martedì 19 ottobre 2004

il prof. Galimberti:
«qui occorre una psicoanalisi di massa...»

citato al Lunedì

Repubblica "D La Repubblica delle donne" sabato 16.10.04


L'IMPOTENZA DEL DOTTOR FREUD
PSICOANALISI
Un tempo era capace di spiegare una parte di noi. Oggi ci consegna la misura della nostra fragilità di fronte a un mondo instabile e imprevedibile, segnato da conflitti, torture, massacri. Morirà di asfissia? No, se rinascerà come etica sociale.
di Umberto Galimberti


Sono saltati i rimedi, le cure, le indicazioni terapeutiche. Le chiese sono deserte, le pratiche filosofiche si sono ritirate nella quiete delle aule accademiche, le pratiche psicoanalitiche hanno perso il loro referente, ossia la realtà, dal cui esame di individua, per scostamento, la nevrosi. Senza religione, senza filosofia, senza psicoanalisi, a trarre profitto è l'industria farmaceutica che seda l'anima e riduce l'inquietudine dell'individuo. Un'inquietudine che ha cambiato forma. Non più generata dal conflitto interiore fra passione e ragione che, su larga o su piccola scala, era stato il campo di gioco dei riti religiosi, delle pratiche filosofiche, delle cure psicoanalitiche, ma il conflitto fra la propria visione del mondo e il modo in cui oggi accade il mondo. Un modo che consegna all'individuo il senso della sua radicale impotenza. Come faccio a sopportare la colpa di essere un privilegiato nel mondo perché i miei figli non muoiono di fame e io non sono cacciato da casa mia dopo aver visto mia moglie uccisa a colpi di machete? Come faccio a vivere nell'imprevisto, dove ogni mezzo di trasporto è una potenziale minaccia, ogni volto appena dissimile dal mio è un volt inquietante? Dove colloco nella mia anima e dove sistemo nella mia ragione quei numeri approssimativi e indefiniti che dicono 15000 afgani uccisi per catturare Bin Laden e 20000 iracheni morti per deporre Saddam? Dove colloco, a partire dai miei parametri di civiltà, le torture nelle prigioni irachene, i prigionieri di Guantanamo, i bambini uccisi di petto e di schiena nella sperduta Ossezia, il rituale quotidiano delle teste che cadono, e questa volta non metaforicamente?
Dove colloco il mio futuro se anche la Cina, l'India e l'Africa si muovono per vivere come vivo io, e se io so di poter vivere come vivo solo se loro contengono e limitano le loro esigenze e possibilità di vita? Cos'è mai la mia vita e la mia realtà se la prima non è più scandita dalle dinamiche della mia esistenza e la seconda da quello spessore stabile e concreto su cui fin ora era possibile misurarsi, se l'una e l'altra si sono dissolte e volatilizzate in quell'unico misuratore di tutte le misure che è il denaro, che si produce anch'esso disancorato dalla realtà del lavoro, nella virtualità delle operazioni ?

