeni australiani di quel periodo. Al confronto, tuttavia, sono alquanto semplici. Gli archeologi non sanno ancora spiegarsi come mai solo l´arte rupestre franco-cantambriana ha queste magnifiche, stupefacenti pitture animali».
Era più alto il grado di civilizzazione degli abitanti di quest'area?
«È questo che lascia perplessi. Circa sessantamila anni fa la specie umana lasciò l'Africa e si diffuse nella maggior parte del globo. Già all'epoca delle pitture francesi, abbiamo l'Homo sapiens in Australia, India e Cina, forse non in America, ma di sicuro in tutto il resto del mondo. Ma allora perché cose tanto meravigliose sono nate solo in certe zone? La sola risposta possibile è che forse, a volte, la caccia era più facile, i grandi animali come ad esempio i cervi erano più facili da cacciare in certe zone. Non è una buona spiegazione, ma questo è, io credo, uno dei misteri della preistoria».
Una svolta può arrivare dai nuovi studi sul periodo preistorico.
«Un passo avanti decisivo è arrivato con la datazione al carbonio. Per la prima volta abbiamo avuto un metodo che ci ha consentito di datare lo sviluppo delle culture in diverse parti del mondo, un metodo sganciato dalle ipotesi. Questo è stato uno dei grandi motori del cambiamento nello studio dell'archeologia preistorica. Un altro progresso molto recente è dovuto all´applicazione degli studi sul Dna: gran parte di quanto abbiamo appreso proviene dall'analisi di campioni di esseri umani viventi e dalla successiva osservazione delle analogie o delle differenze per quanto riguarda gli alberi genealogici. Grazie a questo metodo, è chiaro che la nostra specie, l'Homo sapiens sapiens, ha avuto origine nella sola Africa, e sappiamo anche quando: all´incirca 120 mila anni or sono. Stiamo cominciando a imparare molte cose sulla storia delle origini e della diffusione della nostra specie grazie agli studi sul Dna. In precedenza, ci si basava solo sui fossili rinvenuti nelle caverne e nelle falde in Africa e altrove, mentre oggi il Dna ci apre nuove strade. Tutte le nostre conoscenze della preistoria si stanno evolvendo in questo decennio grazie a quegli studi. Altre cose cambieranno con lo studio dei meccanismi di funzionamento del cervello. Quando capiremo meglio come funziona il cervello e come sono emerse le capacità del tutto speciali degli umani, quando sapremo meglio cosa cercare e come trovarlo, allora scopriremo anche cose ancor più interessanti sul periodo preistorico».

Giulio Giorello
Prometeo, Ulisse, Gilgamesh

Giornale di Brescia 22.11.04
CULTURA
Il filosofo Giorello riflette sulla valenza attuale di Gilgamesh e altre due grandi figure della tradizione
I miti antichi, ombre del futuro
«Prometeo e la manipolazione della vita, Ulisse negli orizzonti della fisica»
di Maria Mataluno