È con la satana
[sic! Ndr] realtà, che la nostra anima, che nella realtà aveva la sua misura, sia per il suo equilibrio sia per il suo squilibrio, non ha più referente. E le parole che conosceva per nominare il suo dolore: peccato-redenzione nel registro religioso, angoscia e quiete in quello filosofico, governo di sé e nevrosi in quello psicoanalitico, sono diventate parole vuote che più non sanno nominare l'essenza del dolore, perché questo più non nasce nella nostra interiorità, ma dall'esterno giunge a contaminare e devastare l'anima.
Il lettino psicoanalitico ultima metafora dl raccogliemento prima religioso e poi filosofico, è vuoto, e le parole che giungono alle spalle degli ultimi pazienti ancora sdraiati sono parole fuori dal mondo, perché vanno a cercare l'origine del dolore nella biografia, mentre oggi sono la geografia e la storia a disanimare l'anima, a istillare sussulti d'angoscia.
L'individuo,nozione nata in Occidente con il concetto di anima, su cui l'Occidente ha costruito la sua cultura nella forma dei diritti e delle libertà individuali, non ha più molto senso se in gioco è l'indifferenza per la vita in generale, la sua sprecabilità, la sua inincidenza nell'andamento truculento del mondo. Il passato, in cui la psicoanalisi fa i suoi affondi per reperire le trame del disagio, è diventato così antiquato, diverso, quasi archeologico rispetto al presente, da non offrire nessuna chiave di lettura per riorientare l'anima nell'indecifrabilità dell'oggi, dove tutte le chiavi di lettura si sono perse nel disordine del mondo.
Il futuro poi ci è stato semplicemente tolto, sia quello religioso perchè Dio è morto, sia quello laico perché la rivoluzione è impossibile, l'utopia è lontana, la scienza progredisce in modo afinalizzato, spiazzando l'etica su cui avevamo costruito le nostre regole di condotta e conosciuto le nostre deroghe.
Il futuro-promessa, che alimentava in chiave religiosa la fede nella salvezza e in chiave scientifica il progresso, si è trasformato in futuro-minaccia, e anche l'ipotesi di Freud secondo cui la consapevolezza sarebbe subentrata e avrebbe preso il posto delle forze scatenate e sconvolgenti dell'inconscio (scrive letteralmente Freud:«Dov'era l'Es deve subentrare l'Io. Questa è l'opera della civiltà») si è rivelato un sogno, una vuota profezia.
Non è vero come titola un libro di Hillman:«Cento anni di psicanalisi e il mondo va sempre peggio». Il mondo di oggi non è "peggiore", non è uno scalino più sotto del mondo di ieri. Il mondo di oggi è un altro mondo, che ha percorso all'indietro il cammino che l'umanità ha compiuto quando si è congedata dalla violenza del sacro per giungere all'ordine della ragione.
Quando Dioniso entra a Tebe, ci riferisce Euripide nelle Baccanti, crolla il palazzo del re, il sovrano è ucciso, i vecchi si comportano come i bambini, le donne, come menadi, smaniano sul monte Citerone agitando un ramo di tirso, l'ordine della città è sconvolto. Non si può cacciare Dioniso, perché l'uomo nulla può contro la potenza devastante di un dio. Bisogna solo attendere che Dioniso se ne vada, che spontaneamente lasci la città (Deoconcedente).

Quest'immagine del sacro che irrompe nell'ordine e lo sconvolge sbaraglia tutti i nostri strumenti terapeutici
idonei solo a correggere e migliorare un ordine, e perciò langue la religione, che a furia di occuparsi dell'ordine del mondo ha dimenticato le orme del sacro, e langue la psicanalisi che, tutta raccolta intorno all'interiorità dell'individuo, non ha strumenti per un'interiorità lacerata da un mondo dove il sacro ha fatto la sua irruzione e compiuto la sua devastazione. Per usare una metafora di Umberto Eco questo può sembrare il discorso tipico degli "apocalittici", ma quale altro discorso è possibile se gli "integrati" hanno trovato il loro rifugio tra i decerebrati a cui la televisione, lo stadio, la moda, lo shopping hanno fornito gli opportuni strumenti di rimozione che possono essere "letterali": «Non è successo niente che mi tocchi da vicino», «Questi fatti non hanno niente a che fare con me e quindi non mi riguardano», oppure "interpretativi" per cui la pulizia etnica si chiama "scambio di popolazioni", un massacro "danno collaterale", una deportazione "trasferimento di popolazione", una tortura "pressione fisica", un'occupazione "esportazione della democrazia", una guerra "missione di pace". A colpi di diniego, letterale e interpretativo, i decerebrati possono sentirsi integrati e non toccati dall'accadere del mondo.
La psicoanalisi, che ha inventato la parola diniego (verneinung), ha sempre lasciato fuori dalla stanzetta analitica il mondo. Forse lo poteva fare perché il mondo era stabile, e se crollava, come nella prima e nella seconda guerra mondiale, si ricostruiva su schemi da secoli collaudati. Oggi questi schemi non valgono più, perché la nostra casa (l'Europa) non è più il mondo, ma una piccola parte del mondo, e l'uomo che la psicoanalisi ha conosciuto, è, come dice Gunter Anders, "antiquato".
Qui occorre una psicoanalisi di massa, simile a quella che un giorno hanno compiuto le religioni quando hanno insegnato a "non uccidere", "non rubare", "non nominare il nome di Dio invano". Non con gli strumenti della religione, perché Dio è morto, ma con quello strumento più modesto, a disposizione di tutti gli uomini, che si chiama "etica". "Etica sociale" che deve irrompere nel chiuso delle stanzette analitiche perché non è salute ma follia pensare di salvare la propria anima nel più completo disinteresse per tutto ciò che accade nel mondo. In caso diverso anche la psioanalisi andrabbe a rinforzare gli eserciti della rimozione e, così facendo, tradirebbe se stessa perché sua è la parole "rimozione" e sua è l'indicazione della salute come scavo per far riemergere il rimosso.

la nuova garzantina di filosofia

La Stampa 19.10.04
LA NUOVA GARZANTINA CONTIENE UNA SEZIONE DEDICATA ALLE 300 OPERE FONDAMENTALI DEL PENSIERO UMANO: NE PARLIAMO CON IL CURATORE GIANNI VATTIMO
Leggiamola con FILOSOFIA
di Bruno Ventavoli

C’ERANO 100 mila persone ad ascoltare i filosofi al festival di Modena, Carpi, Sassuolo. Sembra strano, ma la mente umana ha attratto quanto le gambe delle aspiranti veline. E non è un caso isolato. La filosofia esce sempre più dalle aule, per entrare nei teatri, nelle arene, negli spazi aperti della socialità. C’è sicuramente il richiamo dell’«evento», perché basta inventare un qualunque salone, magari dedicato al lombrico malese, per accumulare folle. Ma qui il discorso è più complesso. La filosofia non è più soltanto faccenda da geni distratti, con la testa talmente tra le nuvole che non s’avvedono dei pozzi e vi cadono dentro. Oggi parlare di filosofia significa confrontarsi con la complessità del mondo, in tutti gli aspetti, anche quelli che ci toccano direttamente. Quando vediamo il capitalismo impazzire negli scandali finanziari, quando cerchiamo di definire i confini della laicità e dello stato, quando parliamo di globalizzazione, clonazione o eutanasia, ci rendiamo conto che gli strumenti giuridici e scientifici a nostra disposizione sono insufficienti. Ed ecco allora tornare di moda il pensiero critico che incalza, indebolisce certezze, smaschera fantasmi. In questo clima di successo mediatico, esce la nuova edizione della Garzantina filosofica, che affronta il sapere umano dall’antichità a oggi. Gianni Vattimo ne è il curatore, in collaborazione con Gaetano Chiurazzi.
Professor Vattimo, la filosofia diventa un evento, attira pubblico. Che succede?
«Io comincerei molto brutalmente dicendo che la gente è stufa della tv, perché la tv si è autoconsumata, moltiplicandosi. Lo constato su me stesso. Non l’accendo più, non solo perché in Italia appartiene tutta a Berlusconi, ma perché non trovo più niente che m’interessi. Noia della tv a parte, credo che la popolarità della filosofia dipenda anche dalla gravità dei problemi in cui viviamo, dalla bioetica, alla politica, alla guerra, al rapporto tra mondi culturali diversi. Prima di andare a Lourdes facciamo ancora un tentativo di capire le cose con i concetti di cui disponiamo».
In che modo la filosofia può aiutarci a risolvere i problemi della modernità?
«Wittgenstein diceva “la filosofia può solo liberarci dagli idoli”. La filosofia in fondo ha una funzione più negativa che positiva. Un individuo che abbia letto molta filosofia non sempre è un uomo di forti convinzioni. In questo, paradossalmente, c’è una specie di equivoco anche nel desiderio diffuso di filosofia. Chi si rivolge alla filosofia pensa davvero di trovare un sostituto della religione? No, non credo. Io ho vissuto direttamente questa popolarità dei festival, per molti anni. Anzi, comincio persino a vergognarmi quando parto per l’ennesimo raduno. In questi luoghi la gente non si aspetta che uno gli spieghi come va il mondo o qual è il senso della vita. Vuole mobilitare liberamente dei concetti. Prendiamo ad esempio il successo dei caffè filosofici in molte metropoli del mondo, il pubblico li frequenta più per parlare che per ascoltare, ascolta un inizio poi comincia a intervenire. Nella filosofia la gente si aspetta un luogo di attività intellettuale, anche propria, piuttosto che un insegnamento da ricevere e da accettare».
Scorrendo la Garzantina sembrerebbe che la filosofia sia un sapere principalmente occidentale.
«Effettivamente è così, è un sapere che si è sviluppato nel nostro mondo. Mi è capitato qualche volta di andare in Giappone, chiedevo di parlare con un filosofo all’istituto che mi invitava. Mi facevano trovare o un giapponese che aveva studiato a Heidelberg, o un monaco buddhista. Insomma, non era tanto facile trovare un mio omologo».