«Coi miti non bisogna avere fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi (…) su ogni dettaglio, (…) senza uscire dal loro linguaggio di immagini». È con questa frase di Italo Calvino che Giulio Giorello introduce il suo saggio Prometeo, Ulisse, Gilgamesh. Figure del mito (Raffaello Cortina, 250 pagine, 18.50 euro), nel quale propone un’affascinante interpretazione di tre miti antichi che tuttora, persino in quest’era disincantata, continuano a plasmare la realtà e la nostra percezione di essa. Perché le figure del mito, scrive Giorello, «calcano la scena del mondo, diverse e pur sempre identiche nel loro "discorso". Non si risolvono in un repertorio cui possiamo liberamente attingere. Piuttosto, dispongono del loro (e del nostro) destino, provocando la loro (e la nostra) metamorfosi». Al prof. Giorello, che insegna Filosofia della scienza all’Università di Milano, domando cos’abbiano ancora da dire le "figure del mito" all’uomo di oggi.
«La risposta a questa domanda l’ha data uno degli autori di riferimento del mio libro: Percy B. Shelley. L’autore del Prometeo liberato scrisse che le grandi favole antiche non sono semplici voci provenienti dal passato, ma ombre del futuro proiettate sul presente. I miti, insomma, ci aiutano a prevedere come il futuro plasmerà il presente. In un’epoca in cui l’ingegneria genetica ci permette d’intervenire sulla creazione e sulla propagazione della vita, i miti di Prometeo e di Ulisse, ossia del dio che donò agli uomini il fuoco e dell’eroe che superò ogni limite umano per assecondare la sua sete di conoscenza, sono più che mai adatti a simboleggiare la prodigiosa capacità che la scienza ha di trasformare il mondo». «Invitandoci a "non viver come bruti" ma a inseguire "virtute e conoscenza", Prometeo e Ulisse ci spingono a migliorare ciò che nella natura può essere migliorato, ma ci ricordano anche la nostra condizione paradossale, e per certi versi spaventosa, di poter fare quello che sino ad oggi era possibile solo a Dio. C’è qualcosa di prometeico nella nostra capacità di manipolare la vita - e non a caso Mary Shelley pose come sottotitolo al suo Frankenstein "Un Prometeo moderno", - e c’è qualcosa di odissiaco nella fisica contemporanea, che partendo dallo studio delle particelle elementari della materia arriva a indagare le origini e la fine dell’Universo».
Se la fisica contemporanea attinge allo spirito di Ulisse, è a Prometeo che lei riconduce la filosofia della natura seicentesca.
«Già nella tradizione classica di Eschilo e di Esiodo, Prometeo è il dio che insegna all’uomo non solo l’uso del fuoco e delle arti, ma anche come calcolare le orbite dei pianeti. Per questo per Shelley il vero Prometeo è Isaac Newton, colui che svelando l’ordine e il movimento dei corpi celesti ha emancipato l’uomo da secoli di ignoranza e di superstizione. Tuttavia per Newton c’è bisogno di una mente creatrice, una Provvidenza divina in grado di controllare che la macchina della natura funzioni al meglio e di ripararne i "guasti", mentre per Shelley questa è autosufficiente, non ha bisogno di un’intelligenza superiore. Perciò lo spirito prometeico, ossia di colui che si ribellò all’autorità di Giove per conferire all’uomo la più assoluta indipendenza, è incarnato ancor meglio da Erasmus Darwin, il nonno di Charles, il grande naturalista che cantava in versi la molteplicità degli esseri viventi e che tentò di spiegare ogni fenomeno della vita riconducendolo solo alla Natura». «Così nel romanzo di Mary Shelley, moglie di Percy, è una scintilla elettrica ad animare la creatura del dottor Frankenstein, dimostrando come il segreto della vita vada cercato all’interno, e non al di là, della natura. Il vero Prometeo, insomma, è la tecnica, che mette gli uomini di fronte alla responsabilità di divenire padroni della vita e della morte: se saranno deboli nell’assumere questa responsabilità, saranno distrutti; se invece sapranno dominare un simile segreto, inizieranno una nuova, appassionante fase della loro avventura».
È un invito a una consapevolezza dei suoi limiti anche quello che Ulisse fa all’uomo contemporaneo. Ma in che modo l’Ulisse di James Joyce ha contribuito a plasmare questa figura del mito?
«Joyce ha sviluppato un’intuizione che era già presente nell’interpretazione platonica di questo mito. Ulisse è stufo di fare l’eroe: smessi i panni di uomo eccezionale, indossa quelli di un comune agente di commercio nella Dublino del primo Novecento. Un uomo come tanti, dalle origini ebree ma convertitosi al cattolicesimo - e qui Joyce sposa la tesi che il mito di Ulisse non sia nato in Grecia, ma in ambiente mediorientale, forse fenicio, - innamorato della moglie che lo tradisce, un marito che compie un’infinità di adulteri mentali ma poi finisce sempre per ritornare al suo "letto avito". Nell’era del disincanto, dopo il crollo dei grandi ideali, è questo l’unico eroismo possibile: essere un uomo qualunque in una città qualunque, un "inquieto palestinese" che con il coraggio e la prudenza di Ulisse si aggira in un mondo popolato di Polifemo ebbri di whisky e di svariate Circe senza più mistero: un mondo tranquillamente grigio, all’apparenza, ma in realtà animato da quegli eroici furori che non squassano solo l’animo di Bloom, ma anche quello di un Paese che presto sarebbe divenuto teatro di sanguinose ribellioni in nome della libertà».
Veniamo infine al terzo dei grandi miti che lei prende in esame, quello di Gilgamesh.
«È uno dei miti più antichi, ma soprattutto è quello che più di ogni altro rivela il legame profondo che esiste tra mito e poesia, dimostrando la capacità di quest’ultima di incidere sulla realtà e sulla storia, trasformandole. Per due terzi dio e per un terzo fin troppo umano, il sumerico Gilgamesh soffre vedendo gli uomini alle prese con la sofferenza e con la morte, e ingaggia una disperata battaglia contro il dolore. Questo suo generoso sforzo non potrà andare a buon fine, e Gilgamesh dovrà arrendersi alla necessità del male. Gilgamesh però mette la sua storia per iscritto, tramutando il suo dramma in poesia; e dimostra come la poesia sia l’unica via di fuga dall’inferno quotidiano». «Un concetto che è stato espresso nel modo più efficace da Ezra Pound, che proprio a Gilgamesh s’ispirò:
"Ho perso il mio centro
a combattere il mondo
scrisse mentre era rinchiuso in carcere a Pisa
I sogni cozzano
e si frantumano. (…)
Ho provato a scrivere il Paradiso
non ti muovere,
Lascia parlare il vento
Così è il paradiso"».