Se in molti sensi la filosofia è una disciplina occidentale, significa che gli altri non la possono capire?
«Non credo questo. La filosofia semplicemente è una forma culturale abbastanza caratteristica dell’Occidente che cerca seriamente di non identificarsi semplicemente con il modo di vita occidentale. Per esempio, l’idea che si insegni filosofia in altre parti del mondo, non dipenderà dal fatto che anche là calcolano gli anni dalla nascita di Cristo, dipendono dalle banche americane, usano i nostri strumenti tecnologici, che si sono creati con la scienza europea moderna? E’ vero che molta scienza si è costruita in rapporto all’Islam, però, a un certo punto, si è sviluppata qui. La “mondializzazione” dell’Occidente è ambigua. Non possiamo dire che è solo cattiva. Certo, c’è un impero, c’è un dominio, ma c’è anche la diffusione di saperi scientifici e filosofici. Moltissimi indiani emigrano in Occidente di nascosto mentre sono pochissimi gli occidentali che emigrano di nascosto in India. Non dico che abbiamo ragione noi, ma effettivamente c’è una occidentalizzazione del mondo che realizza l’universalità del discorso filosofico come lo pensavano i nostri antenati. E mentre la realizza la mette in discussione. Non possiamo pretendere che tutti la pensino come Aristotele o Platone».
Pare quanto mai necessario ripensare a questioni che sembravano acquisite tipo cittadinanza, uguaglianza, democrazia stessa. La politica ha bisogno di filosofia?
«La filosofia ha la funzione di sdogmatizzare le nostre certezze politiche. Prendiamo i grandi filosofi del ‘900. Derrida è appena morto, era uno che non avrebbe mai giurato sulla verità assoluta delle nostre istituzioni. Non avrebbe mai occupato l’Iraq per esportare la democrazia. I filosofi non si comportano come Bush, ammettendo che sia in buona fede, cosa di cui dubito fortemente. Forse Heidegger avrebbe voluto esportare Hitler... ma a parte la battuta, nessuno dei grandi pensatori della modernità era certo delle nostre convinzioni politiche. Gli illuministi forse sono stati gli ultimi che avrebbero potuto pensare, paradossalmente, di esportare la democrazia, ma nemmeno loro, in quanto illuministi, potevano permettersi di essere dei fanatici, pensavano che occorresse discutere con la gente del luogo. Rispetto alla politica occidentale oggi la filosofia ha la grande funzione di insegnare ancora una volta a vincere le idolatrie. Il meglio della filosofia contemporanea è l’ermeneutica, il dialogo, il consenso informato, l’universalità come fatto che si costruisce nell’intesa piuttosto che con l’illuminazione».
Filosofia è anche etica. E in tutti i campi, dalla genetica agli affari, si invoca il ritorno della morale. C’è bisogno di lei anche qui?
«Ancora una volta la filosofia difficilmente insegna l’etica come sistema di principi. Ricordiamoci del demone di Socrate. Il demone diceva a Socrate cosa non doveva fare, non quello che doveva fare. I comportamenti di Socrate derivavano dai pregiudizi della polis, dal ventre, dagli istinti, dagli usi a cui era stato abituato. Il demone poneva un limite a questa appartenenza, dalla sopravvivenza quotidiana all’economia. E anche oggi, quando si parla di etica degli affari, secondo me, non si chiede all’etica di fornire un indirizzo positivo, ma di insegnare agli uomini d’affari ciò che non devono fare... non devono truffare, non devono ingannare, non devono malversare... L’etica può suggerire questo, e non consigliare in quali bond investire per essere morali. Le nostre azioni dipendono sempre in qualche dalle norme imposte e dalle aspettative degli altri. L’etica deve intervenire qui, sulla conformità dei comportamenti a usi, costumi, interessi. Il grande maestro di etica è Socrate, col suo demone, che dice continuamente ciò che non si deve fare».

storia:
un convegno a Roma

La Stampa 19.10.04
UNA KERMESSE A ROMA PER DISCUTERE LO STATO DELLA DISCIPLINA
Conversando di storia
di Pierluigi Battista