«la guerra non è più giustificabile»

La Stampa 22 Novembre 2004
SETTE FORTI RAGIONI PER USCIRE DAL CIRCOLO VIZIOSO DELLA VIOLENZA: PENA IL CADERE IN UNA NUOVA BARBARIE
Perché la guerra non è più giustificabile
di Giuliano Pontara

ERAVAMO molto amici. Incontrai Norberto e Valeria agli inizi degli anni Sessanta. So dai molti incontri, pubblici e privati, che ebbi con Norberto nel corso di quarant’anni, che il problema pace/guerra, nell’era delle armi di distruzione di massa, lo sentiva in modo angosciante. A questo problema, che riteneva «uno dei grandi e terribili problemi del nostro tempo» - forse il più grande e terribile - Norberto dedicò molta attenzione in molti scritti di cui i primi risalgono agli inizi del ‘61. Sostenne in varie occasioni che «nelle circostanze attuali non è più possibile giustificare la guerra», e di fronte alle prospettive di una guerra nucleare disse che «siamo, almeno potenzialmente, tutti quanti obiettori di coscienza». Inaspettata fu quindi la sua presa di posizione, nel ‘91, quando sostenne che la guerra contro l’Iraq era «una guerra giusta». Nell’intenso dibattito che ne seguì egli cercò di chiarire che la sua posizione non era una posizione etica, bensì strettamente giuridica, ossia che per «guerra giusta» non intendeva «guerra eticamente giustificata», bensì «guerra legale» ossia conforme alla legge, nella fattispecie al diritto internazionale e alla carta dell’Onu. Ma, a ben guardare, era comunque una posizione che affondava le sue radici in una concezione etica, più precisamente in un’etica della responsabilità, dei risultati, cui espressamente Norberto Bobbio più volte si richiamò nel corso del dibattito. E dietro c’era anche un’adesione, sia pure critica, ad una dottrina dei diritti umani, che è appunto una dottrina etica, ancor prima che giuridica.
Muovo da tale dottrina, e pongo la seguente questione: dato, o concesso per amore dell’argomento, che vi siano diritti umani fondamentali - un diritto alla vita, a non essere torturato, alla salute - è eticamente giustificato violare i diritti fondamentali di alcuni al fine di tutelare quelli di altri? La questione si pone in modo particolarmente drammatico in relazione alla guerra, includendo nel concetto di guerra la guerra tra Stati, tra comunità internazionale e singoli Stati, la guerra civile, la guerriglia, il terrorismo («guerra diluita» come la chiamava Bobbio).
Può essere giustificata la guerra sulla base dell’etica della responsabilità? In via di principio sì: dipende, appunto, dalle conseguenze e dalle alternative in gioco.
Si possono però far valere alcune forti ragioni a sostegno della tesi generale per cui la guerra, intesa come impiego sistematico della violenza armata, oggi non può essere giustificata.
Enumero in tutta brevità sette ragioni:
1) La guerra è diventata un massacro di massa su scala industriale; essa comporta con certezza, in ragione dei mezzi usati, stragi e inflizioni di sofferenze immani.
2) La guerra comporta con certezza gravi e vaste violazioni, collaterali o meno, di diritti fondamentali di innocenti - presenti e futuri.
3) ante eventum, è sempre incerto se l’impiego massiccio della violenza armata effettivamente conduca alla tutela di tutti quei diritti che con essa si vogliono (eventualmente) tutelare.
4) Vi è un’alta probabilità che nel corso di qualsiasi guerra s’inneschino vasti processi di de-umanizzazione, brutalizzazione, deresponsabilizzazione, i quali, man mano che la guerra procede, inducono ad accettare forme sempre più massicce, distruttive e indiscriminate di violenza.
5) Alla guerra è sempre più connessa una tendenza alla militarizzazione della società, militarizzazione che pone sempre più a rischio il buon funzionamento, o addirittura l’esistenza di quelle istituzioni democratiche, di quei controlli dal basso, che parrebbero necessari per una tutela effettiva dei diritti umani fondamentali.
6) Vi è un rischio che ogni guerra contribuisca ulteriormente al processo storico di escalation e di globalizzazione della violenza armata: quel processo che nel corso di millenni ha visto gli uomini passare da conflitti violenti locali, combattuti con armi rudimentali, di portata distruttiva molto limitata, alle due guerre mondiali del secolo scorso, e quelle che, sulla loro scia, ne sono seguite.
7) E vi è il rischio, associato con il processo di escalation e globalizzazione della violenza, che si verifichi una guerra catastrofica per l’intero genere umano, la guerra dell’Armageddon (la guerra di un’ora, di cui si parla nell’Apocalisse), scatenata dal popolo di dio di turno, o magari per sbaglio - una violazione apocalittica di diritti fondamentali. L’entità di questo rischio è difficile da stabilire, ma sappiamo che nell’era della proliferazione delle armi termonucleari, biologiche e chimiche esso è maggiore di zero: il che significa che, pur assumendo che tale rischio sia molto basso - ma non lo sappiamo -, la enorme violazione di diritti fondamentali connessa con una guerra dell’Armageddon è un male talmente grande che la violazione attesa di diritti connessa con la guerra oggi è molto alta.
Di fronte a tutto ciò la ragione ci dice che dobbiamo uscire dal circolo vizioso della violenza, pena il cadere in una nuova barbarie.