LE televisioni rigurgitano di programmi dedicati alla storia. Le case editrici hanno trovato nella storia un filone redditizio. I giornali allegano con sempre maggiore frequenza fascicoli e volumi che hanno nella storia il loro baricentro. Nelle pagine culturali dei quotidiani e dei periodici le controversie di carattere storico non cessano di alimentare una (sana) vis polemica. Nella politica continua a far capolino la storia come arma contundente e principio di delegittimazione dell'avversario. Si moltiplicano in tutta Italia convegni su temi storici, come quello che si apre domani a Roma e che è diventato un appuntamento fisso di sempre maggiore prestigio. Però non tutti questi fenomeni portano in sé lo stesso segno e il fatto che la storia sia al centro di tanti e disparati indicatori della sensibilità culturale corrente non vuol dire che di esso si possa dare una lettura univoca. Un conto è infatti il trionfo mediatico ed editoriale della divulgazione storica. Di tutt'altro genere è il sempre più marcato emergere della storia come tema di infinite discussioni che dall'analisi del passato si riverberano ineluttabilmente sulle polemiche politiche dell'attualità.
La divulgazione storica presuppone infatti un accordo diffuso sui fatti della storia che si vogliono raccontare. Si «divulga» un sapere di cui non si contesta la consistenza fattuale, di cui si accettano le premesse e le conseguenze. La divulgazione popolarizza e rende di larga comprensione anche per un pubblico non necessariamente specializzato, anzi preferibilmente non versato nella materia di cui si tratta, una conoscenza che si dà per acquisita e passabilmente «certa», comunque non contestata nelle sue stesse fondamenta empiriche. Con l'ausilio delle immagini e addirittura con il supporto di apposite fictions, i programmi storici della televisione offrono per lo più una lettura popolare e comprensibile di fatti dati per acclarati e comunemente fatti propri da una collettività di lettori e di fruitori. Le biografie in genere molto amate dalle case editrici perché sempre molto apprezzate da chi acquista libri di saggistica partono un genere da un quadro documentario generalmente condiviso (a meno che non si fondino su una documentazione inedita destinata a smentire le letture tradizionali del personaggio biografato, ma questa è un'altra storia, singolarmente sospesa tra l'accuratezza delle ricerche archivistiche e il desiderio diffuso, e scandalistico, di frugare nella parte oscura o messa in ombra di quei personaggi). I supplementi di argomento storico dei giornali rivestono per lo più un carattere enciclopedico che tende a dare di un avvenimento, di un personaggio o di un'intera epoca tutto ciò che generalmente si sa e che è accreditato, senza strappi interpretativi troppo violenti, entro una prospettiva mediamente pacificata oppure secondo un'ottima dichiaratamente di parte se il giornale che allega il supplemento e il volume storico appare a sua volta molto connotato ideologicamente (difficile che i libri dell'Unità si discostino dalla vulgata di sinistra o che i volumi allegati al Giornale possano esibire un'impronta, per dire, marxista o genericamente progressista).
Le controversie storico-politiche che invece tengono banco anche nell'editoria, ma in special modo nella dimensione giornalistica e pubblicistica, e in molta convegnistica come quella che si esibirà a Roma con meritorio spirito aperto e pluralistico, indicano tutta un'altra temperie culturale. Non partono da una piattaforma di conoscenze acquisite e condivise, ma presentano delle spaccature finanche nella scelta dei fatti da trattare e nell'ottica con cui i singoli avvenimenti vengono soppesati e valutati. Si sta parlando ovviamente dei temi (quelli del fascismo e dell'antifascismo, del valore della Resistenza, del comunismo, ma anche del Risorgimento e della Rivoluzione francese) su cui più si è accesa la disputa storico-politica di questi anni. Ma in genere la frattura che ancora divide la comunità degli storici e di chi si occupa di storia nella comunicazione pubblica non è la conseguenza, bensì l'antefatto delle divisioni e delle controversie polemiche che a molti appaiono incomprensibili. Al cospetto di nuovi e irriverenti schemi interpretativi, i sacerdoti della vulgata politico-storiografica solitamente deplorano un incontinente «uso pubblico della storia», quasi a voler dimenticare che anche quella vulgata affonda le sue radici in un precedente «uso pubblico della storia» di segno ideologicamente opposto ma non meno pervasivo e vincolante. Oppure denunciano l'esilità delle «nuove ricerche» in grado di smentire il vecchio canone egemone. E invece gli stessi materiali d'archivio possono illuminare letture diverse, canoni contrapposti, chiavi interpretative più convincenti. Le discussioni storiche degli ultimi anni nascono appunto da questa discordia interpretativa, dall'uso di diverse chiavi che danno ai fatti gerarchie, significati, valutazioni completamente diverse l'una dall'altra. Non c'è per esempio discordia sul numero delle vittime del comunismo, quanto piuttosto sulla radicalità del giudizio negativo da formulare su un fenomeno che ha suscitato tante speranze ma ha costellato il suo cammino di lutti infiniti. Non si contestano le cifre fornite da Giampaolo Pansa dei «vinti» uccisi dopo il 25 aprile, ma il rapporto tra quel sangue e la valutazione di un fenomeno come la Resistenza. E così via. Malgrado i meritori sforzi del Quirinale, animati dalla convinzione che non si possa dare senso duraturo di comune appartenenza nazionale senza il riconoscimento di un passato comune, non solo le memorie appaiono tuttora divise, ma anche la storia non riesce a trovare un terreno comune in cui riconoscersi. Ecco perché le discussioni storiche, lungi dall'esaurirsi in defatiganti dispute su questioni altrimenti consegnate alla polvere del tempo, dimostrano un'effervescenza destinata a rinfocolarsi alla prima occasione. Senza scandalizzate deplorazioni.

violenze in famiglia
test psicologici periodici per tutti i poliziotti

Corriere della Sera 19.10.04
La decisione di De Gennaro dopo gli ultimi casi di tragedie familiari. «Più a rischio tra i 30 e i 40 anni»
Pronti test psicologici per tutti i poliziotti
Il Viminale prepara una circolare: verifiche sull’idoneità alle armi. Sindacati in rivolta: sistema per punire
di Fiorenza Sarzanini

ROMA - Esami clinici e test psicologici per stabilire l’idoneità all’uso delle armi e alle attività ritenute maggiormente pericolose. Sinora questo tipo di visita veniva ordinato soltanto in casi di particolare gravità. Il capo della polizia Gianni De Gennaro ha invece deciso di modificare la procedura di controllo e di disporre accertamenti che riguardino l’intero personale. La circolare, che sarà firmata entro qualche settimana, prevede che tutti - dagli agenti ai funzionari - debbano sottoporsi periodicamente alla verifica. E tanto basta per scatenare la protesta dei sindacati che parlano di «strumento che viola le regole costituzionali» e minacciano di impugnare il provvedimento davanti alla Consulta.
LA PROCEDURA - La scelta sui criteri di selezione è stata affidata ad una commissione medica interna che ha già fissato alcuni parametri. In particolare sono state definite le fasce di età «critiche» - secondo gli esperti quella tra i 30 e i 40 anni - e le mansioni considerante più a rischio. In base a questi dati si è ritenuto che la prima visita debba essere disposta un anno dopo l’entrata in servizio per stabilire la capacità di adattamento e di integrazione. Gli esami dovrebbero essere ripetuti ogni tre anni fino al compimento dei 40 anni e poi diluiti con scadenza quinquennale. Tutto questo, tenendo naturalmente conto dei compiti svolti. Tra le attività ritenute maggiormente «usuranti» ci sono quelle che riguardano l’ordine pubblico, i servizi di scorta e l’appartenenza ai reparti impegnati nel contrasto della criminalità organizzata e del terrorismo. In pratica tutti gli incarichi che prevedono l’uso delle armi e dunque la necessità di mantenere un saldo controllo delle possibili reazioni di fronte a situazioni di emergenza.
LA LEGGE - E’ un decreto del 30 giugno 2003 ad aver stabilito le regole di verifica sui «requisiti di idoneità fisica, psichica e attitudinale». Un provvedimento che all’articolo 2 assegna al capo della polizia il compito di stabilire «criteri e modalità per effettuare accertamenti sanitari, tenendo conto degli incarichi svolti, dell’età, dell’anzianità di servizio e dell’eventuale presenza di patologie pregresse o croniche». La decisione di far valere questa prerogativa è stata presa dopo gli ultimi casi di poliziotti coinvolti in casi di omicidio-suicidio o comunque di tragedie familiari che hanno posto il problema di autorizzare la concessione delle pistole di ordinanza anche a chi potrebbe non avere più i requisiti necessari per tenerle.
LA PROTESTA - Il giudizio più duro è quello di Claudio Giardullo, segretario del Silp, secondo il quale «queste visite periodiche si trasformeranno di fatto in una verifica disciplinare». «Siamo contrari - spiega - perché si tratta di un controllo fiscale, una sorta di tagliando che penalizza chi non è in linea con i vertici gerarchici». Lo stesso pensa Oronzo Cosi, responsabile del Siulp. Il sindacato ha già espresso parere negativo e adesso Cosi aggiunge: «Questa procedura potrà essere attivata soltanto di fronte a una motivazione certificata e prevedendo la presenza di un perito di parte, pagato dall’amministrazione, che possa esprimere un parere vincolante». No al controllo periodico di tutti i poliziotti arriva anche da Filippo Saltamartini del Sap. «Nessun Paese europeo - sottolinea - prevede una procedura di questo tipo. In ogni caso si tratta di test che non hanno alcuna dignità scientifica e dunque non sono utili a verificare l’attitudine dei singoli. A nostro parere è un procedimento che viola la Costituzione e se davvero fosse firmata la circolare saremo pronti a chiedere il parere della Consulta». Voce fuori dal coro è quella di Giovanni Aliquò, segretario dell’Associazione funzionari. «Si tratta - dice - di analisi necessarie e indispensabili. Non si può pensare di mandare in giro persone armate senza sottoporle a verifiche adeguate».

Cognitive Neuropsychology
sinestesia...

Yahoo! Salute 19.10.04
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
Se vedi cose strane è il cervello che fa contatto
Il Pensiero Scientifico Editore
di Emanuela Grasso

Se qualche vostro amico o amica ha le visioni, non prendetelo in giro potrebbe essere vero. E se qualcuno vi dice che avete un’aura luminosa, dategli un minimo di credito. Ci sono delle persone in grado di vedere cose che gli altri non vedono, non perché hanno poteri paranormali ma semplicemente perché il loro cervello fa contatto.
Secondo uno studio pubblicato su Cognitive Neuropsychology, infatti, queste manifestazioni sarebbero dovute a fenomeni di sinestesia. La stimolazione di un senso, cioè, verrebbe percepita da almeno due centri sensoriali. Così il profumo delle castagne farebbe visualizzare la piazzetta dove la signora le vende a un euro al cartoccio, il blu la persona che si ama.
Probabilmente queste associazioni sono causate da un’interferenza nel cervello. Il segnale elettrico che dai recettori periferici corre su per gli assoni del nervo olfattorio che stimola i centri dell’olfatto, per esempio, potrebbe in qualche punto fare contatto e passare la stimolazione anche al nervo ottico che raggiunge la corteccia visiva.
La sinestesia è una condizione che si ritrova in una persona su duemila, le cui cause sono sconosciute. Il lavoro pubblicato su Cognitive Neuropsychology ha sviluppato soprattutto il caso di una ragazza di diciannove anni che sostiene di “avere le visioni” dall’età di dodici. In particolare la ragazza vede l’aura intorno alla gente: quella del suo amico James è rosa, quella di Thomas è nera, quella di Adia è blu. La letteratura medica è ricca di casi di sinestesia in cui alle emozioni sono associate sensazioni fisiche. Quello della diciannovenne britannica sarebbe un caso, inusuale ma reale, di sinestesia emozione-colori.
Chissà se tutti i veggenti che ci sono in giro sono affetti da questo disturbo. E chissà quanti di loro sono sinceramente convinti di avere poteri paranormali semplicemente perché ignorano l’esistenza della sinestesia. Intorno a queste figure di “sensitivi”, soprattutto in passato, sono state costruite pagine di folklore e di credenze che, se prese come tali, hanno il loro fascino. Oggi siamo in grado di dire che sono manifestazioni legate ad un corto circuito nel cervello. A volte è un peccato pensare che non ci sia niente di strano nella mente, ma che tutto ha una spiegazione.

Bibiliografia. Jamie Ward. Emotionally mediated synaesthesia. Cognitive Nueropsycology 2004;21:761-72